L’appoggio dell’UE a Israele la rende complice di genocidio

Niamh Ni Bhriain e Mark Akkerman

6 luglio 2024 – Al Jazeera

L’UE continua ad esportare armi verso Israele e finanzia vari enti israeliani

Sono passati 9 mesi dall’inizio della guerra genocida di Israele contro Gaza che ha ucciso più di 38.000 palestinesi, ne ha feriti più di 86.000 e ne ha sfollati più di 1.9 milioni. Nonostante le frequenti condanne a parole, i leader europei hanno fatto ben poco per fermarla. Ancora peggio, molti Paesi europei continuano a sostenere economicamente e militarmente Israele.

Poiché gli Stati Uniti sono considerati il maggior sostenitore della macchina da guerra israeliana, è facile non tenere in considerazione l’appoggio europeo. Tuttavia uno sguardo più attento sulle dimensioni dell’assistenza finanziaria e militare europea a Israele mette a nudo la complicità dell’UE con il continuo genocidio a Gaza e le varie atrocità nella Cisgiordania occupata.

Fornitura di armi utilizzate per il genocidio

L’UE è il secondo maggior fornitore di armi a Israele dopo gli USA. Secondo le cifre della banca dati COARM [Esportazione di armi convenzionali] dell’European External Action Service [Servizio Europeo per le Azioni all’Estero] tra il 2018 e il 2022 gli Stati membri dell’UE hanno venduto a Israele armi per un valore di 1,76 miliardi di euro.

Le armi hanno continuato a passare dai Paesi europei a Israele anche dopo che in gennaio la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza provvisoria in base alla quale probabilmente l’esercito israeliano sta commettendo un genocidio. L’UE ha in vigore un sistema per imporre un embargo sulle armi, ma si è rifiutata di applicarlo a Israele, lasciando agli Stati membri la possibilità di mettere in atto lentamente misure sotto la pressione della società civile, con scarsa volontà politica di farlo e molto al di sotto di quanto necessario.

Alcuni Paesi dell’UE, tra cui Italia, Olanda, Spagna e la regione belga della Vallonia, hanno annunciato che avrebbero sospeso il trasferimento di armi a Israele, ma alcune di queste dichiarazioni non sono state seguite da azioni concrete e tempestive, o, quando lo sono state, hanno rappresentato una sospensione temporanea o parziale di vendita di armi, molto meno di un embargo militare contro Israele.

Secondo il SIPRI [Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace, con sede a Stoccolma, ndt.] la Germania è di gran lunga il maggior fornitore europeo, avendo rifornito Israele con il 30% del suo armamento tra il 2019 e il 2023. Lo scorso anno le esportazioni sono salite da 32,3 a 326,5 milioni di euro, e la maggior parte delle licenze è stata concessa dopo il 7 ottobre.

Secondo i dati dell’UE tra il 2018 e il 2022 ci sono stati altri importanti fornitori europei a Israele. Essi includono la Romania, che ha esportato licenze per un valore di 314,9 milioni di euro, l’Italia, con 90,30 milioni di euro, la Repubblica Ceca, con 81,55 milioni di euro, e la Spagna, con 62,9 milioni di euro. L’UE non ha ancora presentato i dati dei trasferimenti nel 2023. Oltre ai rifornimenti diretti a Israele, gli armamenti dell’UE spesso vengono esportati indirettamente in Israele attraverso gli USA.

Benché l’esportazione di armi sia soggetta ad accordi con l’utilizzatore finale, gli USA rifiutano di rispettare questa condizione e i Paesi dell’UE non la mettono in pratica. Ciò rende impossibile tracciare in che misura le armi e componenti di armamenti dell’UE esportati negli USA finiscono successivamente nei sistemi d’arma inviati in Israele.

Ciononostante le esportazioni militari note dell’UE verso Israele possono essere direttamente legate al genocidio a Gaza. I carrarmati israeliani Merkava, che dall’invasione di terra iniziata alla fine di ottobre operano a Gaza, stanno utilizzando componenti per motori fabbricati dall’impresa tedesca MTU (una controllata di Rolls Royce), mentre le corvette Sa’ar, navi da guerra costruite dall’impresa tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, sono state in attività nelle acque che circondano la Striscia assediata.

L’impresa britannica BAE Systems, in collaborazione con la tedesca Rheinmetall, produce gli obici semoventi M109, che sono stati utilizzati per bombardare zone densamente abitate di Gaza. Amnesty International ha trovato prove che queste armi di artiglieria hanno utilizzato anche munizioni al fosforo bianco, che possono bruciare la pelle fino all’osso e provocare disfunzioni organiche. In base alle leggi internazionali il loro uso in aree civili è limitato.

I caccia da guerra F-35, prodotti negli USA e utilizzati per i bombardamenti a tappeto contro Gaza, si basano su componenti europei con almeno il 25% di pezzi di ricambio esportati direttamente in Israele dall’Europa. Solo l’Olanda ha imposto limitazioni su di essi in seguito a una denuncia intrapresa da organizzazioni della società civile vinta in appello.

Soldi pubblici europei per le armi israeliane

I Paesi europei non solo esportano armi in Israele mentre c’è un crescente consenso internazionale sul fatto che Israele sta portando avanti un genocidio a Gaza, ma stanno anche spendendo denaro pubblico per appoggiare i produttori di armi che le fabbricano.

Una nuova ricerca del Transnational Institute [gruppo di studio e ricerca olandese, ndt.] e di Stop Wapenhandel [organizzazione olandese contro il commercio e la produzione di armi, ndt.] rivela che il denaro dei contribuenti europei per un importo di 426 milioni di euro sta attualmente finanziando imprese che armano Israele.

L’impresa tedesca Rheinmetall, che invia in Israele proiettili per carrarmati, ha ricevuto oltre 169 milioni di euro, mentre la compagnia finno-norvegese Nammo, il cui lanciarazzi a spalla “anti-bunker” vengono esportati in Israele, ha ricevuto più di 123 milioni di euro. Altri beneficiari includono Leonardo, ThyssenKrupp, Rolls Royce, BAE Systems e Renk.

Il denaro pubblico europeo è anche andato a finanziare progetti di sicurezza e difesa che hanno beneficiato la macchina da guerra israeliana. Dal 2008 sono stati 84 gli enti israeliani a ricevere 69,39 milioni di euro da un totale di 132 progetti per la sicurezza. Nonostante violi sistematicamente da decenni i diritti umani dei palestinesi, il ministero della Sicurezza Pubblica [israeliano] ha partecipato ai principali progetti per la sicurezza finanziati dall’UE.

Inoltre molta della produzione di conoscenza utilizzata nello sviluppo degli strumenti per la guerra digitale israeliana attualmente utilizzati a Gaza è stata probabilmente perfezionata e migliorata in università che beneficiano dei finanziamenti europei per la ricerca.

Dal 7 ottobre l’UE ha concesso 126 milioni di euro per finanziare 130 progetti di ricerca che coinvolgono enti israeliani. Due di questi progetti stanno fornendo un totale di 640.000 euro per l’impresa bellica Israel Aerospace Industries. Negli anni che hanno preceduto il 7 ottobre 2023 alcuni enti israeliani hanno ricevuto 503 milioni di euro in base a Horizon Europe [programma di finanziamento dell’UE per progetti scientifici, ndt.] (2021-2023).

Inoltre per decenni i Paesi dell’UE hanno speso denaro dei contribuenti in armamenti per Israele, supportandone quindi il complesso militare-industriale. Israele è tra i primi 10 esportatori di armi al mondo, con circa il 25% delle sue esportazioni per la difesa che vanno a Paesi europei.

Le aziende israeliane pubblicizzano regolarmente i propri prodotti come “testati sul campo”, una strategia che è legittimata dai Paesi dell’UE quando fanno affari con loro. I droni sono di gran lunga il prodotto di maggior successo e l’agenzia di sicurezza dei confini dell’UE Frontex li noleggia da Elbit e dalle Israel Aerospace Industries (IAI) per voli di sorveglianza sul Mediterraneo.

Dopo il 7 ottobre i Paesi dell’Ue hanno continuato a collaborare con imprese di armamenti israeliane. Mentre c’è stato un tentativo della Francia di escludere le compagnie israeliane dalla fiera delle armi Eurosatory, l’iniziale sentenza a tal fine di un tribunale è stata di fatto ribaltata da una corte di Parigi e alle imprese israeliane è stato concesso di parteciparvi.

Il fatto che denaro pubblico europeo sia destinato a industrie belliche e ad altri enti coinvolti nel massacro israeliano a Gaza significa di fatto che l’UE sta finanziando un genocidio.

Con tutti i suoi discorsi sui diritti umani e lo Stato di diritto l’UE non ha tenuto fede a nessuno dei due in risposta alla guerra genocida di Israele contro Gaza, facendo a pezzi la sua credibilità e legittimità. Non è troppo tardi per invertire parte dei danni imponendo un embargo sulle armi contro Israele e riducendo il flusso di armi statunitensi che transitano attraverso l’Europa verso il regime genocida. Non farlo, soprattutto alla luce della sentenza transitoria della CIG sulla plausibilità del genocidio, renderebbe complici l’UE e i suoi Stati membri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Niamh Ni Bhriain

Coordinatrice del Transnational Institute.

Niamh Ni Bhriain coordina il programma Guerra e Pacificazione del Transnational Institute, che si concentra sullo stato di guerra permanente e sulla resistenza pacifica. Ha conseguito un master in Leggi Internazionali per i Diritti Umani presso l’Irish Centre for Human Rights [Centro Irlandese per i Diritti Umani] all’università statale d’Irlanda di Galway (NUIG). Prima di arrivare al TNI Niamh ha passato alcuni anni in Colombia e Messico lavorando con organizzazioni della società civile e con l’ONU nelle aree di costruzione della pace, giustizia transizionale, protezione dei difensori dei diritti umani e analisi dei conflitti.

Mark Akkerman

Ricercatore presso Stop Wapenhandel.

Mark Akkerman è un ricercatore di Stop Wapenhandel ed è attivamente coinvolto nelle ricerche del Transnational Institute sulla militarizzazione dei confini. Ha anche scritto e fatto campagne su argomenti come l’esportazione di armamenti in Medio Oriente, il settore degli eserciti e della sicurezza privati, il greenwashing del mercato delle armi e la militarizzazione della risposta al cambiamento climatico.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché la Cisgiordania non si solleva – per ora

Qassam Muaddi

5 luglio 2014 – Mondoweiss

La Cisgiordania rimane stranamente calma mentre Israele porta avanti il genocidio a Gaza. Ma se la repressione israeliana ha dissuaso una rivolta nelle strade, le placche tettoniche sottostanti continuano a muoversi

Mentre la guerra infuria a Gaza e lungo il confine libanese la Cisgiordania ha occupato una posizione mediatica di secondo piano a fronte dell’incessante genocidio di Israele. A parte la proliferazione di piccole sacche di resistenza armata nei campi profughi e nei centri urbani del nord, la Cisgiordania ha mantenuto un’insolita tranquillità.

Questo silenzio è inusuale. In anni precedenti i palestinesi in Cisgiordania hanno reagito ai crimini dell’occupazione con una serie di mobilitazioni di massa, scontri quotidiani con le truppe israeliane, scioperi generali e campagne di disobbedienza civile. La prima Intifada del 1987, anche se iniziò a Gaza, fu condotta da un movimento unitario e organizzato in Cisgiordania, un ruolo che essa ha continuato a ricoprire nella seguente trentina d’anni.

Ciò include l’ “Intifada dell’Unità” nel maggio 2021, quando i palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e della Palestina del ’48 insorsero in una reazione collettiva ai tentativi di Israele di espellere le famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. L’ondata di proteste di massa in tutte le città della Cisgiordania fu più ampia che mai, raggiungendo il culmine il 18 maggio, quando uno sciopero generale venne attuato in tutta la Palestina storica, dal fiume al mare.

Tutto questo è cambiato dopo il 7 ottobre. Negli scorsi nove mesi la mobilitazione di massa è stata praticamente assente, nonostante gli orrori senza precedenti della guerra genocidaria di Israele a Gaza, che è costata la vita di oltre 37.000 palestinesi. 

Anche se la memoria degli eventi passati di rivolta popolare è ancora viva nella mente delle persone, l’attuale mancanza di mobilitazione in Cisgiordania ha portato molti a concludere che Israele la ha effettivamente neutralizzata come terreno di lotta.

Prima di ottobre: tutt’altro che neutralizzata

Scorrendo le notizie nei mesi ed anni prima del 7 ottobre un osservatore poteva pensare che la Cisgiordania fosse un fronte attivo nella guerra. Le quotidiane incursioni israeliane nelle città palestinesi e nei campi profughi si trovavano ad affrontare palestinesi che sempre più spesso usavano armi invece di pietre per far fronte alle truppe che invadevano le loro case. Gruppi locali di resistenza armata hanno iniziato a proliferare in diverse città, da Jenin a Nablus, Tulkarem, Tubas e Gerico.

Il fenomeno ha attirato analisti e giornalisti, che parlavano di una “nuova generazione di resistenza palestinese”. I mezzi di informazione occidentali riferivano della rivolta armata dei “combattenti della generazione Z della Cisgiordania” su giornali come The Economist, Wall Street Journal e Vice. Molti si sono trovati a chiedersi se ciò che avveniva in Cisgiordania si potesse definire una terza Intifada.

Questa situazione di sollevazione si stava sviluppando da almeno due anni. Nel 2021 l’evasione di sei prigionieri palestinesi dl carcere di massima sicurezza di Gilboa scatenò un’ondata di resistenza armata a Jenin, dove si erano rifugiati due degli evasi. Le forze israeliane li ricatturarono dopo uno scontro con un piccolo gruppo di uomini armati. Dopo la cattura altri giovani iniziarono ad unirsi al gruppo finché nacque la Brigata Jenin. Le fecero seguito la Fossa dei Leoni a Nablus, la Brigata Tulkarem a Tulkarem e la Brigata Tubas a Tubas. Queste città e i campi profughi adiacenti divennero rifugi per i gruppi di resistenza armata.

Contemporaneamente movimenti locali di resistenza civile crescevano in diverse località dove le terre venivano minacciate dall’espansione dei coloni, come a Kufr Qaddoum, Salfit e Nabi Saleh. In alcuni posti la resistenza civile era continuata per oltre un decennio. In altri era stata assente dopo la prima Intifada, ma ora tornava a rivivere. Uno dei casi più famosi è il villaggio di Beita a sud di Nablus, dove gli abitanti hanno manifestato contro l’avamposto dei coloni israeliani di Eyyatar sul Monte Sabih per tre anni. Le forze israeliane hanno imposto e continuano ad imporre ripetute chiusure del villaggio, pattugliando l’ingresso, facendo sistematiche incursioni, revocando i permessi di lavoro delle migliaia di capifamiglia che lavorano in Israele, arrestando e ferendo centinaia di abitanti ed uccidendo finora almeno dieci dei giovani di Beita.

Dopo ottobre: nuovi livelli di repressione

Se qualunque cosa impallidisce a confronto della campagna genocidaria a Gaza, la repressione israeliana contro la resistenza in Cisgiordania ha assunto un significato completamente differente dopo il 7 ottobre. Israele ha revocato decine di migliaia di permessi di lavoro ai palestinesi, ha bloccato decine di strade che i palestinesi utilizzavano per muoversi tra le città e i villaggi in Cisgiordania ed ha drasticamente intensificato la campagna di arresti contro i palestinesi.

Nei primi due mesi dopo il 7 ottobre Israele ha raddoppiato il numero di prigionieri palestinesi, raggiungendo oltre i 10.000 prigionieri. Il numero di detenuti amministrativi – quelli detenuti senza accuse né processo – ha raggiunto i 3.600, mentre prima della guerra erano 1.300.

Anche l’ambito degli arresti è stato ampliato, allargandosi a comprendere palestinesi di tutti i generi, compresi molti non politicamente attivi. Molti degli arrestati sono leader di comunità, giornalisti e attivisti della società civile con scarsi o deboli legami con la politica. All’interno delle prigioni rapporti sui diritti umani e testimonianze di palestinesi rilasciati hanno rivelato livelli senza precedenti di umiliazioni, violenze e torture, che di fatto estendono il genocidio dei palestinesi ai prigionieri sotto custodia israeliana.

Secondo un portavoce dell’Associazione di Sostegno ai Prigionieri Addameer, che ha chiesto di rimanere anonimo, “gli arresti israeliani prendono di mira sistematicamente membri attivi della comunità che sono in grado di mobilitarla, soprattutto quelli che hanno dei trascorsi a riguardo”, ed ha aggiunto che “questo si può vedere chiaramente negli arresti di persone che lavorano nella società civile, nel settore accademico, nei media e nell’ambito dei diritti umani.”

Fuori dalle città la violenza dei coloni israeliani si è scatenata in modo esponenziale, di fatto espellendo circa 20 comunità rurali in Cisgiordania con attacchi violenti e minacce di morte. I coloni israeliani hanno anche aumentato le aggressioni contro palestinesi in viaggio sulle strade cisgiordane, in aggiunta ai rischi di pestaggi e arresti ai posti di blocco militari israeliani.

Queste azioni israeliane negli scorsi nove mesi hanno provocato l’uccisione di 554 palestinesi e l’arresto di 9.400 in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Il motivo dell’intensità della repressione israeliana non è un mistero. Essa è preventiva, con lo scopo di traumatizzare e dissuadere i palestinesi in Cisgiordania dall’aprire un secondo fronte nella battaglia “tempesta di Al-Aqsa”.

L’impatto nelle strade

Nelle città del nord di Jenin e Tulkarem l’escalation impressionante dei raid israeliani, sia nel numero che nella portata delle violenze e distruzioni, ha portato ad un aumento dell’intensità degli scontri armati con i combattenti della resistenza palestinese. Almeno sette soldati israeliani, compresi due ufficiali, sono stati uccisi dal 7 ottobre durante i raid in Cisgiordania, inclusa la morte di un ufficiale e il ferimento di 17 soldati a Jenin solo la scorsa settimana.

Eppure, mentre i gruppi armati in Cisgiordania sono riusciti finora a contrastare l’aggressione, la mobilitazione civile nella sua forma tradizionale in Cisgiordania è rimasta ampiamente assente.

Il 17 ottobre, dieci giorni dopo l’inizio del genocidio a Gaza, palestinesi in diverse città della Cisgiordania sono scesi in strada in seguito alle notizie del bombardamento israeliano dell’ospedale al-Ahli Baptist a Gaza, che ha ucciso 500 persone. A Jenin e Ramallah alcuni manifestanti hanno gridato slogan contro ciò che ritenevano l’inazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le proteste si sono trasformate in scontri con la polizia palestinese e cinque manifestanti sono stati uccisi. Nelle settimane seguenti i manifestanti hanno evitato di scontrarsi con l’ANP, in quanto il loro numero diminuiva e sono state arrestate da Israele altre figure di primo piano delle proteste.

Il 30 marzo, Giornata della Terra palestinese, la città di Ramallah ha vissuto un momento speciale di risveglio. In migliaia hanno marciato nelle strade della città, comprese persone di ogni età, per circa due ore, con grida in sostegno dei palestinesi a Gaza e denunce di genocidio. Poi è finito tutto.

Dopo la marcia un manifestante ha detto a Mondoweiss che “la gente vi ha visto l’opportunità di esprimersi dopo essere stati costretti per mesi al silenzio, ecco perché il numero dei partecipanti è stato più alto rispetto ad altre marce dall’inizio della guerra ed anche perché è durata così a lungo.”

Tradizionalmente la marcia dovrebbe dirigersi all’ingresso della città (vicino alla colonia Beit El) e finire con alcuni manifestanti che si scontrano con i soldati dell’occupazione, ma questa volta tutti sapevano che ciò non sarebbe accaduto, per questo motivo la marcia ha vagato nel centro della città così a lungo”, ha detto il manifestante.

Il 15 maggio, giorno della Nakba, decine di palestinesi in maggioranza giovani hanno corso il rischio e sono andati all’entrata nord di Ramallah e al-Bireh, protestando di fronte al posto di blocco di Beit El. Parecchi sono stati feriti e un manifestante palestinese è stato ucciso.

Aysar Safi, di 20 anni, era studente al secondo anno di educazione fisica all’università Birzeit e proveniva dal campo profughi di Jalazone a nord di Ramallah. E’stato il sesto palestinese di Jalazone ad essere ucciso dalle forze israeliane dopo il 7 ottobre.

Il fratello maggiore e il padre di Aysar sono entrambi detenuti nelle carceri israeliane. Dopo il loro arresto Aysar si era occupato del negozio di alluminio del padre, lavorando e studiando contemporaneamente. Suo zio lo ha descritto come “il braccio destro di sua madre”. Intanto la madre era troppo soffocata dal lutto per poter parlare.

Aysar era molto colpito dal genocidio a Gaza e diceva che noi dovevamo fare di più qui in Cisgiordania per aiutare il nostro popolo laggiù”, ha detto a Mondoweiss un amico di Aysar. “Era sempre presente all’accoglienza dei prigionieri rilasciati e ai funerali dei martiri.”

La sua uccisione non è stata casuale. I soldati occupanti hanno mirato al suo ventre”, ha sottolineato l’amico. “Hanno usato proiettili veri, non pallottole rivestite di gomma. Intendevano mandare il messaggio che non avrebbero tollerato alcuna protesta, perché vogliono tenere la gente nella paura e mantenere passiva la Cisgiordania.”

Ma per lo storico palestinese Bilal Shalash, che studia la storia della resistenza palestinese, “La Cisgiordania è tutt’altro che passiva.”

Storicamente in Palestina c’è un modello secondo cui quando in una regione si verificano forti ondate di resistenza, al ritorno della calma si riprende in un’altra regione”, dice Shalash a Mondoweiss. “L’occupazione teme un contagio da Gaza alla Cisgiordania, specialmente a nord, ed ecco perché intensifica in modo così brutale la repressione.”

Quanto alla mobilitazione civile, Shalash ritiene che dipenda molto dalla geografia. “Non è del tutto assente”, dice. “Nei villaggi vicini al muro di annessione o alle strade dei coloni israeliani la mobilitazione di massa può variare. Alcuni villaggi hanno sviluppato il proprio movimento di massa locale negli scorsi anni o decenni e continuano le proteste settimanalmente, mentre in altri villaggi una manciata di giovani si scontra con le forze di occupazione e con i coloni quando fanno incursioni.”

Nelle città la gente spesso protesta all’interno dei propri centri urbani senza scontrarsi con l’occupazione, conseguenza della separazione spaziale dei palestinesi dagli occupanti dovuta al regime di Oslo. Ciò ha portato molti ad astenersi dal partecipare a queste azioni, sottolinea Shalash. “Non ne vedono lo scopo”, spiega. “Alcuni ancora partecipano perché vogliono mandare un messaggio all’ANP relativamente alla politica interna palestinese.”

L’ANP ha mostrato l’intenzione di reprimere un sollevamento di massa in Cisgiordania, ma Shalash pensa che vi siano limiti a quanto l’ANP possa impedire le proteste senza rischiare una più vasta reazione. “Per questo esse possono ancora verificarsi”, dice.

Inoltre la mobilitazione di massa in Palestina dipendeva in parte dal coinvolgimento della classe media, che costituiva una parte dell’intellighenzia politica e del movimento popolare. Quella stessa classe media è stata ora risucchiata in uno stile di vita consumistico e spoliticizzato, che viene mantenuto solamente dal flusso di denaro dall’estero – sia verso l’ANP che verso il settore delle ONG.

Però proprio quella stabilità adesso è compromessa da Israele. 

Con il rifiuto di Israele di terminare la guerra a Gaza e l’aumento delle tensioni in tutta la regione tutti i precedenti sintomi di stabilità in Cisgiordania sono scomparsi uno dopo l’altro. Israele non ha fatto che rispondere con sempre maggior repressione, sperando di impedire una grossa scossa di ribellione almeno a livello superficiale. Il problema è che in profondità le placche tettoniche non hanno smesso di muoversi.

Qassam Muaddi è il redattore dello staff sulla Palestina per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Guerra a Gaza: come Hamas ha attirato Israele in una trappola letale

David Hearst

4 luglio 2024 – Middle East Eye

La strategia di Hamas si è rivelata più efficace di quanto ritenuto possibile nove mesi fa. Israele ora ha tra le mani una vera guerra, e su tutti i fronti. Non può essere fermata facilmente.

Una delle domande principali sugli attacchi di Hamas del 7 ottobre rimane ancora senza risposta.

Cosa pensava Hamas che sarebbe successo con un attacco di tale portata a Israele?

Inizialmente ho dato credito alla teoria del caos. È andata così. Unoperazione limitata per colpire obiettivi militari israeliani e prendere degli ostaggi preziosi è andata fuori controllo grazie al cedimento inaspettato della Brigata Israeliana di Gaza. Hamas si aspettava che parte prevalente dei 1.400 combattenti inviati quel giorno oltre la recinzione sarebbe stata uccisa. La maggior parte di loro è tornata viva.

Quando Hamas e altri gruppi armati hanno esaurito gli obiettivi prestabiliti si sono sparpagliati e si sono imbattuti in un festival musicale di cui non sapevano l’esistenza. La susseguente carneficina è diventata, con le parole di un diplomatico del Golfo: “la madre di tutti gli errori di calcolo”.

Man mano che questa guerra va avanti, un mese dopo l’altro, sono sempre meno sicuro che questa teoria sia corretta.

In effetti, ha guadagnato terreno subito dopo lattacco di Hamas, poiché gli alleati di Hamas non sono riusciti a seguirne lesempio.

Il giorno in cui le sue forze hanno colpito, il comandante militare di Hamas, Mohamed Deif, ha invitato gli alleati dell'”asse della resistenza” a unirsi alla lotta: “Nostri fratelli nella resistenza islamica in Libano, Iran, Yemen, Iraq e Siria! Questo è il giorno in cui la vostra resistenza si unirà a quella del vostro popolo in Palestina”, ha detto in un messaggio audio preparato qualche tempo prima.

Ma Hezbollah, per esempio, era tuttaltro che entusiasta della prospettiva di partecipare ad una guerra che non rientrava nei suoi programmi o nelle sue scelte. Come la Brigata israeliana di Gaza, Hezbollah è stato colto di sorpresa.

I suoi combattenti non erano in allerta nemmeno nei villaggi vicino al confine con Israele: “Ci siamo svegliati con una guerra”, ha detto un comandante. Chiaramente, una risposta misurata da parte di Hezbollah non rientrava nel copione di Hamas.

Sono passate due settimane prima che Khaled Meshaal, a capo dellufficio di Hamas nella diaspora, ringraziasse Hezbollah per la sua risposta fino a quel momento, ma aggiungendo esplicitamente che la battaglia richiede di più”.

Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha mantenuto il silenzio per altre tre lunghe settimane prima di dichiarare che l’operazione di Hamas era “palestinese al 100% sia in termini di decisione che di esecuzione”, aggiungendo: “Questa operazione non ha un minimo legame con alcuna decisione o mossa che venga adottata da qualsiasi altra fazione all’interno dell’asse della resistenza”.

È stato ben chiaro lAyatollah Ali Khamenei nel dire a Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, che lIran non sarebbe intervenuto direttamente anche se avrebbe continuato a fornire all’organizzazione il suo sostegno politico e morale.

Ci si trovava ormai a metà novembre e la strategia di Hamas di dare inizio a quella che avrebbe chiaramente voluto che fosse una guerra regionale sembrava essere fallita.

La diga è crollata

Confrontiamo la situazione di novembre con le parole e le azioni attuali di Hezbollah e dellIran.

Quando Israele ha colpito preventivamente sempre più obiettivi di Hezbollah, la fazione libanese ha risposto a tono. Il movimento Ansarallah dello Yemen (gli Houthi) è entrato nella mischia a novembre con attacchi alle navi nel Mar Rosso.

Il momento della svolta è sopraggiunto ad aprile quando Israele ha colpito un complesso dell’ambasciata iraniana a Damasco uccidendo il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, l’ufficiale responsabile delle operazioni all’estero della forza Quds [componente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, ndt.] e altre 15 persone, tra cui altri sette ufficiali del corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC).

LIran ha lanciato una risposta massiccia: 170 droni, 30 missili da crociera e ben 120 missili balistici pesanti direttamente contro obiettivi israeliani, molti dei quali hanno colpito basi militari.

Il Rubicone era stato oltrepassato e il terreno per una guerra regionale chiaramente preparato. Da quel momento in poi la questione è quando, non se.

Martedì il capo della Forza aerospaziale dellIRGC, il generale di brigata Amir Ali Hajizadeh, ha affermato che lIran non vedeva lora di avere unaltra analoga opportunità da sfruttare.

Oggi Hezbollah è sullorlo della guerra, con Nasrallah che avverte Israele che centinaia di migliaia di altri combattenti sarebbero disposti ad arruolarsi un aiuto di cui Hezbollah non ha per il momento bisogno. Ha addirittura minacciato di attaccare Cipro se avesse consentito agli aerei da guerra israeliani di utilizzare le sue basi.

Si è scoperto che Hamas dopo il 7 ottobre non ha dovuto far altro che aspettare, continuare a combattere e lasciare che la naturale aggressività e larroganza di Israele nei confronti dei suoi vicini lavorassero a suo favore.

La sua strategia sta funzionando. Ma questa strategia è stata messa insieme allindomani di un raid fallito, come tutti avevano pensato il 7 ottobre?

Apparentemente no. Ripercorriamo i discorsi di Yehya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza.

Predire il futuro

Nel dicembre 2022, in occasione dell’anniversario della fondazione del gruppo islamista, Sinwar dichiarò: “Accrescere la resistenza in tutte le sue forme e far sì che l’ [autorità] occupante sconti le conseguenze dell’occupazione e dell’insediamento coloniale è l’unico mezzo per salvare il nostro popolo e realizzare i suoi obiettivi di liberazione e ritorno.

Chi non prende l’iniziativa oggi se ne pentirà domani. Il merito va a chi si fa avanti per primo e si dimostra sincero. Non permettete a nessuno di riportarvi indietro alle controversie, mitragliamenti e combattimenti interni. Non non abbiamo tempo per questo mentre la minaccia del fascismo incombe sulle nostre teste.”

Mesi dopo Sinwar tenne un discorso in cui predisse accuratamente il futuro.

“Fra alcuni mesi, e secondo le mie stime non passerà un anno, porremo [l’autorità] di occupazione davanti a due scelte: o la costringeremo ad attuare il diritto internazionale, a rispettare le risoluzioni internazionali, [cioè] a ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, smantellare gli insediamenti coloniali, liberare i prigionieri e [consentire] il ritorno dei profughi

oppure metteremo questa occupazione in contraddizione con l’intera volontà internazionale, creando così nei suoi confronti un forte e vasto isolamento, e porremo fine al suo processo di assimilazione nella regione e nel mondo intero, [ribaltando] la situazione di forte indebolimento che ha caratterizzato la resistenza negli ultimi anni in tutti i fronti [della ribellione].”

Questo è esattamente quello che è successo. Israele è isolato a livello internazionale come mai prima dora. È sul banco degli imputati di due dei più alti tribunali internazionali e i suoi principali sostenitori, Stati Uniti e Regno Unito, stanno combattendo un’azione di retroguardia cercando di fermare il crescente numero di sanzioni internazionali.

Quando è emerso come leader politico a Gaza Sinwar aveva allinterno di Hamas degli oppositori. Il suo tentativo di riconciliazione con il suo ex compagno di scuola e di prigione, il leader di Fatah Mohammed Dahlan, è stato un fiasco totale.

Forti preoccupazioni sono state espresse anche riguardo al riavvicinamento di Hamas alla Siria dopo le aspre spaccature create dalla guerra civile. La fazione di Hamas strettamente alleata con la Turchia non ha gradito per niente il riavvicinamento con la Siria e lIran e non ha esitato a dirlo.

Ora si scopre che questo riavvicinamento era una componente vitale della strategia di Sinwar per attaccare Israele e iniziare una lunga guerra.

Ancora fratelli

Il riavvicinamento tra ex acerrimi nemici nella guerra civile siriana va ben oltre la disponibilità di Hezbollah a consentire ad Hamas di lanciare attacchi contro Israele nella sua area operativa nel sud del Libano, lungo il confine con Israele.

Al-Fajr è il braccio armato di Al-Jama’a al-Islamiya (JAI), i Fratelli Musulmani in Libano. Da molto tempo le sue forze sono numericamente insignificanti.

Oggi si ritiene che ammontino a soli circa 500 combattenti, ma la loro importanza va oltre il loro numero ed è cresciuta man mano che Israele ha moltiplicato i suoi attacchi contro gli alti comandanti di Hezbollah in seguito agli assalti del 7 ottobre.

La dichiarazione di cordoglio della JAI, rilasciata dopo che l’alto comandante di Hamas Saleh al-Arouri è stato ucciso in un attacco israeliano a gennaio, affermava che “il sangue libanese e palestinese si sono mescolati per completare insieme il processo di liberazione”.

Quando a giugno un comandante di alto profilo di Hezbollah, Talib Sami Abdallah, è stato ucciso in un attacco israeliano a Jwaya, una città nel sud del Libano, Nasrallah ha sottolineato nel suo tributo come questo combattente veterano fosse andato in aiuto dei musulmani sunniti in Bosnia.

“A proposito, poiché si parla di [divisioni] tra sciiti e sunniti, loro [i bosniaci] non sono sciiti, non risulta che ci fossero sciiti in Bosnia quando questo caro gruppo di fratelli lasciò la nostra organizzazione e i dirigenti e rimase lì per anni al freddo e alla neve lontano da casa”, ha detto Nasrallah.

Ci sono stati anche incontri di alto profilo, inimmaginabili solo pochi anni fa, tra ex nemici nella guerra civile siriana. Nasrallah ha incontrato il capo della JAI, Sheikh Mohammed Taqoush. Al Mayadeen, l’organo di informazione pro-Hezbollah, ha commentato: “È interessante rilevare che dall’8 ottobre 2023 diversi combattenti delle forze al-Fajr, l’ala militare del Gruppo islamico in Libano, sono stati martirizzati per la loro partecipazione ad operazioni contro obiettivi militari israeliani lungo il confine con la Palestina occupata.”

Il nuovo patto tra Hezbollah e i Fratelli Musulmani in Libano ha avuto conseguenze interne per la comunità sunnita, rimasta senza leader da quando lex primo ministro Saad Hariri ha lasciato la scena nel 2019.

La settimana scorsa, quando la Lega Araba ha rimosso Hezbollah dalla lista delle organizzazioni terroristiche, l’ex primo ministro libanese Fouad Siniora, un sunnita della leadership tradizionale, si è irritato. “È necessario smettere di fare regali gratuiti a Hezbollah”, ha detto ad Al Arabiya.

Un importante cambiamento regionale

La parziale ricomposizione della spaccatura settaria tra sciiti e sunniti sebbene non accolta da un segmento della popolazione sunnita che non perdonerà quanto accaduto in Siria rappresenta un importante cambiamento nel panorama regionale.

Israele ha sempre prosperato grazie ad una politica del divide et impera. Sapeva che se le forze sunnite e sciite fossero confluite, la capacità di manovra di Israele sarebbe stata limitata.

E’ ciò che sta accadendo ora con conseguenze concrete. Le operazioni militari in Cisgiordania sono passate in gran parte inosservate, ma Israele sta ora utilizzando aerei F16 per bombardare i campi profughi palestinesi. Lultima volta che lo ha fatto è stato durante la Seconda Intifada [dal 2000 al 2005, ndt.].

In risposta, i combattenti della resistenza hanno migliorato qualitativamente il loro livello operativo. Ora stanno attirando le truppe israeliane in trappole sofisticate e letali. Sono comparse lungo le strade bombe ad alta tecnologia, proprio come è successo contro gli americani in Iraq.

Un soldato israeliano è stato ucciso e altri gravemente feriti quando un veicolo blindato pesante è stato fatto saltare in aria da una bomba lungo una strada a Tulkarem.

L’attacco è stato filmato dalle Brigate Al Quds, che ne hanno rivendicato la paternità. Giorni prima a Jenin un soldato era stato ucciso e altri 16 feriti da esplosivi interrati in profondità sotto una strada.

Il bilancio delle vittime israeliane in Cisgiordania è aumentato in modo significativo. Secondo il ministero della Sanità palestinese dal 7 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi 540 palestinesi. Nello stesso periodo sono morti 25 israeliani, la maggior parte dei quali militari.

LAutorità Nazionale Palestinese ha apertamente avvertito Israele che la portata del contrabbando di armi e componenti sofisticati dalla Giordania alla Cisgiordania sta aumentando a un ritmo tale che i militanti riusciranno a costruire e lanciare razzi contro Israele entro un anno.

Una strategia messa in atto

Anche se Sinwar dovesse morire domani il leader di Hamas considererebbe realizzato il compito della sua vita.

Tutto è pronto per uninvasione israeliana del Libano e con essa una guerra regionale la cui fine potrebbe richiedere decenni.

Secondo 12 ex funzionari dell’amministrazione che si sono dimessi a causa della politica del presidente Biden la strategia americana di sostenere Israele fino in fondo dopo l’attacco di Hamas, e poi di tentare di trattenerlo in un “abbraccio dell’orso”, ha reso ogni militare americano che lavora nella regione un chiaro bersaglio.

Gli esperti di Medio Oriente del Dipartimento di Stato sono in aperta ribellione e questa settimana è comparsa una seconda lettera che mette in guardia sulla follia dell’operato di Joe Biden.

“La copertura diplomatica americana e il continuo flusso di armi verso Israele hanno assicurato la nostra innegabile complicità nelle uccisioni e nella carestia forzata della popolazione palestinese assediata a Gaza”, affermano gli ex funzionari nella dichiarazione.

Lopinione pubblica araba è in stragrande maggioranza antiamericana. L’ininterrotta operazione di Israele a Gaza ha causato così tanta rabbia e umiliazione nel mondo arabo che sta seppellendo le profonde spaccature tra le forze politiche nazionaliste e islamiste emerse dopo la Primavera Araba più di 13 anni fa.

Questo è un risultato.

Un sondaggio dopo laltro fa eco a questa tendenza. Nel novembre dello scorso anno il Washington Institute for Near Eastern Policy [Istituto di Washington per la Politica in Medio Oriente] ha rilevato che una media del 40% degli intervistati in Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Palestina e Siria ha affermato che le azioni dellIran stavano avendo un impatto positivo sulla guerra.

L’Arab Barometer [rete di ricerca imparziale sugli atteggiamenti e sui valori sociali, politici ed economici dei cittadini del mondo arabo, ndt.] ha rilevato che il leader supremo dellIran ha superato lindice di gradimento del principe ereditario saudita o del presidente degli Emirati.

La stessa cosa è accaduta dopo linvasione israeliana del Libano nel 2006, ma la differenza oggi consiste nel grande rafforzamento degli armamenti in mano alla resistenza e nell’indebolimento militare degli stati arabi.

Il vero paradosso è che Israele sia caduto volontariamente in una trappola creata da Hamas.

Se Israele avesse ceduto alle pressioni di Biden e dell’ONU per porre fine alla guerra a Gaza senza smantellare Hamas avrebbe subito una sconfitta tattica che avrebbe fatto a pezzi la coalizione di destra.

Ma se, come in base alle aspettative di Hamas, continuasse la guerra a Gaza indipendentemente dal costo umano, ciò provocherebbe una guerra regionale che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di contenere o fermare.

Questa è la strada che Israele ha ora intrapreso. Anche se si raggiungesse un accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele, è ormai pienamente inteso che per Israele si tratterebbe di una tregua temporanea, unopportunità per i riservisti dellesercito di riprendersi prima dellinevitabile attacco al Libano.

Avigdor Lieberman, oppositore del primo ministro Benjamin Netanyahu e implacabile nemico dei suoi alleati religiosi sionisti di estrema destra, ha affermato che Hezbollah e Hamas possono essere sconfitti solo se lo sarà anche lIran.

Ha scritto su X: In questo confronto tra Israele e lAsse del Male, dobbiamo vincere, e senza sconfiggere lIran ed eliminare il suo programma nucleare né Hezbollah né Hamas potranno essere sconfitti.

Per fermare il programma nucleare iraniano, che è già nella fase della realizzazione degli armamenti, dobbiamo utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione. Dovrebbe essere chiaro che in questa fase non è possibile impedire [l’uso] di armi nucleari da parte dellIran con mezzi convenzionali”.

Negli ultimi nove mesi i palestinesi di Gaza hanno patito grandi sofferenze. La fame è una morte ancora più crudele dei bombardamenti a tappeto indiscriminati. Il costo di questa strategia è elevato.

Ma sotto unoccupazione sempre più brutale il cui unico scopo è costringere il maggior numero possibile di palestinesi ad andarsene la resistenza armata sotto una leadership militante che rifiuta di arrendersi o di scappare in esilio è diventata la scelta collettiva dei palestinesi ovunque vivano.

Si tratta di un cambiamento marcato nel disegno che Israele ha fatto nel corso dei decenni per sottomettere sia la popolazione palestinese che la regione su cui si è imposto.

Ma, qualunque cosa accada adesso, la strategia di Hamas è stata più efficace di quanto ritenuto possibile nove mesi fa. Israele ha ora tra le mani una vera guerra, e su tutti i fronti. Inoltre, è una guerra che non sarà facilmente fermata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

David Hearst è cofondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore sulla regione e analista dell’Arabia Saudita. E’ stato capo redattore per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Attraverso gli occhi di chi è bendato: uno sguardo alle violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi

Samah Jabr

3 luglio 2024 – Middle East Monitor

Di recente sulle reti sociali sono comparsi molti video inquietanti di palestinesi bendati. Uno di questi mostra soldati israeliani nella Cisgiordania occupata che obbligano palestinesi arrestati e bendati ad ascoltare in continuazione per otto ore una canzoncina per bambini, “Meni Meni Meni Mamtera”. Questo video è diventato virale, scatenando la tendenza su Tik Tok per cui israeliani si prendono gioco dei detenuti palestinesi rievocando quella scena. Persino Yinon Magal, ex- parlamentare [del partito di estrema destra Casa Ebraica, ndt.] della Knesset e conduttore di programmi televisivi, ha partecipato a questa attività con i suoi bambini.

Avendo lavorato per quasi vent’anni con vittime palestinesi di tortura, posso testimoniare direttamente le gravissime conseguenze di tali pratiche. Bendare e incappucciare sono prassi comunemente utilizzate da esercito, polizia e investigatori israeliani durante la detenzione e gli interrogatori. Spesso messe in atto insieme alla tortura, queste pratiche rendono quasi impossibile per le vittime identificare i propri torturatori, impedendo di conseguenza i tentativi di denuncia. Questi atti sono diventati sempre più sfrontati, in quanto si svolgono spesso davanti a telecamere durante le azioni genocide che attualmente avvengono a Gaza. Molti detenuti raccontano di essere stati isolati dal loro contesto durante buona parte, quando non tutto il tempo passato in detenzione. Questa prassi riprovevole solleva gravi preoccupazioni legali, etiche e psicologiche.

Bendare gli occhi, in quanto metodo di deprivazione sensoriale, è particolarmente dannoso. Ha profonde conseguenze psicologiche e fisiologiche, sia a breve che a lungo termine, tra cui danni alla vista, traumi, ansia, attacchi di panico, disorientamento, problemi cognitivi e allucinazioni. La deprivazione sensoriale accentua la differenza di potere tra la vittima con gli occhi bendati e chi interroga, amplificando la sensazione di vulnerabilità, paura e impotenza. A causa di tale impedimento la vittima dipende maggiormente da altri sensi, che intensificano la sofferenza fisica e l’impatto dell’interrogatorio.

L’isolamento può portare ad accentuare lo stress e la disperazione, aumentando la possibilità che l’individuo fornisca informazioni o si adegui alle richieste di chi lo interroga. Questi risultati sono coerenti con la nostra conoscenza clinica secondo cui la deprivazione sensoriale può portare a gravi problemi di salute mentale e a conseguenze traumatiche.

Questa tecnica serve anche a disumanizzare la vittima. Gli investigatori impediscono il contatto visuale delle vittime con il loro contesto e con gli stessi investigatori, riducendone la sensazione di identità personale, soggettività e libero arbitrio, rendendo più facile per chi interroga esercitare il controllo. Il metodo accentua nella vittima la sensazione di disorientamento, oggettificazione e suggestionabilità. Questa deliberata deprivazione sensoriale intende creare un contesto in cui è più probabile che la vittima soccomba alle pressioni durante l’interrogatorio.

Molte delle vittime di tortura che ho esaminato e che durante la detenzione hanno subito settimane di deprivazione sensoriale, tra cui il bendaggio degli occhi, hanno descritto sintomi di dissociazione. Possono vivere esperienze di depersonalizzazione, una sensazione di irrealtà e un profondo distacco dal loro contesto; questi sintomi possono persistere anche quando la deprivazione visiva finisce e possono avere un impatto profondo sulla loro salute mentale. Altri hanno iniziato ad aver paura del buio e non riescono ad addormentarsi spontaneamente.

Mentre gli israeliani sostengono che bendare [i detenuti] è una misura efficace legata alla sicurezza, sappiamo che metodi psicologici estremi spesso forniscono informazioni inattendibili. Sotto costrizione è più probabile che le persone forniscano dichiarazioni false o esagerate.

Penso che bendare gli occhi serva senza dubbio a proteggere i soldati israeliani dallo sguardo dei palestinesi e da ogni possibilità di contatto visivo con le persone che stanno interrogando. Questa separazione dall’aspetto umano delle azioni israeliane è un meccanismo di difesa psicologico, e consente ai soldati di tenere una distanza emotiva dall’impatto del loro comportamento. Essa può contribuire a un più complessivo processo di disumanizzazione attraverso cui i soldati diventano insensibili al costo umano delle loro azioni. Studi sulla psicologia dei militari indicano che tale distacco può portare a una maggiore aggressività e probabilità di commettere violazioni dei diritti umani.

È fondamentale riconoscere che l’uso di bendare gli occhi e della tortura è generalmente definito una violazione dei diritti umani. Ma non possiamo dimenticare quello che abbiamo visto, anche quando Israele sta cercando di bendare gli occhi del mondo per non fargli vedere le sue azioni genocide e di ammanettare l’opinione pubblica internazionale perché non condanni queste azioni. I palestinesi chiedono alla comunità internazionale di fissare lo sguardo su Israele e chiedere conto a quanti perpetrano tali pratiche. Solo opponendoci a queste violazioni possiamo proteggere la nostra visione dei diritti umani e conservare la prospettiva di un mondo migliore.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Entro 48 ore tutti i centri sanitari di Gaza cesseranno di funzionare – Ministero della Salute

Redazione di Palestine Chronicle

30 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Domenica il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato che entro 48 ore gli ospedali e le stazioni di ossigeno in tutta la Striscia cesseranno le operazioni in seguito allesaurimento del carburante causato dalla guerra israeliana in corso.

In una dichiarazione il Ministero ha avvertito che entro 48 ore i restanti ospedali, centri sanitari e stazioni di ossigeno smetteranno di funzionare”.

Il Ministero ha osservato che questa situazione è prevista a causa dellesaurimento del carburante necessario per il funzionamento dei generatori, del quale Israele impedisce lingresso a Gaza insieme ad altre forniture essenziali come medicine e cibo, in un quadro di inasprimento delle restrizioni nei confronti della Striscia”.

Ha rilevato che le scorte di carburante sono quasi esaurite nonostante le rigorose misure di austerità attuate dal Ministero per conservare le scorte rimanenti il ​​più a lungo possibile, data l’insufficiente quantità disponibile per il funzionamento”.

Il ministero ha esortato tutte le organizzazioni internazionali e umanitarie pertinenti a intervenire tempestivamente fornendo il carburante necessario, nonché i generatori elettrici e i pezzi di ricambio necessari per la manutenzione”.

Venerdì Hossam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, ha affermato che l’ospedale avrebbe cessato a breve le operazioni a causa della carenza di carburante necessario per i suoi generatori elettrici.

La PRCS evacua

Domenica la Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS) ha evacuato la sua sede amministrativa temporanea nel sud della Striscia di Gaza a causa degli attacchi israeliani nella zona.

L’organizzazione “ha evacuato completamente la sua sede amministrativa temporanea nell’area di Mawasi Khan Younis a causa della caduta di schegge sull’edificio e dei bombardamenti diretti, che costituivano un pericolo per il personale che lavora all’interno”, ha affermato sabato su X.

Larea di Al-Mawasi è stata designata dallesercito israeliano come rifugio sicuroper i palestinesi in seguito allinvasione di terra di Rafah allinizio di maggio.

Tuttavia le forze israeliane hanno attaccato l’area da quando i palestinesi già precedentemente sfollati e rifugiatisi a Rafah sono stati costretti a sfollare ad Al-Mawasi.

Genocidio in corso

Attualmente sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro i palestinesi, dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso a Gaza 37.877 palestinesi sono stati uccisi e 86.969 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte, sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, di cui la stragrande maggioranza costretti a rifugiarsi nella città meridionale, densamente affollata, di Rafah, vicino al confine con lEgitto in quello che è diventato il più grande esodo di massa in Palestina a partire dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre, durante loperazione ‘Al-Aqsa Flood’ (‘Tempesta di Al-Aqsa’, ndtr.), sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che suggeriscono che quel giorno molti israeliani sarebbero stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sotto le macerie, imprigionati, sepolti” – a Gaza scomparsi 20.000 minori

Redazione di Palestine Chronicle

25 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

Secondo lorganizzazione non governativa internazionale Save the Children a Gaza oltre 20.000 minori palestinesi risultano dispersi a causa dell’incessante attacco israeliano contro la Striscia.

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

In una dichiarazione rilasciata lunedì lorganizzazione benefica con sede nel Regno Unito ha descritto le difficoltà nell’impegno di raccolta e verifica delle informazioni nell’attuale situazione di Gaza, dove continuano gli attacchi terrestri e aerei israeliani.

Lorganizzazione stima che vi siano almeno 17.000 minori non accompagnati e separati dalle loro famiglie, circa 4.000 probabilmente intrappolati sotto le macerie e un numero imprecisato di sepolti in fosse comuni.

“Altri sono stati fatti scomparire con la forza, compreso un numero indefinito di minori arrestati e trasferiti forzatamente fuori da Gaza e la loro ubicazione è sconosciuta alle loro famiglie con denunce di maltrattamenti e torture”, dichiara Save the Children.

Le famiglie sono torturate sulla mancanza di notizie rispetto all’ubicazione dei i loro cari. Nessun genitore dovrebbe essere costretto a scavare tra le macerie o nelle fosse comuni nel tentativo di trovare il corpo del proprio figlio”, afferma Jeremy Stoner, direttore regionale di Save the Children per il Medio Oriente.

Nessun bambino dovrebbe trovarsi solo, senza protezione in una zona di guerra. Nessun bambino dovrebbe essere detenuto o tenuto in ostaggio”, aggiunge.

Genocidio a Gaza

Dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza e oggi è sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio nei confronti dei palestinesi.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso dal 7 ottobre 37.626 palestinesi sono stati uccisi e 86.098 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, costretti nella stragrande maggioranza a rifugiarsi nella sovraffollata città meridionale di Rafah, vicino al confine con lEgitto – in quello che è diventato il più grande esodo di massa dei palestinesi dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre durante loperazione Al-Aqsa sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che rivelano come quel giorno molti israeliani siano stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Giornalista palestinese a Gaza: potete anche togliermi il premio, non mi toglierete la voce

Maha Hussaini

20 giugno 2024 MiddleEastEye

 

Dopo aver seguito per mesi l’atroce genocidio di Gaza, mi è stato tolto il Premio Coraggio nel Giornalismo a seguito di una sistematica campagna diffamatoria da parte dei sostenitori di Israele.

Negli ultimi dieci anni da giornalista e reporter di guerra ho capito perché molti abbandonino questa professione, soprattutto in Palestina.

Oltre alle enormi sfide e ai continui attacchi fisici, ci sono sforzi continui, sistematici e ben organizzati da parte di organizzazioni filo-israeliane per intimidire e mettere a tacere i giornalisti palestinesi. Queste tattiche mirano a spingere i giornalisti ad abbandonare il proprio lavoro, che è fondamentale nel denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani e arrivare a scoprire le responsabilità.

Nel corso della mia carriera giornalistica mi sono stati assegnati due premi, entrambi seguiti da estese campagne diffamatorie e appelli da parte di associazioni e singoli individui israeliani che esortavano le organizzazioni che erogavano i premi a revocarli.

Lo scorso giugno ho ricevuto il Premio Coraggio nel Giornalismo dalla International Women’s Media Foundation (IWMF) per i miei reportage sul campo da Gaza, sottoposta a un devastante assedio israeliano e un bombardamento implacabile da più di otto mesi.

Durante questo periodo sono stata sfollata con la forza tre volte, spostandomi da un rifugio all’altro. La mia casa è stata bombardata e ho sopportato mesi di fame, blackout e continui bombardamenti. A volte ho dovuto ricorrere all’uso di carta e penna per poi inviare i miei articoli come messaggi di testo dopo che Israele ha tagliato le forniture di carburante ed elettricità e ha bombardato le infrastrutture delle principali società di telecomunicazioni di Gaza.

Nonostante queste difficoltà mi considero fortunata di non far parte (finora) del conteggio dei circa 150 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023.

Solo pochi giorni dopo che l’IWMF aveva annunciato il mio premio, sui social media è stata lanciata una campagna diffamatoria da parte di Israele che ne chiedeva la revoca. Nel giro di 24 ore l’IWMF ha ottemperato alla richiesta annullando il premio, rimuovendo il mio profilo dal suo sito web e riducendo il numero dei premiati da quattro a tre.

Attacchi inarrestabili

“Nelle ultime 24 ore l’IWMF è venuta a conoscenza di alcuni commenti fatti da Maha Hussaini negli anni passati che contraddicono ai valori della nostra organizzazione”, ha affermato l’IWMF in una breve dichiarazione, senza fornire ulteriori dettagli.

Di conseguenza abbiamo revocato il Premio Coraggio nel Giornalismo che le era stato precedentemente assegnato. Sia il Premio Coraggio che la missione dell’IWMF si basano sull’integrità e sull’opposizione all’intolleranza. Non tollereremo e non sosterreremo né supporteremo opinioni o dichiarazioni che non aderiscano a tali principi”.

Sullo stesso sito, tuttavia, l’IWMF afferma: “Il Premio Coraggio nel Giornalismo dimostra al mondo che le giornaliste non si faranno da parte, non possono essere messe a tacere e meritano di essere riconosciute per la loro forza di fronte alle avversità. Il premio onora le giornaliste coraggiose che raccontano argomenti tabù, lavorano in ambienti ostili alle donne e condividono verità scabrose”.

Ogni anno i giornalisti palestinesi ricevono premi internazionali per i loro coraggiosi reportage sotto l’occupazione israeliana e in mezzo ad attacchi senza sosta. Questi riconoscimenti onorano il loro coraggio e la loro dedizione nel rivelare la verità.

Tuttavia tali riconoscimenti sono spesso seguiti da estese campagne diffamatorie e da un’intensa pressione sulle organizzazioni che indicono il premio da parte dei sostenitori dell’occupazione israeliana e della lobby sionista. Mentre alcune associazioni si attengono ai propri principi e sostengono i giornalisti, altri purtroppo cedono alle pressioni.

Non avrei vinto questo premio se non fossi stata sul campo a denunciare le flagranti violazioni israeliane in condizioni pericolose, il tutto mentre venivo sistematicamente attaccata da chi sosteneva gli autori del reato.

Vincere un premio per il “coraggio” significa essere soggetto ad attacchi e scegliere di continuare il proprio lavoro nonostante tutto. Purtroppo la stessa organizzazione che ha riconosciuto queste condizioni pericolose e mi ha assegnato il premio ha scelto di non essere coraggiosa.

Complicità globale

Nonostante tutto sono felice sia di aver vinto il premio sia che il suo successivo ritiro abbiano dimostrato chiaramente i sistematici attacchi fisici e morali che i giornalisti palestinesi subiscono nel corso della loro carriera. A dimostrazione anche di come i media globali e le organizzazioni internazionali possano essere ritenuti complici nel mettere a tacere i giornalisti palestinesi.

Le minacce e le diffamazioni mirano proprio a zittire le voci più rilevanti e a perpetuare pregiudizi di lunga data sui media globali. Non ho mai lavorato per ricevere premi, né ho mai fatto domanda per candidarmi.

Non ho scelto il giornalismo come professione. Sono diventata giornalista dopo aver visto fino a che punto il mondo ignora la sofferenza dei palestinesi e sceglie di conformarsi alle pressioni israeliane, soprattutto nel momento in cui Israele vieta ai giornalisti internazionali di entrare nella Striscia di Gaza per riferire in maniera oggettiva della guerra.

Invece di riconoscere le minacce che i giornalisti palestinesi affrontano e contribuire a proteggerli, ritirare i premi ai giornalisti palestinesi di Gaza, dove decine di giornalisti sono già stati uccisi dalle forze israeliane, rischia di renderli obiettivi ancora più visibili.

Non ho rimpianti per gli eventuali post o commenti passati che hanno portato alla revoca del mio premio e non smetterò mai di esprimere le mie opinioni. Prima di diventare giornalista ero una palestinese che viveva sotto l’occupazione militare e un blocco soffocante. Oggi a Gaza sto subendo un genocidio riconosciuto a livello internazionale.

I miei nonni furono espulsi da Gerusalemme al momento della creazione dello Stato di Israele e io sono stata espulsa da casa mia a Gaza durante questo genocidio.

Se per vincere un premio è necessario sopportare e testimoniare crimini di guerra rimanendo in silenzio, non mi ritengo onorata di ricevere alcun premio.

Sarò sempre obiettiva nei miei resoconti, ma non potrò mai essere neutrale. Indicherò sempre i colpevoli e sarò solidale con le vittime. Questo è vero giornalismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Maha Hussaini è una giornalista pluripremiata e attivista per i diritti umani che risiede a Gaza. Maha ha iniziato la sua carriera giornalistica riferendo della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza del luglio 2014. Nel 2020 ha vinto il prestigioso Premio Martin Adler per il suo lavoro come giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli abitanti dei kibbutz bloccano gli aiuti umanitari a Gaza.

Jonathan Ofir  

18 giugno 2024 – Mondoweiss

La complicità con il genocidio non è confinata alla destra israeliana. Membri dell’organizzazione progressista che lo scorso anno ha capeggiato le proteste contro Netanyahu ora bloccano gli aiuti umanitari a Gaza

Nel corso degli ultimi mesi i principali mezzi di informazione hanno parlato del problema degli israeliani che bloccano gli aiuti umanitari a Gaza. A marzo Clarissa Ward della CNN ha raccontato degli attivisti israeliani di estrema destra che cercano di bloccare con i propri corpi i valichi verso Gaza attraverso cui è stato trasportato l’aiuto umanitario. Ward ha respinto le affermazioni dei manifestanti secondo cui i sacchi di riso erano stati riempiti con proiettili, spiegando inutilmente che i gazawi stanno morendo di fame.

Venerdì l’amministrazione Biden ha emanato una sanzione selettiva contro la principale organizzazione che blocca gli aiuti, “Tzav 9”, che significa “Ordine 9”, un nome che allude all’ordine di mobilitazione dei riservisti dell’esercito israeliano.

Il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha affermato:

Per mesi singoli individui di Tzav 9 hanno ripetutamente cercato di impedire la consegna di aiuti umanitari a Gaza, compreso  il blocco di strade, a volte in modo violento, lungo il loro percorso dal Giordano a Gaza, anche in Cisgiordania… Non tollereremo azioni di sabotaggio e violenze che prendano di mira questa indispensabile assistenza umanitaria… Continueremo ad usare ogni mezzo a nostra disposizione per promuovere il fatto che vengano chiamati a risponderne quanti cercano o intraprendono tali atti odiosi e ci aspettiamo e sollecitiamo le autorità israeliane a fare altrettanto.

Ma l’idea implicitamente sostenuta qui che “Tzav 9” sia l’unico attore negativo da condannare è assolutamente fuorviante. Il blocco dell’aiuto umanitario è solo un contributo di questi attivisti, il principale responsabile dell’uso della fame come arma contro tutta la popolazione di Gaza è il governo israeliano. È un l’attore fondamentale di questo genocidio.

Nel suo reportage Clarissa Ward ha correttamente notato che un recente sondaggio dell’Israeli Democracy Institute [centro di ricerca progressista, ndt.] ha mostrato che il 68% – oltre due terzi – degli ebrei israeliani è contrario all’aiuto umanitario a Gaza. Il sondaggio in effetti ha evidenziato l’80% tra i votanti di destra (che costituiscono circa i 2/3 della popolazione). E non importa se Hamas e l’UNRWA sono esclusi dalla fornitura di aiuti, vi si oppongono comunque. In altre parole i manifestanti di “Tzav 9” sono solo la punta dell’iceberg.

Di fatto a questi attivisti di destra ora si è unito un altro gruppo significativo: gli abitanti di kibbutz che stanno anche loro bloccando con i propri corpi l’aiuto umanitario a Gaza.

In Israele la società dei kibbutz è tradizionalmente nota per il suo spirito socialista di sinistra. Ma da sempre è ed è stata funzionale all’occupazione colonialista israeliana e all’apartheid. Come ha detto recentemente il presidente del Movimento dei Kibbutz Nir Meir, “i coloni non si sbagliano. La destra ha ragione: questo è il modo per impossessarsi delle terre e la loro affermazione secondo cui in ogni posto che noi israeliani lasciamo al nostro posto verranno gli arabi è corretta. La destra ha anche ragione nel suo progetto: è con la colonizzazione e solo con essa che può essere imposta la sovranità.”

Domenica il quotidiano israeliano di centro Maariv ha informato che ora circolano video di membri di kibbutz che stanno anche loro bloccando l’aiuto umanitario. Il video mostra due uomini del kibbutz Sdeh Boker (proprio il kibbutz di Ben-Gurion) e attivisti di “Koah Kaplan” — la “Forza Kaplan”, l’organizzazione che protesta contro l’attuale governo. Prende il nome da via Kaplan a Tel-Aviv, dove si svolgono le principali manifestazioni [contro Netanyahu, ndt.]. Il video di Maariv, secondo cui sarebbe di febbraio, mostra il blocco di camion da parte di membri del kibbutz al valico di Kerem Shalom verso Gaza, e “Tsav 9” ha confermato che negli ultimi mesi “Forza Kaplan” ha fatto parte del tentativo di bloccarli.

Ecco quanto dicono nel video i due attivisti:

Sono Boaz Sapir del kibbutz Sdeh Boker, sono qui per trasmettere un chiaro messaggio… il messaggio è che non ci sono destra o sinistra, che tutti gli ostaggi ritornino, vivi.”

Sono Gilad Shavit, del kibbutz Sdeh Boker, insieme a Boaz… vengo a portare il messaggio che gli ostaggi sono di tutta la Nazione di Israele, tutta la Nazione di Israele vuole il ritorno degli ostaggi, ma per un po’ il governo lo ha dimenticato. Non è possibile, non forniremo nessuna assistenza (umanitaria) ad Hamas finché i rapiti non verranno restituiti, questo è il nostro messaggio.”

Quello stesso messaggio è stato pronunciato fin dall’inizio del genocidio dall’uomo che è stato recentemente eletto alla guida del partito Laburista israeliano, Yair Golan.

Golan è entrato nel partito laburista da sinistra, essendo stato membro del Meretz, che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento nelle elezioni del novembre 2022. Il 13 ottobre Golan ha sostenuto addirittura che bisogna far morire di fame i gazawi:

Innanzitutto interrompere tutte le forniture di elettricità a Gaza. Penso che in questa battaglia sia vietato consentire un’operazione umanitaria. Dobbiamo dire loro: ascoltate, finché non saranno rilasciati (gli ostaggi) per quanto ci riguarda potete morire di fame. È assolutamente legittimo.”

Nel suo articolo Maariv pone l’ovvia domanda: “Il governo americano metterà in atto sanzioni contro gli attivisti della ‘Forza Kaplan’?”

Penso che sappiamo tutti la risposta. L’amministrazione Biden non sanzionerà un movimento che rappresenta la “democrazia” israeliana, dato che esso lotta apertamente contro il governo, a dimostrazione del fatto che in Israele esiste il pluralismo politico.

Biden vuole cavarsela con gesti simbolici come in marzo, quando ha sanzionato quattro coloni “che minacciano la pace, la sicurezza o la stabilità in Cisgiordania”. Il docente della Columbia University Rashid Khalidi ha sottolineato:

È un po’ come se ci fosse un furioso incendio e ci buttassero sopra un bicchier d’acqua e nello stesso tempo stessero fornendo benzina per alimentare le fiamme… Sanzionare qualche individuo che fa parte di una spinta alla colonizzazione sostenuta dal governo israeliano per 56 anni è in sé e per sé assurdo. O sanzioni chi lo ha guidato con molti miliardi di dollari, cioè il governo israeliano e le donazioni americane esentasse, o non fingere di opporti alle colonie.”

Gli USA dovrebbero impedire un genocidio, non giocare con le sanzioni contro questa o quella organizzazione. Israele nel suo complesso sta commettendo questo genocidio. Invece Biden sta solo andando dietro al frutto facile da cogliere degli attivisti di estrema destra, un atto simbolico, mentre continua la sua politica di incrollabile appoggio al genocidio israeliano.

Gli abitanti dei kibbutz, spesso additati dai democratici progressisti come il meglio della società israeliana, non sono diversi da “Tzav 9” quando si tratta di bloccare l’aiuto salvavita ai palestinesi di Gaza. E le loro parole e azioni rivelano solo quanto la società israeliana sia nel suo complesso genocidaria.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Rischi catastrofici”: allarme dall’UNRWA per 330.000 tonnellate di rifiuti accumulati a Gaza

Redazione di The Palestine Chronicle

13 Giugno 2024 – The Palestine Chronicle

L’accesso umanitario senza ostacoli e il cessate il fuoco ora sono fondamentali per ripristinare condizioni di vita umane”.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) ha messo in guardia dai “catastrofici” rischi ambientali e sanitari nella Striscia di Gaza, a causa dell’accumulo di rifiuti nelle aree popolate dell’enclave assediata. “Al 9 giugno, oltre 330.000 tonnellate di rifiuti si sono accumulate nelle aree popolate di Gaza o nelle loro vicinanze, con rischi ambientali e sanitari catastrofici”, ha dichiarato giovedì l’UNRWA in un comunicato. “I bambini rovistano quotidianamente tra i rifiuti”. L’agenzia ONU ha ribadito il suo appello per un cessate il fuoco immediato: “L’accesso umanitario senza ostacoli e il cessate il fuoco adesso sono fondamentali per ripristinare condizioni di vita umane”. In precedenza, l’agenzia aveva dichiarato che i palestinesi di Gaza “hanno vissuto sofferenze incessanti per oltre 8 mesi”, sottolineando che “nessun luogo è sicuro. Le condizioni sono deplorevoli. Cibo, acqua e forniture mediche sono ben lungi dall’essere sufficienti”.

Difficoltà nelle missioni di aiuto

Nel suo ultimo rapporto sulla situazione, l’UNRWA ha dichiarato che tra l’1 e il 6 giugno, delle 17 missioni coordinate di assistenza umanitaria nel nord di Gaza, otto (47%) sono state agevolate dalle autorità israeliane, a tre (18%) è stato negato l’accesso, quattro (23%) sono state ostacolate e due (12%) annullate, “per motivi operativi o di sicurezza”. Citando l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’UNRWA ha affermato che delle 74 missioni di assistenza umanitaria coordinate nelle aree del sud di Gaza le autorità israeliane ne hanno agevolate 52 (70%), 3 (4%) sono state negate, 12 (16%) sono state ostacolate e 7 (10%) sono state annullate. “Molte missioni classificate come ostacolate hanno subito ritardi prolungati, alcuni dei quali hanno raggiunto le nove ore in luoghi sensibili e insicuri, mettendo il personale umanitario a rischio di sicurezza”, si legge nel rapporto.

Un numero impressionante di morti

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza 37.232 palestinesi sono stati uccisi e 85.037 feriti nel genocidio in corso a Gaza dal 7 ottobre. Inoltre almeno 11.000 persone sono disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case in tutta la Striscia. Le organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e bambini. La guerra israeliana ha provocato una carestia acuta, soprattutto nel nord di Gaza, causando la morte di molti palestinesi, soprattutto bambini. L’aggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone da tutta la Striscia di Gaza, con la stragrande maggioranza degli sfollati costretti nella città meridionale di Rafah, densamente affollata e vicina al confine con l’Egitto, in quello che è diventato il più grande esodo di massa della Palestina dalla Nakba del 1948. Israele afferma che 1.200 soldati e civili sono stati uccisi durante l’operazione “Inondazione di Al-Aqsa” del 7 ottobre. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che suggeriscono che molti israeliani sono stati uccisi quel giorno da “fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)