L’inserimento di Hamas nelle liste delle organizzazioni terroristiche è un’ulteriore tradimento dei palestinesi da parte del Regno Unito

Avi Shlaim

30 novembre 2021 – Middle East Eye

Finché i suoi oppositori politici vengono definiti “terroristi”, Israele viene esonerato dalla necessità di negoziare ed ha via libera dai suoi alleati per continuare a far ricorso alla forza bruta militare

La ministra dell’Interno britannica Priti Patel ha dichiarato l’intenzione di mettere al bando tutto Hamas – il movimento islamico di resistenza che governa la Striscia di Gaza – in quanto organizzazione terroristica.

L’ala militare dell’organizzazione venne messa fuorilegge nel Regno Unito nel marzo 2001. Vent’anni dopo la ministra dell’Interno propone di estendere il bando all’ala politica, affermando che la distinzione tra le due strutture non è più sostenibile. La verità a riguardo è che la distinzione era valida nel 2001 e lo è anche oggi. Anzi, si tratta di una distinzione fondamentale.

L’annuncio di Patel è giunto poco dopo che il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz aveva definito organizzazioni terroristiche sei ong della società civile palestinese. Questa designazione è arrivata subito dopo la decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su vasta scala di possibili crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati.

Gantz è stato capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] durante l’attacco contro Gaza del luglio 2014, in cui vennero uccisi almeno 2.256 palestinesi, 1.462 dei quali civili, compresi 551 minorenni. Ciò rende Gantz il principale sospettato nell’inchiesta per crimini di guerra della CPI. Hamas ha accettato di collaborare con l’indagine della CPI, Israele ha rifiutato.

Alcune delle organizzazioni palestinesi inserite nella lista israeliana dei terroristi stanno collaborando con l’inchiesta della CPI. Benché le prove presentate da Israele siano state considerate insufficienti dall’Unione Europea e dal governo statunitense, l’etichetta di terroriste ha ottenuto il suo obiettivo di stigmatizzare le ong, riducendo la loro possibilità di ottenere finanziamenti e sconvolgendo le loro attività. L’iniziativa israeliana è stata ampiamente condannata come un attacco ai diritti umani. La ministra degli Interni britannica non è stata tra quanti hanno protestato.

Patel condivide con il primo ministro britannico Boris Johnson una visione manichea della lotta in Medio Oriente, in cui Israele rappresenta le forze della luce e la palestinese Hamas le forze delle tenebre. La realtà è molto più complessa.

I legami israeliani con i conservatori

Come prevedibile le reazioni all’annuncio di Patel sono state polarizzate. Un funzionario di Hamas ha affermato che ciò dimostra “una totale faziosità nei confronti dell’occupazione israeliana e sudditanza ai ricatti e alle imposizioni di Israele.” Ha accusato il Regno Unito di appoggiare “gli aggressori a danno delle vittime.” Il Board of Deputies of British Jews [Consiglio dei Rappresentanti degli Ebrei Britannici] ha accolto calorosamente l’iniziativa. Nei media israeliani la decisione britannica è stata acclamata come un trionfo della diplomazia israeliana.

A livello più profondo lo spostamento della politica britannica è stato il prodotto degli stretti rapporti tra Israele e il partito Conservatore. Da tempo Israele e la sua potente lobby hanno fatto pressioni sul governo britannico riguardo a questo problema. Il primo ministro Naftali Bennett ha invitato Boris Johnson a mettere fuorilegge tutto Hamas quando l’ha incontrato il mese scorso alla conferenza ONU per il clima a Glasgow.

Patel non aveva bisogno di suggerimenti per fare ciò che chiede Israele. Nel 2017, come ministra per lo Sviluppo Internazionale, partecipò a un viaggio in Israele senza informare l’allora prima ministra Theresa May né Boris Johnson, all’epoca ministro degli Esteri. Pur affermando che si trattava di una vacanza privata, Patel ebbe una serie di incontri segreti con politici israeliani di alto livello, tra cui l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu. Lord Polak, presidente onorario degli Amici Conservatori di Israele, organizzò personalmente dodici di questi incontri.

Al suo ritorno Patel chiese ai suoi funzionari di verificare la possibilità di spostare parte del bilancio degli aiuti internazionali per consentire all’esercito israeliano di svolgere lavoro umanitario nelle Alture del Golan occupate. Venne obbligata a dare le dimissioni ed ammise che le sue azioni “erano cadute al di sotto degli alti standard che ci si aspetta da un ministro.”

Gli stretti contatti con politici israeliani e lobbysti a favore di Israele nel Regno Unito, così come la sua stessa visione di destra, l’hanno portata a introiettare la narrazione israeliana su Hamas. Questa narrazione è notevolmente distorta e palesemente strumentale. Ecco peraltro alcuni fatti rilevanti.

Hamas è nata nel 1988, all’inizio della Prima Intifada (rivolta) palestinese contro l’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. In origine aveva il duplice obiettivo di portare avanti la lotta armata contro Israele e di gestire progetti di assistenza sociale.

Il suo statuto definiva la Palestina storica, compreso l’attuale Israele, come terra esclusivamente islamica ed escludeva qualunque pace permanente con lo Stato ebraico. Negli anni ’90 Hamas iniziò la lotta armata contro l’occupazione. Inizialmente essa prese la forma del lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro le città e centri abitati israeliani. Hamas venne messa in rapporto con gli attentati suicidi realizzati all’interno di Israele.

Il termine “attentati suicidi” divenne agli occhi dell’opinione pubblica una forma di guerra particolarmente orribile. In fin dei conti gli attentati suicidi sono un mezzo per portare le bombe a destinatazione. Giudicate esclusivamente in base ai loro risultati, non sono più orripilanti di una bomba da una tonnellata sganciata da un F-16 israeliano a Gaza su un complesso residenziale.

Indipendentemente dal vettore, l’uccisione di civili è sbagliata. Punto. Nel 2004 la dirigenza politica di Hamas prese la decisione strategica di porre fine agli attentati suicidi.

Hamas e Fatah

In seguito al ritiro unilaterale di Israele da Gaza nell’agosto 2005, Hamas iniziò a impegnarsi nel processo politico interno palestinese, partecipando alle elezioni contro il principale partito, Fatah, che dominava l’Autorità Nazionale Palestinese. Dalla sua sede a Ramallah l’ANP governava sia sulla Cisgiordania che sulla Striscia di Gaza.

Fatah venne generalmente percepito come corrotto e un subappaltante della sicurezza di Israele nei territori occupati. Hamas, di contro, aveva la reputazione di probità nella vita pubblica così come una provata esperienza di resistenza concreta all’occupazione israeliana. 

Nel gennaio 2006, dopo aver vinto la maggioranza assoluta in elezioni regolari, Hamas formò un nuovo governo. Israele, USA e Gran Bretagna si rifiutarono di riconoscerlo. In teoria essi erano a favore della democrazia, ma quando il popolo votò per il partito politico sbagliato Israele e i suoi alleati occidentali ripristinarono pensanti sanzioni diplomatiche ed economiche per minarlo.

Nel marzo 2007 Hamas formò un governo di unità nazionale con l’arci-nemico Fatah. Questo governo propose colloqui diretti con Israele e un cessate il fuoco a lungo termine. Israele rifiutò i negoziati, cospirando invece per cacciare Hamas dal potere e sostituirlo con un regime collaborazionista di Fatah. Dettagli del piano sono contenuti nei “Palestinian Paper”, il dossier segreto di 1.600 documenti diplomatici fatti filtrare ad Al Jazeera e al Guardian.

Hamas prevenne questo colpo di stato con la conquista violenta del potere a Gaza nel giugno 2007, cacciando le forze favorevoli a Fatah. Israele reagì imponendo alla Striscia di Gaza un blocco tuttora in atto dopo 14 anni. Il blocco ha provocato il collasso dell’economia, alti livelli di disoccupazione, grave mancanza d’acqua, di cibo e di medicine e terribili sofferenze ai due milioni di abitanti della sovrappopolata Striscia. Un blocco è una forma di punizione collettiva vietata dalle leggi internazionali, eppure la comunità internazionale non ha chiamato Israele a risponderne.

Dal 2008 ci sono stati quattro grandi attacchi militari israeliani contro Gaza, che hanno incluso morte e distruzione per la popolazione civile. Tra Israele e Hamas ci sono stati anche parecchi cessate il fuoco mediati dall’Egitto, ognuno dei quali è stato rispettato da Hamas e violato da Israele quando non rispondeva più ai suoi obiettivi.

Operazione Piombo Fuso

Nel dicembre 2008 l’esercito israeliano ha lanciato il primo di questi attacchi, l’operazione Piombo Fuso. Nel corso di questa operazione militare le truppe israeliane hanno commesso una serie di crimini di guerra documentati nel dettaglio dal rapporto Goldstone, che ha riconosciuto anche Hamas responsabile, ma che ha rivolto le critiche più dure a Israele.

Israele presentò l’operazione Piombo Fuso come una misura difensiva per proteggere i suoi civili contro i razzi lanciati da Gaza. Ma se questo fosse stato l’intento, tutto ciò che Israele avrebbe dovuto fare sarebbe stato seguire l’esempio di Hamas e rispettare il cessate il fuoco. Hamas non solo l’aveva fatto, ma si era attivato per imporlo ai gruppi più radicali che operano nella Striscia di Gaza, come la Jihad Islamica. Di fatto la maggior parte della potenza di fuoco delle IDF venne diretta contro quartieri residenziali.

Il rapporto concluse che “ciò che avvenne in sole tre settimane tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 fu un attacco deliberatamente sproporzionato inteso a punire, umiliare e terrorizzare una popolazione civile…e a imporle una ancor più accentuata sensazione di dipendenza e vulnerabilità.”

L’affermazione secondo cui l’operazione era destinata a “terrorizzare una popolazione civile” è ormai evidente. Il terrorismo è l’uso della forza contro civili per scopi politici. In base a questa definizione l’operazione Piombo Fuso fu un atto di terrorismo di Stato. Così è stato per gli attacchi israeliani del 2012, del 2014 e del 2021.

Nel 2017 Hamas rese pubblico un documento politico che ammorbidì le sue precedenti posizioni politiche contro Israele e fece ricorso a un linguaggio più misurato riguardo al popolo ebraico. Non arrivò fino al riconoscimento ufficiale di Israele, ma accettò formalmente uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania con Gerusalemme est come capitale.

In altre parole accettò uno Stato palestinese vicino a Israele invece che al posto di Israele. Il documento sottolineò anche che la lotta di Hamas non era contro gli ebrei ma contro gli “aggressori sionisti occupanti.”

Quindi perché il governo britannico sceglie questo momento per mettere fuorilegge l’ala politica di Hamas, dopo aver definito criminale quella militare 20 anni fa? Parte della risposta è che ciò è stato fatto in conseguenza delle pressioni della lobby israeliana. Lo Stato di Israele ha il diritto e anzi il dovere di difendere i suoi civili dagli attacchi palestinesi. Il modo più semplice e sicuro per farlo è attraverso accordi di cessate il fuoco a lungo termine con la dirigenza politica di Hamas.

Etichettando i suoi oppositori politici come terroristi, Israele si autoassolve dalla necessità di parlare con loro ed ottiene il via libera dai suoi alleati occidentali per far ricorso al modus operandi a cui è abituato: la forza bruta militare. Chi paga il prezzo sono i civili di entrambe le parti, e soprattutto gli indifesi abitanti di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo.

Una serie di tradimenti britannici

I veri amici non assecondano la tossicodipendenza dei propri amici, ma cercano di disintossicarli. Boris Johnson non potrebbe essere più indulgente. La sua parzialità arriva fino ad opporsi ad ogni tentativo di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni aggressive e dei suoi comportamenti illeciti. Per esempio si è opposto all’indagine della Corte Penale Internazionale su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi occupati.

In una lettera agli Amici Conservatori di Israele egli ha affermato che il suo governo, pur rispettando l’indipendenza della Corte, si oppone a questa particolare inchiesta. “Questa indagine dà l’impressione di essere un attacco di parte e preconcetto contro un amico e alleato del Regno Unito,” ha scritto. La logica perversa della dichiarazione è che il fatto di essere amico e alleato del Regno Unito colloca Israele al di sopra delle leggi internazionali.

Una domanda conclusiva: perché quest’ultima svolta politica antipalestinese è stata annunciata dal ministro degli Interni invece che da quello degli Esteri? Patel sostiene che indicare tutta Hamas come un’organizzazione terroristica dovrebbe essere vista attraverso una lente di politica interna: aiuterà a proteggere gli ebrei di questo Paese. Ciò è pretestuoso: in base alle leggi internazionali Hamas esercita il proprio diritto di resistere all’occupazione israeliana, la più lunga e brutale occupazione militare dei tempi moderni. Diffondere il panico e criminalizzare l’ala politica di Hamas non renderà affatto più sicuri gli ebrei britannici.

In maggio, con un uso assolutamente sproporzionato della forza, Israele ha portato avanti un bombardamento aereo di Gaza che ha provocato la morte di 256 palestinesi, tra cui 66 minorenni. Il Community Security Trust, un’associazione benefica che si occupa della sicurezza degli ebrei in Gran Bretagna, ha registrato durante quel mese un’“orribile aumento” degli attacchi razzisti che “ha superato qualunque cosa abbiamo visto in precedenza.”

Se realmente il governo britannico voleva fare in modo che gli ebrei di questo Paese si sentissero più sicuri avrebbe dovuto smettere di accusare le vittime palestinesi della loro stessa sventura. Dovrebbe esortare il suo alleato israeliano a rispettare le leggi umanitarie internazionali, ad attenersi agli accordi di cessate il fuoco, a ridurre l’uso della forza militare e a parlare con la dirigenza politica di Hamas.

L’ultima mossa di Patel servirà solo ad evidenziare la totale bancarotta della politica del governo conservatore nei confronti di Israele-Palestina. Il governo sostiene di appoggiare la soluzione a due Stati del conflitto. Eppure, nonostante ripetuti voti del parlamento a favore del riconoscimento della Palestina, il governo rifiuta di cambiare idea.

Quando era ministro degli Esteri Boris Johnson ha detto alla Camera dei Comuni che il governo conservatore avrebbe riconosciuto la Palestina a tempo debito. Ma per il governo che ora egli guida quel tempo non sarà mai arrivato. Il tempo è solo una scusa per rimandare continuando contemporaneamente a compiacere Israele.

Di sicuro il riconoscimento britannico della Palestina non riequilibrerà l’enorme asimmetria di potere tra le due parti, ma darà ai palestinesi parità di trattamento. É il meno che la Gran Bretagna possa fare oggi per i palestinesi, dati i suoi lunghi precedenti di tradimenti che risalgono alla dichiarazione Balfour, oltre un secolo fa.

Nel suo libro del 2014 “The Churchill Factor” [Il fattore Churchill] Johnson ha scritto che la dichiarazione Balfour fu “stravagante”, “un documento tragicamente incoerente” e “una pregevole opera di intollerabile politica estera.”

Oggi dalla sua posizione di potere Johnson ha un’opportunità unica di modificare questo enorme errore storico. Criminalizzare Hamas può compiacere Israele e la destra del suo partito, ma non farà che infangare ulteriormente la già oscura serie di tradimenti britannici del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito in Relazioni internazionali all’università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [ed. italiana: “Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo”, Il Ponte editrice] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [“Israele e Palestina: riesami, revisioni, confutazioni”].

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ANP ha sempre avuto lo scopo di “uccidere” la causa palestinese

Somdeep Sen

6 ago 2021 – Al Jazeera

La morte di Nizar Banat per mano delle forze di sicurezza dell’ANP non è stata un’anomalia.

La morte del 24 giugno di Nizar Banat, un deciso oppositore dell’ANP, per mano delle forze di sicurezza di quest’ultima ha scatenato settimane di proteste e critiche internazionali. Ciò è avvenuto sulla scia di proteste senza precedenti contro il sequestro di case palestinesi da parte dei coloni israeliani a Gerusalemme est e di una brutale guerra israeliana a Gaza.

I palestinesi che hanno protestato per la morte di Banat considerano il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas complice delle azioni dell’occupazione israeliana e chiedono la caduta del suo governo.

In una recente intervista con The Media Line, il ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hussein al-Sheikh, si è scusato con la famiglia di Banat a nome del presidente Abbas. Ha inoltre spiegato: “Forse si è verificato un errore durante l’azione delle forze dell’ordine. Anche se [Banat] era ricercato o voleva comparire per ottenere giustizia, non c’è nulla che possa giustificare questa vicenda”. Tuttavia, di fronte alle continue critiche, l’ANP ha anche cancellato l’articolo 22 del “Codice di condotta” per i dipendenti pubblici che garantisce la “libertà di espressione”.

L’ANP guidata da Mahmoud Abbas ha una lunga e ben documentata storia di brutale repressione degli attivisti dell’opposizione. Ma la crisi di legittimità che l’ANP sta affrontando non è solo il risultato dell’autoritarismo di Abbas.

Questa crisi è un’eredità duratura degli Accordi di Oslo che hanno istituito l’Autorità Palestinese non come uno strumento del movimento nazionale palestinese, ma come un meccanismo istituzionale appositamente costruito per circoscrivere qualsiasi forma di attivismo palestinese che miri a contrastare l’occupazione israeliana. I palestinesi che protestano stanno sfidando sempre più l’ANP e la soluzione dei due Stati per la quale, apparentemente, si batte.

Lo scopo dell’ANP è garantire la sicurezza di Israele

Che l’ANP non si sarebbe preoccupata del movimento nazionale palestinese era già evidente nelle “lettere di mutuo riconoscimento” scambiate dal presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e leader di Fatah Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin il 9 settembre 1993.

Nella sua lettera Arafat riconosceva il diritto di Israele a “esistere in pace e sicurezza”, dichiarava che l’OLP avrebbe rinunciato alla violenza e si assumeva la responsabilità di prevenire attacchi violenti contro Israele e punire i trasgressori dell’accordo.

Nella sua risposta, Rabin non riconosceva la richiesta palestinese di uno Stato o della sovranità. Invece accettava l’OLP solo come “rappresentante del popolo palestinese” e concordava di iniziare i negoziati.

Gli Accordi di Oslo hanno poi stabilito l’ANP e il Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) come un meccanismo provvisorio per l’autogoverno. Ma il processo di Oslo ha fatto ben poco per realizzare la formazione di uno Stato sovrano palestinese, poiché la confisca della terra, l’espansione del movimento delle colonie e la successiva frammentazione dei territori palestinesi occupati sono continuate nel corso del periodo provvisorio. E dal fallimento del vertice di Camp David, seguito dalla Seconda Intifada nel 2000, Israele ha solo consolidato ulteriormente il suo controllo militare sui territori occupati.

Con la dura occupazione israeliana in atto, il mandato di governo dell’ANP oggi è in gran parte limitato all’esecuzione di quanto contenuto nell’articolo 8 degli accordi di Oslo, in cui si afferma che l’ANP deve mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza interna” attraverso “un forte apparato di polizia”. Ciò ha portato ad assegnare la quota maggiore del bilancio nazionale alle forze di sicurezza dell’ANP. Inoltre il settore della sicurezza impiega quasi la metà del personale della pubblica amministrazione.

Questo apparato poliziesco è stato poi utilizzato per fornire una forte cooperazione nel campo della sicurezza con Israele. Le forze di sicurezza dell’ANP ostacolano e reprimono regolarmente l’attivismo palestinese che prende di mira la presenza militare e le colonie israeliane in Cisgiordania. L’ANP è anche impegnata nello scambio di informazioni con le autorità israeliane e contrasta preventivamente gli attacchi palestinesi progettati in aree e situazioni in cui l’esercito israeliano non è in grado di operare.

Esiste anche una “politica di arresti da porta girevole”: i palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano subito dopo il loro rilascio dalle carceri dell’ANP, o viceversa. Questo sistema a due livelli di arresto e detenzione, che spesso comporta la tortura dei prigionieri in custodia, ha lo scopo di scoraggiare le attività di resistenza dei palestinesi contro Israele.

Riflettendo sulla peculiarità di questa cooperazione, un attivista mi ha detto: “È proprio frustrante… Stiamo combattendo gli israeliani, ma l’ANP e Fatah lavorano con loro e li aiutano. Ironia della sorte, il mio attivismo è contro Israele, ma sono stato picchiato più volte dall’Autorità Nazionale Palestinese [che dagli israeliani, ndt.]”

Il rivoluzionario è diventato il burocrate

Dietro la condotta dell’Autorità Nazionale Palestinese c’è anche una generazione di funzionari di Fatah che hanno abbandonato la loro posizione rivoluzionaria nel corso del processo di Oslo.

La rinuncia alla violenza di Arafat nel 1993 fu il più notevole allontanamento dall’ethos rivoluzionario della lotta nazionale palestinese. Nel 1974 Arafat intervenne alle Nazioni Unite come il simbolo iconico della lotta di liberazione palestinese e dichiarò di essere arrivato portando sia “un ramoscello d’ulivo che il fucile di un combattente per la libertà”. Quindi implorò la comunità internazionale di “non lasciare che il ramoscello d’ulivo mi cada di mano”. Eppure, meno di due decenni dopo, aveva di fatto criminalizzato la lotta armata palestinese.

La sua trasformazione ha ispirato altri, come uno stretto collaboratore e fedele membro di Fatah che intervistai nel 2012. Parlando dell’ala militare della fazione islamista Hamas, sua rivale, e della risposta di quest’ultima all’operazione “Pilastro di Difesa” di Israele contro Gaza, mi disse: “Guarda, ero molto vicino ad Arafat. Sono stato addestrato per diventare un combattente. Ero con Arafat in Libano a combattere gli israeliani durante la guerra civile. Ho visto come stava soffrendo. Gli israeliani lo cercavano casa per casa. Dormiva in una casa per 20 minuti e poi lo trasportavamo nella casa successiva. Ma abbiamo combattuto perché stavamo lottando per essere rispettati”.

Tuttavia, non era favorevole alle operazioni militari di Hamas. Invece mi spiegò: “Adesso le cose sono cambiate. Con Oslo, il nostro leader ci ha detto che era ora che il combattente palestinese si togliesse la tuta mimetica e si mettesse giacca e cravatta. Mi sono tolto l’uniforme militare e ho lavorato per costruire il mio Paese. Sono diventato un ufficiale di polizia e ho lavorato a lungo, addestrando i poliziotti dell’Autorità Nazionale Palestinese”.

La percezione che “le cose sono cambiate” era evidente anche nelle mie conversazioni con i leader di Fatah nella Striscia di Gaza governata da Hamas nel 2013. Uno di questi importanti membri di Fatah, seduto nel soggiorno della sua casa nel leggendario campo profughi di Jabalia, mi disse: “Guarda le notizie. Queste persone [Hamas] non possono gestire il governo. Non fanno altro che parlare di muqawama [resistenza]. Guarda lo stato di Gaza a causa di questo”.

Naturalmente, Abbas personifica il completamento di questa trasformazione del rivoluzionario palestinese. Arafat è stato spesso visto coprirsi la testa con la kefiah palestinese, uno storico simbolo della lotta nazionale palestinese e della rivendicazione militante delle terre palestinesi nella loro interezza. A confronto il suo successore ha poche credenziali militari. A volte Abbas indossa simbolicamente la kefiah al collo e parla la lingua del nazionalismo. Ma raramente affronta l’occupazione. Al contrario, mantiene una cooperazione in materia di sicurezza con Israele ed è principalmente interessato a mantenere un residuo istituzionale degli accordi di Oslo, nonostante il processo di Oslo abbia fallito per quanto riguarda lo Stato palestinese.

L’autoritarismo dell’ANP è finanziato dai donatori internazionali

In sostanza Abbas e l’ANP sono stati in grado di sostenere il loro sistema di “governo” perché i donatori internazionali, che continuano a finanziare gli stipendi del settore pubblico, gli sforzi di rafforzamento delle istituzioni e la riforma del settore della sicurezza nei territori occupati, vedono la costituzione di istituzioni statali come un mezzo di costruzione della pace.

L’ANP gode di un controllo civile e militare minimo nei Territori Occupati ed è in gran parte vincolata alla volubile volontà dell’occupazione militare israeliana. Tuttavia, donatori come l’Unione Europea – che nel 2020 ha contribuito con 85 milioni di euro a stipendi e pensioni del settore pubblico – continuano a fornire all’Autorità Nazionale Palestinese i mezzi finanziari per agire in termini statali come un modo per disincentivare uno scontro militare e garantire la sicurezza di Israele.

Il risultato è che la fazione al potere, Fatah, è in grado di porsi come sinonimo di politica ufficiale e legittima. Ciò è in parte dovuto al fatto che, avendo ufficialmente rinunciato alla lotta armata contro Israele, gli è stato concesso il sostegno politico e materiale degli interlocutori a livello internazionale in quanto partner negoziale accettabile.

Più significativamente, però, attraverso il ben finanziato apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, i suoi dirigenti hanno i mezzi per sorvegliare la popolazione palestinese e determinare le uniche forme legittime e concesse di attivismo politico.

Donatori come gli Stati Uniti – che hanno lavorato per rafforzare la leadership di Abbas contro Hamas – sostengono che questo mandato consente all’ANP di essere garante di sicurezza, stabilità e pace. Ma come è evidente nella risposta dell’ANP alle proteste in corso, ciò dà solo a una fazione, di fronte a livelli di opposizione senza precedenti, le risorse per sopprimere i suoi critici con il pretesto di mantenere la legge e l’ordine.

Un cambio di leadership potrebbe non risolvere la crisi

Edward Said si rammaricò amaramente per la firma degli Accordi di Oslo in quanto simbolo della “capitolazione palestinese”. Anche i palestinesi che protestano contro la morte di Nizar Banat considerano la condotta dell’ANP una continuazione della capitolazione della lotta nazionale palestinese.

Finora ci sono poche prove che dimostrino che Abbas sia disposto a rinunciare al suo ruolo alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Tuttavia, nell’improbabile scenario in cui l’attuale crisi costringesse alla fine a un cambio di leadership, il nuovo governo sarebbe ancora vincolato dall’assetto istituzionale dell’ANP e dalle priorità politiche dei donatori.

Un cambiamento di paradigma potrebbe aver luogo solo se una nuova leadership fosse in grado di riproporre l’ANP – con il sostegno politico e finanziario della comunità dei donatori – come un’istituzione che opera in accordo con il movimento nazionale palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Somdeep Sen è professore associato di Studi sullo Sviluppo Internazionale alla Roskilde University in Danimarca. È l’autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial [Decolonizzare la Palestina: Hamas tra l’anticoloniale e il post-coloniale] (Cornell University Press, 2020)

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il popolo contro Mahmoud Abbas: l’Autorità Nazionale Palestinese ha i giorni contati?

Ramzi Baroud

6 luglio 2021 Middle East Monitor

Attualmente si sente dire spesso che l’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] ha i giorni contati. Questo accade ancora di più dopo che il 24 giugno Nizar Banat, noto attivista palestinese di 42 anni, è stato torturato e ucciso ad Hebron (Al-Khalil) dagli sgherri delle forze di sicurezza dell’ANP.

L’uccisione di Banat – o “assassinio”, come viene descritto da alcune organizzazioni in difesa dei diritti dei palestinesi – non è tuttavia un fatto isolato. La tortura nelle prigioni dell’ANP è il modus operandi con cui gli interroganti palestinesi estorcono le “confessioni”. I prigionieri politici palestinesi detenuti dall’ANP vengono divisi solitamente in due gruppi principali: quelli sospettati da Israele di essere coinvolti in attività contro l’occupazione israeliana; e gli altri che sono stati fermati per avere espresso critiche nei confronti della corruzione dell’ANP o della sua subalternità ad Israele.

In un rapporto di Human Rights Watch del 2018, l’organizzazione ha parlato di “decine di arresti” eseguiti dall’ANP “a causa di messaggi critici postati sui social media”. Banat rientrava perfettamente in questa categoria, in quanto era uno dei critici più espliciti e tenaci, che con i suoi numerosi video e messaggi sui social denunciava e metteva in difficoltà la leadership ANP di Mahmoud Abbas e del suo partito di governo Fatah. A differenza di altri, Banat faceva i nomi ed invocava misure severe contro chi sperpera i fondi pubblici palestinesi e tradisce la causa del popolo palestinese.

Banat era stato arrestato dalla polizia dell’ANP diverse volte in passato. A maggio la sua casa era stata attaccata con pallottole, granate stordenti e gas lacrimogeni da uomini armati. Banat aveva accusato dell’attacco Fatah.

La sua ultima campagna sui social media riguardava lo scandalo delle dosi di vaccino Covid-19 quasi scadute che l’ANP aveva ricevuto da Israele lo scorso 18 giugno. A causa della pressione pubblica esercitata da attivisti come Banat, l’ANP è stata costretta a restituire i vaccini israeliani che il primo ministro israeliano, l’ultranazionalista di estrema destra Naftali Bennett, aveva pubblicamente decantato come un gesto di buona volontà.

Quando gli uomini dell’ANP hanno fatto un blitz nella casa di Banat il 24 giugno, la ferocia della loro violenza è stata inaudita. Suo cugino Ammar ha spiegato che quasi 25 membri della sicurezza dell’ANP hanno fatto irruzione in casa, gli hanno spruzzato spray al peperoncino mentre era ancora a letto, e “hanno iniziato a colpirlo con spranghe di ferro e manganelli di legno”. Dopo averlo spogliato completamente, lo hanno trascinato dentro un veicolo. Dopo un’ora e mezza, i familiari hanno saputo che cosa gli era accaduto da un gruppo WhatsApp.

Dopo le smentite iniziali, sottoposta alle pressioni di migliaia di persone che protestavano in tutta la Cisgiordania, l’ANP è stata costretta ad ammettere che quella di Banat non era stata una morte “naturale”. Il ministro della giustizia Mohammed Al-Shalaldeh ha dichiarato alla televisione locale che un primo rapporto medico aveva segnalato che Banat era stato oggetto di violenza fisica.

Questa rivelazione apparentemente esplosiva avrebbe dovuto dimostrare che l’ANP era disposta ad investigare e ad assumersi la responsabilità delle sue azioni. Niente di più falso, invece. L’ANP non si è mai assunta la responsabilità della propria violenza, che è il fulcro stesso della sua esistenza. Arresti arbitrari, tortura, repressione di proteste pacifiche sono sinonimi dei servizi di sicurezza dell’ANP, come hanno segnalato numerosi rapporti di organizzazioni in difesa dei diritti sia palestinesi sia internazionali.

Potrebbe darsi, dunque, che “l’ANP abbia i giorni contati”? Per valutare questo interrogativo è importante prendere in esame la logica di fondo che ha portato alla creazione dell’ANP e confrontare questa finalità iniziale con ciò che è emerso negli anni successivi.

L’ANP venne fondata nel 1994 come autorità nazionale di transizione con l’obiettivo di guidare il popolo palestinese lungo il processo che doveva culminare nella liberazione nazionale, passando per “negoziati per un assetto definitivo”, che si sarebbero dovuti concludere entro la fine del 1999. Sono trascorsi quasi tre decenni senza che l’ANP abbia segnato un qualsiasi risultato al proprio attivo. Questo non significa che l’ANP, dal punto di vista della sua dirigenza e di Israele, sia stato un fallimento completo, perché essa ha continuato a svolgere il ruolo più importante che le era stato affidato: il coordinamento della sicurezza con l’occupazione israeliana. In altre parole, proteggere i coloni illegali ebraici nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, e fare il lavoro sporco per Israele nelle zone palestinesi gestite autonomamente dall’ANP [secondo gli accordi di Oslo, Cisgiordania e Gaza si sarebbero divise fra Zona A (pieno controllo civile dell’ANP); Zona B (controllo civile palestinese e controllo israeliano per la sicurezza); Zona C (pieno controllo israeliano, ndtr]. In cambio l’ANP avrebbe ricevuto miliardi di dollari provenienti dai “Paesi donatori” a guida USA e le tasse palestinesi raccolte a nome suo da Israele.

Quello stesso paradigma è tuttora operativo, ma per quanto ancora? In occasione della ribellione palestinese di maggio, il popolo ha mostrato un’unità nazionale mai vista prima e una determinazione che supera le divisioni fra fazioni, richiedendo con fermezza la rimozione dal potere di Abbas. Ha associato – con ragione – l’occupazione israeliana con la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Da quando ci sono state le proteste di massa a maggio, la retorica ufficiale dell’ANP è stata offuscata da confusione, disperazione e panico. I dirigenti dell’ANP, Abbas incluso, hanno tentato di posizionarsi come leader rivoluzionari. Hanno parlato di “resistenza”, “martiri” e persino di “rivoluzione”, quando al contempo rinnovavano il proprio impegno nei confronti del “processo di pace” e dell’agenda USA in Palestina.

Quando Washington ha ripreso a sostenere economicamente l’Autorità di Abbas dopo l’interruzione decisa dal precedente presidente Donald Trump, l’ANP ha sperato di ritornare alla situazione precedente di relativa stabilità, abbondanza economica e rilevanza politica. Sembra invece che il popolo palestinese abbia voltato pagina, come dimostrano le proteste di massa, che sono sempre state represse – il che è rivoltante ma assolutamente prevedibile – con violenza da parte delle forze di sicurezza dell’ANP nell’intera Cisgiordania, compresa Ramallah, sede dell’ANP.

Anche gli slogan sono cambiati. In seguito all’omicidio di Banat, a Ramallah migliaia di manifestanti, in rappresentanza di tutti gli strati della società, hanno chiesto all’ottantacinquenne Abbas di dimettersi. I cori si riferivano agli sgherri della sua sicurezza come “baltajieh”e “shabeha” — “delinquenti” – che sono termini mutuati dalle proteste arabe durante i primi anni delle varie rivolte in Medio Oriente.

Questo cambiamento di linguaggio rimanda ad uno spostamento critico nel rapporto fra i palestinesi medi – persone che hanno trovato il coraggio di organizzare una ribellione di massa contro l’occupazione e il colonialismo israeliani – e la propria “dirigenza” opportunista e collaborazionista. E’ importante notare che non c’è aspetto di questa Autorità Nazionale Palestinese che goda di una qualche credenziale democratica. Anzi, il 30 aprile scorso Abbas “ha rinviato” le elezioni generali che si sarebbero dovute tenere in Palestina a maggio. I pretesti addotti erano inconsistenti, e “rinviato” era un eufemismo per “annullato”. Il suo mandato personale come presidente è scaduto dal 2009.

L’ANP si è rivelata essere un ostacolo alla libertà dei palestinesi, e non ha alcuna credibilità fra coloro che vivono nella Palestina occupata. Rimane al potere solo per il sostegno di USA e Israele. Se questa particolare Autorità abbia i giorni contati o no dipende dalla capacità del popolo palestinese di dimostrare che la propria volontà collettiva è più forte dell’ANP e dei benefattori di questa. L’esperienza insegna che quando arriveremo al capitolo Il Popolo contro Mahmoud Abbas, alla fine sarà il popolo palestinese ad avere la meglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Gruppi palestinesi rivali si scontrano durante le proteste contro la morte di un attivista

Al Jazeera e agenzie

27 giugno 2021 – Al Jazeera

Nel quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah, sono scoppiati scontri.

Sabato, durante il quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, un esplicito oppositore dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), morto mentre era detenuto dall’ANP, gruppi rivali di palestinesi si sono scontrati nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Nizar Banat, quarantatreenne attivista di Hebron noto per i video sulle reti sociali in cui denunciava la presunta corruzione all’interno dell’ANP, è morto giovedì dopo che le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno arrestato con l’uso della violenza.

Stefanie Dekker, inviata di Al Jazeera a Ramallah, afferma che domenica sono scoppiati scontri tra manifestanti che chiedevano le dimissioni del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e un gruppo contrario che manifestava a favore dell’ANP e di Fatah, il partito di Abbas che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese.

Dekker ha detto: “C’era una piccola folla di circa 100 persone che gridavano slogan contro l’Autorità Nazionale Palestinese.”

C’era un’altra folla che era in fondo alla strada…che era a favore di Fatah, il partito del gruppo dirigente, arrivata per unirsi a loro e poi sono seguiti scontri,” afferma Dekker. Dekker di Al Jazeera sostiene che domenica c’è stata “una campagna concertata” contro i media che informano sulle proteste.

Siamo stati circondati da sei (persone), non posso che chiamarli teppisti, che hanno chiesto di vedere le nostre telecamere. In quel momento non stavamo filmando. Di fatto ci hanno obbligati a smontare il riflettore del nostro camion SMG,” afferma.

A un altro collega e amico sono state spaccate le telecamere. Ciò è successo durante gli ultimi due giorni.”

Nuove proteste contro la morte di Banat hanno avuto luogo domenica anche nella sua città natale di Hebron e a Betlemme, entrambe nella Cisgiordania occupata.

A Betlemme forze di sicurezza palestinesi in tenuta antisommossa hanno sparato lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti, obbligandone molti a mettersi al riparo.

Il medico legale Samir Abu Zarzour ha affermato che, secondo l’autopsia preliminare, le ferite indicano che Banat è stato picchiato alla testa, al petto, al collo, alle gambe e alle mani, e che è passata meno di un’ora tra il suo arresto e la morte.

La famiglia di Banat ha detto che le forze di sicurezza gli hanno spruzzato uno spray al peperoncino, lo hanno picchiato e trascinato via in auto.

L’ANP ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla morte di Banat, ma ha fatto ben poco per placare la rabbia nelle strade.

In seguito alle notizie sulla sua morte giovedì a Ramallah i manifestanti hanno provocato incendi, bloccato le strade del centro città e si sono scontrati con la polizia antisommossa. Venerdì, al funerale di Banat a Hebron e dopo la preghiera del venerdì nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, i palestinesi hanno anche scandito slogan contro l’ANP.

Sabato a Ramallah i dimostranti si sono scontrati con forze di sicurezza palestinesi e avversari favorevoli all’ANP, mentre in centinaia hanno cercato di sfilare in corteo fino al complesso degli uffici di Abbas. Banat si era candidato alle elezioni parlamentari palestinesi, che erano previste per maggio finché Abbas non le ha rinviate a tempo indeterminato.

Mkhaimar Abusada, docente associato in scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza, ha detto ad Al Jazeera che Abbas e l’ANP, sostenuta dalla comunità internazionale, stanno affrontando una crescente reazione da parte dei palestinesi per la percezione di corruzione e autoritarismo.

Non si erano mai viste queste masse di manifestanti palestinesi che protestano contro l’Autorità Nazionale Palestinese, scandendo slogan direttamente contro il presidente Abbas perché venga rimosso e cacciato [dal potere].”

Una vergogna”

Shawan Jabareen, direttore dell’associazione per i diritti Al Haq, ha affermato che gli scontri di domenica tra gruppi rivali di palestinesi nelle strade sono stati una “vergogna”, soprattutto dopo che a maggio molti palestinesi avevano messo da parte le differenze per unirsi nelle proteste contro i bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza durati 11 giorni e contro le espulsioni forzate di palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

In questo momento si vedono di nuovo i palestinesi divisi,” ha detto ad Al Jazeera.

Ad essere onesti, sono preoccupato per la gente qui.”

Jabareen ha affermato che molti degli uomini in borghese che domenica hanno aggredito i giornalisti erano membri delle forze di sicurezza.

Non sono civili. Sono membri della sicurezza,” ha detto Jabareen.

Fadi Quran, uno storico attivista di Avaaz [ong che promuove cause ambientali e a favore dei diritti umani, ndtr.], era presente alle proteste di domenica e anche lui afferma che “teppisti” dell’ANP hanno aggredito manifestanti e giornalisti e molestato sessualmente donne che partecipavano al corteo.

Quello che è successo è estremamente pericoloso e doloroso, tutto perché essi temono la mobilitazione popolare contro Mahmoud Abbas e l’ANP, che continuano a collaborare con l’occupazione e a opprimere il popolo palestinese,” ha affermato.

L’ANP si coordina con Israele sulla sicurezza e su questioni civili.

La gente non dovrebbe vedere Israele e l’ANP come entità separate, l’ANP come entità è un subappaltante dell’occupazione,” ha detto Quran.

Nel contempo, ha affermato un iscritto al suo partito, Nasri Abu Jaish, ministro del Lavoro e rappresentante del Partito del Popolo nel governo, domenica ha dato le dimissioni.

Il Partito del Popolo Palestinese, di sinistra, si è ritirato dal governo dell’ANP guidato da Fatah a causa della sua “mancanza di rispetto per le leggi e le libertà pubbliche,” ha affermato Issam Abu Bakr, membro del partito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In migliaia manifestano in Cisgiordania dopo la morte di un dissidente in custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Amira Hass, Jack Khoury

24 giugno 2021 – Haaretz

Un palestinese, critico implacabile dell’Autorità Nazionale Palestinese e dei suoi leader, è morto giovedì mattina dopo essere stato arrestato nella sua casa prima dell’alba dalle forze di sicurezza palestinesi. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare nelle aree di Hebron e Ramallah.

La famiglia di Nizar Banat, originario della città di Dura, nel sud della Cisgiordania, sostiene che egli è stato picchiato duramente dalle forze di sicurezza palestinesi durante il suo arresto. Nella prima mattinata di giovedì sono emerse voci secondo cui sarebbe stato trasferito in un ospedale e poco dopo l’ufficio distrettuale di Hebron ha annunciato la morte di Banat. Sui social media palestinesi viene dichiarato uno “shahid”, o martire.

I manifestanti a Hebron e Ramallah accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di aver commesso un omicidio politico, mentre alcuni gruppi si sono scontrati con la polizia palestinese a Ramallah. I manifestanti hanno anche chiesto che il presidente Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese siano deposti.

Banat, un ex membro del movimento Fatah, è stato più volte arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese per le sue aspre critiche alla leadership nei post e nei video di Facebook. Ha accusato i leader dell’ANP di corruzione e anche di aver tratto vantaggi dall’abbandono degli interessi nazionali palestinesi in cambio di benefici personali e ricchezza.

I gruppi per i diritti umani e la famiglia di Banat hanno dichiarato che l’autopsia ha mostrato che egli è deceduto soffocato dal sangue nei polmoni dopo essere stato picchiato dalle forze di sicurezza. Uno dei medici che hanno preso parte all’autopsia ha anche rivelato che Banat ha subito lesioni a tutte le parti del corpo, comprese testa, braccia e gambe. Il medico ha detto che le circostanze sollevano il forte sospetto di comportamenti criminali

Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato che l’Autorità Nazionale Palestinese avvierà una commissione d’inchiesta sulle circostanze della morte di Banat, ma a Hebron e nell’area di Ramallah si continua a manifestare. I commenti che circolano sui social media paragonano Banat al dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 in Turchia nel consolato dell’Arabia saudita.

Da parte sua, Hamas ha risposto all’incidente incoraggiando la partecipazione di massa ai funerali di Banat e invitando i palestinesi a “cambiare le condizioni pericolose volute dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal coordinamento della sicurezza in Cisgiordania”.

Secondo gli attivisti palestinesi, la casa di Banat si trova nell’area della città di Hebron che è sotto il controllo di sicurezza israeliano, quindi le forze palestinesi devono ricevere il permesso da Israele per entrare nell’area ed eseguire gli arresti.

Banat aveva anche contestato ferocemente Mohammed Dahlan – un rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas – e i suoi sostenitori, molti dei quali sono ex membri dell’establishment della sicurezza palestinese.

Uno degli ultimi video che ha pubblicato su Facebook riguardava l’accordo sui vaccini Israele-ANP, secondo il quale Israele avrebbe dovuto fornire ai palestinesi vaccini Pfizer contro il coronavirus vicini alla scadenza in cambio di nuove dosi che Pfizer invierà a Israele il prossimo anno. Molti cittadini palestinesi, che sono già fortemente scettici nei confronti dei vaccini, erano convinti che l’ANP stesse intenzionalmente nascondendo i dettagli dell’accordo.

Banat ha affermato nel suo video che se dei palestinesi fossero morti per aver ricevuto dosi di vaccino scadute, Israele sarebbe stato accusato di sterminio di massa – “un’accusa che non avrebbe potuto tollerare”, motivo per cui l’accordo è stato fatto trapelare.

Banat era un membro del partito Liberazione e Dignità e prevedeva di candidarsi alle elezioni parlamentari palestinesi, originariamente previste per il 22 maggio, ma annullate da Abbas.

Gli attivisti palestinesi che criticano l’ANP riferiscono che i suoi apparati di sicurezza stanno esercitando pressioni crescenti contro di loro nel tentativo di metterli a tacere e che nelle scorse settimane molti sono stati arrestati o convocati per essere diffidati. All’inizio di questa settimana anche Issa Amro, un attivista residente a Hebron, è stato arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese dopo aver scritto un post critico sui social media; è stato rilasciato il giorno successivo.

La commissione d’inchiesta annunciata dall’Autorità Nazionale Palestinese sarà guidata dal ministro della Giustizia Mohammed al-Shalaldeh, insieme a una personalità indipendente che si occupa a livello professionale di diritti umani, a un medico in rappresentanza della famiglia e a un membro dell’intelligence palestinese. Il primo ministro Shtayyeh ha affermato che la commmissione d’inchiesta avrà accesso ai reperti autoptici, alle testimonianze della famiglia e di altre parti interessate e a tutte le informazioni rilevanti.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Unità, infine: il popolo palestinese si è sollevato

Ramzy Baroud

18 maggio 2021 – Middle East Monitor

 

Anzitutto qualche chiarimento sul linguaggio usato per descrivere le violenze in atto nella Palestina occupata ed anche in tutto Israele. Non è un ‘conflitto’. Non è neppure una ‘controversia’ o una ‘violenza settaria’, né una guerra in senso tradizionale.

Non è un conflitto perché Israele è una potenza occupante e il popolo palestinese è una nazione occupata. Non è una controversia perché libertà, giustizia e diritti umani non possono essere trattati come semplici divergenze politiche. I diritti inalienabili del popolo palestinese sono inscritti nel diritto internazionale e umanitario e l’illegalità delle violazioni israeliane dei diritti umani in Palestina sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.

Se è una guerra, allora è una guerra unilaterale israeliana, che incontra una modesta, ma reale e determinata resistenza palestinese.

In realtà, si tratta di una rivolta palestinese, un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta palestinese, sia per la sua natura che per la sua portata.

Per la prima volta da tanti anni vediamo il popolo palestinese unito, da Gerusalemme Al-Quds [nome arabo della città di Gerusalemme. Significa “la (città) santa”, ndtr.] a Gaza, alla Cisgiordania e, anche in modo più importante, alle comunità, città e villaggi nella Palestina storica – oggi Israele.

Questa unità conta più di qualunque cosa, è molto più carica di conseguenze di qualche accordo tra le fazioni palestinesi. Essa eclissa Fatah e Hamas e tutto il resto, perché senza un popolo unito non può esserci una resistenza significativa, una prospettiva di liberazione, una lotta vincente per la giustizia.

Il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu non poteva certo prevedere che un’azione di routine di pulizia etnica nel quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah avrebbe condotto ad una sollevazione palestinese, che unifica tutti i settori della società palestinese in una dimostrazione di unità senza precedenti.

Il popolo palestinese ha deciso di lasciarsi alle spalle tutte le divisioni politiche e le polemiche di fazione. Sta invece creando nuove terminologie, incentrate sulla resistenza, la liberazione e la solidarietà internazionale. Di conseguenza sta sfidando la faziosità, e contemporaneamente ogni tentativo di normalizzare l’apartheid israeliano. Di pari importanza, la voce palestinese sta ora bucando il silenzio internazionale, costringendo il mondo ad ascoltare un unico canto di libertà.

I capi di questo nuovo movimento sono giovani palestinesi, a cui è stato impedito di partecipare a qualunque forma di rappresentanza democratica, che vengono costantemente emarginati ed oppressi dalla loro stessa leadership e dalla incessante occupazione militare israeliana. Sono nati in un mondo di esilio, povertà ed apartheid, indotti a pensare di essere inferiori, di una razza inferiore. Il loro diritto all’autodeterminazione e tutti gli altri loro diritti sono stati rinviati indefinitamente. Sono cresciuti senza speranza, vedendo le loro case demolite, la loro terra rubata e i loro genitori umiliati.

Infine, si stanno sollevando.

Senza un previo coordinamento e senza un manifesto politico, questa nuova generazione palestinese sta facendo sentire la sua voce, sta mandando un inequivocabile forte messaggio ad Israele e alla sua società sciovinista di destra, cioè che il popolo palestinese non è fatto di vittime passive: che la pulizia etnica di Sheikh Jarrah e del resto della Gerusalemme est occupata, il protratto assedio di Gaza, l’interminabile occupazione militare, la costruzione di colonie ebraiche illegali, il razzismo e l’apartheid non resteranno più sotto silenzio; benché stanchi, poveri, spossessati, assediati ed abbandonati, i palestinesi continueranno a difendere i propri diritti, i propri luoghi sacri e l’assoluta inviolabilità del proprio popolo.

Certo, l’attuale violenza è stata fomentata dalle provocazioni israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Tuttavia non si è mai trattato solo della pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Questo quartiere assediato non è che un microcosmo della più ampia lotta palestinese.

Netanyahu può aver sperato di usare Sheikh Jarrah come un modo per mobilitare il suo elettorato di destra intorno a sé, per formare un governo di emergenza o aumentare le sue possibilità di vincere anche le quinte elezioni. Il suo spericolato comportamento, inizialmente dovuto a motivi del tutto personali, ha scatenato una ribellione popolare tra i palestinesi, mostrando Israele come lo Stato violento, razzista e di apartheid quale è ed è sempre stato.

L’unità palestinese e la resistenza popolare si sono dimostrate vincenti anche sotto altri aspetti. Mai prima d’ora avevamo visto questa ondata di sostegno alla libertà palestinese, non solo da parte di milioni di persone comuni in tutto il mondo, ma anche da parte di celebrità – star del cinema, calciatori, intellettuali di primo piano ed attivisti politici, addirittura modelle e influencer dei social media. Gli hashtag ‘SaveSheikhJarrah’ e ‘FreePalestine’, tra i tanti altri, sono ora interconnessi e hanno pervaso tutte le piattaforme social per settimane. I continui tentativi di Israele di presentarsi come una vittima perenne di qualche immaginaria orda di arabi e musulmani non pagano più. Il mondo finalmente può vedere, leggere e ascoltare la tragica realtà della Palestina e la necessità di porre termine immediatamente a questa tragedia.

Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se non per il fatto che tutti i palestinesi hanno legittime ragioni e stanno parlando all’unisono. Nella loro spontanea reazione e nella genuina, comune solidarietà tutti i palestinesi sono uniti, da Sheikh Jarrah all’intera Gerusalemme, a Gaza, Nablus, Ramallah, Al-Bireh e persino alle città palestinesi all’interno di Israele – Lod, Umm Al-Fahm, Kufr Qana ed altre.

Nella nuova rivoluzione popolare della Palestina le fazioni, la geografia e tutte le divisioni politiche sono irrilevanti. La religione non è fonte di divisione, ma di unità spirituale e nazionale.

Le attuali atrocità israeliane a Gaza continuano, con un crescente pedaggio di morte. Questa devastazione continuerà fino a quando il mondo tratterà il devastante assedio della impoverita e sottile Striscia (di Gaza) come irrilevante. La gente a Gaza moriva da molto prima che le bombe israeliane esplodessero sulle sue case e quartieri. Moriva per la mancanza di medicine, per l’acqua inquinata, per la carenza di elettricità e per le infrastrutture fatiscenti.

Dobbiamo salvare Sheikh Jarrah, ma dobbiamo anche salvare Gaza; dobbiamo chiedere la fine dell’occupazione militare israeliana della Palestina e, con essa, del sistema di discriminazione razziale e di apartheid. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono ora precise e determinate nel descrivere questo regime razzista, con Human Rights Watch e l’associazione israeliana per i diritti B’Tselem che si uniscono all’appello per l’eliminazione dell’apartheid nell’intera Palestina.

Parlatene. Parlatene apertamente. I palestinesi si sono svegliati. E’ ora di schierarsi al loro fianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Un golpe”: le fazioni palestinesi criticano il rinvio delle elezioni politiche

Al Jazeera e agenzie

30 aprile 2021 – Al Jazeera

Hamas afferma che la decisione del presidente Abbas “è un golpe contro il percorso verso la collaborazione politica e il consenso”.

Il movimento palestinese Hamas, che governa la Striscia di Gaza assediata, ha duramente criticato la decisione del presidente Mahmoud Abbas di rimandare le elezioni politiche previste il 22 maggio.

Giovedì notte il presidente Abbas ha annunciato il rinvio facendo riferimento al rifiuto israeliano di permettere che si tengano le elezioni a Gerusalemme est. Ha tuttavia sottolineato che una volta che Israele consenta di votare a Gerusalemme, le elezioni si terranno “entro una settimana”.

Abbiamo accolto con rammarico la decisione di Fatah (il partito) e dell’Autorità Nazionale Palestinese espressa dal loro presidente, Mahmoud Abbas, di interrompere le elezioni palestinesi,” ha affermato in un comunicato l’organizzazione Hamas.

Essa afferma di ritenere totalmente responsabili l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e Fatah del rinvio e delle sue ripercussioni, considerando questo passo “un golpe contro il cammino verso la collaborazione nazionale e il consenso.”

Il comunicato afferma che Hamas ha boicottato l’incontro [che ha preceduto la decisione di rinviare il voto, ndtr.], in quanto “sapeva già che l’ANP e Fatah stavano andando verso l’annullamento delle elezioni per calcoli diversi, non riguardanti Gerusalemme.” Anche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, respingendo la decisione, ha chiesto l’osservanza degli accordi nazionali per tenere le elezioni, aggiungendo che cercherà in ogni modo di ribaltare la decisione di rimandare il voto. V

Anche il commissario dell’Unione Europea per la politica estera Josep Borrell ha condannato la decisione di rinviare il voto a lungo atteso.

La decisione di rimandare le previste elezioni palestinesi, comprese quelle legislative fissate originariamente per il 22 maggio, è molto deludente,” ha detto Borrell in un comunicato.

Incoraggiamo vivamente tutti gli attori palestinesi a riprendere gli sforzi basandosi sui colloqui fruttuosi tra le fazioni durante i mesi scorsi. Dovrebbe essere fissata senza indugio una nuova data per le elezioni.”

Il ritardo rischia di accentuare le tensioni  in una società palestinese politicamente divisa.

All’inizio di questa settimana il quotidiano “Al-Quds”, noto per essere vicino all’ANP, ha rivelato che Abbas è stato sottoposto a pressioni da parte araba e statunitense perché rinviasse il voto. Ha affermato che le pressioni erano dovute alla probabilità che Hamas vincesse le elezioni.

Proteste

Parlando con Al Jazeera prima della decisione, alcuni palestinesi nella Cisgiordania occupata hanno detto che se il governo palestinese avesse voluto realmente andare al voto avrebbe trovato una soluzione. “È facile trovare delle scuse,” ha detto un negoziante palestinese.

Dopo la decisione di Abbas, centinaia di palestinesi arrabbiati si sono riuniti nella città centrale di Ramallah e nella Striscia di Gaza per condannare la mossa.

C’è un’intera generazione di giovani che non sa cosa siano le elezioni,” ha detto all’agenzia di notizie AFP Tariq Khudairi, un manifestante di Ramallah. “Questa generazione ha il diritto di eleggere i propri dirigenti.”

Guadagnare tempo

Chi critica Abbas lo accusa di aver utilizzato la questione di Gerusalemme per guadagnare tempo in quanto le prospettive politiche di Fatah erano peggiorate.

Hamas è vista come meglio organizzata di Fatah e con buone prospettive di conquistare terreno in Cisgiordania.

Alcuni osservatori hanno anche visto il problema di Gerusalemme come un possibile pretesto per l’annullamento, perché una vittoria della profondamente divisa Fatah di Abbas è considerata incerta.

In recenti sondaggi, due terzi degli interpellati hanno manifestato scontento nei confronti del presidente. Abbas ha anche affrontato l’opposizione da parte di gruppi scissionisti di Fatah, tra cui uno guidato da Nasser al-Kidwa, nipote del leggendario leader palestinese Yasser Arafat, e un altro dal potente ex-capo dei servizi di sicurezza di Fatah, in esilio, Mohammed Dahlan.

Controsenso”

Durante le ultime elezioni palestinesi, gli abitanti di Gerusalemme est hanno votato nei dintorni della città e migliaia l’hanno fatto via posta, un’iniziativa simbolica accettata da Israele.

Questa settimana il ministero degli Esteri israeliano ha affermato che le elezioni sono una “questione interna dei palestinesi e che Israele non ha intenzione di interferire con esse o di impedirle.”

Ma non ha fatto alcun commento riguardo al voto a Gerusalemme, la città che descrive come sua “capitale indivisibile” e dove ora vieta ogni attività politica dei palestinesi.

Abbas ha detto ai dirigenti dell’OLP di aver ricevuto un messaggio da Israele in cui si dice di non poter dare indicazioni sulla questione di Gerusalemme perché lo Stato ebraico attualmente non ha un governo.

Lo stesso Israele è impantanato nella sua peggiore crisi politica di sempre, senza aver ancora formato un governo in seguito alle inconcludenti elezioni del 23 marzo.

Veto” israeliano

Parlando con alcuni inviati prima dell’annuncio di venerdì, la giornalista palestinese Nadia Harhash, critica con Abbas, ha detto che utilizzare Gerusalemme per giustificare un rinvio “non è affatto una mossa astuta per l’ANP.”

Harhash, candidata alle elezioni con una fazione contraria ad Abbas, ha sostenuto che ciò concede a Israele il potere di veto de facto sul diritto di voto dei palestinesi.

Anche Hamas ha affermato che un ritardo rappresenta una resa al “veto dell’occupazione israeliana.” Le elezioni sono state in parte viste come un tentativo unitario da parte di Hamas e Fatah per rafforzare la fiducia a livello internazionale sulla capacità di governo dei palestinesi prima della possibile ripresa dell’attività diplomatica guidata dagli USA con il presidente Joe Biden, dopo quattro anni di Donald Trump, che hanno visto Washington appoggiare obiettivi fondamentali di Israele.

Alcuni analisti hanno affermato che Abbas sperava che le elezioni consentissero a Fatah e Hamas di continuare a condividere il potere, ma si è sentito minacciato dall’emergere di forti fazioni scissioniste e dal sorgere di nuovi gruppi critici nei confronti della sua leadership.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il ruolo del Quartetto è di minare la democrazia palestinese

Motasem A. Dalloul*

13 aprile 2021 – Monitor de Oriente

Il 23 marzo ho ricevuto una mail da Murad Bakri, responsabile della comunicazione strategica e dell’informazione pubblica dell’Ufficio del Coordinatore Speciale ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente. Bakri voleva farci sapere che il “Quartetto per il Medio Oriente” continua ad esistere ed è disposto a riprendere la sua mediazione per la pace tra Israele e i palestinesi.

Gli inviati del Quartetto per il Medio Oriente dell’Unione Europea, della Federazione Russa, degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite si sono riuniti da remoto per discutere il ritorno a negoziati significativi che portino a una soluzione dei due Stati, compresi passi concreti per migliorare la libertà, la sicurezza e la prosperità di palestinesi e israeliani, cosa che di per sé è importante,” afferma il comunicato ufficiale.

Ricordo le riunioni infinite tra il Quartetto e i funzionari israeliani e palestinesi dal 2002, quando venne creato, al 2014, quando i colloqui di pace fallirono. Durante quel periodo il Quartetto si sforzò in apparenza di raggiungere una soluzione, che significava fondamentalmente la creazione di uno Stato palestinese disarmato e con frontiere permanenti accanto a Israele.

In realtà non si ottenne niente, e il Quartetto rilasciò la sua ultima dichiarazione il 22 luglio 2017. Un anno prima, il 7 luglio 2016, aveva pubblicato un rapporto che affrontava le minacce al processo di pace e formulava raccomandazioni per progredire nella soluzione a due Stati. Il rapporto accusava i palestinesi di continuare con la violenza rappresentata dalla messa in pratica di “atti di terrorismo contro gli israeliani e istigazione alla violenza.”

Il rapporto non citava le migliaia di palestinesi assassinati dagli israeliani dalla formazione del Quartetto (e, di fatto, dalla creazione di Israele stesso) né l’uso di forza letale da parte di Israele contro i civili palestinesi. Non citava neppure le migliaia di palestinesi, tra cui minorenni, che subivano dure condizioni nelle carceri israeliane né le centinaia di palestinesi che sono detenuti per mesi e anni senza accuse né processo. Prima della lunga ibernazione, il Quartetto disse che Israele doveva fermare l’espansione delle colonie e togliere le restrizioni imposte alla Striscia di Gaza assediata. Accusò anche Israele del mancato sviluppo adeguato nei territori occupati.

Benché il Quartetto abbia segnalato il COVID-19 per giustificare la propria resurrezione, credo che la vera ragione sia agire in nome di Israele e degli Stati Uniti per sabotare la democrazia palestinese, il suo principale obiettivo da quando esiste. Nathalie Tocci, politologa italiana esperta in relazioni internazionali specializzata nel ruolo dell’Unione Europea nelle questioni internazionali e nel mantenimento della pace, ha detto in uno studio pubblicato nel 2011: “Tutte le iniziative del Quartetto… sono state risposte a stimoli provenienti da USA e Israele.”

Il Quartetto venne creato quando la Seconda Intifada palestinese – rivolta popolare contro l’occupazione israeliana – era diventata più feroce. Il gruppo spacciò la “roadmap verso la pace” degli Stati Uniti nel tentativo di coinvolgere i palestinesi nelle conversazioni di pace e far loro cambiare idea riguardo al loro diritto alla resistenza, legittimato dalle leggi e convenzioni internazionali. Era chiaro che il Quartetto non era altro che uno strumento di Washington al servizio di Israele, un sofisticato randello con cui colpire i nemici di Israele.

“Disgraziatamente le attività (del Quartetto) hanno rispecchiato i tentativi infruttuosi dell’UE di inquadrare le iniziative statunitensi in un contesto multilaterale oppure i tentativi fruttuosi degli Stati Uniti di dare una copertura multilaterale alle azioni unilaterali,” spiega Tocci. Ciò chiarisce il ruolo del Quartetto.

Possiamo dire con convinzione che le posizioni degli Stati Uniti sulla Palestina in genere riflettono quelle di Israele. Prendiamo per esempio la posizione di Washington su Hamas, la principale fazione palestinese. Nel suo rapporto aggiornato al mese scorso il Servizio Ricerche del Congresso [USA] dice: “Storicamente gli Stati Uniti hanno cercato di rafforzare il presidente dell’OLP e dell’ANP Mahmoud Abbas contro Hamas.” Il rapporto afferma che, in seguito alle elezioni parlamentari del 2006 vinte da Hamas, “Israele, gli Stati Uniti e altri membri della comunità internazionale hanno cercato di neutralizzare o marginalizzare Hamas.” In base alle conclusioni di Tocci, il Quartetto deve aver adottato questo punto di vista, e in effetti è ciò che è accaduto.

Hugh Lovatt, del Consiglio Europeo degli Affari Esteri, il mese scorso ha affermato che L’UE e gli Stati Uniti furono all’inizio strenui difensori della democrazia palestinese, e furono una forza che promosse le ultime elezioni parlamentari palestinesi che si tennero nel 2006, incitando Hamas e Al Fatah a partecipare in modo costruttivo al processo elettorale. “L’UE e gli Stati Uniti si mostrarono meno a loro agio quando, in seguito alla vittoria di Hamas, il risultato democratico fu contrario ai loro interessi,” aggiunge.

“Secondo tutti gli indicatori le elezioni del 2006 furono libere e giuste,” afferma Lovatt, e la UE definì il voto “una pietra miliare nella costruzione delle istituzioni democratiche.” La UE disse anche: “Queste elezioni hanno visto l’impressionante partecipazione degli elettori in un processo elettorale aperto e corretto che è stato organizzato efficacemente da una Commissione Elettorale Centrale Palestinese professionale e indipendente.”

Tuttavia Lovatt evidenzia: “Essendosi aspettati che le elezioni dessero più potere ad Abbas e ad Al Fatah, gli Stati Uniti risposero alla vittoria elettorale di Hamas in modo avventato, spingendo rapidamente per l’isolamento internazionale e la pressione sul governo di Haniyeh [Hamas]”. Gli Stati Uniti hanno portato avanti la loro politica attraverso le condizioni imposte ai palestinesi dal Quartetto.”

Secondo Tocci “immediatamente dopo la schiacciante vittoria elettorale di Hamas, il 30 gennaio, il Quartetto ribadì la sua posizione.” Una dichiarazione rilasciata in seguito alla vittoria del movimento nel 2006 diceva che “il Quartetto considera che tutti i membri di un futuro governo palestinese dovranno impegnarsi alla nonviolenza, al riconoscimento di Israele e all’accettazione degli accordi e obblighi precedenti.”

Queste sono in realtà le condizioni degli Stati Uniti per una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese. Queste condizioni alimentarono il conflitto interno palestinese, che nel 2007 provocò una divisione interna che continua tuttora. Lovatt descrive quanto avvenuto: “Le forze di Hamas cacciarono dalla Striscia di Gaza le forze di sicurezza dell’ANP controllate da Fatah anticipando lo stesso piano di Al Fatah, appoggiato dagli Stati Uniti, per spodestare Hamas.” In altre parole, un colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti.

Con i palestinesi impegnati in elezioni politiche che si dovrebbero tenere il prossimo mese, gli Stati Uniti e Israele hanno risuscitato il Quartetto perché si opponga a una possibile vittoria di Hamas. “È probabile che il ricordo storico della sorprendente vittoria di Hamas nelle ultime elezioni dell’ANP che si sono celebrate – quelle del 2006 – influisca nei calcoli dei diversi partiti… Alla luce delle conseguenze delle elezioni del 2006 l’amministrazione [USA] sta procedendo con cautela riguardo alle elezioni dell’ANP,” ha evidenziato nel suo rapporto il Servizio Ricerche del Congresso degli Stati Uniti.

Il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken e il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi hanno condiviso chiaramente la loro preoccupazione per la possibile vittoria di Hamas nelle prossime elezioni palestinesi. Il Dipartimento di Stato ha reiterato le condizioni del Quartetto secondo cui chi partecipa a qualunque elezione palestinese “deve rinunciare alla violenza, riconoscere Israele e rispettare gli accordi precedenti.”

Quindi è abbastanza ovvio che l’affermazione del Quartetto per il Medio Oriente secondo cui si sta preparando a tornare a “negoziati significativi” è semplicemente una premessa alla ripetizione dello stesso gioco giocato dopo le elezioni palestinesi del 2006. Minò la democrazia palestinese e l’opzione elettorale del popolo allora e si prepara a fare altrettanto adesso.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

* [Motasem A. Dalloul è un giornalista palestinese che vive a Gaza, ndtr.].

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Ingerenze straniere nelle elezioni palestinesi

Adnan Abu Amer

21 Marzo 2021 Al-Jazeera

Mentre i palestinesi iniziano il conto alla rovescia per le loro elezioni legislative e presidenziali rispettivamente in maggio e luglio, sembra crescere l’interesse tra soggetti stranieri nel manipolare il loro esito. Questo ha iniziato a preoccupare la leadership palestinese.

Il 16 febbraio il general maggiore Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah, ha dichiarato alla televisione palestinese che alcuni Paesi arabi hanno cercato di interferire pesantemente nelle elezioni palestinesi e nei colloqui di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Tre giorni dopo Bassam al-Salhi, segretario generale del Partito del Popolo Palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in un’intervista sul sito web Arabi21 ha detto: “Molti Paesi invieranno ingenti quantità di denaro perché vogliono influenzare il Consiglio Legislativo. Siamo di fronte ad interferenze da parte di molti Paesi, arabi e stranieri.”

Benché questi dirigenti palestinesi non abbiano fatto i nomi dei soggetti stranieri a cui si riferiscono, sembra che siano preoccupati soprattutto per le pressioni di Egitto, Giordania e Emirati Arabi Uniti (EAU). Tutti loro hanno parecchie poste in gioco nelle elezioni e preconizzano determinati risultati in linea con i loro interessi regionali e interni.

Interessi stranieri

Non è un segreto che indire le elezioni da parte del presidente (dell’ANP) Mahmoud Abbas non è stata una decisione volontaria o dovuta a iniziative arabe, ma il risultato di pressioni americane ed europee. L’Unione Europea ha persino minacciato di interrompere il supporto finanziario che fornisce a Ramallah se fossero state cancellate le elezioni. Sia Bruxelles che Washington vogliono che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) riconquisti legittimità prima di procedere con le loro trattative con i palestinesi. Le elezioni sono anche appoggiate da altri due importanti attori regionali: la Turchia e il Qatar.

Tuttavia l’annuncio delle votazioni non è stato ben accolto da alcune capitali arabe, soprattutto Il Cairo e Amman. Entrambe temono il ripetersi delle elezioni del 2006, quando Hamas riportò una netta vittoria a Gaza, che condusse ad un conflitto armato con Fatah. Se ciò accadesse di nuovo, potrebbe avere un effetto destabilizzante sugli affari interni sia dell’Egitto che della Giordania.

In particolare il regime egiziano considera Hamas un ramo della Fratellanza Musulmana, che ha cercato di sradicare fin dal colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi nel 2013. Una vittoria potrebbe rendere Hamas più sordo alle pressioni del Cairo, dal momento che otterrebbe una legittimazione elettorale. Potrebbe anche ridare vigore alla Fratellanza (Musulmana) in Egitto.

Anche la Giordania teme un rafforzamento di Hamas, ma è preoccupata anche da una possibile instabilità post-elettorale, che potrebbe provocare agitazioni all’interno della vasta popolazione palestinese che vi abita.

Gli Emirati Arabi Uniti mostrano altresì un serio interesse nelle elezioni palestinesi. Guidando l’azione della normalizzazione araba con Israele, hanno tentato di strappare la questione palestinese ai suoi sponsor tradizionali – Egitto e Giordania – per rinsaldare ulteriormente le relazioni con Israele ed assicurarsi l’appoggio USA.

Neanche Israele è stato felice all’annuncio delle nuove elezioni palestinesi. Anche se i suoi propri cittadini sono stati chiamati a quattro elezioni in due anni, Israele preferisce che i palestinesi non vadano affatto alle urne perché vuole mantenere lo status quo. Israele vuole che Abbas resti al potere e continui a collaborare con i servizi di sicurezza israeliani, consentendo ad Israele di espandere costantemente l’occupazione e l’apartheid. Perciò chiunque formi il governo israeliano dopo le elezioni del 23 marzo probabilmente auspicherà una vittoria di Fatah (specialmente della componente vicina a Abbas) e cercherà di indebolire Hamas.

Le forze israeliane hanno già cercato di intimidire i membri di Hamas in Cisgiordania, arrestando alcuni loro leader e attaccandone altri per scoraggiarli dal partecipare alle elezioni.

Diplomazia della pressione

La prima avvisaglia che le elezioni palestinesi non sarebbero state una questione interna è giunta il 17 gennaio, meno di 48 ore dopo che Abbas ha emesso il decreto presidenziale con l’annuncio della data delle elezioni, con i capi dell’intelligence egiziana e giordana, Abbas Kamel e Ahmed Hosni, arrivati a Ramallah.

Ho saputo da fonti palestinesi informate su questa prima visita che Kamel e Hosni hanno discusso con Abbas i dettagli procedurali delle elezioni, compresa la situazione politica di Fatah, che ha affrontato divisioni interne e potrebbe andare incontro a defezioni prima del voto.

Attualmente non vi è accordo all’interno del partito riguardo alla rielezione di Abbas e c’è la possibilità che emergano degli sfidanti. C’è un ormai crescente sostegno alla candidatura di Marwan Barghouti, un leader di Fatah che sta scontando diversi ergastoli in un carcere israeliano.

Inoltre all’interno di Fatah non c’è accordo nemmeno sui candidati al Consiglio Legislativo. Al momento si stanno predisponendo diverse liste elettorali che cercheranno di attrarre l’elettorato tradizionale di Fatah: una della cerchia di Abbas; una di Nasser al-Qudwa, nipote del defunto leader palestinese Yasser Arafat; e una di Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza di Gaza, espulso da Fatah nel 2011.

Questi disaccordi all’interno di Fatah prima delle elezioni sicuramente favoriranno Hamas, che è riuscito a garantire una coesione interna e avrà gioco facile nello sconfiggere il suo indebolito e diviso antagonista.

E’ per questo motivo che Egitto e Giordania vogliono assicurarsi che Fatah abbia una lista elettorale unica ed un candidato condiviso per l’elezione presidenziale. Ed è per la stessa ragione che stanno facendo pressione su Abbas perché si riconcili con Dahlan.

L’ex dirigente di Fatah è stato uno stretto alleato degli EAU, che negli ultimi dieci anni lo hanno appoggiato, sponsorizzato e sostenuto in tutti i modi. Alcuni osservatori ritengono che Abu Dhabi abbia formato Dahlan come futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò ha provocato molta ansia ad Abbas, che finora ha rifiutato di riammettere Dahlan nel partito.

Dahlan ed i suoi sostenitori non fanno mistero dell’appoggio politico, mediatico e finanziario che ricevono dagli Emirati per poter rientrare nella politica palestinese. Questo appoggio li ha messi in grado di creare alleanze con forze politiche palestinesi, compresi personalità di Fatah scontente di Abbas.

Hamas, contrario al ritorno di membri della fazione di Dahlan nella Striscia di Gaza a causa del loro ruolo nel conflitto armato del 2007, alla fine ha accettato di lasciarli tornare dopo aver ricevuto pressioni dall’Egitto. Questo ha permesso a Dahlan di annunciare diversi progetti umanitari per i palestinesi, compresa la distribuzione di vaccini anti Covid, senza coordinarsi con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Lo scopo finale di tutte queste attività è assicurare che qualunque nuova leadership palestinese venga eletta sarà facilmente influenzabile da quelle potenze straniere e spinta ad accettare qualunque nuova richiesta proverrà da Israele. Ciascuno di questi attori vuole giocare un ruolo importante nella questione palestinese, sperando di ingraziarsi gli USA e ottenere il loro appoggio.

Ma ciò che faranno queste ingerenze sarà minare il processo democratico in Palestina e sabotare ancora una volta l’autorità del volere del suo popolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Adnan Abu Amer

Il dott. Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche all’università Ummah di Gaza. E’ ricercatore a tempo parziale presso molti centri di ricerca palestinesi ed arabi e scrive periodicamente per Al Jazeera, The New Arabic e The Monitor. Ha scritto più di 20 libri sul conflitto arabo-israeliano, sulla resistenza palestinese e su Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)