Documenti esclusivi rivelano decenni di stretta cooperazione fra il Fondo Nazionale Ebraico (FNE) ed Elad

Uri Blau 

19 ottobre 2020 – +972

Una relazione interna rivela che, fin dagli anni ’80, il Fondo Nazionale Ebraico ha permesso ai coloni di Elad di intentare azioni legali in loro nome. La collaborazione ha portato allo sfratto di palestinesi mentre si è rafforzata la presenza degli ebrei a Gerusalemme Est

Da tempo la famiglia Sumarin è un simbolo della lotta fra palestinesi e coloni israeliani a Silwan, quartiere di Gerusalemme Est. Sin dagli inizi degli anni ’90, la casa dei Sumarin, accanto alla moschea Al-Aqsa e che condivide un muro divisorio con la città di David, sito archeologico e attrazione turistica ebraica, è stata oggetto di una battaglia legale condotta dal Fondo Nazionale Ebraico (FNE) per ottenerne lo sfratto.

Recentemente però è emersa una vicenda molto più profonda. Ad agosto è stato rivelato che Elad, un’organizzazione che promuove colonie ebraiche a Gerusalemme Est, da dietro le quinte aveva avviato una causa presso tribunali israeliani. Con il crescere della pressione dell’opinione pubblica internazionale sul FNE per lo sfratto previsto, il rapporto fra Elad e JNF sembra essersi guastato. La scorsa settimana si è persino affermato che qualcuno all’interno dell’organizzazione stava cercando di porre termine alla cooperazione con Elad sul caso Sumarin, una decisione che probabilmente verrà presa lunedì.

Eppure questo caso è solo la punta dell’iceberg. Nel 1998, una relazione interna del FNE rivelata per la prima volta qui su +972 Magazine, insieme ad altri documenti storici e interviste condotte nelle ultime settimane, descrive una cooperazione deliberata, stretta e fruttuosa fra le due organizzazioni fin dai lontani anni ’80. Tale collaborazione, che include lettere personali scritte a mano e contratti, mostra che il FNE aveva concesso volentieri a Elad il diritto di perseguire il caso per conto proprio, ottenendo l’occupazione di varie proprietà a Silwan. “Niente è stato fatto in segreto,” ci ha detto l’altra settimana l’autore del rapporto.

È tutto organizzato’

ll Fondo Nazionale Ebraico è stato fondato nel 1901 per comprare e sviluppare terre per le colonie ebraiche in Palestina sotto controllo ottomano e britannico, e poi con lo Stato di Israele. Negli anni l’organizzazione è stata pesantemente criticata dai palestinesi e dai sostenitori dei loro diritti per le sue attività in Israele e oltre la Linea Verde [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Il FNE ha una forte presenza filantropica negli Stati Uniti, dove una sua sezione non-profit ha raccolto 72 milioni di dollari solo nel 2018.

La Fondazione Ir David, comunemente nota come Elad, è un’organizzazione non-profit fondata nel 1986 da David Be’eri, ex ufficiale dell’esercito delle unità di élite Sayeret Matkal e Duvdevan, insignito nel 2017 del Premio Israele, la più alta onorificenza civile del Paese. L’organizzazione persegue il consolidamento delle colonie ebraiche nella “Gerusalemme antica” e lo sviluppo di grandi siti turistici ebraici, inclusa la Città di David, nella parte orientale della città dove vivono circa 350.000 palestinesi. Elad ha lavorato per inserire centinaia di coloni nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, in particolare nell’area di Wadi Hilweh a Silwan, dove ha aiutato a insediarsi oltre 350 persone.

La capacità di Elad di promuovere le proprie attività a Silwan è sostenuta da ingenti risorse finanziarie. Stando ai suoi bilanci, Elad ha ricevuto donazioni per oltre 200 milioni di dollari fra il 2005 e il 2018, l’ultimo anno in cui i dati sono stati resi pubblici. Come rivelato il mese scorso in un documentario del canale in arabo della BBC, circa la metà della somma proviene da sole quattro compagnie con sede nelle isole Vergini britanniche, controllate da uno degli uomini più ricchi di Israele, Roman Abramovich, l’oligarca russo proprietario squadra di calcio del Chelsea. L’altra metà è arrivata da “Friends of Ir David” [Amici della Città di David], fondo newyorkese esentasse.

Dopo aver occupato Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha cominciato un processo di occupazione delle proprietà che erano appartenute a ebrei prima del 1948. Ha anche usato la Legge sulla Proprietà degli Assenti (varata nel 1950 per espropriare terre e case appartenenti a palestinesi che erano fuggiti o erano stati espulsi durante la guerra del 1948) per confiscare proprietà palestinesi a Gerusalemme Est. Il FNE ha partecipato a questi procedimenti tramite Hemnutah, la sua filiale che ha acquistato varie proprietà dal Custode delle Proprietà degli Assenti a Silwan.

In seguito a queste transazioni, Hemnutah ha iniziato a lavorare per sfrattare le famiglie palestinesi da queste case. Per farlo l’organizzazione ha cooperato con Elad, come provano i documenti da noi pubblicati in ebraico.

Il 16 agosto 1998, Yehiel Leket, allora copresidente del FNE, riceve un documento di 12 pagine e alcuni allegati intitolato: “Un’analisi della Città di David (Silwan), Gerusalemme.” L’autore del rapporto, Avraham Haleli, direttore del dipartimento dei beni immobili del FNE, ha lasciato l’organizzazione circa 20 anni fa per fare l’avvocato in Israele. Haleli, che ha competenze ed esperienze uniche sulle proprietà in tali aree, dice che ancora oggi il FNE si avvale dei suoi servizi e lo consulta regolarmente.

Il rapporto di Haleli del 1998 descrive in dettaglio la stretta relazione fra il FNE ed Elad iniziata a metà degli anni ’80. “Era chiaro a tutte le parti coinvolte che l’organizzazione [Elad] avrebbe richiesto di usare le proprietà del FNE nella zona e di vivere là come residenti protetti,” scrive Haleli.

In proposito c’è un documento al dipartimento dei beni immobili del FNE,” ci ha detto durante una conversazione con lui la scorsa settimana. “Tutto è organizzato. Niente è stato fatto in segreto. Era stato tutto fatto in modo normale basandosi su decisioni.”

Secondo Hagit Ofran, che lavora al progetto “Settlement Watch” (Osservatorio sulle colonie) dell’ONG israeliana Peace Now (Pace ora), negli ultimi decenni la cooperazione fra le due organizzazioni ha permesso a Elad di insediare a Silwan ebrei israeliani in almeno 10 proprietà e anche in alcuni immobili nel quartiere di Abu Tur a Gerusalemme Est. Ofran, che ha analizzato il rapporto di Haleli, spiega che la maggior parte della terra di cui Elad ha preso possesso è stata usata per turismo e il resto come residenza da circa otto famiglie di coloni.

Uno degli allegati al rapporto, una lettera scritta a mano spedita da Be’eri, fondatore di Elad e suo direttore esecutivo nel 1985, rivela la profondità della relazione ai suoi inizi. “Buongiorno signor Haleli,” scrive Be’eri un anno prima della fondazione ufficiale di Elad. “Siamo venuti a sapere di proprietà ebraiche del FNE su appezzamenti nel villaggio di Shilo [Silwan].” Parecchi appezzamenti “sono stati presi da arabi”, spiega. Da una prospettiva sionista, etica e religiosa, scrive Be’eri, “noi consideriamo di grande importanza l’occupazione di quelle case, specialmente in questa zona.” Be’eri si offriva poi “come volontario” per ottenere queste proprietà.

L’anno dopo, nel 1986, Be’eri manda un’altra lettera a Shimon Ben Shemesh, amministratore di FNE, parlando del suo impegno per collaborare all’identificazione di proprietà da acquisire a Silwan. Quella lettera si riferiva a uno specifico lotto di terra i cui abitanti erano recentemente morti. “Noi crediamo che questo sia il momento di agire urgentemente, usando mezzi legali … per garantire che la terra venga data ai suoi proprietari legali (il FNE].” Be’eri concludeva la lettera dicendosi disposto a sostenere le spese legali, anche se non si sa se l’abbia poi fatto.

Il rapporto descrive il primo caso di cooperazione fra Elad e il FNE nel 1986: un’istanza presentata al tribunale da Hemnutah per sfrattare una famiglia palestinese in collaborazione con l’avvocato di Elad. Il rapporto nota che il padrone di casa era d’accordo con lo sfratto e che l’istanza era stata presentata solo perché così “i suoi vicini avrebbero pensato che era stato costretto ad andarsene.” Haleli aggiunge che Elad aveva anche compensato la famiglia palestinese. Inoltre descrive come in alcuni casi gli avvocati di Elad avessero fornito al FNE assistenza legale volontaria e gratuita.

Il rapporto si riferisce anche a un memorandum di intesa fra le due organizzazioni firmato prima delle cause legali. Nel memorandum, Hemnutah acconsentiva che Elad affittasse le proprietà dopo lo sfratto degli occupanti palestinesi. “Ovviamente non c’era conflitto di interessi fra le parti,” affermava Haleli nel rapporto. Aggiungeva che l’affitto pagato al FNE sarebbe stato dedotto dalla somma che Elad aveva già speso per le procedure di sfratto.

Haleli era chiaramente consapevole della delicatezza di questa cooperazione, e nel rapporto del 1998 scrive “abbiamo avvertito Elad di non provocare” gli abitanti della zona per “evitare le critiche di Hemnutah e del FNE.” Per questa ragione, continuava Haleli, il FNE “sosteneva l’idea che arabi provenienti dal Libano meridionale abitassero temporaneamente nelle proprietà oggetto dello sfratto … ma per varie ragioni abbiamo dovuto rinunciare a questo piano.”

Haleli aggiunge poi di essere al corrente delle opinioni divergenti sulle attività del JNF nella zona. Chi ci sostiene, scriveva, pensa che non facciamo abbastanza, mentre gli altri presentano il FNE come un gruppo che “strappa agli arabi le loro proprietà.” Secondo Haleli nessuno aveva ragione. “Il FNE opera come un’organizzazione ebraica sionista nazionale che mira a garantire la terra al popolo di Israele per l’eternità. È stato fatto secondo le leggi di Israele senza pregiudicare i diritti degli abitanti, arabi o ebrei … Sono convinto che il modo in cui abbiamo agito nella Città David meriti un plauso,” concludeva.

Il rapporto del 1998 non è l’ultimo a essere scritto dal FNE sulle sue relazioni con Elad. Da conversazioni avvenute la scorsa settimana con due membri del FNE, sappiamo che una sua versione aggiornata è stata redatta nel 2010. Il FNE non ha risposto alle domande poste da +972 a questo proposito né alla richiesta di ricevere una copia aggiornata del rapporto.

Nessun portavoce del FNE o di Elad ha risposto alle nostre richieste di un commento.

Differenze sul caso Sumarin

La casa Sumarin era stata dichiarata proprietà di assenti nel 1987 e venduta a Hemnutah dall’Autorità israeliana per lo Sviluppo nel 1990. In seguito Hemnutah presentò un’azione legale per sfrattare la famiglia Sumarin, che per trent’anni aveva lottato per restare nella propria casa. Alla fine di giugno di quest’anno il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha deliberato che i Sumarin non erano riusciti a dimostrare i propri diritti sulla proprietà e che dovevano lasciarla libera per metà agosto. La famiglia ha presentato appello e potrà rimanere nella casa fino alla decisione dell’Alta Corte il prossimo aprile.

La decisione del tribunale distrettuale di Gerusalemme ha suscitato massicce proteste e pressioni da parte dei sostenitori e donatori progressisti del FNE per annullare lo sfratto. Non tutti i dirigenti del fondo sono entusiasti di vedere la famiglia Sumarin cacciata di casa.

In agosto, come parte dell’ultima azione legale dei Sumarins, Hemnutah ha presentato alla Corte Suprema una lettera scritta nel 1991 da David Be’eri, fondatore di Elad, alla consociata del FNE. Nella lettera, svelata per la prima volta nel documentario della BBC su Elad (e al quale l’autore di questo articolo ha contribuito), Be’eri elencava vari lotti di terra a Silwan, inclusa la casa dei Sumarin, e scriveva che “ci occuperemo dello sfratto degli attuali proprietari dai loro immobili. Pagheremo tutte le spese legali per lo sfratto e gli indennizzi ai proprietari, con un accordo giudiziario o per ordine del tribunale.” Un bollo di Hemnutah conferma l’approvazione da parte dell’organizzazione dei contenuti della lettera.

Matityahu Sperber, presidente del consiglio di amministrazione di Hemnutah nominato dal progressista Movimento Riformista, in una conversazione telefonica con +972 ha detto che era stata sua la decisione di rivelare alla Corte Suprema l’accordo del 1991 per tentare di bloccare gli sfratti. La presentazione della lettera ha segnato un cambiamento nell’approccio del FNE al caso, che era iniziato poche settimane prima. Il 20 luglio, Sperber scrisse una lettera al presidente del FNE Danny Atar, in cui chiedeva che egli si impegnasse per bloccare i procedimenti contro la famiglia Sumarin perché era preoccupato che lo sfratto potesse danneggiare l’immagine del FNE.

Nella lettera, Sperber scrive che un parere legale preparato dall’avvocato del FNE non forniva risposte soddisfacenti a proposito di una “serie di aspetti sui rapporti fra Hemnutah ed Elad riguardo alla proprietà [Sumarin].” Questo include “l’impegno di Elad con Hemnutah riguardante la proprietà, […] l’autorità delle parti che si sono prese l’impegno a nome di Hemnutah,” e la “possibile invalidità di un giudizio indipendente di Hemnutah a proposito della proprietà in questione, a causa della partecipazione di Elad nel procedimento legale e nel suo finanziamento, insieme ad altre questioni.” Tutto ciò, scrive Sperber, crea un “conflitto di interessi strutturale.”

Il 12 ottobre il CDA di Hemnutah avrebbe dovuto votare una bozza presentata da Sperber per bloccare tutte le attività della causa contro i Sumarin e sostituire gli avvocati di Elad che se ne occupavano per conto di Hemnutah. 

+972 si è rivolto per un commento allo studio legale Ze’ev Scharf & Co. che rappresenta Hemnutah nel caso Sumarin. Lo studio deve ancora fornire una risposta.  

Comunque il giorno prima della data in cui si sarebbe dovuta tenere la riunione questa venne spostata dopo l’appello alla Corte Distrettuale di Gerusalemme presentato da Nachi Eyal, uno dei membri del CDA di Hemnutah, contro le bozze della risoluzione. Nella sua dichiarazione al tribunale, Eyal, il fondatore e direttore del Foro Legale per Israele e candidato del partito Nuova Destra [estrema destra dei coloni, ndtr.] nelle precedenti elezioni della Knesset, sostenne che la delibera era illegale ed era stata presentata di fretta e furia; Eyal obiettò che la riunione era stata fissata con poco preavviso e che Sperber l’aveva iniziata perché probabilmente avrebbe rischiato di perdere la presidenza nelle elezioni del CDA dell’Organizzazione Mondiale Sionista fissato per il martedì.

Il tribunale ha accolto la petizione di Eyal. Durante una conversazione con +972 Atar, il presidente del FNE, ha detto che il consiglio si sarebbe riunito lunedì 19 ottobre [2020] per votare sul blocco dello sfratto e la sostituzione degli avvocati.

Nel frattempo, la scorsa settimana, Elad’s Be’eri ha mandato una lettera esprimendo la sua ira a Sperber e Atar, criticando veementemente Hemnutah e il suo presidente. Noi abbiamo investito “una fortuna” nel caso Sumarin, scrive Be’eri e i diritti di occuparsi del caso erano stati affidati a Elad, non possono essere revocati. Be’eri aggiunge che ogni decisione sul caso presa da Hemnutah e dal FNE dovrà coinvolgere Elad. Ha anche dichiarato che Sperber è rapporto con gruppi di estrema sinistra, sostenitori del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.].

È uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere’

La fede politica di Sperber e Atar, che rappresentano l’ala progressista del FNE (Atar è un ex parlamentare laburista della Knesset che si è guadagnato il sostegno di Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco), verrà messa alla prova martedì 20 ottobre, quando il Congresso Mondiale Sionista si riunirà da remoto per scegliere i suoi nuovi rappresentanti.

Il CMS seleziona i leader di varie associazioni sioniste, inclusa l’Organizzazione Mondiale Sionista, l’Agenzia Ebraica per Israele e il FNE. Se Sperber e Atar resteranno al potere verrà deciso dal tipo di coalizione formata dalle varie parti del CMS su cui di solito ci si mette d’accordo in precedenza. Secondo il Jerusalem Post, Atar deve affrontare una grossa sfida alla sua posizione da parte della lista del Likud Mondiale, che si era diviso ma poi si è riconciliato alla vigilia delle elezioni grazie ad accordi di coalizione.

Negoziati per le alte cariche continueranno fino a poco prima dell’inizio del congresso. Ma la scorsa settimana, secondo il Jerusalem Post, sembrava che la presidenza del FNE sarebbe stata divista fra Avraham Duvdevani, della Lista religiosa Zionist World Mizrachi [movimento dei sionisti religiosi, ndtr.] e Haim Katz, parlamentare Likud, lascando Atar fuori dalla direzione dell’organizzazione. Secondo il giornale finanziario The Maker, probabilmente il nuovo direttore di Hemnutah sarà di Yisrael Beiteinu, il partito di [estrema] destra di Avigdor Liberman.

In una conversazione telefonica con Sperber, gli ho chiesto perché la sua decisione di bloccare lo sfratto dei Sumarin verrà presentata al consiglio solo alla vigilia delle elezioni. Sperber ha detto di aver saputo dell’accordo fra Elad e JNF solo agli inizi di quest’anno, e ha cercato di occuparsi del caso da allora. Ha aggiunto che ha il sostegno di Atar, ma ha ammesso che non è chiaro se Atar o Sperber manterranno i loro incarichi dopo le elezioni.

Sperber ha parlato della campgna dei Sumarin e ha espresso la speranza che influirà sulla decisione della Corte Suprema israeliana di esaminare l’appello della famiglia. Durante la nostra conversazione è apparso chiaro che Sperber conta sulla corte per risolvere il dilemma di Hemnutah che si è assunto il caso della famiglia.

Ma Sperber ha anche chiarito che il FNE non rinuncerà ai diritti sulla proprietà dei Sumarin. “Non abbiamo diritto a (rinunciarci),” ha detto, spiegando che la Corte Distrettuale di Gerusalemme ritiene che la casa sia di proprietà di Hemnutah. “Noi non possiamo farlo per il bene di un ebreo riformato, un ebreo ortodosso o un palestinese di Gerusalemme Est,” ha detto Sperber. L’unica possibilità per Hemnutah, ha continuato, è votare di congelare l’esecuzione del verdetto della corte. E se in un futuro il CDA decidesse di revocare il blocco? “È un rischio,” ha ammesso.

Hagit Ofran di Peace Now [Pace Adesso] dice che “il FNE deve immediatamente tagliare tutti i suoi rapporti con l’organizzazione di coloni Elad e permettere alla famiglia Sumarin di vivere in pace a casa propria.”

Atar, nel frattempo ha detto che lui ha scoperto dell’accordo fra il FNE e Elad solo due settimane fa. “Stiamo facendo di bloccarlo in qualche modo e di annullare l’accordo. C’è molta resistanza,” ha aggiunto. “Se non riusciamo a farlo ora, lo faremo subito dopo il congresso (dell’OSM)”. È molto complicato, ha detto, dato che Elad ha pagato 30 anni di battaglie legali contro i Sumarin.

Per me non ha senso che l’abbiate saputo solo due settimane fa.

È stato veramente così. L’abbiamo saputo per caso … durante una discussione di Sperber con gli avvocati … discutevano e noi ci siamo resi conto che non aveva senso che usassero il nostro nome ma non facessero quello che gli dicevamo.”

Eppure non era la prima udienza della corte sulla famiglia Sumarin avvenuta durante il suo ruolo come direttore del FNE.

Giusto, ma non eravamo entrati nei dettagli. Non sono cose di cui mi occupo giornalmente e non erano in programma fino a quando Matityahu [Sperber] non ha sollevato la questione.” 

Le relazioni fra le organizzazioni non sono cosa nuova. Haleli ne ha scritto nei suoi rapporti.

Vero. [Ma] Io l’ho saputo solo ora, nelle ultime due settimane.” 

Cosa pensa di quello che ha saputo nelle ultime settimane sui rapporti fra Elad e FNE?

Uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere … Stiamo studiando questi (rapporti) ora e il nostro ufficio legale li sta analizzando. Abbiamo imparato la lezione. Non è l’unica cosa su cui stiamo lavorando per migliorarla.”

Perché ha aspettato fino all’ultimo momento per occuparsene? È possibile che lei lo stia facendo ora in vista delle imminenti elezioni? 

Proprio l’opposto. È come un osso che mi si è incastrato in gola. Non ci guadagno nulla a occuparmene ora. Evitare questa ulteriore tensione in questo periodo sarebbe stato molto meglio per me.” 

Supponiamo che lei riesca a liberarsi degli avvocati di Elad. Cosa farà dopo?

Il nostro ufficio legale si occuperà dello status di ‘residenza protetta’(di Elad). Non è un caso semplice.”

La corte ha già deciso che la casa dei Sumarin appartiene al FNE. Se dipendesse da lei, ritirerebbe la petizione presentata alla corte per sfrattare la famiglia Sumarin?

La proprietà resterbbe (nostra), ma non sono sicuro che valga la pena sfrattarli. Dovremmo trovare un’altra soluzione… in base a quanto consentito dalla legge.”

Pubblicherete un rapporto sui rapporti con Elad? 

Naturalmente, come sempre. Quando finiremo la causa pubblicheremo tutto.”

Uri Blau è un giornalista investigativo nato in Israele con oltre 20 anni di esperienza nell’ indagare corruzione politica, sicurezza nazionale e problemi di trasparenza. Al momento vive a Washington.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)