A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il leader palestinese imprigionato Marwan Barghouti è stato picchiato dalle guardie

Redazione di Middle East Monitor

19 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il famoso prigioniero politico palestinese Marwan Barghouti è stato aggredito con manganelli dalle guardie carcerarie israeliane e ha subito una emorragia a un occhio, hanno affermato la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e gli ex prigionieri e la famiglia di Barghouti, come riferito da Al-Arabi Al-Jadeed.

Barghouti, sessantaquattrenne, che è membro del comitato centrale di Fatah [storico partito politico palestinese che governa l’Autorità Palestinese, ndt.] è soggetto ad isolamento, torture ed umiliazioni, ha affermato sua moglie Fadwa Barghouti.

Fadwa ha spiegato che la vita di suo marito e di altri noti prigionieri sono in grave pericolo, aggiungendo che l’amministrazione carceraria israeliana “li brutalizza deliberatamente al fine di fiaccare il loro morale.”

Marwan è soggetto a continui attacchi, di cui abbiamo saputo [attraverso gli avvocati] il 6 e il 12 marzo e che gli hanno causato una emorragia in un occhio, mentre le forze repressive della prigione lo hanno costantemente minacciato,” ha aggiunto lei, spiegando che Marwan è stato spostato cinque volte durante gli ultimi tre mesi, ed ogni volta è stato aggredito e le sue condizioni carcerarie sono state rese più difficili.

In quattro prigioni è stato messo in isolamento, ha affermato, avvertendo che è stata scatenata una “vera e propria guerra” contro i prigionieri palestinesi e i loro leader, cosa che danneggia il loro morale.

Da parte sua, la campagna “Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici palestinesi liberi” ha affermato in una dichiarazione che i legali che hanno visitato la prigione di Megiddo hanno appreso del brutale attacco a Barghouti e ad altri importanti prigionieri da parte delle unità speciali di repressione della prigione, aggiungendo che molti di loro sono stati messi in isolamento.

La campagna ha affermato che è stata contattata da molte figure internazionali, inclusi diplomatici, parlamentari e istituzioni per i diritti umani, ed anche dai leader del movimento Fatah e delle fazioni Azione Nazionale e Islamica, che chiedono di fornire protezione al popolo palestinese, inclusi i prigionieri politici nelle carceri israeliane.

Barghouti è stato arrestato nel 2002 e in seguito è stato condannato a cinque ergastoli per le accuse di “uccisione e ferimento di israeliani.”

In parallelo con il massacro contro la Striscia di Gaza che ha ucciso più di 31.000 palestinesi, Israele ha incrementato le incursioni e gli arresti nella Cisgiordania occupata, arrestando più di 7.000 persone, contemporaneamente alla campagna di persecuzione dei prigionieri nelle carceri israeliane che dal 7 ottobre 2023 ha provocato la morte di almeno 13 prigionieri.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Craig Murray: Attivare la Convenzione sul genocidio

Craig Murray

19 novembre 2023 – Consortium News

Non c’è dubbio che il bombardamento da parte di Israele dei civili palestinesi e la privazione di cibo, acqua e altre necessità vitali costituiscano motivo per appellarsi alla Convenzione sul genocidio del 1948.

Sono 149 gli Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio. Ognuno di loro ha il diritto di segnalare pubblicamente il genocidio in corso a Gaza e di denunciarlo alle Nazioni Unite.

Nel caso in cui un altro Stato contraente contesti laccusa di genocidio, e Israele, Stati Uniti e Regno Unito sono tutti Stati contraenti, allora la Corte internazionale di Giustizia è tenuta a pronunciarsi sulla responsabilità dello Stato per genocidio”.

Questi sono gli articoli salienti della Convenzione sul Genocidio:

Articolo VIII

Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a intraprendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, le azioni che ritengono appropriate per prevenire e reprimere atti di genocidio o qualsiasi altro atto elencato nell’articolo III.

Articolo IX

Le controversie tra le Parti contraenti relative all’interpretazione, applicazione o adempimento della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per genocidio o per qualsiasi altro atto contemplato nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia su richiesta di una delle parti in causa”.

Si noti che qui parti in causa” significa gli Stati che contestano

le azioni genocidarie, non le parti coinvolte direttamente nel genocidio/conflitto. Ogni singolo Stato contraente può appellarsi alla convenzione.

Non c’è dubbio che le azioni di Israele equivalgano a un genocidio. Lo hanno affermato numerosi esperti di diritto internazionale e lintento genocida è stato espresso direttamente da numerosi ministri, generali e funzionari pubblici israeliani.

Definizione di Genocidio

Questa è la definizione di genocidio nel diritto internazionale in base alla Convenzione sul Genocidio:

Articolo II

Nella presente Convenzione per genocidio si intende qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:

(a) Uccidere membri del gruppo;

(b) Causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;

(c) Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;

(d) Imporre misure intese a impedire le nascite all’interno del gruppo;

(e) Il trasferimento forzato di bambini del gruppo in un altro gruppo”

Non vedo ragioni per mettere in dubbio che lattuale campagna israeliana di bombardamenti contro civili e di privazione di cibo, acqua e altri beni di prima necessità per i palestinesi equivalga a un genocidio ai sensi dell’articolo II a), b) e c).

Vale la pena considerare anche gli articoli III e IV:

Articolo III

Sono punibili i seguenti atti:

(a) Genocidio;

(b) Cospirazione per commettere un genocidio;

(c) Incitamento pubblico e diretto a commettere un genocidio;

(d) Tentativo di commettere un genocidio;

(e) Complicità nel genocidio.

Articolo IV

Saranno punite le persone che commettono un genocidio o uno qualsiasi degli altri atti elencati nellarticolo III, siano essi governanti costituzionalmente competenti, funzionari pubblici o privati”.

Esistono consistenti elementi di prova che le azioni degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altri nel fornire apertamente sostegno militare diretto da utilizzare nel genocidio rappresentino complicità nel genocidio.

Il significato dellArticolo IV è che gli individui, e non solo gli Stati, sono responsabili. Quindi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro britannico Rishi Sunak hanno una responsabilità individuale. Lo stesso vale in realtà per tutti coloro che chiedono l’annientamento dei palestinesi.

L’attivazione della Convenzione sul genocidio sarebbe decisamente opportuna. Una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che dichiarasse Israele colpevole di genocidio avrebbe uno straordinario effetto diplomatico e causerebbe difficoltà interne nel Regno Unito e persino negli Stati Uniti nel continuare a sovvenzionare e armare Israele.

Rapporto tra CIG e CPI

La Corte Internazionale di Giustizia è la più rispettata delle istituzioni internazionali; mentre gli Stati Uniti non hanno riconosciuto la sua competenza vincolante, il Regno Unito non lo ha fatto e lUE la recepisce concretamente.

Se la Corte Internazionale di Giustizia stabilisce [il verificarsi di] un genocidio, allora la Corte Penale Internazionale non è tenuta a stabilire se il genocidio sia [o meno] avvenuto.

Questo è importante perché, a differenza della prestigiosa e indipendente CIG, la CPI è in gran parte unistituzione fantoccio dei governi occidentali che se possibile se ne terrà fuori.

Ma una decisione della Corte Internazionale di Giustizia in merito al genocidio e alla complicità nel genocidio ridurrebbe il compito della Corte Penale Internazionale all’individuazione dei responsabili. Questa è una prospettiva che può effettivamente modificare i calcoli dei politici.

C’è anche il fatto che un riferimento al genocidio costringerebbe i media occidentali ad affrontare la questione e a usare il termine, invece di limitarsi a diffondere della propaganda sul fatto che Hamas abbia basi di combattimento negli ospedali.

Inoltre una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia farebbe automaticamente scattare un dibattito allAssemblea Generale delle Nazioni Unite e non al Consiglio di Sicurezza, bloccato dal veto occidentale.

Tutto ciò solleva la questione del perché nessuno Stato si sia ancora appellato alla Convenzione sul Genocidio. Ciò è particolarmente significativo, in quanto la Palestina è uno dei 149 Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio, e a tal fine avrebbe potuto presentarsi davanti sia alle Nazioni Unite che alla CIG.

Temo che la questione riguardante il motivo per cui la Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio ci porti dentro oscuri meandri. Chiunque, come me e George Galloway, si sia fatto le ossa nella politica di sinistra di Dundee degli anni 70 ha fatto propria (una lunga) esperienza legata ai rapporti con Fatah, e le mie simpatie sono sempre state fortemente rivolte a Fatah piuttosto che ad Hamas.

Lo sono ancora, insieme allaspirazione a una Palestina democratica e laica. È Fatah ad occupare il seggio palestinese alle Nazioni Unite, e la decisione che la Palestina attivi la Convenzione sul genocidio spetta al presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Ogni giorno è sempre più difficile sostenere Abbas. Sembra straordinariamente passivo, ed è impossibile scacciare il sospetto che sia più interessato a impedire una guerra civile palestinese che ad opporsi al genocidio.

Appellandosi alla Convenzione sul Genocidio potrebbe rimettere se stesso e Fatah al centro della narrazione. Ma non fa nulla. Non voglio credere che le motivazioni di Mahmoud risiedano nella corruzione e nelle promesse da parte del segretario di Stato americano Antony Blinken di ereditare Gaza. Ma al momento non posso aggrapparmi a nessunaltra spiegazione a cui dar credito.

Ciascuno dei 149 Stati aderenti potrebbe appellarsi alla Convenzione sul Genocidio contro Israele e i suoi complici. Tra di loro ci sono Iran, Russia, Libia, Malesia, Bolivia, Venezuela, Brasile, Afghanistan, Cuba, Irlanda, Islanda, Giordania, Sud Africa, Turchia e Qatar. Ma nessuno di questi Stati ha denunciato il genocidio. Perché?

Non è perché la Convenzione sul genocidio sia lettera morta. Non è così. È stata invocata contro la Serbia dalla Bosnia-Erzegovina e la Corte Internazionale di Giustizia si è pronunciata contro la Serbia in merito al massacro di Srebrenica. Ciò ha portato immediatamente ai procedimenti giudiziari da parte della CPI.

Alcuni Stati potrebbero semplicemente non averci pensato. Per gli Stati arabi in particolare, il fatto che la stessa Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio può fornire una scusa. Gli Stati dellUE possono nascondersi dietro lunanimità del blocco [occidentale].

Ma temo che la verità sia che nessuno Stato si preoccupa delle migliaia di bambini palestinesi già uccisi e delle migliaia di altri che lo saranno a breve tanto da introdurre un altro fattore di contrasto nelle loro relazioni con gli Stati Uniti.

Proprio come nel vertice dello scorso fine settimana in Arabia Saudita, dove i Paesi islamici non sono riusciti a concordare un boicottaggio sul petrolio e gas nei confronti di Israele, la verità è che chi è al potere non ha davvero a cuore un genocidio a Gaza. Si preoccupa dei propri interessi.

È sufficiente che uno Stato faccia ricorso alla Convenzione sul Genocidio per cambiare la narrazione e le dinamiche internazionali. Ciò avverrà solo grazie al potere delle persone di imporre tale idea ai propri governi. Questo è il modo in cui tutti possono fare qualcosa per aumentare la pressione. Per favore, fate il possibile.

Tanto di cappello all’infaticabile Sam Husseini, il giornalista indipendente che ha insistito sulla Convenzione sul Genocidio alla Casa Bianca.

Craig Murray è un autore, conduttore televisivo e attivista per i diritti umani. È stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dall’agosto 2002 all’ottobre 2004 e rettore dell’Università di Dundee dal 2007 al 2010. La sua attività giornalistica dipende interamente dal supporto dei lettori. Sono gradite sottoscrizioni per mantenere attivo questo blog.

Questo articolo è tratto da CraigMurray.org.uk.

Le opinioni espresse sono esclusivamente dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Consortium News.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’autoritarismo dell’ANP affonda le sue radici negli accordi di Oslo

Yara Hawari

13 settembre 2023 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese non è mai stata concepita per costituire un governo democratico e difendere gli interessi del popolo palestinese.

Il 13 settembre 1993 il leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca affiancati dal presidente americano Bill Clinton molto compiaciuto. Avevano appena firmato un accordo che sarebbe stato salutato come uno storico accordo di pace che avrebbe posto fine al “conflitto” decennale tra palestinesi e israeliani.

In tutto il mondo la gente festeggiò l’accordo che divenne noto come Accordi di Oslo. Fu ritenuto un grande successo diplomatico. Un anno dopo Arafat e Rabin ricevettero il Premio Nobel per la pace.

Molti palestinesi speravano anche di ottenere finalmente uno Stato sovrano, anche se avrebbe occupato meno del 22% della loro patria originaria. In effetti questa era la promessa degli Accordi di Oslo – un processo graduale verso uno Stato palestinese.

Trent’anni dopo i palestinesi sono più lontani che mai da un proprio Stato. Hanno perso ancora più terra a causa degli insediamenti israeliani illegali e sono costretti a vivere in bantustan sempre più piccoli in tutta la Palestina colonizzata. Ormai è chiaro che Oslo aveva il solo scopo di aiutare Israele a consolidare la sua occupazione e colonizzazione della Palestina.

Peggio ancora, ciò che i palestinesi ottennero dagli accordi di Oslo fu una forma piuttosto perniciosa di autoritarismo palestinese nei territori occupati nel 1967.

Uno dei termini dell’accordo era che alla leadership in esilio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sarebbe stato permesso di ritornare solo nei territori occupati da Israele nel 1967 – Cisgiordania e Gaza – e le sarebbe stato permesso di creare un governo ad interim noto come come Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per un periodo di cinque anni.

L’Autorità Nazionale Palestinese, composta da membri del partito di Arafat, Fatah, si assunse la responsabilità degli affari del popolo palestinese mentre l’occupazione militare israeliana rimaneva in vigore. Con il sostegno della comunità internazionale e del regime israeliano Arafat perseguì un governo basato sul clientelismo e sulla corruzione, con scarsa tolleranza per il dissenso interno.

Il successore di Arafat, il presidente Mahmoud Abbas, ha continuato sulla stessa strada. Oggi, all’età di 87 anni, non solo è uno dei leader più anziani del mondo, ma ha anche superato da più di 14 anni il suo mandato legale, nonostante il decrescente sostegno al suo governo da parte dei palestinesi.

Da quando è salito al potere Abbas ha più volte indetto in malafede delle elezioni, l’ultima delle quali nel gennaio 2021. Quell’anno le votazioni sono state infine cancellate dopo che l’Autorità Nazionale Palestinese ha accusato il regime israeliano di rifiutarsi di consentire la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata.

Questo succedersi di false promesse di elezioni soddisfa temporaneamente il desiderio della comunità internazionale per quella che chiama “democratizzazione” delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la realtà è che il sistema è così profondamente corrotto – in gran parte grazie agli Accordi di Oslo – che le elezioni porterebbero inevitabilmente alla continuazione delle strutture di potere esistenti o all’arrivo al potere di un nuovo leader autoritario.

Oltre ad avere un’avversione per le elezioni, Abbas ha anche lavorato sodo per erodere ogni spazio democratico in Cisgiordania. Ha unito tutti e tre i rami del governo – legislativo, esecutivo e giudiziario – in modo che non ci siano controlli sul suo potere. Avendo il controllo assoluto sugli affari palestinesi, governa per decreto. Negli ultimi anni ciò ha portato a processi decisionali sempre più assurdi.

L’anno scorso, ad esempio, ha sciolto il Sindacato dei Medici dopo che il personale medico aveva scioperato. Ha poi creato il Consiglio Supremo degli Organi e dei Poteri Giudiziari e se ne è nominato capo, consolidando così il suo potere sui tribunali e sul Ministero della Giustizia.

Più recentemente, il 10 agosto, ha costretto 12 governatori al pensionamento senza informarli. Molti dei licenziati hanno appreso delle loro dimissioni forzate dai media locali.

Per mantenere il potere Abbas dispone anche di un vasto apparato di sicurezza. Il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, finanziato e formato a livello internazionale, impiega il 50% dei dipendenti pubblici e assorbe il 30% del budget totale dell’Autorità Palestinese – più dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura messe insieme.

Questo apparato è responsabile di un’enorme quantità di violazioni dei diritti umani, tra cui l’arresto di attivisti, le minacce nei confronti dei giornalisti e la tortura dei detenuti politici.

In molti casi, la repressione da parte dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese è complementare a quella israeliana. Ad esempio, nel 2021, durante quella che divenne nota come Intifada dell’Unità [le mobilitazioni che nel maggio del 2021 coinvolsero anche i palestinesi cittadini israeliani, ndt.], molti attivisti furono arrestati e brutalmente interrogati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quest’anno, dopo l’invasione del campo profughi di Jenin da parte delle forze del regime israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato molti dei presenti sul campo che erano stati precedentemente incarcerati dagli israeliani in una pratica nota come “porta girevole”.

In effetti una delle clausole degli Accordi di Oslo era che l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse cooperare pienamente con il regime israeliano nelle questioni di “sicurezza”. Per soddisfare questa disposizione l’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ha lavorato sodo per sopprimere qualsiasi attività ritenuta una minaccia dal regime israeliano.

L’ANP consegna costantemente informazioni sulla sorveglianza dei palestinesi all’esercito israeliano e non fa nulla per contrastarne gli attacchi mortali contro villaggi, città e campi palestinesi che si ripetono a cadenze regolari. In effetti le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese lavorano fianco a fianco con il regime israeliano per reprimere la resistenza palestinese.

Infatti, date le disposizioni degli accordi di Oslo, l’Autorità Nazionale Palestinese non avrebbe potuto essere diversa. Un organo di governo responsabile nei confronti dei donatori internazionali che lo finanziano e del regime israeliano che mantiene il controllo finale non avrebbe mai potuto essere al servizio del popolo palestinese.

Sorprendentemente l’idea che gli accordi di Oslo siano stati un processo di pace ben intenzionato, ma fallito, ha ancora una forte presa in alcuni ambienti occidentali. La verità è che gli artefici di Oslo non erano interessati alla creazione di uno Stato palestinese o alla liberazione, ma volevano piuttosto trovare un modo per convincere la leadership palestinese ad accettare tranquillamente la capitolazione e a sopprimere ogni ulteriore resistenza della base.

Questi accordi hanno incoraggiato e sostenuto l’autoritarismo dell’ANP perché è funzionale a quegli obiettivi. In sostanza Oslo non ha portato la pace ai palestinesi, ma un altro grosso ostacolo alla loro liberazione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Gaza il soddisfacimento dei bisogni primari è parte integrante della nostra liberazione

Mohammed R. Mhawish

11 agosto 2023 – +972 Magazine

Le proteste nella Striscia assediata evidenziano perché la leadership palestinese, pur sotto occupazione, deve curarsi sia della resistenza che della governance.

La scorsa settimana il governatorato meridionale di Khan Younis e altre aree al centro della Striscia di Gaza hanno assistito a scene di tensione quando diverse migliaia di palestinesi sono scesi in piazza per protestare contro le frequenti interruzioni di corrente, la scarsità di cibo e in generale la durezza delle condizioni di vita. Con la marcia al grido di “Bidna N’eesh” (“Vogliamo vivere”) le proteste di massa costituiscono un’espressione significativa del risentimento pubblico accumulato per anni tra la popolazione sotto assedio.

In risposta hanno sfilato dei cortei a sostegno di Hamas, il partito islamista che governa la Striscia, inneggiando al governo e aggredendo chi non esprimeva sostegno al movimento. Secondo quanto riferito, poco dopo è intervenuta la polizia che ha confiscato i telefoni cellulari ed effettuato numerosi arresti.

Le proteste sono seguite a giorni di intensa frustrazione e contrarietà nei confronti del governo di Hamas, dopo che un abitante di Khan Younis è rimasto ucciso in seguito al crollo di uno dei muri della sua casa mentre le autorità locali tentavano di demolirlo col pretesto che fosse stato costruito su una via pubblica. Le autorità hanno affermato che la morte dell’uomo sarebbe stata un tragico incidente e hanno licenziato il sindaco del Comune responsabile.

Sembra che le marce, per la loro dinamicità, brevità e impatto diretto, siano coordinate da movimenti di base attraverso piattaforme online e social media. Diversi palestinesi che erano tra la folla mi hanno detto che le loro proteste derivano da una richiesta fondamentale riguardante i loro diritti umani di base, che comprendono necessità come i servizi pubblici, occupazione, libertà di viaggiare e la possibilità di intraprendere attività commerciali fuori dalla Striscia. Al momento in cui scrivo il governo di Hamas non ha reso pubblica alcuna prospettiva di soluzione a nessuna di queste rimostranze, né di risposta alla rabbia della gente.

L’energia elettrica è al centro delle richieste dei manifestanti. Per quanto la crisi energetica di Gaza preceda le attuali proteste, le ondate di caldo torrido che quest’estate hanno investito la regione hanno portato le temperature nella Striscia oltre i 38 gradi. Il caldo non ha fatto che accentuare il crescente malcontento tra i 2,3 milioni di palestinesi che vivono nel territorio, confinati in una striscia di terra di circa 360 km2 che dal 2007 è stata tagliata fuori in seguito ad un blocco israeliano che colpisce ogni aspetto della vita quotidiana.

Questa frustrazione collettiva si è accumulata nell’arco di un considerevole periodo di tempo, poiché la popolazione di Gaza deve sopravvivere con razionamento che va dalle quattro alle sei ore di elettricità al giorno. Per far fronte alle prolungate interruzioni di corrente alcune abitazioni e aziende ricorrono a generatori privati o pannelli solari. Per altri che non possono permettersi apparecchiature così costose, modeste lampadine LED alimentate a batteria forniscono un’illuminazione improvvisata, mentre altri ancora cercano di combattere il caldo facendosi vento con vassoi di plastica.

Secondo gli enti energetici locali durante la stagione estiva Gaza necessita di circa 500 megawatt di energia elettrica al giorno. Tuttavia attualmente riceve da Israele solo 120 megawatt, con l’ulteriore contributo di 60 megawatt proveniente dall’unica centrale elettrica dell’enclave, ripetutamente danneggiata dagli attacchi militari israeliani e indebolita dalle restrizioni sull’importazione di materiali edili. Ultimamente i filmati dei social media hanno mostrato Gaza avvolta nell’oscurità notturna con poche luci nelle sue città.

Mentre l’opinione pubblica e l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania attribuiscono le proteste di Gaza prevalentemente all’occupazione israeliana, molte persone credono che Hamas abbia ancora una certa possibilità, e l’obbligo, di avviare misure efficaci, anche aumentando la produzione e il funzionamento della centrale al massimo della potenza, soprattutto durante l’estate.

Sopportare il peso

Negli ultimi 16 anni Gaza è diventata un coacervo di avversità umanitarie, economiche e politiche. L’enclave ha vissuto diverse ondate di guerre mortali con Israele, la più devastante nell’estate del 2014. La chiusura imposta a tutti i valichi di Gaza ha fatto precipitare l’economia fino ad una condizione di degrado, portando a un forte aumento della disoccupazione e con conseguente grave scarsità di beni di prima necessità e altre risorse.

I palestinesi hanno dovuto attraversare divisioni significative all’interno della loro leadership politica, la più evidente delle quali rappresentata dagli scontri armati tra Fatah e Hamas nel 2007. Nelle elezioni parlamentari del 2006 Hamas assicurò la vittoria nei confronti delle altre fazioni arrivando a controllare la maggioranza in parlamento e la carica di primo ministro, mentre il leader di Fatah Mahmoud Abbas venne eletto alla presidenza.

Il governo palestinese venne subito sottoposto a sanzioni da parte di Israele, Stati Uniti e Paesi europei, con conseguente esacerbazione della rivalità tra fazioni che portò Hamas a conquistare Gaza. Da allora il territorio è sprofondato sotto il peso del rigido assedio israeliano.

Tuttavia le attuali manifestazioni a Gaza si distinguono per l’elevato livello di impegno pubblico e per il numero di manifestanti coinvolti. La gravità della situazione comprende molteplici aspetti e le condizioni di vita della popolazione stanno diventando sempre più difficili.

I palestinesi chiedono da tempo nuove elezioni generali esprimendo un’intensa richiesta di cambiamento. Eppure il sostegno pubblico ad Hamas a Gaza persiste e cresce la preoccupazione che le voci di coloro che cercano una qualche forma di cambiamento e ripristino dei propri diritti vengano soffocate, sia dalle autorità israeliane che da quelle palestinesi.

Ci sono diversi aspetti delle complessità in evoluzione tra gli attori politici palestinesi. Fatah e Hamas sono coinvolti in un continuo gioco di accuse reciproche, in quanto l’una attribuisce i problemi di Gaza all’altra. L’ANP sollecita Hamas a prendere iniziative, anche se ritiene principalmente responsabile Israele (con cui l’ANP collabora in base agli Accordi di Oslo) in quanto potenza occupante. Nel frattempo sono le persone a scontare le conseguenze e ad affrontare le deleterie ripercussioni, mentre continua la debole ricerca di una riconciliazione.

Ultimo ma non meno importante, il Jihad islamico, un tempo movimento marginale, è recentemente emerso come un attore significativo nel panorama geopolitico palestinese. Durante le ultime due guerre israeliane contro Gaza nell’agosto 2022 e nel maggio 2023 il Jihad islamico ha mostrato una capacità decisionale relativamente indipendente ed efficace sul fronte militare, sebbene cerchi ancora l’appoggio politico e militare di Hamas come autorità dominante.

Al di là della frammentazione sociale a Gaza e in Cisgiordania, un vincitore sta attualmente prendendo tutto: l’estrema destra israeliana, che mina incessantemente le fondamenta della lotta palestinese e porta avanti il suo progetto di disperdere permanentemente la popolazione palestinese in differenti enclave territoriali e politiche.

Sotto la guida di Benjamin Netanyahu l’attuale governo sta cogliendo ogni opportunità per consolidare la sua presenza in Cisgiordania. Ciò comprende la costruzione di insediamenti illegali, l’annientamento di qualsiasi tentativo di resistenza armata o popolare e l’annessione di terre e risorse palestinesi, indebolendo ulteriormente le basi di qualsiasi processo politico palestinese.

Un fronte unito per la liberazione

Le attuali proteste a Gaza riprendono indubbiamente le legittime richieste del popolo palestinese, meritevole e capace di forgiare un nuovo fronte unito verso la libertà e la dignità. Ma resta la domanda più importante: i leader palestinesi hanno la volontà di ascoltare queste richieste e di adottare misure efficaci per soddisfarle?

Sia gli osservatori esterni che quelli interni spesso attribuiscono le divisioni tra le fazioni palestinesi a contrastanti interessi politici e ideologici. Eppure tali differenze dovrebbero semmai gettare le basi e lo slancio per un’ampia coalizione politica che possa armonizzare i bisogni comuni con l’obiettivo della liberazione. Mentre alcuni sostengono che le fazioni palestinesi si stiano gradualmente riallineando contro Israele e non l’una contro l’altra, molti nutrono ancora un sentimento di perdita di speranza sulla possibilità di vedere un giorno una leadership unificata che comprenda le variabili della guerra e della pace, della resistenza e della governance, e che riunisca tutti i palestinesi sotto un’amministrazione unica.

A Gaza c’è una forte convinzione che avere una presenza armata che salvaguardi il diritto dei palestinesi all’autodifesa contro l’aggressione militare israeliana non dovrebbe mettere in secondo piano l’aspirazione delle persone a vivere con quel tanto di autonomia e agiatezza possibile sotto l’occupazione. L’obiettivo di rompere il blocco israeliano, un tempo il principale faro di speranza per la libertà a Gaza, si intreccia con la ricerca di soddisfare i bisogni di base all’interno dei confini di Gaza, come ad esempio altre due ore al giorno di accesso all’acqua potabile o all’elettricità.

Ciò è accompagnato dall’opinione diffusa che Hamas, come altre fazioni palestinesi, stia cercando di controllare e mettere a tacere l’attivismo e il dissenso di base, suscitando ulteriore irritazione nell’opinione pubblica. L’accoglimento a parole dell’idea di cambiamento da parte dei leader palestinesi non dovrebbe solo significare riconciliare le loro visioni contrastanti, ma anche smettere di nascondere sotto il tappeto le richieste collettive della gente per un futuro migliore.

In effetti l’intensificarsi degli attacchi israeliani contro tutti i palestinesi nell’intero Paese e l’obiettivo di disgregare la sfera pubblica a Gaza rendono queste proteste un momento ideale per riaffermare la necessità di una leadership palestinese unificata che possa progredire, dare priorità alla difesa dei valori umani e alle esigenze fondamentali della vita sotto occupazione e non tentennare tra rapidi mutamenti del panorama regionale e internazionale, che hanno messo in disparte le richieste di libertà e nel contempo di condizioni di vita dignitose dei palestinesi.

È ancora più importante che le attuali leadership, sia a Gaza che in Cisgiordania, si astengano dal governare con diktat e rispettino invece la volontà della maggioranza, osservando quadri normativi del Paese e la prospettiva della liberazione. È improbabile che il tentativo di forzare il cambiamento attraverso un conflitto aperto con una opinione pubblica scontenta abbia successo. Non è mai stato un metodo giusto o di successo per raggiungere l’autodeterminazione, specialmente sotto la guida di fazioni minoritarie frammentate, ognuna delle quali scandisce uno slogan diverso ed è apparentemente indifferente alla rappresentanza democratica. Ogni leader finisce per aggrapparsi al potere senza alcuna reale intenzione di migliorare e salvaguardare la vita dei propri elettori.

Per superare queste sfide i palestinesi devono essere in grado di esprimere critiche in consonanza coi simpatizzanti di ciascuna delle parti, dimostrando così la possibilità di essere uniti, piuttosto che limitarsi a dimostrare che i loro leader hanno torto. Le attuali proteste a Gaza e l’Intifada Unitaria scoppiata in tutta la Palestina due anni fa indicano la necessità di un tale percorso comune. Una volta che sarà stato veramente raggiunto, nessuna influenza esterna potrà impedire, ignorare o frammentare la sostanziale maggioranza delle persone che vogliono liberarsi dalla spirale dell’esclusione.

Fino ad allora il popolo palestinese merita la possibilità di affrontare il fondamentale dibattito su una tanto necessaria tabella di marcia politica in grado di determinare il destino della sua lotta. Mettendo da parte gli argomenti divergenti della realpolitik sul campo di battaglia interno e facendo ciò che può essere fatto per le persone con gli strumenti disponibili, solo allora i palestinesi potranno continuare ad essere saldi e fiduciosi di fronte ad una forza di occupazione.

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza. È uno degli autori del libro “A Land With A People – Palestines and Jews Confront Zionism” [Una terra con un popolo – palestinesi ed ebrei di fronte al sionismo, ndt.] (Monthly Review Press Publication, 2021).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il presidente palestinese Abbas licenzia 12 governatori dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e a Gaza

Jack Khoury

10 agosto 2023 – Haaretz

L’ufficio di Abbas comunica che otto governatori della Cisgiordania e quattro di Gaza sono stati ‘congedati.’ Gli esperti credono che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova leadership e mettere a tacer le critiche contro l’Autorità Palestinese

Giovedì il presidente palestinese Abbas ha destituito la maggior parte dei governatori distrettuali dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e alcuni anche a Gaza.

Secondo la dichiarazione rilasciata dall’ufficio di Abbas i funzionari “congedati” includono gli otto governatori di Jenin, Nablus, Tulkarem, Qalqilyah, Betlemme, Tubas, Hebron e Gerico. 

Abbas ha anche destituito quattro governatori che operano per conto dell’Autorità Palestinese a Gaza, sebbene nella Striscia controllata da Hamas siano privi di una reale autorità e abbiano un ruolo più che altro simbolico. In un comunicato dell’ufficio di Abbas si dice che una commissione capeggiata dal presidente esaminerà i candidati che fungeranno da nuovi governatori. 

Gli unici non destituiti sono il governatore di Ramallah, vicino ad Abbas, e i due di Salfit e Gerusalemme. Funzionari di alto livello dell’AP hanno detto ad Haaretz che Abbas sta anche prendendo in considerazione ulteriori e più ampi cambiamenti del governo.

Si dice che l’opinione pubblica palestinese sia stata colta di sorpresa dall’annuncio, poiché nessun media locale aveva anticipato nei suoi reportage tale decisione. Ci si aspettava che i cambiamenti fossero fatti nel governo, ma non specificatamente fra i governatori distrettuali dell’AP

Neppure i governatori sono stati informati in anticipo della decisione e l’hanno saputo da una nota ufficiale dell’agenzia di stampa palestinese. I funzionari avrebbero detto ai loro colleghi che rispetteranno la decisione, nonostante il modo in cui la notizia è stata fatta loro arrivare.

Politici al vertice di Fatah hanno riferito ad Haaretz che probabilmente la notizia delle destituzioni sarà accolta positivamente dall’opinione pubblica palestinese, poiché parecchi dei congedati avevano suscitato vaste critiche.

In Cisgiordania si pensa che la decisione sia un tentativo di Abbas di ridurre la disapprovazione della gente nei confronti dell’AP, cresciuta a causa delle attività di sicurezza. L’anno scorso, dopo l’arresto di tre palestinesi per possesso illegale di armi da parte delle forze dell’AP, uomini armati hanno aperto il fuoco contro il quartier generale dell’AP nella città cisgiordana di Jenin.

Secondo una dichiarazione dell’ufficio di Abbas, il comitato che consiglierà sulla sostituzione dei governatori include sia importanti funzionari dell’AP che membri di partiti indipendenti. Storicamente i governatori sono nominati personalmente dal presidente dell’AP, di solito perché vicini a politici di Fatah o all’ufficio del presidente.

Esperti stimano che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova dirigenza e placare le critiche contro l’AP.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La scomoda verità su Ain Al-Hilweh, capitale dello shatat e dell’agonia palestinese

Ramzy Baroud

8 agosto, 2023 , MiddleEastMonitor

Il campo profughi palestinese di Ain Al-Hilweh in Libano è noto come “capitale dello shatat palestinese”. Il termine potrebbe non suscitare molte emozioni tra coloro che non lo comprendono appieno né tantomeno hanno patito l’esperienza straziante della pulizia etnica e dell’esilio perpetuo, e della tremenda violenza che ne è seguita.Shatat è tradotto approssimativamente come “esilio” o “diaspora”.

Tuttavia il significato è molto più complesso. Può essere compreso solo con l’esperienza vissuta. Nemmeno allora è facile condividerne il senso. Forse i blocchi kafkiani di cemento, zinco e macerie, torreggianti uno sull’altro e che fungono da “rifugi temporanei” per decine di migliaia di persone, raccontano una piccola parte della storia.

Il 30 luglio è ripresa la violenza nell’affollatissimo campo palestinese; si è brevemente interrotta dopo l’intervento del Comitato Azione Congiunta Palestinese, poi è ripresa, mietendo la vita di 13 persone e continuando a crescere. Altre decine sono state ferite e a migliaia sono fuggite.

Tuttavia la maggior parte dei rifugiati è rimasta, perché diverse generazioni di palestinesi ad Ain Al-Hilweh comprendono che c’è un momento in cui la fuga non serve a niente poiché non garantisce né la vita né una morte dignitosa. I massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila del settembre 1982 testimoniano questa presa di coscienza collettiva.

Prima di scrivere questo articolo ho parlato con diverse persone nel sud del Libano e ho passato in rassegna molti articoli e rapporti che descrivono ciò che sta accadendo ora nel campo. La verità è ancora sfocata o, nella migliore delle ipotesi, frammentaria.

Sui media arabi si è spesso relegato Ain Al-Hilweh a rappresentazione simbolica della profonda sofferenza palestinese. I principali media occidentali non si sono mai preoccupati della sofferenza palestinese ma si concentravano principalmente sull’”illegalità” del campo, sul fatto che sia al di fuori della giurisdizione legale dell’esercito libanese e sulla proliferazione di armi tra i palestinesi e le altre fazioni al suo interno, tutte impegnate in lotte intestine apparentemente infinite e presumibilmente inspiegabili.

Ma Ain Al-Hilweh, come gli altri undici campi profughi palestinesi in Libano, racconta una storia completamente diversa, più urgente del mero simbolismo e più logica dell’essere il risultato di rifugi illegali. È essenzialmente la storia della Palestina, o meglio, della distruzione della Palestina per mano delle milizie sioniste nel 1947-48. È una storia di contraddizioni, orgoglio, vergogna, speranza, disperazione e, in ultima analisi, tradimento.

Non è facile seguire la cronologia degli eventi prima dell’ultimo scoppio di violenza.

Alcuni suggeriscono che i combattimenti siano iniziati quando è stato compiuto un tentativo di omicidio – attribuito ai combattenti di Fatah nel campo – contro il leader di un gruppo islamista rivale. Il tentativo è fallito ed è stato seguito da un’imboscata in cui presunti islamisti hanno ucciso un alto comandante di Fatah e molte delle sue guardie del corpo.

Altri suggeriscono che l’assassinio del generale della Sicurezza Nazionale palestinese Abu Ashraf Al-Armoushi sia stato del tutto ingiustificato. Altri ancora, tra cui il primo ministro libanese Najib Mikati, hanno accusato forze esterne e i loro “ripetuti tentativi di usare il Libano come campo di battaglia per il regolamento dei conti”.

Ma chi sono queste entità, e qual è lo scopo di tali intrusioni?

Le cose si complicano. Sebbene impoverito e sovraffollato, Ain Al-Hilweh, come altri campi palestinesi, è uno spazio politico molto conteso. In teoria, questi campi hanno lo scopo di consolidare e proteggere il legittimo diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. In pratica, vengono utilizzati anche per minare questo diritto sancito a livello internazionale.

L’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas, ad esempio, vuole assicurarsi che i lealisti di Fatah dominino il campo, da cui il suo lavoro per negare ai rivali palestinesi qualsiasi ruolo nel sud del Libano.

Fatah è il più grande gruppo palestinese all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Domina sia l’OLP che l’ANP. In passato, il gruppo ha perso il suo dominio su Ain Al-Hilweh e altri campi. Per Fatah la lotta per il predominio in Libano è costante.

Ain Al-Hilweh è importante per l’ANP anche se l’OLP sotto la guida di Abbas ha ampiamente rinnegato i rifugiati del sud del Libano e il loro diritto al ritorno e si è concentrato principalmente sul governo di specifiche regioni della Cisgiordania sotto gli auspici dell’occupazione israeliana.

Tuttavia i rifugiati in LIbano rimangono importanti per l’ANP principalmente per due motivi: uno, come fonte di legittimazione per Fatah e due per prevenire, in Libano come ovunque, qualsiasi critica, per non parlare della resistenza, nel campo palestinese sostenuto dall’Occidente.

Nel corso degli anni centinaia di rifugiati di Ain Al-Hilweh sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani così come nelle lotte intestine palestinesi-libanesi e palestinesi-palestinesi. Israele ha commesso gran parte delle uccisioni per garantirsi che la resistenza palestinese in Libano fosse eliminata alla fonte. Il resto della violenza è stato compiuto da gruppi che cercavano il dominio e il potere a volte per se stessi ma spesso come milizie per procura di poteri esterni.

Intrappolate nel mezzo ci sono 120.000 persone – la popolazione stimata di Ain Al-Hilweh – e, per estensione, tutti i rifugiati palestinesi del Libano.

Tuttavia non tutti gli abitanti di Ain Al-Hilweh sono rifugiati palestinesi registrati. Questi ultimi sono stimati dall’URWA, l’agenzia delle Nazioni Unite creata per prendersi cura dei profughi palestinesi, in circa 63.000. Gli altri sono fuggiti lì dopo l’inizio della guerra siriana, che ha fatto aumentare la popolazione dei campi libanesi e acuito le tensioni esistenti.

L’intrappolamento dei rifugiati, tuttavia, è molteplice: è l’effettivo confinamento fisico dettato dalla mancanza di opportunità e integrazione nella società libanese tradizionale, è il grande rischio nel lasciare il Libano come rifugiati clandestini contrabbandati attraverso il Mediterraneo e la sensazione, soprattutto tra le generazioni più anziane, che lasciare il campo equivalga al tradimento del Diritto al Ritorno.

Tutto questo accade in un contesto politico in cui la leadership palestinese ha completamente rimosso i rifugiati dai suoi calcoli, e l’Autorità Nazionale Palestinese vede i rifugiati solo come pedine in un gioco di potere tra Fatah e i suoi rivali.

Per decenni Israele ha cercato di liquidare la discussione sui rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno. I suoi continui attacchi ai campi profughi palestinesi nella stessa Palestina e i suoi interessi per ciò che sta accadendo nello shatat fa parte della sua ricerca per scuotere le fondamenta stesse della causa palestinese.

Le lotte intestine ad Ain Al-Hilweh, se non riportate sotto controllo totale e duraturo, potrebbero alla fine far ottenere a Israele esattamente ciò che vuole: presentare i profughi palestinesi come un rischio per i paesi ospitanti e, in ultima analisi, distruggere la “capitale dello shatat” insieme alla speranza di quattro generazioni di profughi palestinesi di tornare, un giorno, a casa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Palestinese ucciso in un attacco di coloni in un villaggio della Cisgiordania

Redazione Al Jazeera

21 giugno 2023 – Al Jazeera

Gli abitanti di Turmus Ayya dicono che 400 coloni hanno marciato lungo la strada principale del villaggio dando fuoco a automobili, case e alberi.

Mentre si intensifica la violenza nei territori occupati, il giorno dopo che un miliziano di Hamas ha ucciso quattro israeliani, un palestinese è stato colpito a morte in un villaggio della Cisgiordania attaccato dai coloni.

Omar Qattin, di 27 anni, è stato ucciso quando centinaia di coloni israeliani mercoledì hanno assalito il villaggio di Turmus Ayya ed hanno incendiato decine di auto e case.

Qattin aveva due figli e lavorava come elettricista per il comune.

Stava semplicemente là, inoffensivo. Era un bravo ragazzo. Non aveva pietre. Era del tutto disarmato. Si trovava almeno a un chilometro di distanza dai soldati”, dice Khamis Jbara, un suo vicino. “Lavorava dalle 6 del mattino alle 6 del pomeriggio. Era un uomo pacifico.”

Non è chiaro se Qattin sia stato ucciso da un colono o da un soldato. I testimoni hanno detto ai media locali che parecchi coloni hanno sparato contro gli abitanti del villaggio mentre un forte contingente di truppe israeliane vi faceva irruzione.

La Mezzaluna Rossa ha detto all’agenzia di notizie palestinese Wafa che molti coloni hanno impedito alle ambulanze di raggiungere la cittadina per curare i feriti.

Terrorismo appoggiato dal governo’

Abitanti palestinesi e associazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’incapacità o la non volontà di Israele di fermare gli attacchi dei coloni. Quanto all’assalto di mercoledì, gli abitanti di Turmus Ayya hanno detto che circa 400 coloni hanno marciato lungo la via principale, incendiando auto, case e alberi.

Il sindaco Lafi Adeeb ha detto alla Wafa che 12 abitanti sono stati feriti da proiettili veri e più di 60 veicoli e 30 case sono stati dati alle fiamme.

Un’ora fa gli attacchi sono aumentati anche dopo che è arrivato l’esercito”, ha detto.

I coloni hanno incendiato anche vaste aree di terreni agricoli, ha aggiunto Adeeb.

Ha chiesto alla comunità internazionale di dare protezione ai palestinesi, sottolineando che Turmus Ayya è circondato da parecchi insediamenti illegali ed è quotidianamente esposto agli attacchi dei coloni.

Per il diritto internazionale le colonie israeliane sono illegali. Tuttavia il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato piani per la costruzione di 1.000 nuove unità abitative nella colonia di Eli in risposta all’uccisione nelle sue vicinanze di quattro israeliani da parte di due palestinesi armati nella giornata di martedì. I sospetti aggressori sono stati in seguito uccisi.

La nostra risposta al terrorismo è colpirlo duramente e costruire il nostro Paese”, ha detto Netanyahu, il cui governo di estrema destra è dominato da leader e sostenitori dei coloni.

La sua affermazione è giunta giorni dopo che il governo ha dato al Ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich pieni poteri per accelerare la costruzione di insediamenti illegali, eludendo le misure in vigore da 27 anni.

Spianare la strada’

Le violenze di martedì hanno fatto seguito ad una sanguinosa incursione il giorno prima da parte delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin, in cui sono stati uccisi sette palestinesi e almeno 90 sono stati feriti in scene mai viste dallo scoppio della seconda Intifada, più di 20 anni fa.

Mercoledì a Jenin ragazze in uniforme scolastica hanno trasportato il corpo del loro compagno ucciso nel raid israeliano. Sadil Naghnaghiya, di 15 anni, è morto per le ferite da colpi di fucile subite durante l’attacco durato ore, ha affermato il Ministero della Sanità palestinese.

Gli abitanti palestinesi di Turmus Ayya, noto per l’alto numero di cittadini statunitensi, erano adirati e scioccati dopo la violenza dei coloni.

Le strade erano ingombre di alberi sradicati, mobili da giardino bruciati e scheletri di veicoli incendiati. Almeno una casa è stata completamente divorata dalle fiamme, il soggiorno annerito e i mobili ridotti in cenere.

È stato terrificante. Abbiamo visto per strada gruppi di persone mascherate e armate”, afferma Mohammed Suleiman, un palestinese americano di 56 anni che vive a Chicago ed era in visita nel suo paese natale.

Dice che suo fratello, che si trova attualmente a Chicago, è il proprietario di una delle case bruciate.

Suleiman accusa l’esercito israeliano di non aver disinnescato la situazione, sostenendo che i soldati hanno puntato le armi contro gli abitanti palestinesi invece che contro i facinorosi che marciavano nella città con fucili e bombe molotov, gettando benzina e dando fuoco ad ogni cosa sul loro cammino.

L’esercito ha letteralmente spianato loro la strada”, dice Suleiman.

Abdulkarim Abdulkarim, un residente dell’Ohio di 44 anni, afferma che le quattro auto della sua famiglia sono state distrutte e la loro casa danneggiata. “Ci sentiamo completamente in pericolo”, dice, visibilmente scosso. “Ci chiamano terroristi, ma qui c’è il terrorismo sostenuto dal governo.”

Crimine odioso’

Gli attacchi dei coloni hanno riportato alla memoria l’assalto di febbraio, in cui decine di auto e case sono state incendiate nella cittadina di Huwara dopo l’uccisione di due fratelli israeliani da parte di un uomo armato palestinese.

Le organizzazioni palestinesi hanno condannato la violenza a Turmus Ayya.

L’aggressione da parte di bande di coloni terroristi pesantemente armati contro i nostri villaggi e città palestinesi che terrorizzano i cittadini inermi costituisce una pericolosa escalation e un crimine odioso che viene perpetrato con l’incitamento e il sostegno del governo fascista di occupazione, che ha la piena responsabilità per le sue conseguenze”, ha affermato in una dichiarazione Hamas, che governa la Striscia di Gaza.

Da parte sua il partito Fatah, che guida l’Autorità Nazionale Palestinese, ha chiesto ai palestinesi di “affrontare i sistematici attacchi dei coloni che sono condotti con la complicità dell’esercito di occupazione”, sottolineando che la violenza dimostra che il governo israeliano, che è composto da “accaniti coloni ed estremisti”, intende provocare un’escalation.

Il portavoce della Jihad Islamica palestinese Jihad Selmi ha affermato che le colonie illegali sono “un legittimo obbiettivo della resistenza” ed ha definito gli attacchi israeliani “terrorismo crescente”.

L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Nablus i palestinesi hanno scioperato contro le uccisioni da parte di forze israeliane

Redazione di The New Arab

12 marzo 2023 – The New Arab

Domenica, dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo con palestinesi a bordo nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus, i negozi sono rimasti chiusi.

Domenica nella città cisgiordana di Nablus i palestinesi hanno scioperato contro l’uccisione di tre palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane all’inizio della giornata.

I negozi sono rimasti chiusi dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo in cui viaggiavano tre palestinesi nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che nell’attacco sono rimasti uccisi tre palestinesi, tra cui un diciottenne. Ha informato che i loro corpi sono stati sequestrati dalle forze israeliane.

Una fonte ha detto al servizio in lingua araba Al-Araby al-Jadeed di The New Arab che durante l’attacco un palestinese, identificato come Ibrahim al-Awartani, è stato arrestato.

Secondo il ministero della Sanità palestinese le morti di domenica hanno portato a 84 il numero totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane da gennaio.

Il coordinatore di una campagna nazionale per la restituzione di corpi palestinesi tenuti da Israele, Hussein Shujaia, ha detto ad Al- Araby Al-Jadeed che il numero dei corpi di palestinesi trattenuti dalle forze di occupazione dal 2015 è ora salito a 133, tra cui 19 trattenuti da gennaio.

Secondo un comunicato citato dall’agenzia di notizie palestinese Wafa, il movimento Fatah ha condannato l’attacco, che afferma essere stato un tentativo del governo israeliano di esacerbare la situazione.

Utilizzando una frase comunemente utilizzata dagli israeliani in riferimento ai palestinesi come “erbaccia” da tagliare, il comunicato afferma che “la cosiddetta politica di ‘falciare il prato’ praticata dalle forze di occupazione non intimidirà il nostro popolo.”

Il presidente del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndt.], Ruhi Fattouh, ha affermato che il governo israeliano deve essere chiamato a rispondere dell’uccisione dei palestinesi.

In una dichiarazione trasmessa dalla WAFA Fattouh ha detto: “Le forze di occupazione erigono barriere di morte agli ingressi delle città palestinesi per uccidere a sangue freddo cittadini con false accuse per giustificare le loro quotidiane esecuzioni sul campo.”

Fattouh ha sostenuto che le ripetute esecuzioni ai posti di controllo militari sono una chiara indicazione che le forze di occupazione “hanno istruzioni esplicite di uccidere” da parte del governo israeliano.

La violenza contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata è peggiorata da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu è tornato al potere in dicembre con una coalizione di governo insieme a ebrei ultra-ortodossi e alleati di estrema destra.

Associazioni per i diritti umani hanno spesso invitato le autorità di Tel Aviv a interrompere le “uccisioni illegali di palestinesi da parte di forze israeliane”, affermando che esse rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa succederà in Cisgiordania col proseguire dei raid israeliani?

Zena Al Tahhan .

10 gennaio 2023, Al Jazeera

Gli analisti affermano che la Cisgiordania palestinese si sta avvicinando a un bivio nella lotta contro l’occupazione.

 

Ramallah, Cisgiordania occupata – L’incertezza incombe sulla vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata da Israele.

Ci si aspetta che nel prossimo futuro a un certo punto la situazione sul campo imploderà.

Non è possibile prevedere quando e come ciò succederà, o quale sarà il fattore scatenante, ma diversi sviluppi sul campo nell’ultimo anno indicano che la Cisgiordania occupata si sta avvicinando a un serio cambiamento del suo status quo – politico e della sicurezza – attualmente insostenibile.

“Un conflitto palestinese e una ripresa della lotta contro l’occupazione [israeliana] sono inevitabili”, ha detto ad Al Jazeera Belal Shobaki, capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Hebron. “Credo sia verosimile che nel 2023 la situazione possa esplodere”.

Secondo le stime dell’apparato militare e di sicurezza israeliano, è inevitabile che la Cisgiordania vada alla fine verso la mobilitazione. Israele sta cercando di rimandare questo scenario il più a lungo possibile impiegando una strategia di contenimento e assorbimento”, prosegue.

Per ora dice: “Israele non sta concedendo una completa calma e non sta permettendo che le cose esplodano”.

Per quasi un anno la Cisgiordania occupata ha assistito a un aumento della violenza da parte dell’esercito israeliano con almeno 170 palestinesi, tra cui 30 bambini, uccisi nel 2022 durante i raid quasi quotidiani – il numero di vittime più alto in 16 anni secondo le Nazioni Unite. Anche gli attacchi sferrati contro i palestinesi da coloni ebrei nella Cisgiordania occupata sono notevolmente aumentati.

Le morti sono continuate nel 2023, con quattro palestinesi, tra cui tre bambini, uccisi nei primi cinque giorni durante i raid israeliani.

Molti degli uccisi nell’ultimo anno erano civili, mentre i raid e le uccisioni dell’esercito israeliano vengono ora condotti sotto la bandiera della repressione alla resistenza armata palestinese nella Cisgiordania settentrionale occupata.

Il nuovo governo israeliano di estrema destra insediatosi il mese scorso ha adottato misure punitive contro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e collocato figure controverse in posizioni chiave del controllo sui palestinesi, aumentando ulteriormente la prospettiva di un’esplosione sul campo.

Una nuova operazione militare?

Dal settembre 2021 si sono formati numerosi gruppi palestinesi armati relativamente piccoli e trasversali alle fazioni, principalmente nelle città di Jenin e Nablus. I gruppi sono limitati in termini di capacità e si concentrano sulla difesa delle aree in cui operano durante i raid militari israeliani, e compiono anche sparatorie ai posti di blocco militari israeliani.

Secondo il Ministero degli Esteri israeliano soltanto nel 2022 gli attacchi commessi dai palestinesi in Israele e nella Cisgiordania occupata hanno ucciso 29 persone.

Nell’ultimo anno è stata ripetutamente avanzata dagli osservatori la prospettiva che Israele lanci un’invasione su vasta scala delle città palestinesi come ha fatto nel 2002, o di una nuova Intifada (rivolta) palestinese.

Tuttavia, Abdeljawad Hamayel, accademico della Birzeit University, ha affermato di ritenere improbabile che Israele invada con tutta la sua forza a meno che non vi sia un cambiamento nella natura degli attacchi effettuati dai gruppi palestinesi.

La strategia [di Israele] è ora un misto di negoziazione e omicidi. I gruppi armati per parte loro non stanno effettuando attacchi in profondità in Israele. Ad esempio, se ci fossero attacchi nella zona costiera [dove sono città come Tel Aviv o Haifa, ndt.] allora potrebbero riconsiderare la cosa, perché allora avrebbero sufficiente volontà politica per eliminare questi gruppi”, ha detto Hamayel ad Al Jazeera.

I gruppi [armati] hanno creato zone di relativa libertà, ma non sono separati dal potere israeliano. Israele entra, arresta, compie omicidi e operazioni speciali in queste aree con la relativa immunità dei suoi soldati”, prosegue.

“Sì, stanno affrontando una potenza di fuoco e non possono arrestare le persone così facilmente come prima, ma queste zone sono comunque accessibili all’esercito israeliano che quindi non sente il bisogno di operare un’invasione su vasta scala”.

Per Shobaki, l’assenza di un reale coordinamento tra i gruppi armati e la violenza [israeliana] ancora in gran parte limitata alla Cisgiordania occupata significa che Israele è soddisfatto della sua attuale strategia.

La maggior parte dei punti di scontro sono stati nell’arena palestinese – all’interno dei villaggi e delle città, nei campi profughi, ai posti di blocco. Tutto questo sta accadendo in modo tale da non influire nella vita quotidiana dei coloni, e non è così costoso per l’occupazione israeliana quanto lo è per la vita dei palestinesi”, spiega.

Gaza e l’Autorità Nazionale Palestinese

Non è solo Israele che cerca di fermare qualsiasi sollevazione significativa nella Cisgiordania occupata.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), controllata dal partito Fatah, svolge un ruolo che la separa dagli altri gruppi palestinesi.

“Se guardiamo alla realtà della Cisgiordania occupata, abbiamo un gruppo di partiti che stanno cercando di cambiare la realtà anche se ciò significa un’esplosione nella Cisgiordania”, dice Shobaki. “Sono Hamas, la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP)”.

Sebbene molti membri dei nuovi gruppi armati siano affiliati a Fatah, rappresentano una forma di opposizione alla leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese, che collabora con l’esercito israeliano nel coordinamento della sicurezza per contrastare gli attacchi e condanna pubblicamente gli attacchi armati.

“Potremmo vedere sacche del movimento Fatah disertare e entrare a far parte della lotta armata contro l’occupazione israeliana, [lasciando spazio a] Hamas, Jihad islamica e FPLP perché si inseriscano“, afferma Shobaki.

Invece, molti dei nuovi gruppi armati sono affiliati al braccio armato della Jihad Islamica Palestinese (PIJ) con sede a Gaza – le Brigate al-Quds.

Israele ha preso di mira il PIJ ad agosto con un bombardamento di tre giorni sulla Striscia di Gaza assediata, uccidendo almeno 49 palestinesi, la maggior parte dei quali civili di cui 17 bambini.

Ma la natura di breve durata di quel conflitto, e l’assenza di un reale seguito, hanno portato gli osservatori a credere che nel prossimo periodo sia improbabile un’altra guerra israeliana su Gaza.

Invece gruppi come il PIJ, che ha stretti legami con l’Iran, hanno puntato sulla Cisgiordania occupata e l’ondata di disordini per fronteggiare Israele.

Parlando con Al Jazeera, il portavoce del PIJ a Gaza Tareq Silmi ha affermato che nell’ultimo anno il suo gruppo ha svolto “un ruolo speciale” nell’emergere dei nuovi gruppi armati in Cisgiordania.

“Non è un segreto che le Brigate Jenin [uno dei nuovi gruppi] siano affiliate alle Brigate al-Quds, l’ala armata della Jihad islamica”, ha detto Silmi, che ha aggiunto che il PIJ sta lavorando “24 ore su 24… per sostenere il fenomeno della resistenza armata in Cisgiordania”.

Cambierà il ruolo dell’ANP?

A parte la prospettiva di grandi defezioni dal movimento Fatah, gli analisti dicono che un altro scenario possibile è che Israele cambi proprio il ruolo della ANP.

Figure di estrema destra nel governo israeliano come Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich hanno espresso il loro disinteresse al fatto che l’ANP continui ad esistere.

Il 28 dicembre l’allora governo israeliano entrante dichiarò che la sua massima priorità era quella di “promuovere e sviluppare insediamenti in tutte le parti della terra di Israele”, inclusa la Cisgiordania occupata, ammettendo nascostamente di non aver intenzione di consentire la creazione di uno Stato palestinese.

“L’ANP dovrebbe prendere sul serio questo governo”, dice Hamayel. “Vogliono una ANP che non abbia rivendicazioni nazionali e che faccia il suo lavoro di gestione delle questioni civili nell’area”.

Vogliono un’ANP senza la ‘P’”, ha spiegato, aggiungendo che il governo israeliano vuole che “i palestinesi accettino la sovranità israeliana in Cisgiordania e in tutto il Paese, o se ne vadano – ciò che rappresenta il nucleo del movimento sionista stesso”.

Tutto ciò getta incertezza sul prossimo anno.

Anche se ci si aspetta che la Cisgiordania occupata sia il centro di qualsiasi imminente confronto palestinese con Israele, potrebbe non essere necessariamente questo il fattore scatenante.

La scorsa settimana, quando è giunta notizia che Ben-Gvir aveva in programma di entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, ci sono stati reali timori che la situazione esplodesse.

Alla fine, ciò non è accaduto e l’evento si è svolto senza alcuno scontro. Potrebbe non accadere lo stesso durante il prossimo incidente.

“La piazza si muove per ragioni emotive”, dice Shobaki. “Un singolo evento può spingerli [i palestinesi] a scendere in strada”.

Maram Humaid ha contribuito a questo articolo dalla Striscia di Gaza occupata.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)