Partito israeliano approva un piano di annessione per obbligare i palestinesi ad andarsene

Yotam Berger – 13 settembre 2017, Haaretz

Con l’approvazione di Netanyahu, il congresso di un partito di destra discute il proprio piano per annettere i territori palestinesi e proporre un ultimatum di resa o espulsione.

Martedì il congresso della fazione “Unione Nazionale”, che ha eletto dei parlamentari nel partito Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], presente nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato un piano per annettere in pratica i territori, favorendo nel contempo la partenza degli abitanti palestinesi o consentendo loro di rimanere, ma senza diritto di voto.

L’approvazione del piano, denominato dai suoi sostenitori il “Piano per la decisione”, è stata attivamente promossa dal deputato di Habayit Hayehudi Bezalel Smotrich. Esso intende “modificare il discorso e presentare una vera alternativa ad ogni piano basato sulla divisione della terra,” secondo una dichiarazione di “Unione Nazionale”.

Dopo un centinaio di anni di gestione del conflitto, è giunto il momento di prendere una decisione,” ha detto Smotrich all’assemblea. “I principi (della Sinistra) nell’arco di pochi anni sono stati accettati da una parte crescente della dirigenza israeliana. Prima a sinistra, e poi, sfortunatamente, anche a destra, che nella sua grande maggioranza ha perso la propria fede nella giustezza del nostro percorso ed è stata trascinata verso la soluzione dei due Stati.

La prospettiva del ‘Piano per la decisione’ non è nuova,” ha detto Smotrich. “Queste sono le fondamenta su cui è stato costruito il sionismo. Non accettiamo che qui ci siano due narrazioni che sono uguali. C’è una parte che è giusta e un’altra che sta minando il diritto di Israele ad esistere come Stato ebraico.”

Smotrich ha aggiunto: “Dobbiamo inculcare nella consapevolezza degli arabi e del mondo intero che non ci sono possibilità di costituire uno Stato arabo sulla Terra di Israele.”

Il piano è stato approvato all’unanimità dai delegati presenti, che includevano i parlamentari di Habayit Hayehudi Smotrich e Moti Yogev e il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel. Il segretario del partito Naftali Bennett, tuttavia, non è stato presente al congresso, né ha inviato un messaggio registrato, mentre lo ha fatto il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Il piano di Smotrich presenta una specie di ultimatum di resa o espulsione ai palestinesi in cui “verranno offerte due alternative agli arabi della Terra di Israele:

1. Chiunque sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali potrà rimanere qui e vivere come singolo individuo nello Stato ebraico.

2. Chiunque non sia pronto e disposto a rinunciare alla realizzazione delle proprie aspirazioni nazionali riceverà da noi assistenza per emigrare in uno degli Stati arabi.”

C’è anche una terza possibilità.

Chiunque insista a scegliere la terza ‘opzione’ – continuare a far ricorso alla violenza contro l’esercito israeliano, lo Stato di Israele e la popolazione ebraica, sarà risolutamente preso in consegna dalle forze di sicurezza con maggiore decisione di ora e in condizioni più sicure per noi.”

Il piano invoca inoltre una “decisione per la colonizzazione.”

Smotrich propone di offrire “autogoverno” agli arabi nei territori occupati, che “verrebbero divisi in tre governi municipali regionali che saranno nominati con elezioni democratiche,” su base distrettuale.

Secondo il piano, “questi governi si adattano alla struttura culturale e della famiglia estesa della società araba.” L’obiettivo è “di smantellare la collettività nazionale palestinese.” Viene sottolineato che “gli arabi di Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndt.] saranno in grado di condurre la loro vita quotidiana, ma in un primo tempo non potranno votare per il parlamento israeliano.”

Come lo stesso Smotrich ha scritto nel passato in merito al piano, “la grande sfida in questo contesto sarà la sfida democratica: la necessità di persuadere il mondo che tra tutte le diverse alternative, quella dei diritti democratici senza il diritto di voto al parlamento è la meno peggio. Certamente è una sfida, ma possiamo affrontarla.”

Razzisti? Noi?

I membri di “Unione Nazionale” sembrano offendersi quando gli viene chiesto di spiegare perché il loro piano non è razzista. “Dio ce ne guardi,” dice il segretario del partito Ofir Sofer. “E’ chiaro che ci sono delle difficoltà nel discuterlo utilizzando i concetti che abbiamo oggi. Ma non è razzismo,” afferma.

  Sofer aggiunge che, benché il piano utilizzi il termine “gli arabi della Terra di Israele,” non significa che gli arabo-israeliani perderebbero la loro cittadinanza.

Il piano propone la cittadinanza,” aggiunge. “La propone a lungo termine. (Anche oggi) gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare e gli arabi di Gerusalemme est non votano per la Knesset. Per questo penso che non si tratti di razzismo. Non puoi creare due situazioni contraddittorie – la colonizzazione e l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma non voterei mai per un piano razzista.”

Sofer contesta anche l’uso del termine “espulsione”. “Quando abbiamo parlato di espulsione?” chiede. “Stiamo parlando di incoraggiare l’emigrazione. E’ successo per gli eritrei, ecc. Qui ci stiamo riferendo esattamente ai militanti del terrorismo, a quelli che appoggiano il terrorismo. Lei è a favore di incoraggiare l’emigrazione degli eritrei e non dei terroristi?”

Per quanto riguarda una spiegazione su cosa significherà “preso in consegna dalle forze di sicurezza“ con cui il piano mette in guardia quelli che rifiutano di andarsene e conservano aspirazioni nazionali, sia il piano che Sofer sono vaghi.

Il programma di Smotrich può suonare effimero, ma ha ricevuto il riconoscimento da parte di Netanyahu, che ha inviato un messaggio videoregistrato al congresso.

Sono contento di sentire che avete dedicato le discussioni del congresso al tema del futuro della Terra di Israele. Fino a non molti anni fa, questo Paese era spopolato ed abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni in esilio, la Terra di Israele sta fiorendo,” ha detto Netanyahu nel saluto registrato.

Il primo ministro ha aggiunto: “In meno di 70 anni siamo riusciti a costruire un Paese prospero, leader mondiale in economia, tecnologia, sicurezza, agricoltura, sicurezza informatica, salute e in molti altri campi. Stiamo costruendo il Paese e ci stiamo insediando sulle montagne, nelle valli, in Galilea, nel Negev e anche in Giudea e Samaria, perché questo è il nostro Paese. Ci è stato concesso il privilegio di vivere sulla terra, ed abbiamo l’obbligo di conservarla con cura.”

Il saluto del premier ha ricevuto applausi piuttosto scarsi. La spiegazione più comune di questo tra gli attivisti di “Unione Nazionale” è la loro convinzione che Netanyahu non creda realmente al piano, ma stia semplicemente tentando di superare a destra Bennett, di Habayit Hayehudi. “Sta facendo l’occhiolino alla Destra,” dice un delegato. “Capisce che i voti sono a destra,” dice un altro.

Per il ministro dell’Agricoltura Ariel, non è sufficiente che Netanyahu stia prestando attenzione.

Il ‘Piano per la decisione’ è importante, soprattutto dal punto di vista della consapevolezza,” dice Ariel. “Non basta che ci sia mezzo milione di ebrei in Giudea e Samaria, e con l’aiuto di dio ce ne sarà un milione. Dobbiamo raggiungere la consapevolezza, riconoscere la giustezza (del potere e della colonizzazione israeliani in Cisgiordania). Dire: ‘Onorevole primo ministro, signor Netanyahu, non ci sono e non ci saranno mai due Stati tra il Giordano e il mare.’ Gliel’ho detto varie volte: ‘Tu sai che non ci saranno mai due Stati.’ Ma le discussioni giorno e notte sui due Stati indeboliscono ed erodono la consapevolezza della giustizia del nostro cammino, che la Terra di Israele è nostra.”

L’assenza di Bennett dal congresso non è stata casuale; quelli che lo conoscono dicono che il ministro dell’Educazione non è molto entusiasta delle proposte di Smotrich. Pochi anni fa Bennett ha presentato il suo “Piano di pacificazione”, che includeva l’annessione di alcune parti dei territori, ma nessun meccanismo di trasferimento della popolazione.

Benché Habayit Hayehudi e “Unione Nazionale” siano strettamente legati e abbiano corso insieme per la Knesset, i seguaci di Bennett dicono che egli sa che non riuscirà mai a raggiungere i vertici politici a cui aspira – in altre parole, la carica di primo ministro – in una lista unitaria con “Unione Nazionale”. Pensa che una lista che include convinzioni politiche come quelle di Smotrich non potrà mai essere un partito di governo. La loro alleanza è stata strategica, ma se egli avrà l’opportunità di candidarsi con un partito che possa attrarre più voti centristi, sarà felice di separarsi [da “Unione Nazionale”].

Ariel ne è ben consapevole. Per questo, nel suo discorso, ha chiesto a Bennett di mantenere l’alleanza. “Faccio un appello al mio collega ed amico, il ministro Bennett – l’unità è un valore. E quando si tratta di questioni politiche, può portare a risultati molto maggiori di altre cose. Per questo noi dell’’Unione Nazionale’ stiamo lottando per l’unità del nostro campo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Benny Morris e Daniel Blatman riprendono la discussione sulla scia dell’uscita del libro di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza”

NOTA REDAZIONALE: riteniamo interessante per il lettore seguire il dibattito storiografico sulla guerra del ’47-’48 da cui è nato lo Stato di Israele che viene proposto ai lettori israeliani dal quotidiano “Haaretz”.

Come in altri articoli[vedi http://zeitun.info/?s=pulizia+etnica ]che abbiamo già tradotto, il principale protagonista è lo storico ebreo- israeliano Benny Morris, autore negli anni ’90 di importanti studi che hanno messo in serio dubbio la narrazione israeliana sugli avvenimenti che portarono all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, e che in seguito è passato ad un attivo sostegno delle politiche dei governi israeliani, ed in particolare del Likud. In questo caso se la prende con un suo collega israeliano-palestinese che ha scritto un libro su quelle tragiche vicende. Come in precedenti circostanze, sullo stesso giornale gli risponde un altro storico ebreo- israeliano Daniel Blatman, che si è occupato di studiare l’Olocausto e i movimenti ebraici europei non sionisti, come il Bund, partito socialista ebraico .

Israele non ha messo in atto una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948

Il problema dei rifugiati palestinesi fu il risultato di un piano strategico sionista e della “pulizia etnica”, sostiene erroneamente lo storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, in cui “strage” ed “espulsione” compaiono in quasi tutte le pagine.

Haaretz

di Benny Morris – 29 luglio 2017

Ho affrontato la lettura del nuovo libro del prof. Adel Manna, “Nakba e sopravvivenza: lo storia dei palestinesi che sono rimasti con qualche speranza ad Haifa e in Galilea, 1948-1956”. Conosco bene la narrazione dei palestinesi – una narrazione di spossessamento e discriminazione, di sventura storica e di infinita ingiustizia senza averne alcuna colpa.

In questa narrazione c’è solo una parte che è nel giusto ed una quantità di cattivi, tra i quali i sionisti sono i più importanti. La narrazione è stata diffusa ormai da decenni dalla dirigenza palestinese e dagli opinionisti arabi, così come dagli storici e studiosi arabi e dai loro sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said ed Ilan Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle librerie dell’Occidente. In Israele, i loro scritti sono in buona parte introvabili in quanto la maggior parte di essi non è stata tradotta in ebraico.

Questo vuoto non sarà riempito dalla pubblicazione, in ebraico, da parte dell’istituto Van Leer e dalla casa editrice Hakibbutz Hameuchad, di “Nakba e sopravvivenza”, (Nakba significa “catastrofe”, come è nota ai palestinesi la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo. Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato all’Università Ebraica di Gerusalemme e per anni ha insegnato in varie università e college. Il suo campo di studi comprende la storia della Palestina, i palestinesi e Gerusalemme nel periodo ottomano e in quello contemporaneo e il conflitto arabo-israeliano.

Da una conoscenza superficiale di Manna, credevo che egli conoscesse la storia della Palestina e dello Stato di Israele. Ho sperato che sarebbe riuscito ad evitare la narrazione palestinese e a costruire una storia basata sulla documentazione e sui fatti, dimostrando un’apertura intellettuale e una visione dei due lati della medaglia. Sono rimasto deluso. A dire la verità, Manna non nasconde il suo punto di partenza. Nella sua introduzione c’è un impegno o una avvertenza che il libro è scritto “dalla prospettiva dei sopravvissuti…Nel mio libro ho scelto di non adottare la posizione dello storico imparziale che nei suoi scritti lascia da parte le proprie posizioni personali ed ideologiche”, (forse tutte o in gran parte già implicite nell’uso della parola “sopravvissuti”- come se gli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948 cercassero di sopravvivere ad una continua politica e ad una campagna intese alla loro eliminazione).

Devo avvertire i lettori che le 377 pagine dense e fitte di “Nakba e sopravvivenza” sono affette da innumerevoli ripetizioni, sia di racconti (per esempio, quello dell’esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal Krum il 5 novembre del 1948, che è raccontata almeno tre volte) e di varie recriminazioni. La descrizione complessiva di quello che è successo qui nel 1948 come “massacro ed espulsione” o “espulsione e massacro” compare in quasi tutte le pagine almeno una volta, se non varie. Quindi oserei dire che il numero di volte in cui nel libro compare questa frase è superiore al numero di arabi che sono stati uccisi in casi in cui hanno avuto luogo stragi.

Vale la pena notare, peraltro, che massacri di arabi contro ebrei, e ce ne sono stati, sono appena citati nel libro – e quando Manna fa riferimento al massacro nella raffineria di petrolio ad Haifa il 30 dicembre 1947 lo definisce come un “attacco” o un “grave attacco”, non come un massacro. Questo è il modo in cui le cose compaiono in una narrazione rispetto ad un vero saggio storiografico.

Il libro è diviso in due parti. Il primo affronta quello che successe nel 1948 e il secondo si concentra su quello che avvenne tra il 1949 e il 1957 agli arabi che rimasero in Israele, che si definiscono come “abitanti palestinesi dello Stato di Israele” o come “arabi del 1948”. In entrambe le parti l’enfasi è posta sul corso degli eventi nel nord – la Galilea ed Haifa – con pochissimo spazio dedicato a quello che successe nel centro e nel sud del Paese.

Nel suo lavoro Manna fa ampio uso della stampa araba (cosa che approvo), della stampa di sinistra ebraica e dei verbali di processi, soprattutto sentenze dell’Alta Corte di Giustizia, relative alla minoranza araba ed ai partiti politici arabi dal 1948 al 1957.

Buona parte del libro si basa su interviste che lui o altre persone hanno fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita dello Stato di Israele. Manna difende appassionatamente il valore della “storia orale” come una fonte attendibile per la ricostruzione degli avvenimenti e di sentimenti del passato. Attraverso “Nakba e sopravvivenza” egli “mostra” che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente). Non fornisce dettagli su come le interviste sono state condotte. A volte non dice neppure quando si sono svolte o chi ha fatto l’intervista.

E’ ovvio che Manna ha fatto una ricerca di archivio molto povera (praticamente tutte le sue note sono annotazioni archivistiche approssimative e/o non corrette; per esempio la maggior parte dei riferimenti all’Archivio dell’esercito israeliano). Quasi tutte le citazioni da fonti primarie sono riferite di seconda mano da ricerche di altre persone, compresi libri che ho scritto io (a proposito dei quali Manna fa sia apprezzamenti positivi che riserve, alcune delle quali giustificate). Ha accuratamente scelto cosa inserire nel suo libro e cosa escludere.

Progetto strategico sionista

Per lo più gli storici distorcono la storia non attraverso grossolane falsificazioni ma piuttosto ignorando documenti e fatti importanti. Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo fecero anche negli anni successivi alla guerra; non ci fu un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non ci fu neppure una guerra: ci fu solo un’espulsione e nient’altro.

A merito di Manna, egli nota che i dirigenti degli arabi di Palestina e quelli arabi della regione rifiutarono effettivamente il piano di spartizione [della Palestina tra ebrei sionisti e palestinesi, ndt.] (adottato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947, che secondo Manna era immorale), ma dimentica di citare che il giorno seguente alcuni palestinesi aprirono il fuoco e iniziarono attacchi che in alcune settimane si ingigantirono fino a diventare una guerra civile generalizzata – la prima fase della guerra che andò dal novembre 1947 al maggio 1948. Per come la vede Manna, la guerra semplicemente scoppiò; nessuno le diede inizio.

Il suo argomento centrale, di fatto il tema del libro, è che il problema dei rifugiati palestinesi sia nato come conseguenza di un progetto sionista che venne coscientemente adottato fin dall’inizio e in conseguenza di una messa in pratica sistematica di questo progetto: “Il trasferimento degli arabi dalle zone del Paese verso i vicini Stati arabi era diventato un obiettivo dichiarato fin dal rapporto della commissione Peel [commissione del potere mandatario inglese in seguito alla più importante rivolta palestinese contro inglesi e sionisti, ndt.] del 1937. Il piano dell’offensiva ebraica (Piano D), messo in atto nell’aprile 1948, era un importante anello nella pianificazione dell’espulsione dei palestinesi, (ma) la politica di pulizia etnica fu molto più estesa e complessa di qualunque piano scritto… In Galilea una politica di pulizia etnica venne messa in pratica nelle prime fasi della guerra, in zone che erano state destinate allo Stato ebraico in base al piano di spartizione [della Palestina deciso dall’ONU, ndt.].

Manna indica due azioni iniziali dell’Haganah [principale milizia armata sionista, da cui è nato l’esercito israeliano, ndt.] subito nel dicembre 1947 (le azioni a Khisas e a Balad al-Sheikh) come manifestazioni del “desiderio da parte dei dirigenti dell’Yishuv (la popolazione ebraica del Paese prima della fondazione dello Stato di Israele) che nessun palestinese rimanesse nella Galilea orientale e nella pianura costiera.” In seguito menziona come risultato di questa politica l’ “espulsione” degli abitanti di Tiberiade, Safed, Beit She’an, Giaffa, Haifa e Acri nell’aprile e maggio del 1948. Manna continua a dire che durante la seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 – durante la guerra convenzionale che fece seguito all’invasione della Palestina da parte degli Stati arabi vicini – la politica di Israele fu e rimase l’espulsione della popolazione araba locale. Infine Manna sostiene che questa politica fu ancora perseguita dal 1949 al 1956. Secondo lui il divieto di ritorno dei rifugiati e le espulsioni di massa di “infiltrati” nei primi anni dopo il 1948 furono manifestazioni di questa politica, e nota che la sua stessa famiglia fu era tra le persone espulse da Majdal Krum in Libano nel 1949.

Manna afferma che Israele usò leggi contro l’infiltrazione per espellere quanti più arabi possibile dal nascente Paese, comprese persone che non erano infiltrate ma risultavano non possedere un certificato del registro dell’anagrafe o una carta d’identità israeliana. Indica persino il massacro di Kafr Qasem [in cui, in concomitanza con la guerra contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez, 48 ignari contadini palestinesi con cittadinanza israeliana di ritorno dai campi vennero uccisi dall’esercito israeliano che, senza informarli, aveva anticipato il coprifuoco in vigore nelle zone arabe del Paese, ndt.] nella cosiddetta “Zona del Triangolo” del 29 ottobre 1956 come una manifestazione di questa politica.

Le argomentazioni di Manna non sono convincenti. Ha ragione quando dice che c’era una politica di espropriazione delle terre e di discriminazione contro gli arabi che rimasero in Israele (benché il governo militare e l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento fossero misure logiche alla luce dei tentativi di distruggere l’Yishuv e della continua ostilità, compresa la violenza da parte degli arabi nei Paesi limitrofi, tra cui rifugiati dalla Palestina, contro lo Stato di Israele ed i suoi abitanti ebrei). Ma, una politica di espulsione dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una simile politica, perché non venne messa in pratica? Perché il numero di arabi in Israele è aumentato costantemente, in parte per le infiltrazioni di rifugiati all’interno di Israele che, nel corso degli anni, ottenero la carta d’identità?

L’autore sostiene anche che l’intenzione di Israele era di approfittare della campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il piano è fallito a causa della mancata partecipazione della Giordania alla guerra. Anche questo non ha fondamento. In Israele c’erano sicuramente figure di spicco, tra cui il capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Dayan, che negli anni ’50 speravano che scoppiasse un’altra guerra e permettesse a Israele di occupare la Cisgiordania o forse persino di espellere in Giordania gli arabi israeliani. Tuttavia non si trattava di una “politica” statale.

Nessun ordine di espulsione

Torniamo al 1948. Se Manna avesse letto i documenti dell’archivio dell’Haganah, dell’archivio dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] o degli archivi di Stato di Israele (o la versione aggiornata del 2003 del mio libro sul problema dei rifugiati “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto”), avrebbe scoperto che non ci fu una politica di espulsione dei “palestinesi” e che l’Haganah non espulse arabi prima dell’aprile 1948 (con l’eccezione degli abitanti arabi di Cesarea, in cui le motivazioni non avevano niente a che fare con la lotta contro gli arabi). Avrebbe anche trovato che l’Haganah e i dirigenti dell’Agenzia Ebraica (il governo dell’Yishuv) si attennero alla politica di accettazione del piano di spartizione (benché certamente non ne fossero contenti), che includeva una numerosa minoranza araba nello Stato ebraico che si stava formando. Il 24 marzo 1948 Yisrael Galili, capo del comando nazionale dell’Haganah (e di fatto il vice del ministro della Difesa David Ben-Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai settori dell’Haganah perché si attenessero alla politica del momento di lasciare al loro posto e di garantire la pace e la sicurezza delle comunità arabe nella zona destinata al nascente Stato (salvo che in casi eccezionali per ragioni militari).

Persino nel passaggio dell’Yishuv a una strategia di attacco nell’aprile e maggio 1948 dopo quattro mesi di strategia difensiva, i suoi dirigenti e membri dello Stato Maggiore dell’Haganah non adottarono una politica di “espulsione degli arabi” e le varie unità operarono in modo diverso a seconda della zona. Il “piano D”, dal 10 marzo 1948, non obbligava ad “espellere gli arabi” – anche se ai comandanti di brigata era stato dato il permesso di espellere le popolazioni arabe o di consentire loro di restare. Molto dipendeva dalle caratteristiche degli arabi del posto, dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti ebrei, oltre che dalle circostanze in ogni singola zona.

Ad Haifa fu la dirigenza araba che chiese ai suoi abitanti di andarsene (il sindaco ebreo, Shabtai Levy, e gli attivisti del sindacato dei lavoratori Histadrut [sindacato sionista, ndt.] chiesero loro di rimanere); a Tiberiade non ci furono espulsioni (benché forse le autorità del mandato britannico incoraggiarono l’esodo degli arabi); a Giaffa la popolazione se ne andò a causa della pressione militare ebraica e della previsione di un’occupazione ebraica dopo il ritiro delle truppe britanniche; a Safed scapparono a causa della conquista della città da parte del Palmach [milizia armata sionista inserita nell’Haganah, ndt.], non in conseguenza di ordini per espellerli; ad Acri non ci fu un ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti rimase in città dopo che venne occupata il 18 maggio.

Manna ha ragione quando dice che durante l’operazione “Hiram” alla fine dell’ ottobre 1948 e nelle settimane successive i soldati dell’IDF misero in atto una serie di massacri (a Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun, Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove) e qui e là espulsero villaggi (Jish, Eilabun, Birim e altri). Ed è anche vero che il trattamento dei drusi [minoranza religiosa considerata eretica dai musulmani, ndt.](che avevano in effetti stretto un’alleanza con l’Yishuv) e dei cristiani fu diversa da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano attaccato l’Yishuv. Tuttavia non ci fu una politica e non ci fu uniformità di comportamento tra le unità e gli ufficiali.

Il 12 novembre Ya’akov Shimoni, un funzionario del ministero degli Esteri (che in precedenza era stato un importante membro del servizio di intelligence dell’Haganàh (lo Sha’i)), visitò la Galilea con altri funzionari del ministero e parlò con i soldati e con altri ufficiali e funzionari sul campo. Scrisse: “Il trattamento (a Hiram) degli abitanti arabi della Galilea come nei confronti dei rifugiati arabi che stavano vivendo nei villaggi della Galilea o nelle loro vicinanze ha riflettuto un comportamento casuale ed è stato diverso da luogo a luogo in base alle iniziative di un comandante o dell’altro o di un ufficiale e dell’altro dei vari dipartimenti del governo: in un luogo hanno espulso e in un altro hanno lasciato la popolazione sul posto; in un posto hanno accettato la resa di un villaggio e in un altro invece no; in un posto hanno favorito i cristiani e in un altro hanno trattato cristiani e musulmani allo stesso modo senza distinzione; in un posto hanno persino consentito ai rifugiati che erano scappati in un primo momento dopo la conquista di tornare alle proprie case, e in un altro non l’hanno permesso.”

E il 18 novembre Shimoni aggiunse: “Troppe mani stanno mescolando la polenta…Loro (i comandanti dell’IDF) non hanno nessun ordine chiaro in mano o una prassi chiara riguardo al modo di comportarsi con gli arabi.”

E’ vero che dopo la visita di Ben-Gurion ai comandi del fronte settentrionale alla fine dell’operazione “Hiram” venne emanato alle brigate dell’esercito un ordine (generico) a nome di Moshe Carmel, comandante del fronte, per “aiutare” gli abitanti ad andarsene, ma la direttiva arrivò troppo tardi e non venne messa in pratica alla lettera. In un posto espulsero [la popolazione araba], in un altro non lo fecero.

L’argomentazione di Manna è che i massacri dell’operazione “Hiram” vennero organizzati “dall’alto” e intendevano far scappare gli arabi. Tuttavia: 1) Manna non ha nessuna documentazione che dimostri un simile rapporto e 2) in molti dei villaggi in questione fughe o espulsioni di massa non avvennero in seguito a massacri, né a Dir al-Assad né a Majdal Krum (qui Manna si sbaglia riguardo al suo villaggio: non ci fu un’espulsione da Majdal Krum), né a Arab al-Mawasi, né a Jish né a Hule. E’ possibile che comandanti sul campo abbiano pensato che un massacro avrebbe portato a una fuga di massa; forse un’ansia di vendetta, o solo semplice crudeltà erano la causa di queste uccisioni. Non ci sono prove in un senso o nell’altro, salvo sul fatto che unità di tre diverse brigare (la Golani, la Settima e la Carmeli) misero in atto una serie di massacri durante quelle settimane.

C’è in effetti il sospetto – ma sulla base del materiale che è a disposizione dell’analisi pubblica è impossibile arrivare alle conclusioni certe nel modo in cui lo fa Manna. Ma è vero che gli esecutori di questi crimini non furono puniti (in apparenza grazie all’intervento del ministro della Difesa).

In più bisogna notare che dal giugno 1948 la politica del governo di Israele fu di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese, e che questa politica venne messa in pratica durante tutta la guerra e nel dopoguerra in modo sistematico (benché decine di migliaia di rifugiati riuscirono ad infiltrarsi nel Paese o venne loro consentito di tornare nel quadro di un “ricongiungimento familiare” o con accordi speciali. Per esempio, il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli abitanti di Eilabun, tornarono grazie a detti accordi e alla fine ottennero la cittadinanza israeliana, come gli stessi genitori di Manna, che si infiltrarono nel Paese dopo un lungo periodo nel campo di rifugiati di Ain al-Hilweh in Libano).

“Successo parziale”

Per cui è stato così che alla fine della guerra 125.000 arabi rimasero nello Stato di Israele e 160.000 alla fine del 1949, la maggioranza dei quali nel nord. Manna non spiega per niente come ciò accadde, citando solo quelli, tra i 20.000 e i 30.000, che vennero cooptati all’interno della popolazione del Paese nel maggio 1949 con l’annessione allo Stato del “Triangolo”, che va da Umm al-Fahm fino a Kafr Qasem. Egli sostiene che questi individui utilizzarono vari metodi per “sopravvivere” (collaborando con le autorità, nascondendosi in grotte nei pressi dei loro villaggi, e così di seguito). Non spiega perché, se c’era davvero una politica complessiva di espulsione, non sia stata messa in pratica, perché l’esercito e la polizia non espulsero semplicemente gli arabi rimasti, villaggio dopo villaggio, e lasciarono anche un gran numero di arabi ad Haifa, Acri e Giaffa, molti dei quali musulmani.

Riguardo a Nazareth, in cui la maggior parte della popolazione araba rimase, Manna giustamente nota la sensibilità israeliana verso l’opinione pubblica del mondo cristiano. Ma riguardo a Majdal Krum? A chi all’estero sarebbe importato che gli abitanti del villaggio di Manna o di quelli vicini – Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, oggi tutti grandi villaggi o cittadine – venissero espulsi alla fine dell’ottobre 1948? Nell’estate del 1948 l’IDF consigliò al governo che Acri venisse svuotata dei suoi abitanti. Perché, se l’espulsione era la prassi, non vennero espulsi fuori dal Paese, a Giaffa o altrove? Ben-Gurion temeva il suo ministro per le Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose all’espulsione degli abitanti di Acri)?

Non ci sono spiegazioni per tutto ciò, tranne l’assenza di una qualunque politica di espulsione, anche se Ben-Gurion e molti altri volevano che nello Stato ebraico rimanessero quanti meno arabi possibile, e certamente non ci fu un’ espulsione sistematica come sostiene Manna. Non fu la “tenacia” degli abitanti dei villaggi che impedì la loro espulsione – se ci fosse stato un ordine di espulsione, se ne sarebbero andati (come successe a Caesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi in cui agli abitanti venne ordinato di andarsene).

“Nonostante i molti tentativi da parte dell’esercito e di altri elementi di espellere gli arabi dalla zona, il successo fu solo parziale,” scrive Manna. Un’assurdità. Quando qualcuno punta contro di te e contro la tua famiglia un fucile e ti dice di andartene, soprattutto dopo che ha già ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna sono semplicemente poco serie.

L’autore ha apportato un significativo contributo al discorso sugli arabi in Israele, sottolineando l’influenza della Nakba sulle loro vite e mentalità negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state interiorizzate da molti ebrei israeliani. Ci sono molti passi del libro in cui Manna critica il suo stesso popolo. Descrivendo le azioni degli arabi nella rivolta del 1936-1939, ad esempio, li accusa di aver commesso “gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, incendiando campi e distruggendo proprietà…Il terrorismo venne impiegato anche all’interno della stessa comunità araba, soprattutto contro gli oppositori della rivolta.”

Scrive anche che i dirigenti della rivolta, compreso Haj Amin al-Husseini [Gran Muftì di Gerusalemme e leader politico palestinese, ndt.] assunsero “posizioni estremiste e intransigenti, che causarono gravi danni” ai palestinesi. Tuttavia questi lampi di lucidità critica sono davvero rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (ed i loro storici?) e afferma che non hanno ancora condotto “un dibattito critico e serio sulla storia della Nakba e sulle sue implicazioni.” Si direbbe che ha ragione.

Per la Nakba non c’era bisogno di una “politica di espulsione”

A differenza di quanto sostiene Benny Morris, il saggio di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza” è un libro stimolante, degno di nota per il suo approccio metodologico nel presentare una storia credibile e sfaccettata della tragedia palestinese del 1948

Haaretz

Di Daniel Blatman – 4 agosto 2017

Le critiche di Benny Morris all’importante libro “Nakba e sopravvivenza: la storia dei palestinesi che sono rimasti ad Haifa e in Galilea, 1948-1956” di Adel Manna (vedi articolo “Israele non aveva una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948,” 29 luglio) sono parte dei tentativi dello storico – durati in modo continuativo per 15 anni – di negare quello che egli sosteneva in passato: che Israele mise in atto una pulizia etnica a tutti gli effetti durante la guerra di indipendenza di Israele del 1948. (“Nakba”, che significa catastrofe, è il termine utilizzato dagli arabi per descrivere la guerra, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante un periodo di circa due anni).

In passato Morris lo ha affermato con encomiabile coraggio. In un dibattito con lo scrittore israeliano Aharon Megged sulle pagine di Haaretz nel 1994 dichiarò: “Il nuovo materiale fattuale che è stato reso pubblico nei documenti (per esempio: dettagli che sono stati celati riguardo a massacri, espulsioni ed espropri condotti dalle forze di difesa ebraiche nel 1948 e negli anni seguenti) hanno dato luogo a una diversa interpretazione dell’impresa sionista. La principale aspirazione del sionismo era di risolvere i problemi del popolo ebraico nella Diaspora con la costruzione di un’entità statale che sarebbe stata un rifugio per gli ebrei e un Paese modello.”

“Ma,” continuava Morris, “i sionisti avevano anche altri obiettivi: prendere il controllo della Terra di Israele dal mare al fiume [Giordano] per sostituire i palestinesi che vi vivevano: per cacciarli fuori dal Paese nel momento decisivo le forze di difesa del movimento sionista diedero espressione al bisogno bellicoso ed espansionista che è sempre stato alla base dell’ideologia sionista, e fecero in modo – sia con mezzi per farli fuggire e espellerli, o impedendo il ritorno dei rifugiati – di spingere fuori dai confini dello Stato in formazione la grande maggioranza degli arabi che vivevano nelle zone che divennero lo Stato di Israele, ed anche di allargare lo Stato oltre le linee disegnate dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 [che diede il beneplacito alla partizione della Palestina, ndt.].”

Il Benny Morris del 1994 ha fatto un lavoro migliore per spiegare quello che il dott. Manna afferma nel suo libro. Ma negli ultimi anni Morris ha cercato di “correggere un errore” e di dimostrare che le conclusioni a cui è arrivato con le sue ricerche sull’espulsione dei palestinesi erano in realtà sbagliate. Non so cosa gli abbia fatto cambiare le conclusioni riguardo alla catastrofe che Israele inflisse al popolo palestinese nel 1948. Quello che è peggio è il fatto che Morris critichi maliziosamente una ricerca che sta cercando, in modo equilibrato e critico, di affrontare la Nakba e le sue conseguenze da un punto di vista che non corrisponde alla narrazione sionista – una narrazione che anche Morris aveva duramente contestato in passato per i suoi preconcetti ideologici.

Morris nella sua recensione afferma: “Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo hanno fatto anche negli anni successivi alla guerra; non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto non c’è neppure stata una guerra: c’è stato solo un’espulsione e nient’altro.” Ma questa non è un’affermazione simile a quelle che egli stesso aveva fatto 23 anni fa?

Nel suo libro Manna fa uno stimolante tentativo di scrivere una storia sfaccettata della tragedia palestinese, e il suo approccio metodologico è degno di nota. Ha ragione quando sostiene che la ricerca israeliana riguardante gli avvenimenti che hanno riguardato il 1948 soffre del problema di una separazione innaturale tra la “ricerca ebraica” e la “ricerca araba”. In altre parole, tra la storia scritta dagli storici ebrei e quella scritta dagli storici arabi. Ci sono molte ragioni di questa divisione, dal fatto di comprendere le lingue pertinenti all’influenza delle narrazioni nazionali sullo storico.

A differenza di molti dei suoi critici, Manna parla correntemente l’arabo, l’ebraico e l’inglese, ed è questa la ragione per cui, per esempio, può leggere ed esaminare non solo documenti ufficiali dell’Haganah (la milizia armata ebraica pre-statale), ma può anche analizzare la stampa araba e altre fonti arabe. In altre parole, a differenza di Morris, le cui ricerche si basano principalmente sui documenti ufficiali degli archivi israeliani ed inglesi, Manna presenta un quadro complesso e più credibile della tragedia palestinese.

La tendenziosità di Morris è chiara, per esempio, anche nelle sue critiche a Banna riguardo alle interviste che ha raccolto dai sopravvissuti della Nakba, che sono ora uomini e donne anziani. Com’è possibile, contesta Morris, che dopo così tanti anni la gente ricordi quello che accadde realmente? Secondo Morris ” Attraverso ‘Nakba e sopravvivenza’ egli «mostra» che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente).”

In altre parole secondo Morris quello che importa realmente per comprendere “quello che accadde realmente” è quello che ha trovato lui negli archivi israeliani o britannici. Strano, dato che in una recensione che scrisse nell’edizione ebraica di Haaretz (“Quei rifugiati non hanno nessun posto in cui tornare, 24 novembre 1992) in una raccolta enciclopedica pubblicata dall’Instituto per gli Studi Palestinesi sui villaggi palestinesi che furono cancellati dalle mappe nel 1948, pensava in modo diverso: “Gli autori non hanno intervistato rifugiati (e tra pochi anni non ne rimarrà nessuno”), affermò.

Benny Morris crede ancora che il ruolo dello storico non sia altro che quello di raccontare ai suoi lettori quello che ha trovato in un archivio e in documenti resi pubblici da qualche organizzazione governativa o meno. Se gli studi sull’Olocausto, per esempio, avessero continuato ad essere basati su un approccio simile – come è stato in realtà il caso della storiografia tedesca negli anni ’70 – non avremmo saputo praticamente niente sulle vite degli ebrei e sui loro tentativi di sopravvivere durante gli anni della loro grande tragedia, come oggi sappiamo grazie alle molte testimonianze degli stessi sopravvissuti.

Ed è proprio quello che fa Manna: propone la storia della tragedia nazionale del suo popolo dal punto di vista della vittima, del sopravvissuto. La politica di Israele sul problema palestinese e la politica di espulsione non sono il cuore del libro: quello che vi si trova è la storia dell’espulsione e della sopravvivenza.

Anche sulla questione dell’espulsione Morris si agita nel tentativo di allontanare se stesso da quello che era una volta. Ma qui cammina su un terreno minato: ricercatori seri del fenomeno della violenza di massa non devono trovare una prova inequivocabile dell’esistenza di una “politica di espulsione” per arrivare alla conclusione che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Egli asserisce che non ci fu una politica di questo tipo, e se ci furono direttive emesse per perpetrare massacri nei villaggi palestinesi esse furono comunicate, egli afferma, “attraverso un ordine (generico).”

Si potrebbe pensare che quando gli Ottomani decisero di espellere gli armeni nel 1915 lo abbiano pubblicato sulla stampa ufficiale, o quando Ratko Mladic decise di massacrare oltre 7.000 musulmani bosniaci, uomini e ragazzi, a Srebrenica nel 1995 abbia reso pubblico il suo ordine. Ordini e istruzioni di attuare tali crimini sono dati oralmente, in discussioni riservate e in modo implicito, in un linguaggio ambiguo. Ciò non significa che quelli che li mettono in atto non sappiano esattamente quello che intende la persona che dà questi ordini ambigui.

Morris scopre la prova definitiva della debolezza delle affermazioni di Manna riguardo alle espulsioni nel fatto che alla fine della guerra 160.000 arabi rimasero all’interno di Israele. Questa è un’espulsione? Se ci fosse stata una politica di espulsione, chiede, come è possibile che siano rimasti così tanti palestinesi? Ciò mi ricorda quello che hanno scritto i negazionisti dell’Olocausto nei primi anni dopo la II guerra mondiale. Una soluzione finale? Di cosa state parlando? Com’è possibile che centinaia di migliaia di ebrei siano rimasti in ogni Paese europeo, e milioni in Unione Sovietica? Forse, sostengono questi antisemiti, molte centinaia di migliaia morirono per le dure condizioni in vari posti – ma…camere a gas e uccisioni di massa?

Ovviamente nessuna ricerca è priva di errori e di affermazioni imprecise. Questo è vero anche per la ricerca di Manna, e Morris cita alcune di queste. Ma il libro di Manna è un importante contributo allo studio della tragedia palestinese e soprattutto una rara opportunità per il lettore ebreo di comprendere gli aspetti umani della grande catastrofe che l’indipendenza nazionale del suo popolo ha inflitto a membri di una nazione che ha vissuto in questo Paese per molti anni prima di essa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il video di Netanyahu sulla “pulizia etnica” viene criticato duramente dal Dipartimento di Stato

Mondoweiss, 9 settembre 2016

Philip Weiss

 

Oggi il primo ministro Benjamin Netanyahu ha postato un altro dei suoi video in inglese riguardo al conflitto. Nel video si sostiene che quelli che vogliono creare uno Stato palestinese propugnano la “pulizia etnica” degli ebrei dai territori occupati e che alcuni Stati di larghe vedute appoggiano un simile piano

[Dal video di Netanyahu]

Ma la leadership palestinese chiede addirittura lo Stato palestinese a una condizione: senza ebrei. C’è una definizione per questo: pulizia etnica. E questa richiesta è vergognosa. È ancora più vergognoso che la comunità internazionale non la consideri tale. Alcuni Paesi, peraltro di ampie vedute, promuovono addirittura questa vergogna. Vi siete mai chiesto se accettereste la pulizia etnica nel vostro Paese? Un territorio senza ebrei, ispanici, neri? Da quando in qua la xenofobia è una base per [ottenere] la pace?…Penso che sia l’intolleranza verso gli altri ad ostacolare la pace”

 

E il Dipartimennto di Stato [USA] è stato veloce oggi nel criticare il primo ministro, riportando una descrizione della vera pulizia etnica, quella dei palestinesi. Segnali di una nuova fermezza dell’amministrazione Obama nei suoi ultimi giorni?

[Dalla conferenza Stampa del Capo dell’Ufficio Stampa del Dipartimento di Stato USA ndt]

Sig.[Elisabeth]Trudeau. Abbiamo visto il video del primo ministro israeliano. Naturalmente noi dissentiamo fortemente dall’idea che coloro che si oppongono alla colonizzazione o che la percepiscono come un ostacolo alla pace in qualche modo propugnano la pulizia etnica degli ebrei dalla Cisgiordania. Noi crediamo che l’uso di quel tipo di terminologia è inopportuno e dannoso. La questione delle colonie deve essere risolta nella parte finale dei negoziati tra le due parti. Noi condividiamo la visione di tutte le passate amministrazioni USA e la forte opinione della comunità internazionale che la continua colonizzazione è un ostacolo alla pace. Noi continuiamo ad appellarci a entrambe le parti affinché dimostrino con azioni e con iniziative politiche una sincera adesione alla soluzione dei due Stati.

Abbiamo più volte manifestato la nostra forte preoccupazione per il fatto che la politica del fatto compiuto si muove nella direzione opposta. Per essere chiari: il fatto indiscutibile è che già quest’anno migliaia di unità abitative nelle colonie sono state programmate per gli israeliani nella Cisgiordania , avamposti illegali e unità coloniali non autorizzate sono stati retroattivamente legalizzati, più terra della Cisgiordania è stata confiscata per l’uso esclusivo degli israeliani e c’è una drammatica crescita delle demolizioni risultante in più di 700 strutture palestinesi distrutte, con l’espulsione di più di 1000 palestinesi. Come abbiamo già detto molte volte, ciò solleva reali domande circa le intenzioni di Israele sul lungo periodo rispetto alla Cisgiordania.

Domanda: Quindi a lei il video non è piaciuto molto, giusto?

Sig. Trudeau: Giusto

D. Per cui avete – non lei personalmente, ma l’amministrazione – chiarito le vostre impressioni, oltre ai suoi commenti in questo momento, agli israeliani?

Sig. Trudeau: Sì. Stiamo parlando direttamente con il governo israeliano su questo.

D. Voglio dire, c’è qualcosa che lei possa fare? Cioè , lui ha detto questo, sembra che ci creda ed è un punto di vista abbastanza forte. Anche se lei dissente da ciò, cosa gli ha chiesto di fare? Voglio dire, gli avete chiesto di tornare completamente sui suoi passi oppure..

Sig. Trudeau: Non voglio entrare nelle nostre discussioni diplomatiche. Quello che posso dire è: inopportuno , inutile. Parleremo con i nostri alleati e amici israeliani e vedremo cosa ne esce.

Mondoweiss: Notate il riferimento alle demolizioni delle case e ai 1000 palestinesi sfollati.

Questo è un punto di partenza.

Traduzione di Carlo Tagliacozzo




Rapporto OCHA sulla settimana 8- 14 marzo

Il 12 marzo, ad est di Beit Lahia (Gaza), due fratelli (9 e 6 anni) sono morti ed altri due loro fratelli (12 e 2 anni) sono rimasti feriti nel crollo del tetto della loro casa, colpita dai detriti scagliati da una esplosione nel vicino sito di addestramento militare [palestinese] bersagliato da un attacco aereo israeliano.

Nello stesso giorno, nel corso di un altro attacco aereo, è stato ferito un altro minore. Secondo i media israeliani, gli attacchi aerei sono stati la risposta al lancio di un razzo contro il sud di Israele, effettuato il giorno precedente da fazioni palestinesi; lancio che non aveva provocato feriti, né danni.

Durante la settimana sono stati registrati dieci attacchi palestinesi contro israeliani: speronamenti con auto, attacchi e presunti attacchi con armi da fuoco e armi da taglio; complessivamente hanno causato la morte di un turista e il ferimento di 19 israeliani. Le forze israeliane hanno ucciso dieci dei presunti responsabili, tra cui due minori di 16 e 17 anni ed una donna, e ferito un passante. Due degli episodi hanno avuto luogo in Israele, i rimanenti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Inoltre, un colono israeliano è stato ferito e un veicolo danneggiato in due episodi consistenti nel lancio di pietre e nel lancio di una bomba incendiaria. Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani [1], di un cittadino straniero e di 41 palestinesi presunti responsabili, tra cui 12 minori e tre donne.

In seguito a quattro degli attacchi di cui sopra, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoint agli ingressi principali dei villaggi ove risiedevano i presunti responsabili, e cioè: Az Zawiya (Salfit), Hajja (Qalqiliya), Qabalan (Nablus) e Beit Ur at Tahta ( Ramallah); quest’ultimo blocco ha interrotto anche la strada principale tra Ramallah ed altri cinque villaggi. Le restrizioni sono durate per 4-5 giorni, interrompendo l’accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro.

In conseguenza di uno degli attacchi verificatosi a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno espulso da Gerusalemme la famiglia del responsabile (10 persone, di cui 7 minori) e li hanno informati che la loro richiesta di unificazione famigliare era stata respinta. I quattro figli e figlie maggiori, insieme alla madre, sono stati trasportati dalla polizia israeliana al checkpoint di Qalandiya con l’ordine di allontanarsi, mentre il padre è rimasto sotto la custodia della polizia.

Nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito la casa di famiglia del colpevole di un attacco verificatosi nel mese di novembre 2015, sfollando una famiglia di sei persone, tra cui tre minori. Nei villaggi di Hajja (Qalqiliya), Az Zawiya e Mas-ha (questi ultimi a Salfit), sono stati emessi ordini di demolizione punitiva, o avviate valutazioni preliminari, contro le case degli autori di tre degli attacchi di questa settimana. Nel mese di novembre 2014, il Coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale. “

Attualmente sono trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di 13 palestinesi, presunti responsabili di attacchi contro israeliani; tra essi i corpi di quattro dei palestinesi uccisi in questa settimana; gli altri nove corpi trattenuti sono di palestinesi uccisi nel corso di episodi avvenuti negli ultimi cinque mesi.

Gli scontri con le forze israeliane nei Territori palestinesi occupati hanno provocato il ferimento di 119 palestinesi, tra cui 28 minori. Tre dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale; i rimanenti in Cisgiordania. Oltre il 40% di tutte le lesioni sono state riportate durante un singolo episodio verificatosi a Betlemme, nei pressi della Tomba di Rachele. Circa il 70% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente trattamento medico; le rimanenti da proiettili di arma da fuoco, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Un quindicenne è rimasto ferito manipolando proiettili inesplosi abbandonati dalle forze israeliane durante una esercitazione militare nei pressi della comunità pastorizia di Ibziq (Tubas).

Durante la settimana sono stati registrati tre attacchi di coloni israeliani contro palestinesi con conseguenti lesioni o danni: un attacco incendiario contro una casa vicino al villaggio di Al-Khader, a Betlemme (il secondo attacco in una settimana) e, nel villaggio Aqraba (Nablus), il danneggiamento di oltre 70 alberi da parte di coloni che hanno lasciato pascolare liberamente il loro bestiame su terre di proprietà palestinese. Inoltre, in Gerusalemme Ovest, un palestinese di 40 anni è stato aggredito da un gruppo di israeliani mentre era al lavoro.

Il 10 marzo 2016, 234 ettari di terra, a sud della città di Gerico, sono stati dichiarati dalle autorità israeliane “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti colonici israeliani. Il terreno in questione è adiacente alla colonia israeliana di Almog. In seguito a questa dichiarazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha sollecitato Israele a fermare le attività di insediamento.

Due operai palestinesi sono morti nel crollo di un tunnel per il contrabbando in costruzione sotto il confine con l’Egitto. Nel corso della settimana, altri sette operai sono stati posti in salvo dalla Protezione Civile Palestinese, nel contesto di un possibile allagamento delle gallerie da parte delle autorità egiziane. In un altro caso, un membro di un gruppo armato è morto in un tunnel ad est di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrate e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] Escludendo tre israeliani uccisi in un attentato perpetrato in Israele da un cittadino israeliano di origine palestinese, successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo i media, il 17 marzo due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano vicino alla colonia di Ariel; gli stessi sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivol

 




Il mito che gli ebrei sono sempre vittime di persecuzioni, che siano o no occupanti.

Le persone non devono essere giudicate [soprattutto] nel momento del dolore, ma i familiari delle vittime che chiedono l’espulsione dei parenti dei terroristi denotano la stessa cecità della maggior parte degli ebrei israeliani.

di Amira Hass |

Haaretz

Data l’assenza della pena di morte in Israele, 18 parenti di 17 israeliani uccisi da palestinesi in 13 diversi attacchi hanno chiesto che le famiglie degli assalitori vengano puniti con l’espulsione “permanente”. In una lettera spedita ai ministri del governo e pubblicata sui siti di notizie, i parenti spiegano “che la vera punizione che gli assassini si meritano è la morte. Ma la pietas ebraica impedisce di farvi ricorso”. La lettera e la richiesta è stata anche firmata dalle famiglie di cinque ebrei assassinati da altrettanti assalitori uccisi sul luogo dell’aggressione.

La lettera giustamente sottolinea un fatto importante: tutti i mezzi di punizione e di deterrenza adottati da Israele finora non hanno arrestato l’ondata di attacchi solitari. Non lo hanno ottenuto l’uccisione sul posto degli assalitori o sospetti tali [uccisioni extragiudiziali, ndt], nè le demolizioni delle case dei loro familiari, né le condanne a lunghe detenzioni, né le restrizioni alla libertà di movimento dei parenti[degli assalitori].

La lettera non dice nulla riguardo a dove i familiari dovrebbero essere espulsi, ma un servizio della radio Arutz Sheva colma la lacuna e chiarisce che l’obiettivo è di espellerli da Israele. I firmatari non spiegano se intendono che anche la famiglia allargata – zie e zii, cugini- debba essere espulsa, o soltanto il nucleo familiare, in altre parole i genitori e i loro figli. E nemmeno entrano nei dettagli sulle modalità dell’espulsione, se debbano andarsene a piedi o con un pulmino.

I firmatari sanno che “ la famiglia che ha cresciuto ed educato l’assassino e gli ha insegnato ad odiare gli ebrei e ad ammazzare devono pagare il prezzo, fosse solo per il potere di deterrenza determinato da una tale espulsione”. Uno dei firmatari è un rabbino (Yehuda Henkin) e tre sono mogli di rabbini uccisi ( Neta Lavi, Noa Litman e Sarah Don).

La lettera è scritta nel linguaggio stereotipato che prevale da queste parti , riguardo agli “ebrei ammazzati in quanto ebrei”. La gente non dovrebbe essere giudicata quando è colpita da un lutto, ma i firmatari dell’appello per un’espulsione di massa dei palestinesi abbracciano il mito accettato non solo da loro o dalle famiglie ebree delle vittime, il mito che l’ebreo è sempre vittima della persecuzione, sia occupante o no, sia il potere militare o no.

Il fatto che nella loro lettera vi è una totale incapacità di comprendere la realtà della superiorità militare, diplomatica ed economica che ha permesso per 70 anni di espellere i palestinesi, rubare la loro terra, demolire le loro case e ammazzarli in linea con la legge, con l’ordinamento e con la democrazia per gli ebrei, non è dovuto al loro dolore personale; come la maggior parte degli ebrei israeliani, che hanno scelto di negarla, ignorano volutamente questa realtà. Dopo tutto se ne approfittano.

Infatti Ruthie Hasno, abitante a Kiryat Arba, il cui marito Avraham è stato travolto e ammazzato [da un auto], è convinta che quelli che hanno spedito la lettera parlino in nome di tutti. Ha detto a Arutz Sheva: “La richiesta di espellere i terroristi e le loro famiglie non solo viene dalle famiglie delle vittime ma anche dall’intero popolo ebraico. Tutto il popolo ebraico sta chiedendo inequivocabilmente l’espulsione di tutti i terroristi e di quelli che si sono macchiati del sangue ebraico. Non hanno nessun diritto e nessun posto in questo Stato”.

Sin dalla sua costituzione Israele è caratterizzata, dalle espulsioni di massa dei palestinesi dalla loro terra e dai tentativi di altre massicce espulsioni. I gerosolimitani sono sempre a rischio di espulsione. Dalla loro città e dalla loro terra. Imprigionando 1.8 milioni di palestinesi in una stretta striscia , il che non è sostenibile, Israele sta alimentando in circa il 40% della popolazione il desiderio di emigrare. Ciò è un tentativo indiretto di espulsione. Il sovraffollamento dei palestinesi nelle enclave A e B della Cisgiordania è il [risultato] del compromesso dei governi

a Oslo tra l’antico desiderio di espellere i palestinesi e la situazione diplomatica che lo rende impossibile.

L’attuale governo in ogni momento supera ogni limite, avendo l’approvazione dalla gente. Questa è la ragione per cui la lettera non deve essere sottovalutata come un grido di dolore di [alcuni] individui. È una pericolosa indicazione da parte di famiglie che non si discostano dall’opinione maggioritaria in Israele. “Che Benjamin Netanyahu faccia [le espulsioni] senza paura”, dice Ruthie Hasno. “Per questo l’abbiamo votato”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)