Mentre Israele è scossa dalle proteste un centro culturale cisgiordano cerca di ‘rappresentare la lotta palestinese’

Charlotte Jansen

5 giugno 2023 – The Art Newspaper

L’istituzione artistica Dar Jacir è stata fondata dall’artista Emily Jacir, nata a Betlemme, per dare una sede ai creativi palestinesi

Il Dar Yusuf Nasri Jacir per l’arte e la ricerca (Dar Jacir) in via Al Khalil a Betlemme è uno dei pochi spazi culturali ancora aperti e attivi in Cisgiordania ed è facile capire perché. 

Il caratteristico edificio sanasil [con muri a secco, ndt.] con un giardino ombreggiato da olivi si affaccia sulla barriera di separazione in cemento costruita dall’esercito israeliano durante la Seconda Intifada (2000-05). Nelle vicinanze si trova un checkpoint israeliano con polizia militare, parte di una rete di centinaia di posti di blocco attraverso cui gli abitanti della Cisgiordania devono passare ogni giorno. 

Dar Jacir è spesso sulla linea del fronte negli scontri fra i giovani e l’esercito israeliano,” dice la sua direttrice, l’artista Emily Jacir. Ma Jacir è abituata a lavorare in tale contesto e dice che le recenti e storiche proteste israeliane contro i piani del governo di coalizione di Benjamin Netanyahu per la riforma della magistratura hanno avuto un “impatto zero” sul loro lavoro.

Jacir, artista, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2007, e sua sorella, la regista Annemarie Jacir, dal 2018 gestiscono Dar Jacir, dove ospitano workshop di artisti, tengono corsi, proiezioni e residenze.

La proprietà fu originalmente costruita come una grandiosa casa di famiglia dall’antenato di Jacir, al Mukhtar Yusuf Jacir, archivista della cittadina, alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento durante il periodo ottomano della Palestina (un dominio durato 402 anni, fino al 1918). Nella sua posizione è stato testimone di un paesaggio politico in drammatico mutamento in Cisgiordania. Nel 1918 le forze britanniche presero il controllo della Palestina dando inizio a una nuova era di occupazione. Questo mese segna i 75 anni dalla fine del mandato britannico sulla Palestina terminato nel 1948. Lo Stato della Palestina fu diviso in tre, in base alle disposizioni della risoluzione ONU, e i leader ebraici dichiararono lo Stato indipendente di Israele.

Storia di sopravvivenza

Nella lunga storia di occupazione di Betlemme anche Dar Jacir è passato di mano. Fra il 1929 e il 1980 è stato usato come prigione, base militare e scuola. Ma alla fine è stato riacquistato dalla famiglia Jacir e, nel 2014, il padre di Emily Jacir, Yusuf Nasri Jacir, è diventato il solo proprietario e ha deciso di aprire l’edificio al pubblico come centro culturale. La notevole storia di sopravvivenza, trasformazione e resistenza dell’edificio ne fa una sede significativa per attività culturali che promuovono l’educazione diadica e gli scambi all’interno della Cisgiordania e con il resto del mondo. 

Oggi Dar Jacir è una sineddoche. “Rappresenta la lotta palestinese locale e generale, funge da promemoria importante che i palestinesi sono attivi e continuano a produrre e essere coinvolti in processi creativi anche nella più grave delle situazioni,” dice Jacir.

Il programma di workshop e residenze di Dar Jacir spazia dai laboratori visuali e residenze di arte, cinema, danza, letteratura e agricoltura ed è completamente gestito dagli artisti. È finanziato da donazioni di numerosi sostenitori privati e i suoi partecipanti e leader dei programmi arrivano da tutto il mondo: è l’unico spazio nella Cisgiordania meridionale a offrire educazione alle arti e programmi di residenze sia a palestinesi che a studenti e professionisti internazionali.

Dar Jacir è un “modello pedagogico alternativo”, dice Jacir, risponde “alle necessità della nostra comunità, inclusi i nostri vicini nei campi profughi e a coloro che altrimenti non potrebbero avere accesso a opportunità creative e artistiche”. Anche le necessità domestiche del centro ne improntano il programma: insieme i partecipanti cucinano e si occupano del giardino. “Noi ospitiamo persone,” dice Jacir. “L’importanza del nostro diritto a ospitare è cruciale ed è qualcosa che le forze di occupazione cercano di sottrarci.” 

L’artista palestinese Vivien Sansour, ex residente, ha disegnato per Dar Jacir un terrazzamento dove ha piantato della juta, una pianta usata nello stufato mloukheyeh, un piatto tipico della cucina palestinese associato a consolazione e conforto. Durante un workshop sono state raccolte le piante e con esse preparato il mloukheyeh distribuito da un food truck. “Noi incoraggiamo gli altri a condividere le loro storie di famiglia” dice Jacir.

Il programma di Dar Jacir è condotto da artiste donne, fatto importante, dice Jacir, perché esse capiscono l’oppressione di altre donne, particolarmente quelle che vivono nei territori occupati. “Noi condividiamo così tanto con altre donne che fronteggiano l’occupazione, dal Kurdistan al Sahara occidentale,” dice. “Abbiamo già offerto residenze ed eventi pubblici organizzati a parecchie artiste palestinesi a cui prima non erano mai state date opportunità simili.” Possono offrire una piattaforma e visibilità a una rete internazionale di artiste che vivono in condizioni simili, aggiunge. 

Noi viviamo in un ambiente molto patriarcale, quindi avere uno spazio guidato da donne offre loro opportunità e modi di lavorare che portano a dei cambiamenti. Noi cerchiamo di dare un esempio alla generazione di artiste più giovani e di incoraggiarle a diventare leader che possano mediare in questo conflitto.” dice Jacir.

Per lei, nata e cresciuta a Betlemme, non è stata una conquista facile. “Ho avuto un’infanzia molto dura, ero estremamente timida e spesso bullizzata dagli altri bambini,” ricorda. “Ero troppo spaventata per aprire bocca in classe e rispondere alle domande anche quando sapevo la risposta. Non riuscivo a farmi sentire, amavo l’arte che era l’unico mezzo con cui sentivo di poter esprimere me stessa.” Le cose sono cambiate quando ha vinto una borsa di studio per la migliore artista: “All’epoca è stato veramente significativo per me.”

Negli anni ’90 Jacir era impegnata in progetti importanti che hanno formato in modo significativo la scena artistica a Ramallah, che è ancora il centro culturale della Cisgiordania. È stata fra i fondatori dell’International Academy of Art Palestine e vi ha lavorato come docente a tempo pieno per oltre un decennio. È anche stata la co-curatrice del Video Festival Internazionale della Palestina, lanciato nel 2002, il primo del suo genere in Palestina. 

La manifestazione, dice Jacir, è nata dalla necessità di avere “uno scambio bidirezionale” e non focalizzarsi solo su “noi e le nostre sofferenze. Ci stava portando a una visione miope e volevo porvi fine.” 

Ciò è anche parte della motivazione dietro alla pratica di Dar Jacir in quanto istituzione. Aggiunge che deve affrontare anche un altro problema: “Oggi gli artisti sono troppo spesso dipendenti da istituzioni che non hanno fiducia in loro o non se ne prendono cura,” fa notare.

Dar Jacir è un modello istituzionale radicale in un contesto complesso che spera di ispirare altre istituzioni nel resto del mondo. Ma, insiste Jacir, coloro che vogliano capire il lavoro che fa e i problemi che affronta “devono venire e vedere cosa sta succedendo qui con i propri occhi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La nostra arte si occupa di ingiustizie reali, alcune in Palestina: non sorprende abbia incontrato ostilità

Forensic Architecture

20 agosto 2021 – The Guardian

La nostra lotta per ripristinare un’affermazione nella mostra a Manchester in realtà riguarda cosa si può o non può dire negli spazi culturali

A Manchester mercoledì 18 manifestanti si sono ripresi una delle principali istituzioni culturali della città. Nonostante la pioggia, attivisti filo-palestinesi si sono radunati davanti al portone chiuso della galleria d’arte Whitworth, parte dell’università di Manchester. È stato grazie alla loro azione insistente e a 13.000 lettere inviate alla galleria, che è stata ripristinata una parte della nostra mostra, la dichiarazione scritta intitolata: “Forensic Architecture [Architettura forense] sta dalla parte della Palestina”. La mostra che dietro nostre insistenze era stata chiusa dopo la rimozione unilaterale dell’enunciato, è ora riaperta.

Sabato 15 agosto un post sul blog del sito web dell’organizzazione UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLFI) aveva annunciato che, in seguito al loro intervento, la frase era stata rimossa dalla nostra mostra, “Cloud Studies” [Studi di Nubi]. Quando l’abbiamo appreso non ci siamo poi molto sorpresi. Lo stesso gruppo aveva già criticato una dichiarazione di solidarietà con i palestinesi pubblicata a giugno sul sito della Whitworth ed era riuscito a convincere l’università a toglierla. E questo non era per niente il primo attacco da parte di UKLFI contro di noi come organizzazione. Nel 2018, quando siamo stati nominati per il Turner Prize [prestigioso premio britannico di arte contemporanea, ndtr.], l’UKLFI aveva sollecitato la Tate [noto complesso museale britannico, ndtr.] a non consegnarci il premio adducendo il motivo ridicolo che i documenti che avevamo pubblicato sulla Palestina equivalevano a “una moderna ‘accusa del sangue’ [accusa antisemita diffusa dall’XI secolo secondo cui alcuni ebrei berrebbero sangue infantile per compiere riti di magia nera, ndtr.] che avrebbe potuto promuovere antisemitismo e attacchi contro gli ebrei”.

Forensic Architecture non è esattamente un collettivo di artisti come qualcuno ci descrive. Siamo piuttosto un gruppo universitario di ricerca che opera in tutto il mondo con comunità in prima linea nei conflitti. Noi sviluppiamo tecniche e strumenti architettonici per raccogliere prove delle violazioni dei diritti umani da usare nelle aule di tribunali nazionali e internazionali, in inchieste parlamentari, tribunali per i diritti dei cittadini, forum di comunità, istituzioni accademiche e media. Noi esponiamo i risultati delle nostre ricerche anche in gallerie e musei quando altri siti affidabili sono inaccessibili.

Perciò, seppure sorpresi dalla nomina del Turner Prize, abbiamo scelto di usare la piattaforma per rivelare le affermazioni ufficiali israeliane sull’uccisione del beduino palestinese Yaakub Abu al-Qi’an per mano di poliziotti israeliani il 18 gennaio 2017. Abbiamo collaborato con gli abitanti del villaggio palestinese Umm al-Hirane e con attivisti per redigere un’inchiesta che collettivamente smentisce l’affermazione dei poliziotti israeliani secondo cui al-Qi’an era un “terrorista” e al contrario svela l’uccisione efferata e il rozzo tentativo di occultarla. Era difficile contestare le conclusioni dell’inchiesta e persino l’allora primo ministro di estrema destra, Benjamin Netanyahu, è stato alla fine costretto a scusarsi per l’omicidio.

Il nostro lavoro rivela l’avvento di un nuovo tipo di arte politica, meno interessata a commentare che a intervenire in contesti politici. È con questo spirito che abbiamo esposto Cloud Studies alla Whitworth. Il titolo si riferisce alla comparsa della meteorologia nel diciannovesimo secolo con il lavoro combinato di scienziati e artisti, ma, invece di occuparsi del tempo, la mostra mappa le odierne nubi tossiche: dai gas lacrimogeni negli USA, in Palestina e in Cile, agli attacchi chimici in Siria, a quelli prodotti dalle industrie estrattive in Argentina, alle nuvole di CO2 create dagli incendi nelle foreste in Indonesia.

Un elemento chiave della mostra è il nostro studio sul razzismo ambientale in Louisiana, nello specifico sul “corridoio petrolchimico” intensamente industrializzato lungo il fiume Mississippi, fra Baton Rouge e New Orleans. Gli abitanti delle comunità, a maggioranza nera, che vivono nei pressi di questi impianti respirano una delle arie più tossiche del Paese e registrano i numeri più elevati di casi di tumore.

A maggio, mentre stavamo lavorando alla mostra, è cominciata la serie più recente di attacchi israeliani contro Gaza. Abbiamo seguito da vicino collaboratori, amici ed ex dipendenti a Gaza e altrove in Palestine che ci mandavano in tempo reale immagini orribili delle distruzioni che le forze armate israeliane stavano arrecando alle loro case e aziende. Mentre assistevamo al sorgere di nubi tossiche sopra gli stabilimenti chimici bombardati di Beit Lahia ci sembrava di vedere una rappresentazione dal vivo dei nostri ‘Studi di nubi’.

Gli attacchi si sono estesi anche a istituzioni artistiche: l’artista Emily Jacir, nostra cara amica palestinese, ci ha mandato video del raid dell’esercito israeliano contro Dar Jacir, uno spazio indipendente e vitale gestito da artisti a Betlemme.

La nostra dichiarazione, la cui inclusione nella mostra era stata approvata in fase di progettazione dai curatori della Whitworth, è stata scritta mentre si svolgevano questi attacchi. Abbiamo usato termini come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere le politiche del governo israeliano in Palestina perché descrivono la realtà della vita palestinese, sono in linea con il linguaggio delle principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani e sono naturalmente state usate in Palestina per decenni. Analogamente il termine “colonialismo di insediamento” è stato usato estensivamente dagli studiosi per descrivere le politiche israeliane in Palestina. Se tali termini sono offensivi, essi sono ancora più offensivi per quelli che sperimentano quotidianamente l’impatto di tali politiche. Le università devono essere luoghi dove tali categorie possono essere presentate, sviluppate e discusse e la nostra battaglia per ripristinare la dichiarazione riguardava in realtà quello che si può dire in un contesto accademico e culturale.

Compiacere gruppi come UKLFI, un’organizzazione che ha ospitato un evento pubblico a cui era presente Regavim, l’organizzazione israeliana di coloni di estrema destra che sostiene la demolizione delle case dei palestinesi, non è solo una violazione del principio della libertà di espressione, ma mostra anche un’assenza di integrità morale. Il nostro è solo un caso, e non uno degli esempi più significativi, della campagna di diffamazione e di attacchi giuridici contro artisti e intellettuali palestinesi, molti dei quali subiscono la repressione per mano delle autorità di occupazione israeliane, e censura e restrizioni della loro libertà di espressione a livello internazionale. Secondo noi la campagna di UKLFI per screditare Forensic Architecture fa parte di questi tentativi di far tacere e intimidire. Il fatto che uno sforzo concertato sia riuscito a ribaltare la posizione dell’Università di Manchester dimostra che a tali azioni si può opporre una resistenza a livello collettivo.

Questa lotta alla Whitworth ha anche qualcosa da dire ai responsabili delle politiche culturali: mentre le gallerie si orientano sempre di più ad ospitare arte politica, allo stesso modo istituzioni e l’opinione pubblica non dovrebbero essere sorpresi quando l’arte politica è, appunto, politica.

Forensic Architecture è un’organizzazione di ricerca che indaga violazioni di diritti umani, inclusa la violenza commessa da Stati, forze di polizia, militari e corporazioni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)