La verità che sta dietro la propaganda israeliana sull’ “espulsione’ degli ebrei arabi

Joseph Massad

15 dicembre 2020 – Middle East Eye

La vergognosa montatura di Israele riguardo all’immigrazione degli ebrei arabi in Israele negli anni ’40 e ’50 è un tentativo di mascherare le ingiustizie inflitte ai palestinesi

La propaganda israeliana riguardo all’“espulsione” di ebrei arabi da Paesi arabi alla fine degli anni ’40 e all’inizio dei ’50 prosegue senza sosta. Secondo un articolo di Ynet [sito di notizie del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, ndtr.] all’inizio di questo mese l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan ha informato il segretario generale dell’ONU Antonio Gutterres di aver intenzione di “sottoporre una bozza di risoluzione in cui si chiede all’istituzione internazionale di tenere ogni anno una commemorazione delle decine di migliaia di ebrei esiliati da Paesi arabi a causa della creazione dello Stato di Israele.”

Le falsificazioni israeliane riguardo all’immigrazione di ebrei arabi in Israele sono talmente vergognose che ogni anno il 30 novembre il Paese tiene una commemorazione. Questa data, guarda caso, coincide con la pulizia etnica della Palestina da parte delle bande sioniste, iniziata il 30 novembre 1947, il giorno dopo che l’Assemblea generale dell’ONU adottò il piano di partizione [della Palestina, ndtr.]. La scelta della data intende coinvolgere gli ebrei arabi nella conquista della Palestina, mentre la maggioranza di loro non ebbe nessun ruolo in essa.

Erdan sostiene che, dopo la fondazione della colonia di insediamento israeliana, i Paesi arabi “lanciarono un attacco generalizzato contro lo Stato di Israele e contro le fiorenti comunità ebraiche che vivevano nel mondo arabo.” Le falsità israeliane, con cui Israele spera sempre di obbligare gli Stati arabi a pagare a Israele miliardi di dollari, hanno un altro importante obiettivo: assolvere Israele dal suo peccato originale per aver espulso i palestinesi nel 1948 e aver rubato le loro terre e proprietà.

Tranelli ideologici

Nel dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ordinò che ai rifugiati palestinesi venisse consentito di tornare alle loro case e che venissero compensati per la distruzione e il furto delle loro proprietà da parte di Israele. Israele non solo vuole tenersi tutte quelle terre, ma anche estorcere ad alcuni Paesi arabi il pagamento di altri miliardi.

È un’ulteriore ironia degli intrighi israeliani: Israele ha sempre insistito che la Palestina, e in seguito Israele, sono la patria dell’ebraismo mondiale, sostenendo nel contempo che gli ebrei arabi che immigrarono in Israele siano “rifugiati”. La definizione giuridica e universalmente accettata di rifugiato, tuttavia, è una persona che è stata espulsa o è scappata dalla propria patria, non che vi è “tornata”.

A parte questo sotterfugio ideologico, la storia dell’emigrazione degli ebrei arabi in Israele non  riguarda l’espulsione da parte dei regimi arabi, ma piuttosto le azioni criminali israeliane che obbligarono gli ebrei di Yemen, Iraq, Marocco, Egitto e di altri Paesi ad andarsene in Israele.

Nel 1949 il governo israeliano stava lavorando assiduamente con le autorità coloniali britanniche ad Aden e con funzionari yemeniti per organizzare un ponte aereo verso Israele. Secondo il libro dell’illustre storico israeliano Tom Segev “1949: i primi israeliani”, mentre la Lega degli Stati arabi aveva deciso di vietare l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele fin dal febbraio 1949, con l’aiuto degli emissari sionisti e di mazzette israeliane per i governanti provinciali yemeniti l’imam dello Yemen consentì agli ebrei di andarsene.

Alcuni dei governatori provinciali chiesero che almeno 2.000 ebrei rimanessero, in quanto era un dovere religioso dei musulmani proteggerli, ma l’emissario sionista insistette che per loro era un “comandamento” religioso ebraico andare nella “Terra di Israele”. Secondo Segev ed altre fonti, il fatto che il primo ministro israeliano dell’epoca fosse David Ben Gurion suggerì anche a molti che Israele “fosse il regno di David”. Decine di migliaia di ebrei vennero spinti ad abbandonare le proprie case e ad andare in Israele.

Discriminazione istituzionalizzata

Riguardo agli ebrei che scelsero di rimanere, l’emissario ebreo ad Aden, Shlomo Schmidt, chiese il permesso di proporre che le autorità yemenite li espellessero, ma esse non lo fecero.

Secondo Segev ed altre fonti, alcuni dei bagagli degli ebrei che partirono, compresi antichi rotoli della Torah, gioielli e indumenti ricamati, che erano stati incoraggiati a portare con sé, sparirono lungo il tragitto e misteriosamente “finirono nei negozi di antichità e souvenir in Israele.”

Dal 1949 e il 1950 circa 50.000 ebrei yemeniti vennero sostanzialmente portati via dallo Yemen dagli israeliani e in Israele dovettero affrontare la discriminazione istituzionalizzata da parte degli ashkenaziti [ebrei di origine europea e classe dirigente in Israele, ndtr.]. Ciò incluse la sottrazione di centinaia di bambini yemeniti ai loro genitori, a cui venne detto che erano morti. A quanto pare i bambini furono poi affidati in adozione a coppie ashkenazite.

I sionisti si attivarono anche per mettere in atto l’emigrazione degli ebrei marocchini in Israele. All’epoca il Marocco era sotto occupazione militare francese, per cui l’Agenzia Ebraica dovette trovare un accordo con il governatore francese del Marocco per organizzare l’emigrazione degli ebrei marocchini, che secondo Segev e altre fonti dovettero affrontare terribili condizioni sulle navi israeliane. Secondo l’inviato dell’Agenzia Ebraica, alcuni dei 100.000 ebrei che se ne andarono dovettero essere di fatto “presi a bordo delle navi con la forza.”

Nel contempo il governo irakeno di Nuri al-Said, uomo forte dei britannici nel Medio oriente arabo, venne ingiustamente accusato dalla propaganda israeliana di perseguitare gli ebrei, mentre in realtà si trattava di invenzioni israeliane. Agenti sionisti iniziarono a svolgere attività in Iraq, facendo passare clandestinamente ebrei in Israele attraverso l’Iran, il che portò a procedimenti giudiziari contro un pugno di sionisti.

Poi iniziarono gli attacchi contro gli ebrei iracheni, compreso quello presso la sinagoga Masuda Shemtov di Baghdad, in cui vennero uccisi 4 ebrei e un’altra decina venne ferita. Alcuni ebrei iracheni credettero che questo fosse il lavoro di agenti del Mossad, inteso a spaventare gli ebrei fino a fargli lasciare il Paese. Le autorità irachene accusarono e giustiziarono attivisti dei gruppi clandestini sionisti.

Tra la campagna globale di Israele per fare pressione sull’Iraq perché consentisse agli ebrei di andarsene, che portò ai tentativi israeliani di bloccare i crediti della Banca Mondiale all’Iraq, e le pressioni americane e britanniche, il parlamento iracheno cedette ed emanò una legge che consentiva agli ebrei di andarsene. Agenti sionisti in Iraq telegrafarono al loro responsabile a Tel Aviv: “Stiamo portando avanti la nostra solita attività per far passare la legge più rapidamente.” I 120.000 ebrei iracheni vennero quindi rapidamente trasferiti in Israele.

Prendere di mira interessi europei

Nella relativamente ridotta comunità ebraica egiziana un numero ancora più esiguo era composto da ashkenaziti (per lo più alsaziani e russi), arrivati fin dagli anni ’80 dell’Ottocento. Ma la comunità più numerosa era composta da ebrei sefarditi che erano arrivati nello stesso periodo da Turchia, Iraq e Siria, oltre ad una piccola comunità di ebrei karaiti [originari della Crimea, ndtr.]. In tutto erano meno di 70.000, metà dei quali non aveva la nazionalità egiziana.

L’attivismo sionista tra la piccola comunità di ebrei ashkenaziti in Egitto portò alcuni ad andare in Palestina prima del 1948, tuttavia fu dopo la fondazione di Israele che molti ebrei della classe alta egiziana iniziarono a andarsene verso la Francia, non in Israele. Ciononostante la comunità rimase essenzialmente intatta fino a quando nel 1954 Israele intervenne, reclutando ebrei egiziani per una cellula terroristica che piazzò bombe in cinema egiziani, nella stazione ferroviaria del Cairo e in strutture educative e biblioteche americane e britanniche.

Gli israeliani speravano che, prendendo di mira interessi occidentali in Egitto, avrebbero potuto guastare gli allora amichevoli rapporti tra il presidente egiziano e gli americani.

L’intelligence egiziana scoprì la cellula terroristica israeliana e processò gli imputati in un’udienza pubblica. Secondo il libro di David Hirst The Gun and the Olive Branch [Il fucile e il ramo d’ulivo] ed altre fonti, gli israeliani montarono una campagna internazionale contro l’Egitto e il presidente Gamal Abdel Nasser, che venne definito l’“Hitler del Nilo” dalla stampa israeliana ed internazionale, mentre agenti israeliani spararono contro il consolato egiziano a New York.

Unita alla nuova campagna socialista e nazionalista di egittizzazione degli investimenti nel Paese, molti ricchi uomini d’affari iniziarono a vendere le proprie attività economiche e ad andarsene.

Nel momento in cui, alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 iniziò la nazionalizzazione, la maggior parte delle attività nazionalizzate era di fatto di proprietà di egiziani musulmani e cristiani, non ebrei. Fu in questo contesto e in quello dell’ira dell’opinione pubblica contro Israele che molti ebrei egiziani ebbero paura e se ne andarono dopo il 1954 negli USA e in Francia, mentre i poveri finirono in Israele (come raccontato nel libro di Joel Beinin Dispersion of Egyptian Jewry [La dispersione degli ebrei egiziani]).

Quando Israele si unì alla cospirazione franco-britannica per invadere l’Egitto nel 1956 [la guerra per il canale di Suez, ndtr.] e dopo la sua occupazione militare della penisola del Sinai, ne seguì un’ondata di rabbia contro la colonia di insediamento. Secondo Beinin, il governo egiziano arrestò circa 1.000 ebrei, metà dei quali cittadini egiziani, e la piccola comunità ebraica egiziana iniziò ad andarsene in massa. Nel 1967, all’epoca della seconda invasione dell’Egitto, nel Paese rimanevano solo 7.000 ebrei.

Inviti formali

Nonostante la responsabilità israeliana nel provocare l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi, il governo israeliano continua ad accusare i governi arabi. Riguardo alle loro proprietà, in effetti, essi devono tornarne in possesso e/o essere indennizzati, non in conseguenza di una qualche narrazione di espulsioni inventate che serve agli interessi dello Stato di Israele, ma a causa del loro reale diritto di proprietà.

Contrariamente alla propaganda israeliana secondo cui si trattò di uno scambio di popolazione, è significativo che, mentre agli ebrei europei ed arabi che emigrarono in Israele vennero date gratis terre e proprietà di palestinesi espulsi, secondo lo storico israeliano Benny Morris e altre fonti, i palestinesi non ottennero le proprietà degli ebrei arabi che emigrarono in Israele.

Certamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che nel 1947 venne riconosciuta dalla Lega Araba e dall’ONU come “l’unica legittima rappresentante del popolo palestinese”, era ben consapevole di questa strategia israeliana. Conscia del fatto che l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele era stato un vantaggio per il colonialismo di insediamento israeliano, in un memorandum del 1975 molto pubblicizzato dai governi arabi la cui popolazione ebraica era andata in Israele, l’OLP chiese che essi emettessero inviti formali e pubblici perché gli ebrei arabi tornassero alle loro case.

Cosa rilevante, nessuno dei governi e regimi del 1975 lo era al potere quando gli ebrei se ne erano andati, tra il 1949 e il 1967. Inviti pubblici ed espliciti vennero puntualmente emanati dai governi di Marocco, Yemen, Libia, Sudan, Iraq ed Egitto perché gli ebrei arabi tornassero, soprattutto alla luce delle discriminazioni razziste istituzionalizzate degli ashkenaziti che avevano subito in Israele. Né Israele né le comunità ebraiche arabe risposero a questi inviti.

Crimini ricompensati

A parte tutto ciò, c’è la questione degli incessanti tentativi di Israele di equiparare le perdite finanziarie degli ebrei arabi con quelle dei rifugiati palestinesi. Una prudente stima ufficiale israeliana che confronta le perdite di proprietà palestinesi con quelle degli ebrei arabi dà una differenza di 22 a 1 a favore dei palestinesi, nonostante la notevole sovrastima delle perdite degli ebrei arabi e una sottostima persino superiore delle perdite palestinesi.

Stime prudenti delle perdite dei rifugiati palestinesi ammontano a più di 300 miliardi di dollari [245 miliardi di euro, ndtr.] in prezzi del 2008, escludendo i danni per pene e sofferenze psicologiche, che incrementerebbero in modo notevole la somma totale. Ciò esclude le perdite in terre e proprietà subite dai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 e quelle dei palestinesi nella Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est, occupate dal 1967.

Mentre nessuno dei regimi arabi del periodo in cui gli ebrei arabi emigrarono in Israele è attualmente al potere, lo stesso regime israeliano di colonialismo di insediamento che espulse il popolo palestinese e architettò l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi lo è ancora.

Eppure nella sua lettera Erdan lamenta che “fa rabbia vedere che l’ONU celebra un giorno speciale e dedica molte risorse alla questione dei ‘rifugiati palestinesi’, mentre abbandona ed ignora centinaia di migliaia di famiglie ebraiche deportate da Paesi arabi e dall’Iran.” L’ironia della lettera di Erdan è che chiede che il regime israeliano venga economicamente e moralmente risarcito per i crimini che ha commesso negli ultimi 70 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)