Hamas è disponibile a sciogliere il comitato amministrativo se l’ANP interrompe ogni misura punitiva a Gaza.

Ma’an News

3 agosto 2017

Gaza (Ma’an) – In un tentativo di raggiungere la riconciliazione nazionale tra le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah in lotta tra loro e di ridurre una grave crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, il movimento Hamas ha annunciato giovedì [3 agosto]di essere pronto ad abolire il suo comitato amministrativo [il governo che di fatto gestisce il potere nella Striscia, ndt.] a Gaza, se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) dominata da Fatah dovesse ritirare ogni misura punitiva imposta negli ultimi mesi all’enclave costiera assediata.

In un comunicato il membro del comitato centrale di Hamas Salah al-Bardwil ha affermato che una volta che l’ANP “abbia assunto tutte le responsabilità a Gaza,” Hamas scioglierà il suo comitato amministrativo, che ha formato all’inizio dell’anno tra l’indignazione dell’ANP, che ha accusato Hamas di tentare di formare un governo ombra e rendere Gaza indipendente dalla Cisgiordania occupata.

Dopo l’annuncio [della formazione] del comitato amministrativo, l’ANP con sede a Ramallah è stata accusata di far precipitare deliberatamente l’impoverita Striscia di Gaza in una catastrofe umanitaria per impossessarsi del controllo del territorio togliendolo ad Hamas.

L’ANP ha deciso di ridurre drasticamente i finanziamenti per il carburante israeliano destinato all’enclave costiera, e nel contempo le autorità israeliane hanno acconsentito alle richieste dell’ANP di ridurre drasticamente la fornitura di elettricità a Gaza, che era già colpita dalla mancanza di disponibilità di elettricità e carburante.

Altre politiche messe in atto dall’ANP avrebbero incluso il presunto blocco dei trasferimenti per ragioni sanitarie dei pazienti di Gaza per ricevere trattamenti medici fuori dal territorio e il taglio dei finanziamenti al settore sanitario dell’enclave assediata, che ha visto il bilancio usuale di 4 milioni di dollari mensili del ministero della salute di Gaza crollare ad appena 500.000 dollari, che hanno anche gravemente esacerbato la drammatica situazione degli abitanti di Gaza.

Scatenando forse la maggior indignazione, ad aprile l’ANP ha fatto notevoli tagli agli stipendi dei suoi dipendenti a Gaza, dal 30% al 70% dei salari precedenti.

Giovedì Al-Bardwil ha chiesto che tutti questi interventi che sono stati imposti come ritorsione per la formazione del comitato amministrativo, una volta che questo venga sciolto, [siano ritirati e che] l’ANP si prenda la responsabilità di assumere e gestire gli attuali membri del comitato.

Ha chiesto a tutte le fazioni palestinesi di “iniziare immediatamente un dialogo nazionale per giungere ad un governo che rappresenti l’unità nazionale e dia al Consiglio Legislativo Palestinese (CLP) il potere per svolgere il proprio compito.

Al-Bardwil ha anche chiesto di organizzare elezioni presidenziali e legislative “da cui emerga il meglio per il popolo palestinese.”

“La posizione di Hamas è una risposta alla voce del popolo a Gerusalemme ed ovunque e la conferma dell’impegno di Hamas per l’ interesse nazionale e i precedenti accordi,” ha affermato al-Bardwil.

La dichiarazione di Al-Bardwil è arrivata un giorno dopo che il presidente Mahmoud Abbas si è incontrato a Ramallah con una delegazione di Hamas in Cisgiordania per discutere della riconciliazione nazionale.

Durante l’incontro Abbas avrebbe detto alla delegazione che “se Hamas scioglie il comitato amministrativo che ha formato per governare la Striscia di Gaza e consente al governo del primo ministro Rami Hamdallah di lavorare liberamente a Gaza, allora tutte le misure recentemente applicate alla Striscia di Gaza saranno ritirate.”

Rinnovati appelli per una riconciliazione nazionale sono sorti sull’onda di una massiccia campagna di disobbedienza civile di massa tra i palestinesi di Gerusalemme occupata per protestare contro le misure israeliane nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

In passato sono stati fatti numerosi tentativi di riconciliare Hamas e Fatah da quando si sono violentemente scontrati nel 2007, poco dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni generali del 2006 nella Striscia di Gaza.

Tuttavia la dirigenza palestinese ha ripetutamente mancato di portare a compimento le promesse di riconciliazione, mentre entrambi i movimenti si sono spesso scambiati l’accusa dei numerosi fallimenti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La politica miope di Abbas a Gaza

Tareq Baconi – 6 luglio 2017,Al-Shabaka

I tentativi del leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas di accentuare l’isolamento di Hamas – tagliando i salari e poi l’energia elettrica alla Striscia di Gaza – rispecchiano le dinamiche regionali nell’era Trump. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto si sono tutti mobilitati per isolare il Qatar, un importante investitore nella Striscia di Gaza e un sostenitore della Fratellanza Musulmana in Egitto e di Hamas a Gaza.

La crisi elettrica a Gaza è stata scongiurata, con un voltafaccia ironico, dalla volontà del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi di fornire carburante alla centrale elettrica di Gaza come misura temporanea nonostante le proteste di Abbas. La decisione è stata mediata da Mohammed Dahlan, storicamente nemico di Hamas, non da ultimo per il suo tentativo di togliere dal potere Hamas in seguito alla sua [di Hamas] vittoria nelle elezioni democratiche.

La maldestra strategia di Abbas

Abbas rimane legato al presupposto del blocco di Gaza, in atto dal 2007: questo crescente isolamento di Hamas e le sofferenze dei palestinesi di Gaza destabilizzeranno il governo di Hamas e provocheranno la ribellione dei palestinesi contro il movimento – anche se ciò dovesse portare a un “collasso totale”, come le organizzazioni per i diritti umani hanno definito la riduzione di elettricità.

Questa logica suppone che l’ANP sarebbe in grado di assumere l’amministrazione della Striscia di Gaza una volta che il potere di Hamas venisse indebolito. Ciò è improbabile per due ragioni:

  • Israele trae vantaggio dalla divisione geografica e politica nei territori palestinesi ed ha minato precedenti tentativi di unità, anche con un intervento militare. L’accordo di Shati [campo profughi nella Striscia di Gaza, ndt.] del 2014 tra Hamas e Fatah è stato una delle ragioni dell’attacco militare israeliano contro la Striscia di Gaza di quell’anno.

  • Il ritorno dell’ANP a Gaza implicherebbe una ripresa del coordinamento per la sicurezza con Israele. Perché ciò avvenga, Hamas dovrebbe disarmare. Ciò è improbabile persino con un ulteriore isolamento , in quanto ciò provocherebbe uno scontro esistenziale per Hamas, che potrebbe preparare la strada a un altro episodio di guerra civile armata.

Implicazioni delle ultime iniziative di Abbas

  • Esse dimostrano la volontà di Abbas di adottare la logica della punizione collettiva su cui poggia il blocco e di perpetuare le sofferenze di due milioni di palestinesi per interessi di fazione. Ciò è moralmente condannabile per un presunto leader della lotta dei palestinesi.

  • Istituzionalizzano le divisioni tra Gaza e la Cisgiordania, e portano Gaza ad avvicinarsi all’Egitto, aiutando a realizzare la politica israeliana di divide et impera nei territori palestinesi.

  • Creano una possibilità di alleanza tra Dahlan [ex-dirigente di Fatah a Gaza, espulso prima dalla Striscia insieme ai militanti del movimento e poi da Fatah ed attualmente in esilio, ndt.] e Hamas e un’opportunità per Dahlan di rientrare nel contesto politico palestinese, portando con sé la sua volontà di vedere la lotta palestinese attraverso le lenti della sicurezza imposte dagli USA e da Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

  • Chiedere conto alla dirigenza della Cisgiordania del fatto che utilizzi i palestinesi di Gaza come pedine del gioco politico, mettendo in luce l’illegalità del blocco come una continuazione dell’occupazione e una forma di punizione collettiva. In particolare i palestinesi dovrebbero chiedere, e ricordare, alla leadership in Cisgiordania che sono responsabili di tutti i palestinesi, compresi quelli di Gaza.

  • Spingere per misure economiche che riducano la crisi umanitaria a Gaza chiedendo al contempo una soluzione politica del conflitto in termini complessivi.

  • Garantire che ogni misura riavviata per affrontare l’impasse tra palestinesi ed israeliani non lasci ai margini la Striscia di Gaza o la presenti come un semplice problema umanitario che può essere gestito dall’Egitto o da un’autorità di autogoverno locale.

TareqBaconi

Tareq G. Baconi è un collaboratore politico di Al-Shabaka che risiede negli USA. Il suo libro in uscita, “Hamas: le politiche di resistenza, consolidamento a Gaza” sta per essere pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato in relazioni internazionali al Kings College di Londra, che ha completato insieme a un’attività di consulente energetico. Ha anche ottenuto titoli all’università di Cambridge (Relazioni internazionali) e all’Imperial College di Londra (Ingegneria chimica). Tareq è ricercatore associato presso “US Middle East Project [Progetto USA per il Medio Oriente, un istituto di analisi politica indipendente sul Medio oriente con sedi a New York e a Londra, ndt.]. I suoi scritti sono apparsi su Foreign Affairs, Sada: Carnegie Endowment for International Peace, The Guardian, The Huffington Post, The Daily Star, Al Ghad e Open Democracy.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Seguire il percorso della causa palestinese a partire dal 1967

Nadia Hijab, Mouin Rabbani, 5 giugno 2017 Al-Shabaka

Guardando al passato

Alla vigilia del 5 giugno 1967 i palestinesi erano dispersi tra Israele, la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est) governata dalla Giordania, la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto e le comunità di rifugiati in Giordania, Siria, Libano e altri Paesi più lontani.

Le loro aspirazioni di salvezza ed autodeterminazione poggiavano sugli impegni dei leader arabi a “liberare la Palestina” – che all’epoca si riferiva a quelle parti della Palestina mandataria che erano diventate Israele nel 1948 – e soprattutto sul carismatico leader egiziano Gamal Abdel-Nasser.

La Guerra dei Sei Giorni, che portò all’occupazione israeliana dei territori palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, delle alture del Golan siriane e della penisola del Sinai egiziana, apportò drastiche modifiche alla geografia del conflitto. Produsse anche un profondo cambiamento nella politica palestinese. Con una netta rottura rispetto ai decenni precedenti, i palestinesi divennero padroni del proprio destino invece che spettatori di decisioni regionali ed internazionali che influivano sulle loro vite e determinavano la loro sorte.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che era stata fondata nel 1964 sotto l’egida della Lega Araba nel suo primo incontro al vertice, nel 1968-69 fu surclassata dai gruppi guerriglieri palestinesi che si erano sviluppati clandestinamente dagli anni ’50, con a capo Fatah (il movimento nazionale di liberazione palestinese). La sconfitta araba del 1967 determinò un vuoto in cui i palestinesi riuscirono a ristabilire l’egemonia sulla questione della Palestina, a trasformare le componenti disperse della popolazione palestinese in un popolo unito e in un soggetto politico ed a porre la causa palestinese al centro del conflitto arabo-israeliano.

Questo, che è stato forse il più importante risultato dell’OLP, ha tenuto alto lo spirito della richiesta palestinese di autodeterminazione, nonostante la miriade di ferite inferte da Israele e da alcuni Stati arabi – e nonostante quelle autoinflitte. Le sconfitte subite dall’OLP sono state molte, anche se è riuscita a porre la questione palestinese ai primi posti dell’agenda internazionale. Vale la pena ripercorrere i successi e le sconfitte dell’OLP per comprendere in che modo il movimento nazionale palestinese è arrivato alla situazione attuale.

La prima vittoria dell’OLP ha anche gettato i semi di una sconfitta. La battaglia di Karameh del 1968 nella Valle del Giordano, in cui i guerriglieri e l’esercito giordano respinsero un corpo di spedizione israeliano molto più potente, guadagnò al movimento molti aderenti palestinesi ed arabi, sia rifugiati, sia guerriglieri, sia uomini d’affari di tutto lo spettro politico. Al tempo stesso, l’implicita minaccia alla monarchia hashemita era evidente e le relazioni palestinesi con la Giordania peggiorarono fino a che l’OLP venne espulso dalla Giordania durante il ‘settembre nero’ del 1970. Questo in pratica ha significato che l’OLP non ebbe più una potenzialità militare credibile contro Israele, ammesso che l’abbia mai avuta. Anche se i palestinesi avrebbero mantenuto un’estesa presenza militare in Libano fino al 1982, si trattava di una misera alternativa alla più lunga frontiera araba con la Palestina storica.

Durante la guerra dell’ottobre 1973, l’Egitto e la Siria ottennero parziali vittorie contro Israele, ma subirono anche gravi sconfitte, dimostrando che anche gli Stati arabi avevano solo limitate possibilità contro Israele. Al tempo stesso, il movimento nazionale palestinese raggiunse il suo culmine a livello internazionale con il discorso del defunto leader palestinese Yasser Arafat all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974, con il riconoscimento da quel momento dell’OLP come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. In quello stesso anno l’OLP iniziò anche a porre le basi per una soluzione di due Stati quando il suo parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, adottò un piano in 10 punti per istituire una “autorità nazionale” in ogni parte della Palestina che era stata liberata.

Il processo fu necessariamente dolorosamente lento, in quanto condusse la maggioranza dei palestinesi a riconoscere che un eventuale Stato palestinese non sarebbe stato stabilito sulla totalità dei territori del precedente mandato britannico. Dal 1974, l’accettazione del dato di fatto di Israele come Stato e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sarebbe progressivamente diventato l’obiettivo del movimento nazionale palestinese.

La visita a Gerusalemme dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat nel 1977, che condusse agli Accordi di Camp David del 1979 e al ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, completato nell’aprile del 1982, aprì la strada all’invasione israeliana del Libano nello stesso anno. Il principale obiettivo di Israele era estromettere l’OLP dal Paese e consolidare l’occupazione permanente dei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Con l’uscita dal conflitto del più potente degli Stati arabi, la capacità dell’OLP di ottenere una soluzione di due Stati fu gravemente compromessa ed il conflitto arabo-israeliano si trasformò gradualmente in un conflitto iasraelo-palestinese, molto più conveniente per Israele.

Mentre l’OLP cercava di riunificarsi in Tunisia ed in altri Paesi arabi, nei TPO ebbe luogo una delle più grandi sfide ad Israele, con lo scoppio della prima Intifada nel dicembre 1987, in gran parte guidata da una leadership cresciuta all’interno [della Palestina]. Ciò riportò in auge l’opzione di contrastare in modo vincente Israele sulla base di una mobilitazione di massa non violenta in dimensioni che non si vedevano più dalla fine degli anni ’30.

Tuttavia l’OLP si dimostrò incapace di capitalizzare il successo locale e globale della prima Intifada. Alla fine, la dirigenza dell’OLP in esilio mise i propri interessi, soprattutto l’ambizione di ottenere l’ appoggio dell’Occidente, ed in particolare dell’America, al di sopra dei diritti nazionali del popolo palestinese, espressi nella Dichiarazione di Indipendenza adottata nel 1988 ad Algeri.

Queste contraddizioni divennero palesi nel 1992-93, quando la dirigenza palestinese dovette scegliere se appoggiare la posizione negoziale della delegazione palestinese a Washington, che insisteva su una moratoria totale delle attività di colonizzazione israeliane [in Cisgiordania] come precondizione per accordi transitori di autogoverno, oppure condurre negoziati segreti con Israele che concessero molto meno, ma la riportarono ad una posizione di rilievo internazionale sulla scia del conflitto del Kuwait del 1990-91. In seguito agli accordi di Oslo del 1993, l’OLP riconobbe Israele e il suo “diritto ad esistere in pace e sicurezza”, nel contesto di un documento che non menzionava né l’occupazione, né l’autodeterminazione, né l’esistenza di uno Stato, o il diritto al ritorno. Prevedibilmente, i decenni seguenti hanno visto un’accelerazione esponenziale del colonialismo di insediamento israeliano e l’effettiva vanificazione delle intese per l’autonomia previste in vari accordi israelo-palestinesi.

Guardando avanti

Sotto alcuni aspetti, oggi la situazione è tornata al punto di partenza del 1967. Il movimento nazionale palestinese complessivamente unitario che è stato egemone dagli anni ’60 agli anni ’90 si è disintegrato, forse in modo definitivo. Oggi è diviso tra Fatah e Hamas, con quest’ultimo, insieme alla Jihad islamica, escluso dall’OLP, mentre dilagano le divisioni all’interno di Fatah e dell’OLP. I palestinesi a Gaza soffrono tremendamente sotto un assedio israeliano decennale, che sta peggiorando a causa delle pressioni su Hamas da parte dell’ANP e di Israele. I palestinesi nei campi profughi in Siria e in Libano stanno patendo terribilmente per la guerra civile in Siria e la precedente frammentazione dell’Iraq, ed anche per i conflitti tra differenti gruppi all’interno dei campi.

Quanto ad Israele, il 1967 lo ha trasformato da Stato della regione a potenza regionale. E’ impaziente di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo arabo, usando l’Iran come spauracchio per alimentare questa relazione. A sua volta, vuole usare tale alleanza per imporre un accordo ai palestinesi che di fatto perpetuerebbe il dominio israeliano, ottenendo un trattato di pace finale in cui manterrebbe il controllo della sicurezza nei TPO, conserverebbe le sue colonie e continuerebbe la colonizzazione.

Ma sul percorso di Israele verso la legittimazione dell’occupazione continuano a sussistere ostacoli, che mantengono aperta la porta ad un movimento e ad una strategia palestinesi per ottenere diritti e giustizia. Non è cosa da poco il fatto che, in un lasso di tempo di mezzo secolo, nessuno Stato abbia formalmente approvato l’occupazione israeliana del territorio palestinese – o siriano. Se da un lato i governi europei, ad esempio, hanno temuto che facendolo avrebbero compromesso i loro rapporti con altri Paesi della regione, dall’altro sono anche tra i più impegnati a sostenere un ordine internazionale basato sulle leggi; il ricordo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale non è stato cancellato. Essi quindi non possono riconoscere l’occupazione israeliana, anche se non sono stati in grado di sfidare Israele negli stessi termini con cui hanno affrontato l’occupazione russa della Crimea.

Inoltre l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, poco dopo che lo scorso anno il Regno Unito ha votato per abbandonare l’Unione Europea, rafforza la determinazione dell’Unione Europea a consolidare il proprio potere economico e politico e a ridurre la dipendenza dagli USA per la difesa. Questo offre ai palestinesi un’opportunità per appoggiare le modeste misure europee, come il divieto di finanziare la ricerca delle imprese delle colonie israeliane e l’etichettatura dei prodotti delle colonie, e per promuovere la distinzione tra Israele e la sua impresa coloniale, per usare le parole della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di dicembre 2016.

Israele sta incontrando resistenza anche in situazioni inaspettate. Mentre il movimento nazionale palestinese si è indebolito, il movimento globale di solidarietà con la Palestina, compreso il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), lanciato nel 2005, è cresciuto rapidamente, soprattutto in seguito ai ripetuti attacchi israeliani alla Striscia di Gaza. Questo contrasta con la situazione negli anni ’70 e ’80, quando l’opinione pubblica occidentale tendenzialmente dava un ampio sostegno ad Israele. Israele sta reagendo ferocemente contro questo movimento, assimilando le critiche ad Israele con l’antisemitismo e istigando i legislatori negli USA ed in Europa a vietare le iniziative di boicottaggio. Tuttavia finora non è riuscito a soffocare il dibattito o a impedire alle chiese e ai gruppi studenteschi in tutti gli USA di sostenere attività di solidarietà con il popolo palestinese.

L’opposizione di Israele è anche indebolita in conseguenza di una terza tendenza che è interamente autoprodotta. Il fatto che sia riuscito a violare impunemente il diritto internazionale con la sua occupazione dei territori palestinesi, così come con i propri cittadini palestinesi, lo sta portando a strafare. Persino la determinazione di Trump a “fare un accordo” che consegnerebbe sicuramente ad Israele vaste porzioni della terra palestinese ed il controllo permanente sulla sicurezza, probabilmente si scontrerà con il sempre più potente movimento di destra [israeliano], che respinge per principio ogni concessione ai palestinesi.

Certo, la crescente ondata di quella che può solo essere definita come legislazione razzista sta palesando non solo le sue azioni attuali, ma anche quelle del periodo precedente e immediatamente successivo al 1948. Per esempio, per citarne solo alcune, la legge sulla cittadinanza e sulla famiglia, prorogata ogni anno dal 2003, nega ai cittadini palestinesi di Israele il diritto a sposare palestinesi dei territori occupati e di parecchi altri Paesi; la continua distruzione di villaggi palestinesi all’interno di Israele, come anche in Cisgiordania; la legge che legalizza retroattivamente il furto di terre private palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò rende impossibile immaginare che Israele accetti valori sia universali che “occidentali”, quali lo stato di diritto e l’uguaglianza.

Un utile indicatore di questo disvelamento è il rapido aumento di ebrei non israeliani che si allontanano sempre più da Israele, comprese associazioni come ‘Jewish Voice for Peace’. Quando prendono la parola, le rituali accuse di antisemitismo sono facilmente confutate ed essi legittimano altri a prendere posizioni simili.

Un altro ambito in cui Israele ha esagerato è stato fare del sostegno ad esso una questione di parte. Dal momento che il partito repubblicano [americano] assicura che non ci sono problemi tra sé ed Israele, l’opinione tra le fila del partito democratico si sposta stabilmente a favore dei diritti dei palestinesi ed i rappresentanti democratici sono lentamente sempre più incoraggiati ad alzare la voce.

Queste tendenze di lungo termine contrarie alle violazioni israeliane delle leggi internazionali non possono di per sé salvaguardare i diritti dei palestinesi. Il passaggio dall’egemonia araba sulla questione della Palestina all’egemonia palestinese alla fin fine ha prodotto il disastro di Oslo. Ciò che è necessario è una formula che unisca la mobilitazione palestinese in patria e all’estero con una strategia araba per conseguire l’autodeterminazione. E, benché gli sforzi per trasformare l’OLP in un reale rappresentante nazionale [del popolo palestinese] siano finora falliti, esistono modi per fare pressione su componenti dell’OLP che ancora funzionano – per esempio, in Paesi dove dei settori di rappresentanza diplomatica palestinese sono tuttora efficienti – allo scopo di rilanciare il programma e la strategia nazionali.

Oggi i palestinesi si trovano senza dubbio nella peggiore situazione che abbiano vissuto a partire dal 1948. Eppure, se mobilitano le risorse che hanno a disposizione – anzitutto e soprattutto il proprio popolo ed il crescente bacino di consenso mondiale nei confronti dei loro diritti e della loro libertà – possono ancora elaborare e mettere in atto con successo una strategia per garantirsi il loro posto al sole.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di ‘Al-Shabaka: the Palestinian policy network’, che ha co-fondato nel 2009. E’ spesso relatrice di conferenze e commentatrice sui media ed è ricercatrice presso l’Istituto di Studi sulla Palestina. Il suo primo libro, Womanpower: the arab debate on women at work [Manodopera femminile: il dibattito arabo sul lavoro delle donne] , è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è inoltre co-autrice di Citizens apart: a portrait of the palestinian citizens of Israel [Cittadini messi da parte: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

Mouin Rabbani

Il consulente politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato nella questione palestinese e nel conflitto arabo-israeliano. E’ ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina ed è tra i redattori del Middle East Report. I suoi articoli sono usciti anche su The National ed ha scritto articoli di commento per il New York Times.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente, neutrale e non-profit, il cui obiettivo è educare e favorire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Oltre il binomio: due Stati, uno Stato, Stato fallito, nessuno Stato

Al Shabaka

 Amal Ahmad – 30 maggio 2017

Benché la comunità internazionale abbia accolto la soluzione dei due Stati fin dall’inizio degli anni ’90, è diventato evidente che la frammentazione del popolo e del territorio palestinesi da parte di Israele durante gli scorsi 50 anni è intesa a rendere impossibile uno Stato palestinese sovrano.

Mentre i politici spiegano questo fatto come il risultato di incomprensioni o opportunità non colte dalle due parti, la spiegazione corretta è che, nei fatti, Israele non vuole i due Stati. Questa conclusione comprometterebbe il suo obiettivo di mantenere diritti privilegiati per gli ebrei israeliani nel territorio sotto il suo controllo. Molti progressisti ora sostengono che uno Stato con pari diritti per tutti sia la logica alternativa. Mentre un simile Stato binazionale potrebbe essere giusto, è altamente improbabile, soprattutto a breve e medio termine.

E’ più probabile un certo numero di alternative più ciniche:

  • Come ha sottolineato l’analista di Al-Shabaka Asem Khalil, un prolungato e intensificato status quo vedrebbe la costante gestione da parte di Israele di un’entità palestinese non sovrana e dipendente in Cisgiordania. Una soluzione provvisoria per Gaza potrebbe essere raggiunta con l’Egitto, con una limitata possibilità di movimento di beni e persone. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rimarrebbe un’élite di intermediari per la popolazione palestinese, e la mancanza di possibilità finanziarie e per lo sviluppo dell’entità palestinese contribuirebbe a renderla uno Stato fallito.

  • Come mostra la mia analisi, con il tempo questo scenario potrebbe diventare più radicato istituzionalmente attraverso una soluzione permanente del non-Stato, in base alla quale Israele controllerebbe per sempre i palestinesi assegnando qualche settore di governo a un’autorità locale non sovrana.

  • Un risultato simile coinvolgerebbe tre Stati, che comprendono Israele, un mini-Stato demilitarizzato nella Striscia di Gaza tenuto sotto controllo dall’Egitto e uno “Stato della Cisgiordania” (dei coloni).

Il caos potenziale del periodo successivo ad Abbas amplifica la plausibilità di questi scenari. Ogni lotta violenta per il potere all’interno di Fatah porterebbe ad un’ulteriore frammentazione e potenzierebbe la capacità di Israele di promuovere la costituzione di uno Stato a Gaza per i palestinesi, rafforzando al contempo la sua presenza in Cisgiordania. Se l’ANP dovesse collassare, un’ondata di emigrazione verso la costa est [del Giordano, cioè in Giordania, ndtr.] potrebbe ulteriormente incentivare la possibilità di questo esito.

Raccomandazioni di politica

1. Chi si occupa seriamente di una soluzione del conflitto israelo-palestinese deve superare il binomio uno o due Stati e discutere le implicazioni di una soluzione del non-Stato per l’autodeterminazione dei palestinesi.

2. I palestinesi devono comprendere la possibilità che lo status quo diventi un’erosione permanente dei loro diritti in assenza di strategie di resistenza che abbiano successo.

3. La comunità internazionale deve abbandonare l’assunto che lo status quo è un periodo di transizione successivo ad Oslo, oltre che l’approccio “aspettiamo e vediamo”. Deve ammettere il fallimento della sua politica e fissare meccanismi di controllo, anche riguardanti le violazioni delle leggi internazionali che minacciano di fossilizzare la situazione di apartheid.

Amal Ahmad, che fa parte di Al-Shabaka, è un economista e ricercatrice palestinese. Amal è stata stagista presso l’Istituto Palestinese di Ricerche Economiche a Ramallah prima di terminare un master in economia dello sviluppo presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra. Il suo lavoro si concentra sui rapporti fiscali e monetari tra Israele e Palestina. E’ anche interessata all’economia politica dello sviluppo in Medio Oriente in generale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La proposta saudita a Israele potrebbe essere l’essenza dell’accordo che sogna Trump in Medio oriente

Zvi Bar’el – 19 maggio 2017,Haaretz

Il silenzio dei media arabi in seguito alle informazioni sui piani degli Stati del Golfo per la normalizzazione con Israele suggerisce che abbiano solide basi. La sua tempistica deriva dagli interessi comuni dei dirigenti arabi e della destra israeliana.

Il silenzio è sceso sui media arabi dopo la pubblicazione di un reportage sul piano degli Stati del Golfo per una parziale normalizzazione con Israele. Non si è sentita nessuna risposta ufficiale da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo o del Qatar. I soliti opinionisti hanno preferito dedicarsi ad altri argomenti, come se non avessero né sentito né visto lo scoop sul ” Wall Street Journal”. I soliti portavoce del governo in Israele sembrano essere stati colti da una malattia alle corde vocali.

Quando sono stati pubblicati reportage simili nel passato, portavoce ufficiali, sia arabi che israeliani, hanno subito diffuso una smentita. Ma questa volta non c’è ancora stata. Ciò suggerisce che ci siano solide basi sui criteri della proposta – quanto meno tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati uniti.

A quanto pare, dopo il primo incontro di Trump con Mohammed bin Salman, il trentunenne figlio del re saudita e sovrano di fatto del regno, nella loro riunione a Washington di martedì sono stati definiti gli ultimi dettagli tra il principe ereditario degli E.A.U., Mohammed bin Zayed Al Nahyan, e il presidente USA Donald Trump.

I tre punti principali dell’accordo si fondano sulla concessione di permessi alle imprese israeliane di aprire succursali negli Stati del Golfo, agli aerei israeliani di volare nello spazio aereo degli E.A.U. e sull’installazione di linee telefoniche dirette tra i due Paesi. Non è ancora la totale normalizzazione che era stata promessa con l’iniziativa araba di pace del 2002 o nella sua ratifica dettagliata al summit arabo di aprile in Giordania.

Ma se arrivasse una dichiarazione ufficiale da parte di Riyadh su questa iniziativa, meriterebbe il titolo di “storica”, perché per la prima volta per una completa normalizzazione non verrebbero più richiesti il totale ritiro da tutti i territori occupati e la fine del conflitto. Al contrario, questa proposta è un percorso, consistente in varie fasi, in cui la prima si accontenta della promessa di Israele di congelare la costruzione [di colonie] nei territori.

L’altra novità è che gli Stati del Golfo tradurranno il proprio impegno concreto in un linguaggio che l’opinione pubblica israeliana può capire. Potrebbero essere in grado di esercitare pressioni locali ed internazionali sul governo israeliano se questo decidesse di rifiutare l’iniziativa.

E’ questo il modo il cui Trump pensa di avverare l’accordo che sogna per la pace tra Israele ed i palestinesi, e, se così fosse, perché gli Stati del Golfo sarebbero disposti a collaborare proprio ora?

I dirigenti della maggior parte dei Paesi arabi hanno molte cose in comune con la destra israeliana. Entrambi vedono Trump come una boccata d’aria fresca dopo la fine della presidenza di Barack Obama. Entrambi hanno interesse a contenere l’influenza dell’Iran in Medio oriente e né Israele né gli Stati del Golfo dispongono di una superpotenza alternativa agli Stati uniti. La preoccupazione riguardo alla rottura del rapporto unico creato nel corso dei decenni tra gli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia saudita, e le amministrazioni USA, ha portato alla conclusione che non ci sono alternative al rafforzamento dei rapporti con un presidente americano, che può anche detestare i musulmani, ma capisce il linguaggio degli affari.

Quindi Trump è stato invitato non a un solo incontro, ma a tre: il primo con il re saudita, il secondo con i dirigenti degli Stati del Golfo e il terzo con i dirigenti dei Paesi musulmani sunniti, in cui rilascerà una dichiarazione “al mondo musulmano”.

Sarà interessante fare un confronto tra il discorso di Trump ai leader del mondo musulmano con quello di Obama al Cairo nel 2009, in cui si era impegnato a costituire un’alleanza con i Paesi musulmani dopo un periodo di gelo sotto la presidenza di George W. Bush.

Trump e il re saudita Salman firmeranno due accordi per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Uno riguarda un vasto accordo sugli armamenti di circa 100 miliardi di dollari iniziali, con un’opzione fino a 300 miliardi in un decennio. Il secondo è un accordo di investimenti sauditi in infrastrutture negli Stati uniti per circa 40 miliardi di dollari. Tutto questo si aggiunge a un nuovo accordo di difesa che sarà firmato tra Washington e gli E.A.U.

Nel passato gli Stati del Golfo, guidati dall’Arabia saudita, si sarebbero uniti alle iniziative arabe, che provenivano principalmente dall’Egitto. Nel 2002 l’iniziativa saudita fu anomala a questo riguardo, ma dopo che è naufragata in un mare di obiezioni israeliane, l’Arabia saudita si è prestata ad iniziative locali, come la riconciliazione tra Hamas e Fatah, o si è occupata della politica interna in Libano. Salman, e soprattutto suo figlio, si sono trasformati in attivi propugnatori di politiche, anche se non sempre con molto successo. La fallimentare guerra in Yemen è un esempio, la debolezza nel fare i conti con la crisi in Siria un altro. Ora cercheranno di guidare un’iniziativa politica tra Israele e i palestinesi. Il vantaggio dell’Arabia saudita e dei suoi alleati del Golfo è che non hanno la necessità, né l’intenzione, di chiedere l’accordo degli arabi radicali per queste iniziative.

La partecipazione della Siria alla Lega Araba è stata sospesa, l’Iraq è considerato un alleato dell’Iran, la Libia si sta sgretolando, lo Yemen è in guerra, la Giordania e l’Egitto sono sostenute dall’Arabia saudita, come lo sono alcuni Stati del Maghreb. Quindi una parziale o totale normalizzazione tra gli Stati del Golfo ed Israele non impegnerà altri Paesi arabi. Ma ciò deciderà la questione di chi è da biasimare per lo stallo del processo di pace se l’iniziativa non prendesse il via. E se Israele e i palestinesi avanzassero verso la ripresa di negoziati sulle principali questioni, ciò potrebbe essere utile come essenziale effetto leva.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché il nuovo statuto di Hamas è rivolto ai palestinesi e non agli israeliani

Amira Hass – 3 maggio 2017 Haaretz

Il documento radicale è basato su una nozione fondamentale: le concessioni fatte dall’OLP e da “Fatah”, la fazione predominante di Abbas, non hanno fatto cambiare Israele.

Il nuovo “Documento dei principi generali e delle politiche” di Hamas non è stato stilato per piacere ad Israele o agli israeliani. La sua negazione del fatto che gli ebrei abbiano una qualche affinità religiosa, emotiva o storica con questa terra è inequivocabile. Afferma che il progetto sionista non prende di mira solo i palestinesi, ma è anche un nemico del popolo arabo e musulmano e mette in pericolo la pace e la sicurezza di tutto il mondo. E pertanto, secondo il documento, mette in pericolo tutta l’umanità. Alla fine, l’unica frase su uno Stato nei confini del 1967 è molto meno clamorosa di come è stata dipinta.

La novità si trova in altri aspetti del documento, che è rivolto in primo luogo e soprattutto al popolo palestinese, e contiene articoli ed affermazioni formulati durante anni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina sulla riconciliazione nazionale. Il documento è rivolto anche al mondo esterno, ma non ai governi occidentali. Piuttosto si rivolge agli Stati arabi e musulmani e ai movimenti popolari nei Paesi occidentali che appoggiano la lotta dei palestinesi contro l’occupazione.

Questo documento molto radicale è stato scritto con la coscienza del fatto che la conclusione che ne segue è molto diffusa tra i palestinesi: le concessioni su principi fondamentali fatte dall’OLP e dalla sua fazione predominante, Fatah, non hanno fatto cambiare Israele; al contrario, gli hanno permesso di intensificare il processo di appropriazione di terre e la sua dominazione sul popolo palestinese.

In tutto ciò che non riguarda Israele, il documento dimostra che Hamas è un’organizzazione sensibile alle critiche. O, come l’ha definita lunedì il capo politico Khaled Meshal, sa come cambiare e rinnovarsi, e riconosce il pericolo della fossilizzazione. La principale critica interna palestinese (a parte la politicizzazione della religione) è stata che Hamas non è un movimento nazionale palestinese, ma piuttosto è al servizio di un progetto straniero.

Questa critica si fonda sullo statuto di Hamas del 1988, in cui si definisce in primo luogo come un movimento di resistenza religioso islamico (piuttosto che come palestinese) e come una branca della Fratellanza Musulmana. Il sito web “Il Nuovo Arabo” [media arabo progressista in lingua inglese con sede a Londra, ndt.] ha scoperto che nelle circa 12.000 parole dello statuto la parola “Allah” compare 73 volte, “Islamico” 64 volte “jihad” 36 volte e “Palestina” solo 27 volte. Quindi lo statuto originale ha creato l’impressione che la Palestina ed il suo popolo fossero semplici strumenti nella lotta per diffondere la religione islamica.

Il nuovo documento è stato adeguato all’auto definizione di Hamas: “un movimento palestinese islamico nazionale di liberazione e di resistenza” (in quest’ordine), il cui obiettivo è di liberare tutta la Palestina e di combattere “il progetto sionista” (piuttosto che gli ebrei). Il punto di partenza dello statuto – che la radice del conflitto è religiosa – è scomparso dal nuovo documento. Ma anche nel nuovo documento l’Islam rimane una fonte di autorità; la Palestina è una terra araba e musulmana, e l’Islam è ciò che attribuisce a questa terra il suo particolare ruolo.

I cristiani, le donne e l’OLP

Ci sono altri tre punti salienti su cui il documento è attento alle critiche interne. Primo, si rivolge ai cristiani palestinesi facendo riferimento alla Palestina come al luogo in cui è nato Gesù. Secondo, l’affermazione dello statuto del 1988 sul ruolo delle donne in casa e in famiglia e come “le generatrici di uomini” che lottano per la liberazione è stato sostituito da un’affermazione generica sul ruolo fondamentale delle donne nella società. Terzo, il nuovo documento accetta l’OLP come “la cornice nazionale per il popolo palestinese,” in contrasto con lo sprezzante atteggiamento verso l’OLP dello statuto [precedente].

Il nuovo documento non contiene nessuno degli articoli e delle affermazioni anti-semiti che caratterizzavano lo statuto. Sostenitori del movimento, soprattutto in Occidente, avevano consigliato da molto tempo di cambiare quelle disposizioni.

Un membro di Hamas ha detto ad Haaretz che quasi subito dopo che lo statuto è stato pubblicato nel 1988, persone del movimento invitarono a cambiare queste parti. Lo statuto non era stato scritto in modo collettivo, ha spiegato, e non è “né scientificamente né giuridicamente” accurato.

Ha affermato che i membri di Hamas deportati nel 1992-93 a Marj El Zhour [dopo l’uccisione di 6 soldati in Cisgiordania, Israele deportò 415 membri di Hamas e della Jihad islamica su una collina sul confine con il Libano, dove rimasero per 4 mesi, finché vennero riportati a Gaza e in Cisgiordania, ndt.], in Libano, furono i primi a discutere seriamente la necessità di modifiche. Ma queste non sono mai state fatte perché ciò richiedeva un lungo e complesso processo di riflessione e dibattito durante i difficili periodi di escalation militare.

Lo statuto in sé non è stato abrogato. E’ un documento storico che si riferisce ad un particolare momento nella storia dell’organizzazione, e Hamas non vi sta rinunciando; né il nuovo documento è chiamato “statuto”. Cancellarlo vorrebbe dire ripetere l’umiliazione subita dall’OLP, quando dovette annunciare l’abolizione di alcuni articoli del suo statuto del 1968 perché contraddicevano gli accordi di Oslo. Ma lo statuto di Hamas non è più la piattaforma ideologica ufficiale dell’organizzazione.

Non come il Comintern

Hamas ha reciso ogni rapporto con la Fratellanza Musulmana solo perché il movimento non è citato nel nuovo documento? Contrariamente alle affermazioni di Fatah, ha detto il membro di Hamas, il rapporto di Hamas con la Fratellanza Musulmana è sempre stato puramente emotivo, non istituzionalizzato, organizzato, gerarchico, in cui ogni organizzazione gregaria dovesse obbedire a ordini dall’alto, una specie di Comintern sovietico. Il fatto è che, in Paesi differenti, i partiti affiliati alla Fratellanza Musulmana hanno adottato politiche differenti.

Il membro di Hamas ha anche notato che il lavoro sul documento è iniziato nel 2013, quando Mohammed Morsi, della Fratellanza Musulmana, era ancora presidente dell’Egitto. In altre parole, non era guidato dalla necessità di realpolitik per ingraziarsi l’Egitto dopo che il governo dei Fratelli Musulmani è stato rovesciato.

Ma è chiaro che nel nuovo documento Hamas cerca di liberarsi da ogni rapporto con l’estremismo religioso islamico. Il documento sottolinea che “si oppone all’intervento nelle questioni interne di ogni Paese.” E Meshal ha detto esplicitamente che il contesto adeguato per la lotta armata è solo l’opposizione all’occupazione in Palestina, e non all’estero.

Si potrebbe vedere questo come realismo politico, data la dipendenza dell’organizzazione dall’Egitto, che è l’unica porta d’uscita di Gaza, governata da Hamas, verso il mondo. Ma ciò riflette anche una reale preoccupazione per l’immagine dell’Islam e la consapevolezza del fatto che Hamas ed i suoi sostenitori devono prendere le distanze dall’essere identificati con lo Stato Islamico.

La versione finale del documento contiene un’affermazione contraria alla cooperazione (che definisce come “collaborazionismo”) con Israele in materia di sicurezza, che non era presente nelle bozze diffuse in precedenza. Il documento inoltre non riconosce la legalità degli accordi di Oslo, ma si riferisce al suo prodotto, l’Autorità Nazionale Palestinese, affermando che l’obiettivo dell’ANP è di essere utile a tutto il popolo palestinese. O, come ha spiegato Meshal, la coerenza con i principi non nega il riconoscimento dei fatti determinati dalla realtà.

Lo stesso vale per l’affermazione in merito alla creazione di uno Stato “lungo i confini del 4 giugno 1967.” Per anni i principali dirigenti di Hamas hanno detto, esplicitamente o implicitamente, che il movimento vuole accettare un compromesso a condizione che non includa un riconoscimento di Israele. Ma il documento afferma semplicemente che Hamas riconosce che un simile Stato – compreso il “ritorno dei rifugiati”- è “una formula di consenso nazionale”. Bisogna ancora vedere se i rigidi principi del documento intendano effettivamente rendere più facile ad Hamas dimostrare flessibilità politica nel “gestire il conflitto”, per usare le parole del documento.

Il documento non fa riferimento ad Hamas come un partito di governo, ma solo come un movimento di resistenza. Ciò è un utile compromesso caratteristico delle doti acrobatiche di Hamas. Ciò permette all’organizzazione di crogiolarsi nella gloria di un movimento di resistenza, che a sua volta contribuisce a conservare la Striscia di Gaza come un bastione del governo nazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei prigionieri: le vere ragioni che stanno dietro allo sciopero della fame dei palestinesi

2 maggio 2017 Ma’an News

 Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.’

Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Anche la Cisgiordania è una prigione, divisa in varie zone, note come area A, B e C. Di fatto tutti i palestinesi sono soggetti a restrizioni militari di diverso grado. In una certa misura sono tutti prigionieri.

Gerusalemme est è separata dalla Cisgiordania e coloro che vivono in Cisgiordania sono separati l’uno dall’altro.

I palestinesi in Israele sono trattati leggermente meglio dei loro fratelli nei territori occupati, ma versano in condizioni umilianti, se paragonate allo status di prima classe attribuito agli ebrei israeliani, solo in virtù della loro origine etnica.

I palestinesi abbastanza “fortunati” da evitare le manette e le catene, sono comunque imprigionati in altri modi. I rifugiati palestinesi del campo profughi libanese di Ain el-Hilweh, come milioni di rifugiati palestinesi nella “shattat” (diaspora), sono prigionieri nei campi profughi, con un riconoscimento precario e insignificante, non possono spostarsi e non possono accedere al lavoro. Languiscono nei campi, aspettando che la vita migliori, anche di poco – come hanno fatto prima di loro i loro padri e nonni per circa settant’anni.

Ecco perché la questione dei prigionieri è molto sentita tra i palestinesi. E’ una rappresentazione reale e metaforica di tutto ciò che essi hanno in comune.

Le proteste scoppiate in tutti i territori occupati a sostegno dei 1500 in sciopero della fame non sono solamente un gesto di ‘solidarietà’ con gli uomini e le donne incarcerati e maltrattati, che chiedono un miglioramento delle proprie condizioni.

Purtroppo il carcere è il fatto più normale nella vita dei palestinesi; è lo status quo; la realtà quotidiana. I prigionieri detenuti nelle carceri israeliane sono l’immagine della vita di ogni palestinese, imprigionato dietro muri e checkpoint, in campi profughi, a Gaza, nelle aree della Cisgiordania, nella Gerusalemme segregata, nelle attese per essere lasciati entrare o lasciati uscire. Semplicemente in attesa.

Ci sono 6.500 prigionieri nelle carceri israeliane. Questa cifra comprende centinaia di minori, donne, rappresentanti eletti, giornalisti e detenuti amministrativi, che sono imprigionati senza accuse e senza processo. Ma questi numeri esprimono a malapena la realtà trascorsa sotto l’occupazione israeliana fin dal 1967.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, oltre 800.000 palestinesi sono stati incarcerati sotto il regime militare da quando Israele ha iniziato l’occupazione dei territori palestinesi nel giugno 1967.

Cioè il 40% dell’intera popolazione maschile dei territori occupati.

Le carceri israeliane sono prigioni all’interno di prigioni più grandi. Nei periodi delle proteste e delle sommosse, soprattutto durante le rivolte del 1987-1993 e 2000-2005, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati soggetti a prolungati coprifuoco militari, che a volte duravano settimane, addirittura mesi.

Sotto il coprifuoco militare alle persone è vietato lasciare le proprie case, con brevi o nulle interruzioni persino per comprare il cibo.

Non un solo palestinese che abbia vissuto (o stia ancora vivendo) in simili condizioni è alieno all’esperienza dell’imprigionamento.

Ma ad alcuni palestinesi in quella grande prigione sono stati concessi dei privilegi. Sono considerati ‘palestinesi moderati’, quindi vengono loro concessi permessi speciali dall’esercito israeliano per lasciare la prigione palestinese e ritornarvi a loro piacimento.

Mentre il precedente leader palestinese Yasser Arafat è stato rinchiuso per anni nel suo ufficio a Ramallah, fino alla sua morte nel novembre 2004, l’attuale presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas è libero di viaggiare.

Anche se Israele può, di tanto in tanto, criticare Abbas, lui raramente si discosta dai limiti imposti dal governo israeliano.

Questa è la ragione per cui Abbas è libero ed il capo di Fatah Marwan Barghouti (insieme a migliaia di altri) è in prigione.

L’attuale sciopero della fame dei prigionieri è iniziato il 17 aprile, in commemorazione della ‘Giornata dei Prigionieri’ in Palestina

Nell’ottavo giorno di sciopero, mentre le condizioni di salute di Marwan Barghouthi peggioravano, Abbas si trovava in Kuwait per incontrare un gruppo di cantanti arabi in abiti di lusso.

I resoconti, pubblicati dall’agenzia di stampa Safa e altrove, hanno destato molta attenzione sui media. La tragedia della doppia realtà palestinese è un fatto inequivocabile.

Barghouthi è molto più popolare tra i sostenitori di Fatah, uno dei due maggiori movimenti politici palestinesi. Di fatto, è il più popolare leader tra i palestinesi, a prescindere dalle loro posizioni ideologiche o politiche.

Se l’ANP si preoccupasse davvero dei prigionieri e del benessere del più popolare leader di Fatah, Abbas avrebbe dovuto impegnarsi a concepire una strategia per galvanizzare l’energia dei prigionieri in sciopero della fame e dei milioni tra il suo popolo che hanno manifestato in loro appoggio.

Ma la mobilitazione di massa ha sempre spaventato Abbas e la sua Autorità. E’ troppo pericolosa per lui, perché l’azione popolare spesso minaccia lo status quo esistente e potrebbe intralciare il suo governo, autorizzato da Israele, sui palestinesi occupati.

Mentre i media palestinesi ignorano la spaccatura all’interno di Fatah, quelli israeliani la sfruttano, inserendola nel più ampio contesto politico.

E’ previsto un incontro tra Abbas e il presidente USA Donald Trump per il 3 maggio.

Abbas vuole fare buona impressione sull’impulsivo presidente, soprattutto poiché Trump sta riducendo gli aiuti esteri in tutto il mondo, mentre aumenta l’assistenza USA all’ANP. Basterebbe questo per capire l’opinione dell’Amministrazione USA su Abbas ed il suo apprezzamento del ruolo dell’ANP nel garantire la sicurezza di Israele e nel conservare lo status quo.

Ma non tutti i sostenitori di Fatah gradiscono il servilismo di Abbas. I giovani del movimento vogliono ribadire una forte posizione palestinese attraverso la mobilitazione del popolo; Abbas vuole mantenere la situazione tranquilla.

Amos Harel ha sostenuto su Haaretz che lo sciopero della fame, indetto dallo stesso Barghouthi, era l’ultimo tentativo di sfidare Abbas e “ rovinare il piano di pace di Trump”.

Ma Trump non ha un piano. Sta dando carta bianca al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché faccia quel che vuole. La sua soluzione è: uno Stato, due Stati, qualunque cosa “vogliano entrambe le parti”. Ma le due parti sono ben lungi dall’essere potenze uguali. Israele possiede ordigni nucleari ed un potente esercito, mentre Abbas ha bisogno di un permesso per uscire dalla Cisgiordania occupata.

In questo contesto di disuguaglianza, solo Israele decide il destino dei palestinesi.

Durante la sua recente visita negli Stati Uniti, Netanyahu ha delineato la sua visione del futuro.

“Israele deve mantenere il controllo prevalente della sicurezza sull’intera area ad ovest del fiume Giordano”, ha detto.

In un articolo su ‘The Nation’ [rivista politica statunitense di sinistra, ndt.], il professor Rashid Khalidi ha spiegato il vero significato dell’affermazione di Netanyahu. Ha scritto che con queste parole “Netanyahu ha proclamato un regime permanente di occupazione e colonizzazione, escludendo uno Stato palestinese sovrano e indipendente, qualunque sia la parvenza di ‘Stato’ o ‘autonomia’ escogitata per nascondere questa brutale realtà”.

“Il successivo silenzio di Trump equivale all’approvazione del governo USA di questa grottesca visione di permanente asservimento e spossessamento dei palestinesi.”

Perché dunque i palestinesi dovrebbero stare tranquilli?

Il loro silenzio può solo contribuire a questa grave realtà, alle dolorose circostanze attuali, in cui i palestinesi sono perpetuamente imprigionati sotto un’occupazione permanente, mentre la loro ‘leadership’ riceve sia un cenno d’approvazione da Israele che elogi ed ulteriori finanziamenti da Washington.

E’ in questo contesto che lo sciopero della fame diventa molto più pregnante del bisogno di migliorare le condizioni dei prigionieri palestinesi.

E’ una rivolta all’interno di Fatah contro la sua dirigenza indifferente e un disperato tentativo da parte di tutti i palestinesi di dimostrare la propria capacità di destabilizzare la matrice di controllo di Israele, America e ANP che è durata per tanti anni.

“I diritti non vengono regalati da un oppressore”, ha scritto Marwan Barghouthi dalla sua cella nel primo giorno dello sciopero della fame.

In realtà, il suo messaggio era diretto ad Abbas e ai suoi amici, tanto quanto era diretto ad Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas

Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz

Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un partner per la pace.

I due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.

Decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione terroristica.

Tutto questo avviene mentre Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA Donald Trump.

La pressione su Gaza non è casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali. Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo, l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Inoltre, a gennaio, il Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a finanziare i pagamenti per l’elettricità.

Allora Abbas ha annunciato che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare, perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome dell’ANP.

L’ANP ha giustificato tutti questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.

Il pretesto politico ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

Salah Al Bardawil, un alto dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende necessario il consiglio am0ministrativo.

Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.

Una spiegazione fornita da fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas, sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington. Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale processo diplomatico.

Se davvero Abbas sta punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi, scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.

Se Hamas rifiuta di cedere nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come la Turchia e il Qatar.

A quanto pare Meshal ha deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America, Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un compromesso diplomatico.

A differenza del vecchio statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana. Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto, che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.

Il secondo fondamentale cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4 giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale, che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”

Né Israele né gli Stati Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in diverse fasi.

Perciò neanche la creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina “da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.

Tuttavia, Hamas può sperare che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967 senza riconoscere Israele.

La grande domanda è come reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di ogni soluzione?

Finché Trump non deciderà, la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la bomba di Gaza è gradevole.

Potrebbe pagare lui stesso per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti. Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro ciclo di violenze.

In entrambi i casi, ancora una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il comitato dei prigionieri fa appello a tutte le fazioni palestinesi perché si uniscano allo sciopero della fame guidato da Fatah

11 aprile 2017 Ma’an news agency

BETLEMME (Ma’an) – Il capo del Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri Issa Qaraqe ha invitato tutte le fazioni palestinesi nelle prigioni israeliane ad unirsi all’imminente sciopero della fame di massa, che è stato originariamente indetto dal movimento Fatah.

Tutti i prigionieri appartenenti a Fatah si sono impegnati ad unirsi allo sciopero condotto dal leader di Fatah incarcerato Marwan Barghouthi, che si prevede abbia inizio il 17 aprile, nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi – con contraddittorie informazioni sul fatto se vi si uniranno o meno i prigionieri appartenenti ad altre fazioni politiche.

Qaraqe ha detto che i prigionieri appartenenti a Fatah costituiscono il 65% di tutti i prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono in totale 6.500 prigionieri palestinesi.

Nella dichiarazione del comitato si afferma che Qaraqe ha invitato tutte le fazioni ad unirsi, allo scopo di concretizzare una “vera unità nazionale per contrastare le procedure e le prassi dell’amministrazione penitenziaria e del governo di Israele.”

Dopo che è stato annunciato lo sciopero della fame, è stato riferito che un ufficiale del Servizio Penitenziario israeliano ha affermato che loro non avrebbero risposto a nessuna delle richieste dei prigionieri, mentre la televisione israeliana ha riferito che la sicurezza israeliana ha espresso il timore di un “crollo nelle condizioni di sicurezza” nelle carceri durante lo sciopero.

Intanto il Canale 2 israeliano ha riferito che il Ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dato ordine di installare un ospedale militare per garantire che i prigionieri palestinesi in sciopero della fame non vengano trasferiti in ospedali civili – i quali finora hanno rifiutato di sottoporre ad alimentazione forzata i prigionieri palestinesi in sciopero della fame.

Mentre la Suprema Corte israeliana ha recentemente sentenziato che l’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero della fame è costituzionale, i medici israeliani hanno aderito alla deontologia professionale dei sanitari internazionalmente accettata, che considera questa pratica una forma di tortura.

La rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi Samidoun ha allertato che è “altamente probabile” che la proposta di Erdan di un ospedale da campo sia “un tentativo di imporre l’alimentazione forzata di massa ai prigionieri palestinesi in sciopero, al di fuori delle strutture sanitarie civili.”

Il Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri ha ribadito l’elenco di richieste poste dallo sciopero, formulate da Marwan Barghouthi, che sta scontando l’ergastolo nelle prigioni israeliane:

1. Installare un telefono pubblico per i detenuti palestinesi in tutte le prigioni e le sezioni perché possano comunicare con i familiari.

2. Visite:

* Ripristinare le seconde visite mensili ai prigionieri palestinesi, che sono state interrotte lo scorso anno dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.

* Garantire la regolarità delle visite ogni due settimane senza che vengano impedite da qualunque parte.

* Ai parenti di primo e secondo grado non dovrà essere impedito di visitare il detenuto.

* Aumentare la durata della visita da 45 minuti a un’ora e mezza.

* Permettere ai detenuti di scattare fotografie con i loro familiari ogni tre mesi.

* Creare servizi di conforto per le famiglie dei detenuti.

* Consentire ai figli e ai nipoti minori di 16 anni di visitare i detenuti.

3. Cure mediche:

* Chiudere il cosiddetto Ospedale carcerario di Ramla, poiché non fornisce cure adeguate.

* Porre fine alla politica israeliana di deliberata incuria sanitaria.

* Condurre esami medici periodici.

* Eseguire gli interventi con alti standard medici.

* Consentire a medici specializzati al di fuori del servizio carcerario israeliano di curare i prigionieri.

* Rilasciare i detenuti ammalati, specialmente quelli che presentano disabilità e malattie incurabili.

* Le cure mediche non devono essere a carico dei detenuti.

4. Rispondere alle necessità e alle richieste delle donne palestinesi detenute, soprattutto al problema dei trasferimenti che durano molte ore tra i tribunali israeliani e le prigioni.

5. Spostamenti:

* Trattare i detenuti in modo umano durante il loro trasferimento.

* Ricondurre i detenuti nelle prigioni dopo la visita a ospedali o tribunali e non trattenerli ulteriormente ai vari posti di controllo.

* Adeguare i posti di controllo all’utilizzo umano e fornire pasti per i detenuti.

6. Aggiungere canali satellitari che rispondano alle esigenze dei detenuti.

7. Installare condizionatori nelle prigioni, soprattutto in quelle di Megiddo e Gilboa.

8. Ripristinare le cucine in tutte le prigioni e porle sotto il controllo dei detenuti palestinesi.

9. Permettere ai detenuti di avere libri, giornali, vestiti e cibo.

10. Porre fine alla politica della detenzione in isolamento.

11. Porre fine alla politica di detenzione amministrativa.

12. Consentire ai detenuti di studiare presso l’Università Aperta Ebraica.

13. Consentire ai detenuti di sostenere gli esami finali della scuola superiore (tawjihi tawjihi [esame di maturità delle scuole palestinesi. Ndtr.]) in modo ufficiale e concordato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)