Il cessate il fuoco non ci ridarà la vita persa
Reem Sleem
19 gennaio 2025 Al Jazeera
In esilio ho sperimentato per quasi un anno il dolore della guerra. Mi fa male sapere che il nostro ritorno non è possibile.
Un mucchio di rumore: missili ed esplosioni, il suono dei droni, urla e lamenti, grida di “martire, martire”. Vetri rotti, porte che sbattono, edifici che crollano, incendi che divampano, tuoni, fulmini, vento, sussulti di morte, oscurità e cenere. Sono tutti ancora nella mia testa.
Ho lasciato Gaza quasi un anno fa, ma queste immagini e suoni mi perseguitano ancora. Mi sono lasciata tutto alle spalle: la mia casa, i miei amici, la mia famiglia allargata, ma non sono ancora riuscita a liberarmi degli echi della guerra.
Qui, al Cairo, continuo a rivivere il trauma di ciò che ho visto, sentito e provato nei primi quattro mesi di guerra a Gaza.
Quando sento il rumore di un aereo nel cielo, il mio cuore batte di paura pensando che sia un aereo da guerra. Quando sento il rumore dei fuochi d’artificio vado nel panico, immaginando che siano esplosioni di bombe.
Pensavo che l’esilio avrebbe portato sicurezza e pace, ma si è rivelato una continuazione della guerra.
La morte e la distruzione che imperversano a Gaza dominano ancora le nostre vite. Il dolore, la sofferenza e la lotta per la sopravvivenza che pensavamo di esserci lasciati alle spalle ci perseguitano ancora.
Non viviamo in una tenda allagata dalla pioggia e non stiamo morendo di fame; il rumore delle bombe non è reale, sono solo gli echi del ricordo nelle nostre menti. Ma viviamo ancora nella miseria.
Mio padre, che mantiene la famiglia, non è riuscito a trovare un lavoro per mesi. Quando l’ha trovato, era pagato con uno stipendio misero. Ci troviamo immersi in debiti crescenti e non possiamo permetterci beni di prima necessità.
Nel frattempo siamo rimasti completamente immersi nell’orrore di Gaza. Ogni ora ci arrivano in diretta sulle app di messaggi i bombardamenti, le uccisioni di massa, la sofferenza nelle tende distrutte.
Tutti gli amici palestinesi che sono qui sembrano essere nella stessa situazione: vivono nel dolore e nella disperazione, assediati dalla guerra.
“Avrei voluto morire con loro invece di vivere”, mi ha detto di recente la mia amica Duaa. La sua famiglia l’ha mandata al Cairo subito dopo l’inizio del genocidio per completare i suoi studi in pace. “Quando li ho salutati ho avuto la sensazione che non li avrei più rivisti”, ha detto singhiozzando.
Pochi giorni dopo il suo arrivo in Egitto, pensando che la vita le avesse concesso una buona opportunità di studiare all’estero, ha cercato di contattare la famiglia per sapere come stavano, ma non ha ricevuto risposta. L’ansia l’ha consumata finché non ha ricevuto la devastante notizia del loro martirio.
Il dolore era insopportabile e ha fallito negli studi. Ancora oggi, lotta per pagare l’affitto del suo appartamento e mi ha detto che il suo padrone di casa presto la sfratterà perché non ha pagato. È orfana, sola in esilio e potrebbe presto diventare anche una senzatetto.
Un’altra amica, Rawan, aveva studiato in Egitto per alcuni anni prima che iniziasse la guerra, sognando un futuro luminoso. Il 10 ottobre 2023, una grande esplosione ha distrutto la sua casa, uccidendo tutta la sua famiglia. Sono rimaste solo sua madre, che è miracolosamente sopravvissuta nonostante le gravi ferite, e sua sorella sposata, che viveva in un’altra casa.
Rawan mi ha detto che le mancavano i messaggi incoraggianti di suo padre, il sostegno dei suoi fratelli Mohammed e Mahmoud e le risate innocenti di sua sorella Ruba. Non ha mai completato gli studi. È diventata l’ombra di se stessa.
Nada, un’altra amica, è al Cairo con la sorella. Le due ragazze hanno dovuto lasciare i genitori e il fratello a Gaza, perché i loro nomi non erano sulla lista delle persone autorizzate a passare attraverso il valico di Rafah.
Al Cairo Nada si è sentita persa, estranea e spaventata. Ha provato a fare di nuovo domanda per far viaggiare i genitori e il fratello, ma l’occupazione ha preso d’assalto Rafah e ha chiuso il valico. In quel momento mi ha detto di sentirsi come se tutte le porte della vita le si fossero chiuse in faccia.
Nada e sua sorella vivono da sole, senza il sostegno dei parenti, e lottano. Lo stress e la tristezza hanno pesato molto. Nada è molto dimagrita e ora dice di sembrare uno scheletro.
Mi ha detto che le molestie e la paura di essere rapite le hanno rese riluttanti a lasciare l’appartamento in cui vivono.
“Desideriamo ardentemente ogni aspetto delle nostre vite passate “, dice.
Lo desideriamo tutti, ma sappiamo anche che le nostre vite passate sono perdute. Anche se la guerra finisse, niente tornerà mai più come prima. Niente ci risarcirà di questa amara perdita.
Il cessate il fuoco che entra in vigore oggi dovrebbe porre fine ai combattimenti, ma non è chiaro se porrà fine alla guerra. Da mercoledì, quando è stato annunciato, sono state uccise più di 120 persone. E sappiamo che ne moriranno altre perché le condizioni non miglioreranno. Gaza non è più vivibile.
Anche se ci fosse una pace duratura, il governo israeliano stabilirà le proprie condizioni per continuare il blocco e tormentare la popolazione. La ricostruzione, se avrà luogo, continuerà per molti anni. Ecco perché noi, come famiglia, abbiamo preso la decisione di iniziare a costruire una nuova vita in esilio, nonostante le sfide che affrontiamo.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.
Reem Sleem è una scrittrice di Gaza attualmente sfollata in Egitto. Studia letteratura inglese all’Università di Al-Azhar. In precedenza ha scritto per Electronic Intifada e We Are Not Numbers.
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)