L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo l’ONU le forze israeliane lasciano senza casa 41 minorenni dopo aver raso al suolo un villaggio palestinese

Oliver Holmes da Gerusalemme

5 novembre 2020 – The Guardian

Le demolizioni utilizzate come “mezzo fondamentale” per “obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case”

Secondo le Nazioni Unite, con il più vasto episodio di espulsione forzata da anni, le forze israeliane hanno raso al suolo un villaggio palestinese della Cisgiordania occupata, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori.

Macchine movimento terra, scortate da veicoli militari, sono state filmate mentre si avvicinavano a Khirbet Humsa e procedevano a spianare o distruggere tende, baracche, stalle, gabinetti e pannelli solari.

Sono alcune delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania,” ha affermato Yvonne Helle, coordinatrice umanitaria dell’ONU per i territori palestinesi occupati.

Durante l’operazione di martedì i tre quarti della comunità hanno perso dove ripararsi, ha detto, facendone il più ampio episodio di espulsione forzata in più di quattro anni. In ogni caso, per il numero di strutture distrutte, 76, l’incursione è stata l’operazione di demolizione più vasta dell’ultimo decennio, ha aggiunto.

Mercoledì alcune famiglie del villaggio sono state viste rovistare nel vento tra i propri beni distrutti, mentre lo stesso giorno sono iniziate le prime piogge dell’anno. L’ONU ha pubblicato una foto di un letto e di un lettino in pieno deserto.

Il villaggio è una delle numerose comunità di beduini e pastori nella zona della Valle del Giordano che si trova all’interno di un’“area di tiro” per l’addestramento dell’esercito decretata da Israele e, nonostante sia all’interno dei territori palestinesi, lì la gente spesso deve affrontare demolizioni di edifici costruiti senza il permesso israeliano.

I palestinesi non riescono mai a ottenere tali permessi,” ha affermato Helle. “Le demolizioni sono un mezzo fondamentale per creare un contesto destinato ad obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case,” ha detto, accusando Israele di “gravi violazioni” delle leggi internazionali.

Ha affermato che finora nel 2020 in Cisgiordania e Gerusalemme est sono state demolite circa 700 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

L’Amministrazione Civile israeliana, l’ente incaricato di gestire l’occupazione, ha detto di aver messo in atto un “provvedimento giudiziario… contro sette tende e otto recinti costruiti illegalmente in un campo da tiro nella Valle del Giordano.”

Questi dati contraddicono il comunicato dell’ONU e un resoconto stilato sul posto dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, secondo cui le forze militari hanno distrutto 18 tende e baracche che ospitavano 11 famiglie, 29 tende e baracche usate come stalle per gli animali, tre baracche adibite a magazzini, nove tende utilizzate come cucine, 10 gabinetti mobili, 10 recinti per il bestiame, 23 cisterne per l’acqua, due pannelli solari e mangiatoie e abbeveratoi per il bestiame.

Le forze israeliane hanno distrutto anche più di 30 tonnellate di cibo per animali e confiscato un veicolo e due trattori di proprietà di tre abitanti, ha aggiunto l’associazione.

Come parte dei suoi tentativi di impossessarsi di sempre più terra palestinese, Israele demolisce regolarmente case e proprietà palestinesi,” ha affermato il portavoce di B’Tselem, Amit Gilutz.

Ma spazzare via un’intera comunità in un colpo solo è molto raro, e sembra che Israele stia approfittando del fatto che l’attenzione di tutti sia attualmente altrove per procedere con questa azione inumana,” ha detto, riferendosi alle elezioni USA.

Israele ha strappato la Cisgiordania alle forze giordane nel 1967 e continua a controllare e occupare la zona, anche se i palestinesi hanno un ridotto autogoverno su piccole enclave.

Il primo ministro del Paese e sostenitore della linea dura, Benjamin Netanyahu, ha affermato di aver intenzione di annettere grandi aree dei territori occupati, compresa la Valle del Giordano, benché il progetto sia stato temporaneamente “sospeso” come parte di un accordo con gli Emirati Arabi Uniti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Loro festeggiavano, noi piangevamo”: un palestinese reagisce al video dei soldati che festeggiavano la demolizione delle case

Yumna Patel

23 luglio 2019 – Mondweiss

Palestinesi di Gerusalemme, della Cisgiordania e nella diaspora sono rimasti scossi dopo che lunedì Israele ha condotto una demolizione massiccia senza precedenti di 10 edifici nella cittadina di Sur Baher nella Gerusalemme est occupata.

Le demolizioni hanno conquistato l’ampia attenzione dei mezzi di comunicazione internazionali, mentre sono comparsi video delle forze israeliane che picchiano violentemente attivisti e portano via a forza famiglie palestinesi prima delle demolizioni.

Uno dei video più scioccanti degli avvenimenti di lunedì è apparso nel pomeriggio, in seguito all’ultima demolizione della giornata.

Come ha detto lunedì pomeriggio l’attivista locale Hamada Hamada a Mondoweiss, le forze israeliane hanno demolito usando bulldozer tutti gli edifici tranne uno.

Hamada ha detto a Mondoweiss che, date le dimensioni e la posizione dell’ultimo stabile, invece dei bulldozer le forze israeliane hanno minato ogni appartamento dell’edificio con esplosivo e hanno fatto evacuare la zona.

Un video del fatto mostra le forze israeliane piazzate su una collina che domina la costruzione, che contano alla rovescia in ebraico a partire da 10. Alla fine del conteggio un soldato con il volto coperto, affiancato dai due lati da ufficiali della polizia di frontiera, schiaccia un bottone che fa scoppiare una catena di esplosioni nell’edificio.

In pochi secondi l’immobile crolla a terra e una densa nube di polvere e fumo riempie la zona.

Si può sentire ridere l’ufficiale che filma il video, mentre il soldato che ha schiacciato il bottone e il poliziotto di frontiera vicino a lui iniziano a ridere, si danno pacche sulle spalle e si abbracciano.

Si sentono in sottofondo rumorose acclamazioni, che sembrano arrivare dalle decine di militari che si trovano nella zona.

Poi un funzionario della polizia di frontiera con la telecamera chiede al soldato con il detonatore di girarsi e mettersi in posa per una foto con la nuvola di fumo come sfondo.

Poi i due si congratulano a vicenda dandosi la mano prima che il filmato finisca.

Il video ha provocato scalpore sulle reti sociali, con i palestinesi che hanno manifestato il proprio sdegno, afflizione e tristezza nel vedere i soldati israeliani che festeggiano la demolizione di decine di case palestinesi.

L’ex-ministro della Salute di Gaza, il dottor Basem Naim ha twittato: “Quando una persona festeggia l’esplosione della casa di un’altra persona…perde la propria umanità..”

L’OLP ha twittato il video evidenziando il fatto che un totale di 24 palestinesi, 14 dei quali minorenni, sono stati espulsi a forza durante la campagna di demolizioni di lunedì, mentre centinaia di altri sono stati danneggiati in altro modo.

Distrutti i sogni di una vita

Uno delle centinaia di palestinesi colpiti come il cinquantaduenne Jehad Sous, padre di cinque figli, che era proprietario di un appartamento nell’edificio che è stato demolito con l’esplosione controllata: “Ho messo tutti i miei risparmi di una vita in quell’appartamento, più di 345.000 shekel (circa 80.000 €),” ha detto martedì Sous a Mondoweiss.

Ho lavorato ogni giorno della mia vita con il sogno che un giorno avrei dato un’esistenza migliore alla mia famiglia. E ieri ho visto quel sogno crollare in pochi secondi.” Sous ha detto a Mondoweiss che cinque anni fa ha investito i suoi risparmi per comprare un alloggio nell’edificio in costruzione, con la speranza di poter traslocare con la sua famiglia dal suo attuale appartamento, un piccolo spazio di 70 metri quadri.

Ma tre anni fa, proprio subito dopo che stava per finire l’appartamento in modo che la sua famiglia vi potesse traslocare, ha ricevuto l’ordine dalle forze israeliane di bloccare i lavori.

Ho continuato a pagare il prezzo dell’appartamento al proprietario della terra, perché speravo che alla fine i tribunali avrebbero deciso in nostro favore contro l’ordine di demolizione degli edifici,” dice Sous.

È rimasto sconvolto quando lo scorso mese la Corte Suprema ha sentenziato a favore della tesi dell’esercito, secondo cui l’edificio rappresentava una “minaccia per la sicurezza” a causa della sua vicinanza alla barriera di separazione.

Vedendo andare in fumo il suo sogno e il futuro della sua famiglia, Sous dice di essersi sentito come se stesse vivendo in un incubo senza fine.

Non ci posso credere, non posso ancora credere che la mia casa sia crollata al suolo. Non ci possiamo credere. Tutto quello per cui ho lavorato è perduto,” dice.

Sous dice a Mondoweiss che, pur avendo affrontato nella sua vita molte difficoltà economiche, malanni fisici e privazioni, per la prima volta è scoppiato in lacrime mentre vedeva distruggere la sua casa.

In vita mia non ho mai pianto, ma ieri l’ho fatto. Non riesco a descrivere come mi sono sentito in quel momento, vedendo crollare tutti i miei sogni.”

Quando gli si chiede come si sente dopo aver visto il video dei soldati che festeggiano la demolizione, Sous dice di essere stato sopraffatto dal disgusto e dalla frustrazione.

Non hanno umanità,” dice. “Festeggiano mentre noi piangiamo.”

Talvolta come soldato ti danno ordini da eseguire. Ma almeno, quando lo fai e sai che è sbagliato, e si tratta di distruggere i sogni della gente, non dovresti essere contento di questo, dovresti vergognarti.”

Akram al-Wa’ra ha contribuito a questo reportage dalla Cisgiordania.

Yumna Patel è l’inviata in Palestina di Mondoweiss.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele demolisce un’altra scuola finanziata dall’Unione Europea

Tamara Nassar,

6 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Il 4 febbraio le forze d’occupazione israeliane hanno demolito due edifici scolastici nella comunità di Abu Nuwwar, situata nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata, ad est di Gerusalemme.

La distruzione lascia più di 25 bambini di terza e quarta elementare senza un posto dove studiare.

“La demolizione di strutture scolastiche è uno degli strumenti che Israele usa nel tentativo di espellere le comunità palestinesi dalle loro case, in modo da poter concentrare i residenti in enclaves e utilizzare il territorio per i propri scopi”, ha dichiarato l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo B’Tselem, il 13 dicembre le forze d’occupazione hanno emesso un ordine di demolizione per l’aula di quarta elementare e la demolizione è proseguita domenica nonostante fosse in corso un procedimento legale contro l’ordine [di demolizione].

Le fotografie postate su Twitter da media palestinesi mostrano bambini seduti in mezzo alle macerie della loro scuola distrutta.

Uno di loro tiene un cartello che dice: “Ho il diritto di studiare. No alla demolizione della mia scuola. Siamo i bambini di Abu Nuwwar.”

Un testimone dice nel video che le forze occupanti israeliane hanno confiscato i cellulari prima della demolizione.

Complicità dell’Unione Europea

La scuola è stata costruita a settembre con il finanziamento dell’Unione Europea e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma nessuna delle due ha fatto nulla per rendere responsabile Israele della distruzione delle aule.

Questo è in linea con l’inazione dell’UE relativamente alle decine di milioni di dollari di progetti che essa ha finanziato e che Israele ha distrutto negli ultimi anni.

L’UE non ha emesso alcuna dichiarazione di condanna della demolizione.

È la quinta volta che Israele demolisce quella scuola. Secondo la Reuters, ogni volta è stata ricostruita con l’aiuto di fondi dell’UE e di organizzazioni non governative.

Il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, il COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori Occupati, ndtr.), ha affermato che “la struttura è stata costruita illegalmente e senza i permessi necessari.”

Israele nega il permesso praticamente ad ogni costruzione palestinese in area C, dove si trova Abu Nuwwar, costringendo molti a costruire senza l’autorizzazione militare ed a vivere nella costante paura che la propria casa venga demolita.

Secondo l’agenzia di informazioni ufficiale palestinese Wafa, oltre agli edifici, Israele vieta ai palestinesi di Abu Nuwwar anche di costruire strade che “permetterebbero ad uno scuolabus di accedere alla comunità e portare in modo sicuro i bambini avanti e indietro da scuola.”

L’area C include circa il 60% della Cisgiordania ed è sotto il totale controllo militare israeliano, in base a quanto previsto dagli accordi di Oslo firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nei primi anni ’90.

Espulsione forzata

I politici israeliani stanno invocando sempre più spesso l’annessione permanente dell’area C, che lascerebbe la maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania imprigionata in piccole isole territoriali.

La comunità di Abu Nuwwar, come molte altre nell’area C, ha subito continue aggressioni da parte dell’esercito israeliano nel tentativo di espellerle con la forza.

In ottobre le forze israeliane hanno confiscato le porte delle aule che hanno demolito domenica.

In agosto, le forze israeliane hanno dichiarato la comunità di Abu Nuwwar zona militare chiusa ed hanno confiscato i pannelli solari che fornivano elettricità all’asilo.

L’area E1 [ad est di Gerusalemme, ndt.] è destinata da Israele all’espansione della sua mega colonia di Maaleh Adumim, che completerebbe l’accerchiamento di Gerusalemme ed isolerebbe l’una dall’altra le aree settentrionale e meridionale della Cisgiordania.

Abu Nuwwar è una delle 12 comunità palestinesi, con un totale di circa 1.400 abitanti, nell’area est di Gerusalemme, che rischia l’espulsione da parte di Israele. Le altre includono Jabal al-Baba e Khan al-Ahmar.

Sempre in agosto Israele ha distrutto due scuole finanziate dall’Europa in Cisgiordania.

La mancanza di un’efficace risposta dell’UE ha quindi incoraggiato Israele a procedere con la demolizione di domenica.

Susiya sotto minaccia

Intanto il console generale francese ha visitato il villaggio di Susiya nell’area C, “per sostenere gli abitanti minacciati di trasferimento forzato”, secondo un tweet del consolato francese di Gerusalemme di lunedì.

Tali visite simboliche intendono segnalare la disapprovazione internazionale delle demolizioni di massa pianificate da Israele delle case della comunità – un crimine di guerra.

Ma in passato Israele le ha ignorate, con la certezza di non venire mai chiamato a rispondere di crimini di guerra ed altre violazioni contro i palestinesi.

La settimana scorsa la senatrice USA Dianne Feinstein ha twittato che è stato “un colpo al cuore” il fatto che l’Alta Corte israeliana abbia “approvato la demolizione di sette edifici nel villaggio palestinese di Susiya, distruggendo le case di 42 persone, metà delle quali sono bambini o malati.”

A dicembre Feinstein ed altri nove senatori hanno fatto appello direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché bloccasse le demolizioni.

Tamara Nassar è assistente redattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele ha creato una nuova categoria di terrorismo

Amira Hass

|30 gennaio, 2018 | Haaretz

Sul sito della Knesset compare una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore.” Quelli condannati in anticipo comprendono l’Autorità Nazionale Palestinese, i beduini e l’Unione Europea.

Coerenza esige che durante il loro viaggio a Bruxelles questa settimana, i delegati israeliani presentino alla responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, una convocazione al commissariato di polizia di Ma’aleh Adumim per essere interrogata su una sospetta attività terroristica.

Con una mano i rappresentanti israeliani, per via dei loro subappaltatori palestinesi, riceveranno un lauto assegno dall’UE per compensare l’ingente taglio di Donald Trump al finanziamento all’Autorità Nazionale Palestinese e all’UNRWA. (Vedi sotto: “Il taglio al finanziamento dell’ANP indebolisce il coordinamento della sicurezza”). Con l’altra mano consegneranno la convocazione per indagare su una sospetta attività e aiuto al terrorismo.

Per via di Auschwitz o a causa dei legami scientifici e militari con Israele, i rappresentanti europei accetteranno la convocazione con un sorriso. “Abbiamo sempre saputo che gli ebrei hanno uno sviluppato e alto senso dell’umorismo” diranno.

Ma si sbagliano. Questo non è uno scherzo. Si preparano altre espulsioni. Sul sito della Knesset è comparso una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore”. Quelli condannati in anticipo comprendono l’ANP, i beduini e l’Unione Europea. Il pubblico ministero, il giudice ed esecutore è il parlamentare Moti Yogev di Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, il partito di estrema destra dei coloni ndt] che è anche presidente della sottocommissione del Comitato per la politica estera e la difesa della Knesset per l’espulsione dei palestinesi, anche conosciuta come sottocommissione per gli affari civili e la sicurezza nella Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania ndt]

Egli ha dichiarato che la costruzione palestinese nella Cisgiordania costituisce “terrorismo” quando avviene nel territorio che Israele con scaltrezza ha trasformato in un altro macigno sulla nostra esistenza – l’area C, nella quale ogni tenda, recinto per animali e condotto dell’acqua richiede un permesso israeliano di costruzione che non è mai concesso. Chiunque voglia alloggiare una giovane coppia in una stanza di sua proprietà, o ricostruirne una in pessime condizioni, [sostituire] una tenda fallata, o costruire un’aula di un asilo, è costretto a violare le leggi del padrone.

Giovedì scorso, la sottocommissione per le espulsioni era fuori di sé per la gioia: nel 2017 ci sono stati progressi nelle demolizioni di strutture palestinesi nell’area C, alcune delle quali costruite con finanziamento europeo. Nelle audizioni della commissione i parlamentari non si sono mai stancati di sottolineare la faccia tosta europea di finanziare strutture. Creando una realtà immaginaria con la loro terminologia, hanno definito le strutture “caravillas” [assente nel vocabolario inglese da assimilare a baracche ndt]. Le comunità palestinesi vengono chiamate “avamposti” e la loro presenza per decenni in questo territorio, “una sopraffazione”. Il territorio occupato [da Israele] è definito “territorio dello Stato”.

Abbiamo inventato il termine “terrorismo popolare” per descrivere le manifestazioni dei civili contro i nostri soldati armati. Abbiamo criminalizzato il BDS come terrorismo anche se il boicottaggio è lo strumento più antico nella storia della lotta nonviolenta contro i regimi oppressivi. Abbiamo chiamato “atto di guerra l’uso di istanze legali ”, quando i palestinesi hanno osato presentare il loro caso ai tribunali internazionali. Ora abbiamo anche accusato di terrorismo chiunque costruisca una scuola o una latrina. Presto li accuseremo di terrorismo per la loro tenace insistenza a respirare.

La riunione di giovedì scorso era incentrata sulla comunità [beduina] Jahalin che ha costruito una scuola con vecchi copertoni in un’area dove vivono da decenni, ma che la colonia di Kfar Adumim desidera [incamerare]. L’Amministrazione Civile [è l’istituzione israeliana che sovrintende al posto del potere militare, ndt] è determinata a deportare con la forza la comunità in un’area assegnata a loro a Abu Dis contro il parere di Abu Dis.

L’oratore più esplicito nella riunione è stato probabilmente il vice sindaco di Ma’aleh Adumim Guy Yifrah. Nell’interesse di espandere la sua colonia negli anni novanta , durante i negoziati di Oslo, i nostri soldati e burocrati hanno espulso centinaia di appartenenti alla tribù Jahalin dalle terre su cui hanno vissuto fin da quando furono espulsi dal Negev dopo il 1948.

Sono stati scaricati su una terra accanto alla discarica di Abu Dis. Ora, il vice sindaco ha detto che dare persino più terra nella stessa area a un altro clan della stessa tribù sarebbe un errore. “ Potrebbe far pensare ai Jahalin che stanno vicino a Ma’aleh Adumim , che lo Stato si è riconciliato con la loro residenza lì.”

Cosa stava dicendo esattamente? Che in effetti lo Stato non si è riconciliato con la loro presenza anche a Abu Dis. Il signor Yifrah ci sta dicendo che l’espulsione pianificata deve essere un altro passo verso l’espulsione finale in una località ignota.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme

13 aprile 2016 -* Al-Shabaka e Ma’an News

 

Di : Munir Nuseibah

Israele è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi, approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi momentanee per promuovere misure permanenti.

Ora sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da Gerusalemme est.

Questo nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani, oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele. Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).

Queste misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire” la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto. Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in una nuova campagna.

I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”

La continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana, ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace iniziato nei primi anni ’90.

I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza, prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei con doppia cittadinanza americana e israeliana.

Di conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero. Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.

Per dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.

Nel 1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il “centro della sua vita” non era più in Israele.

Dopo questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti. Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della vita”.

Questi due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di Gerusalemme è diventata a rischio.

Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”

L’ultimo punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese (CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme, nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.

Tuttavia il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre), che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà” verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro gerosolimitani.

Quindi non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita” in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui residenza è stata revocata nel 2006.

Nessuno sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa informazione.

Vale la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi, giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai palestinesi.

Da una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.

Resistere alla politica di espulsione forzata

La lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da Gerusalemme.

Inoltre non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della residenza a Gerusalemme.

La maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e non un territorio occupato.

Israele deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.

Di fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai professionisti dei diritti umani.

La campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se, tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.

Istituzioni pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile, dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse la sensazione di essere sotto esame.

Rimane da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo, comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi, organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case. Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

*Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.

(traduzione di Amedeo Rossi)