Il vero motivo per cui un ex capo dell’esercito israeliano denuncia la pulizia etnica a Gaza

Meron Rapoport

5 dicembre 2024 – +972 magazine

Poco preoccupato del dramma dei palestinesi, Moshe Ya’alon teme l’impatto della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu sulle istituzioni militari.

Domenica primo dicembre l’emittente israeliana Channel 12 ha trasmesso un’intervista con Moshe “Bogie” Ya’alon, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano e poi ministro della Difesa. In uno scambio illuminante Ya’alon ha insistito nel definire “pulizia etnica” le azioni di Israele a Gaza, sostenendo che i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia sono totalmente giustificati e ha affermato che lui stesso “da lungo tempo” li avrebbe emessi contro il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e forse persino contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. 

Per l’intervistatore Yaron Abraham ciò è stato totalmente inaspettato: sembrava prendere sul personale che Ya’alon non avesse intenzione di ripetere il solito mantra israeliano secondo cui “le FDI sono l’esercito più morale del mondo.”

Non c’è dubbio che tali affermazioni abbiano un peso particolare arrivando da chi continua a identificarsi come di destra, che una volta ha infangato i membri dell’ong di sinistra Breaking the Silence chiamandoli “traditori” e che, quando era a capo del Direttorato dell’Intelligence militare, ha sostenuto la tesi che si dovesse addossare la colpa della Seconda Intifada al leader dell’OLP Yasser Arafat. Dissentire da Ya’alon sul fatto che Israele stia attuando una pulizia etnica nella Striscia di Gaza, un atto che chiaramente costituisce un crimine di guerra, richiede una combinazione unica di sfrontatezza e audacia.

Di primo acchito uno potrebbe pensare che Ya’alon stia criticando la pulizia etnica perché la considera un’ingiustizia morale, tuttavia il vero motivo dietro le sue affermazioni sembra emergere verso la fine dell’intervista. 

[Israele] non è più definito una democrazia, né il suo sistema giudiziario è indipendente,” ha detto. “Stiamo passando da uno Stato ebraico liberale, democratico, nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza, a una dittatura messianica, razzista, corrotta e malata. Dimostratemi che ho torto.” In altre parole Ya’alon non è preoccupato per i palestinesi, costretti dall’esercito israeliano a lasciare le proprie case in massa, ma per il futuro di Israele quale Stato “ebraico e democratico”.

Tali affermazioni sono particolarmente interessanti perché Ya’alon è stato una delle figure prominenti del movimento di protesta contro l’attacco al sistema giudiziario di Netanyahu in cui il “blocco anti-occupazione” non è riuscito a convincere i leader del movimento che non poteva esserci una vera democrazia finché fosse durata l’occupazione. Quello che Ya’alon sta effettivamente dicendo ora è: senza democrazia ci sarà una pulizia etnica? La sua conclusione quindi è: c’è un legame diretto fra la riforma del sistema giudiziario, lo smantellamento delle istituzioni democratiche dello Stato “ebraico e democratico” che gli è caro e la pulizia etnica e i crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza?

 

Ciò che rafforza questo collegamento è il fatto che la pulizia etnica che si sta attuando a Gaza va di pari passo con l’intensificarsi da parte del governo di estrema destra della sua crociata contro le libertà civili e le istituzioni dello Stato. Alla fine di novembre la Knesset ha presentato una legge che faciliterà significativamente l’esclusione di candidati e liste dalla corsa in parlamento a causa del “sostegno al terrorismo”; tale legge mira chiaramente ad eliminare dalla Knesset i partiti palestinesi, privando quindi di significato le elezioni stesse e in pratica eliminando per sempre la possibilità che la destra perda. 

Anche i media sono sotto attacco: il governo sta presentando delle leggi per chiudere le emittenti radiotelevisive pubbliche e boicottando il quotidiano Haaretz per “i numerosi articoli che hanno danneggiato la legittimità di Israele nel mondo e il suo diritto all’autodifesa,” nelle parole del ministro delle Comunicazioni Shlomo Karh.

Ironicamente un altro bersaglio importante dell’attacco è proprio il sistema da cui proviene Ya’alon: le alte sfere della difesa. Nel video di nove minuti seguito all’arresto di Eli Feldstein, collaboratore e portavoce di Netanyahu sospettato di una fuga di documenti militari classificati per influenzare l’opinione pubblica israeliana, il primo ministro dipinge l’esercito, lo Shin Bet, la polizia e in misura minore il Mossad, come un altro “fronte” che egli è costretto a superare.

Su Channel 14, la principale rete di propaganda a favore di Netanyahu, varie agenzie di sicurezza sono incolpate non solo dei fallimenti del 7 ottobre, ma sono anche dipinte come responsabili di minare sistematicamente il raggiungimento della “vittoria totale” a Gaza. Questo attacco va oltre la retorica: misure come la “legge Feldstein” che darebbe l’immunità a chi passasse documenti classificati dall’esercito al primo ministro e la legge per trasferire il controllo dell’intelligence dall’esercito all’Ufficio del Primo ministro, entrambe passate in prima lettura alla Knesset, mirano a creare un apparato personale di intelligence per il Primo ministro che aggirerebbe esercito e Shin Bet. 

Lo smantellamento dell’establishment della difesa sta diventando una realtà tangibile.

Una guerra sempre più impopolare

Come in tutti i regimi populisti queste azioni sono giustificate quali passi necessari per mettere in pratica il mandato presumibilmente dato a Netanyahu e al suo governo dal “popolo,” mentre i suoi oppositori nell’esercito, nello Shin Bet, fra i pubblici ministeri o nei media sono descritti come un’élite che cerca di mantenere il proprio potere in modo non democratico contro il volere del popolo. Con un’assurda inversione delle parti la minoranza palestinese è descritta come se stesse dalla parte delle élite che sarebbero interessate ai diritti dei palestinesi a spese dei diritti del “popolo ebraico.”

È interessante che i commenti di Ya’alon sulla guerra a Gaza siano sempre più allineati con l’opinione dell’opinione pubblica in Israele, dove i sondaggi indicano che ora il governo rappresenta solo una piccola minoranza. Un sondaggio di Channel 12 pubblicato lo scorso weekend ha rilevato che il 71% del pubblico sostiene un accordo per gli ostaggi e la fine della guerra a Gaza, mentre solo il 15% è a favore della sua continuazione.

La decisione di mandare soldati in una guerra in cui potrebbero perdere la vita, specialmente quando prestano servizio in un esercito di leva, sta al centro del contratto sociale fra un governo e i suoi cittadini: il governo dovrebbe garantire ai cittadini il benessere, proteggere i loro diritti e difenderli; in cambio da loro ci si aspetta che rischino volontariamente le proprie vite per lo Stato. Perciò prima di andare in guerra ci si aspetta che un governo democratico si garantisca un ampio consenso.

Dopo il 7 ottobre c’è stato un consenso schiacciante a favore della guerra a Gaza. Similmente l’azione militare in Libano ha incontrato poca opposizione presso gli israeliani. Ma ora, dopo 14 mesi di guerra, con l’ottenimento di un cessate il fuoco al nord, gli ostaggi che muoiono uno dopo l’altro e i soldati che continuano a perdere la vita nonostante in teoria Hamas sia stato pressoché “eliminato”, i sondaggi mostrano che la maggioranza degli israeliani crede che la guerra a Gaza continui solo per gli interessi di Netanyahu e del suo governo.

Il piano palese della destra messianica è incentrato sul ritorno delle colonie come obiettivo ultimo della guerra. Ciò non fa altro che approfondire il divario, poiché c’è una grossa differenza fra morire in guerra contro Hamas, che ha attuato il massacro del 7 ottobre, e morire in una guerra che mira a ristabilire il blocco di colonie di Gush Katif smantellato dal “disimpegno” del 2005. Il fatto che personaggi come il ministro per gli Alloggi Yitzhak Goldknopf, leader ultraortodosso che non manda i propri figli a combattere nelle guerre di Israele, sventoli mappe di colonie insieme all’attivista per le colonie di estrema destra Daniella Weiss non fa che aggravare la crescente illegittimità della guerra agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica.

Questo crescente “deficit democratico” fra la gente e il governo può spiegare il rinnovato attacco di quest’ultimo alla democrazia e alle istituzioni statali. È come se il governo improvvisamente si rendesse conto che condurre una guerra impopolare sia difficile in una società dove l’esercito conta sulla leva obbligatoria e sui riservisti e così decidesse di smantellare ciò che rimane della democrazia.

E quindi perché non spogliare di ogni significato le elezioni escludendo dall’arena politica la minoranza palestinese? Perché non schiacciare i media e coltivare fedeli emittenti di propaganda come Channel 14 per eliminare totalmente dal dibattito ogni critica della popolazione alla guerra? Come ogni regime totalitario il governo di Netanyahu capisce l’assoluto bisogno di avere il monopolio sulla diffusione dell’informazione.

Tali azioni mirano a concedere a Netanyahu e al suo governo un controllo diretto sugli apparati militari e della sicurezza che fanno parte della stessa dinamica. Ronen Bar, a capo dello Shin Bet, è tenuto d’occhio, come lo sono i leader militari al vertice. Il governo sembra credere che ottenendo il controllo diretto sugli strumenti della forza si possa continuare la guerra a Gaza, attuare la pulizia etnica e i reinsediamenti con il sostegno anche solo del 30% dei cittadini.

Consciamente o no, Ya’alon si è schierato fermamente proprio contro questa decisione: lo smantellamento della democrazia per permettere a Smotrich e Ben Gvir di di ottenere quello che loro chiamano lo “sfoltimento” della popolazione palestinese a Gaza. E si può credere a Ben Gvir quando dice che Netanyahu, che in passato era stato più cauto su tali palesi crimini di guerra, ora sta “mostrando una certa apertura” verso l’idea di incoraggiare i palestinesi a “emigrare volontariamente.” 

Non c’è bisogno di dipingere Ya’alon come il paladino di democrazia e moralità o come un difensore dei diritti dei palestinesi. Infatti possiamo inquadrarlo per le sue recenti dichiarazioni nel contesto della sua leadership militare. Come ha argomentato il sociologo israeliano Lev Grinberg, i militari dipendono da una chiara divisione tra la “democrazia israeliana” entro la Linea Verde e l’occupazione al di là da essa. L’attacco di Netanyahu contro le istituzioni democratiche offusca questo confine e così facendo mina la legittimità dell’esercito a continuare la sua sfacciata e non democratica soppressione dei palestinesi.

Una completa rioccupazione militare di Gaza, la pulizia etnica dei palestinesi e il reinsediamento delle colonie cancellano totalmente questo confine ed ecco perché Ya’alon si oppone a queste manovre. Egli non affronta il collegamento diretto tra la pulizia etnica del 1948 e quella del 2024 e ci sono dubbi che lo farà mai in un futuro immediato. Tuttavia per un ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore diventare un deciso oppositore non solo della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu, ma anche della pulizia etnica dell’esercito a Gaza, è un progresso interessante.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una imponente banca dati di prove, compilata da uno storico, documenta i crimini di guerra israeliani a Gaza

Nir Hasson

5 dicembre 2024 – Haaretz

Una donna con un bambino colpita mentre sventola una bandiera bianca ■ Ragazze ridotte alla fame morte stritolate mentre fanno la coda per il pane ■ Un sessantaduenne ammanettato investito, a quanto pare, da un carrarmato ■ Un attacco aereo prende di mira persone che cercano di aiutare un ragazzino ferito ■ Una banca dati di migliaia di video, foto, testimonianze, rapporti e indagini documenta gli orrori commessi da Israele a Gaza

La nota 379 del documento molto esteso e attentamente analizzato che lo storico Lee Mordechai ha redatto contiene il link a un video. Le immagini mostrano un grosso cane che rosicchia qualcosa tra gli arbusti. “Guarda guarda, ha preso il terrorista, il terrorista se n’è andato, andato in entrambi i sensi,” dice il soldato che ha filmato il cane che mangia un corpo umano. Dopo qualche secondo il soldato alza la cinepresa e aggiunge: “Ma che splendida vista, che splendido tramonto. Un sole rosso sta tramontando sulla Striscia di Gaza. Decisamente un bel tramonto.”

Il rapporto che il dottor Mordechai ha raccolto in rete, “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” [Testimoniare la guerra tra Israele e Gaza. Link: https://witnessing-the-gaza-war.com/wp-content/uploads/2024/12/Bearing-witness-to-the-Israel-Gaza-War-v6.5.5-5.12.24.pdf], costituisce la documentazione più metodica e dettagliata in ebraico (c’è anche una traduzione in inglese) dei crimini di guerra che Israele sta perpetrando a Gaza. È uno scioccante atto d’accusa che comprende migliaia di voci riguardanti la guerra, le azioni del governo, dei media, dell’esercito israeliano e della società israeliana in generale. La traduzione in inglese della settima, e finora ultima, versione del testo, è lunga 124 pagine e contiene oltre 1.400 note riguardanti migliaia di fonti, comprese testimonianze dirette, riprese video, materiale investigativo, articoli e fotografie.

Per esempio ci sono link a testi e altre testimonianze che descrivono azioni attribuite ai soldati israeliani che sono stati visti “sparare contro civili che sventolavano una bandiera bianca, oltraggiare persone, prigionieri e cadaveri, danneggiare o distruggere allegramente case, strutture di vario genere e istituzioni, luoghi religiosi e saccheggiare beni privati, così come sparare a casaccio con le loro armi, colpire animali domestici, distruggere beni privati, bruciando libri all’interno di biblioteche, deturpare simboli palestinesi e islamici (bruciando anche il Corano e trasformando moschee in mense).”

Un link porta i lettori al video di un soldato a Gaza che sventola un grande cartello preso dal negozio di un barbiere nella città di Yehud, nella zona centrale di Israele, con corpi sparsi lì attorno. Altri link sono tratti da riprese di soldati schierati a Gaza che leggono il Libro di Ester, come si è soliti fare il giorno di Purim, ma ogni volta che viene proferito il nome dell’empio Aman invece di scuotere i tradizionali strumenti che fanno molto rumore, sparano un colpo di mortaio. Si vede un soldato che obbliga prigionieri legati e con gli occhi bendati a salutare le loro famiglie e dirgli che vogliono essere suoi schiavi. Vengono fotografati soldati che si sono impossessati di molti soldi saccheggiati da case di gazawi. Si vede un bulldozer dell’esercito che distrugge una grande quantità di pacchi di cibo di un’agenzia umanitaria. Un soldato canta il motivetto per bambini “Il prossimo anno bruceremo la scuola”, mentre dietro si vede una scuola in fiamme. E ci sono parecchi video di soldati che indossano indumenti intimi femminili che hanno depredato.

La nota 379 compare in una sezione intitolata “Disumanizzazione nell’esercito israeliano” inclusa nel capitolo chiamato “Il discorso israeliano e la disumanizzazione dei palestinesi”. Esso contiene centinaia di esempi del comportamento crudele dimostrato dalla società e dalle istituzioni statali israeliane rispetto alla sofferenza degli abitanti di Gaza, dal primo ministro che parla di Amalek ai dati riguardanti le 18.000 esortazioni di israeliani sulle reti sociali perché la Striscia venga rasa al suolo, dai medici israeliani che esprimono appoggio al bombardamento di ospedali a Gaza al comico che scherza sulla morte dei palestinesi, e include un coro di bambini che cantano dolcemente “Entro un anno avremo annichilito tutti e poi torneremo ad arare i nostri campi,” sulla melodia della canzone iconica del periodo della guerra d’Indipendenza [nel 1947-49, quando più di 700.000 palestinesi vennero cacciati, ndt.] “Shir Hare’ut” (Canzone di Cameratismo).

I link di “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” riguardano anche crudi video di corpi sparsi in giro in ogni possibile stato: persone schiacciate sotto le macerie, pozze di sangue e urla di persone che hanno perso in un attimo tutta la propria famiglia. Ci sono oggetti che attestano l’uccisione di disabili, umiliazioni e aggressioni sessuali, l’incendio di case, fame imposta, spari a casaccio, saccheggi, vilipendio di cadaveri e molto altro.

Anche se non tutte le testimonianze possono essere provate, il quadro che ne emerge è quello di un esercito che nel migliore dei casi ha perso il controllo di molte unità, i cui soldati fanno tutto quello che vogliono, e nel peggiore dei casi sta consentendo al proprio personale di commettere i crimini di guerra più atroci che si possano immaginare.

Mordechai cita prove delle peggiori condizioni che la guerra ha imposto ai gazawi. Un medico che ha amputato la gamba di un nipote su un tavolo da cucina, senza anestesia e usando un coltello da cucina. Gente che mangia carne di cavallo ed erba, o beve acqua marina per alleviare la fame. Donne obbligate a partorire in un’aula scolastica piena di gente. Medici impotenti che assistono alla morte di persone ferite perché non c’è modo di aiutarle. Donne affamate spinte nella calca in coda fuori da una panetteria: secondo il rapporto, nell’incidente due ragazze di 13 e 17 anni e una donna di 50 sono morte schiacciate.

Secondo “Bearing Witness” a gennaio nei campi profughi della Striscia “ci sono stati in media un gabinetto ogni 220 persone e una doccia ogni 4.500. Un numero significativo di organizzazioni mediche e sanitarie ha informato che le malattie infettive e i disturbi della pelle si sono diffusi tra un gran numero di gazawi.”

Sempre più minori

Lee Mordechai, 42 anni, ex-ufficiale del genio militare da combattimento dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.], attualmente è professore associato di storia presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, specializzato in disastri naturali e provocati dall’uomo in epoca antica e medievale. Ha scritto dell’epidemia del VI secolo nel periodo giustinianeo e dell’inverno provocato da un vulcano [esploso in Islanda e che provocò per 10 anni un crollo delle temperature, ndt.] che colpì l’emisfero nord nel 536 d.C. Ha affrontato l’argomento del disastro a Gaza dal punto di vista di uno storico accademico, con una prosa asciutta e pochi aggettivi, avvalendosi della maggiore diversità possibile di fonti primarie. La sua scrittura è priva di interpretazioni e aperta a verifiche e revisioni. Ed è proprio per questo che gli aspetti riflessi dal suo testo sono così assolutamente terrificanti.

Ho sentito che non avrei potuto continuare a vivere nella mia bolla, che stiamo parlando di reati gravissimi e che quello che sta succedendo è semplicemente troppo grande e contraddice i valori in cui sono stato educato qui,” afferma Mordechai. “Non ho intenzione di scontrarmi con la gente né di litigare. Ho scritto il documento in modo che diventi pubblico, in modo che tra altri sei mesi o un anno o cinque anni o 10 o 100, la gente sia in grado di tornare indietro e vedere che cosa si sapeva, questo era quello che si poteva sapere, fin dallo scorso gennaio, o marzo, e che quelli di noi che non lo sapevano hanno scelto di non saperlo.”

Il mio ruolo di storico,” continua, “è dare voce a quelli che non possono far sentire la propria voce, che siano eunuchi nell’XI secolo o bambini di Gaza. Ho cercato deliberatamente di non fare appello alle emozioni delle persone e non uso parole che possano essere discutibili o poco chiare. Non parlo di terroristi o di sionismo o di antisemitismo. Cerco di utilizzare un linguaggio più freddo e asciutto possibile e di attenermi ai fatti per come li conosco.”

Quando è scoppiata la guerra Mordechai stava passando l’anno sabbatico a Princeton. Il 7 ottobre in Israele era già pomeriggio, quando lui si è svegliato. Nel giro di poche ore ha capito che c’era una disparità tra quello che l’opinione pubblica israeliana stava vedendo e la realtà. Questa consapevolezza è derivata da un sistema alternativo di ricevere informazioni che ha creato per sé nove anni fa.

Nel 2014, durante l’operazione Margine Protettivo (contro Gaza), sono tornato dai miei studi di dottorato negli Stati Uniti e da ricerche condotte nei Balcani. Allora ho percepito che in Israele non c’era un dialogo aperto, tutti stavano dicendo le stesse cose. Così ho fatto uno sforzo consapevole di accedere a fonti di informazione alternative, (basate su) media, blog, reti sociali straniere. É simile anche al mio lavoro come storico, alla ricerca di fonti primarie. Così mi sono creato una specie di sistema personale per capire quello che stava succedendo nel mondo. Il 7 ottobre ho attivato il sistema e ho capito abbastanza in fretta che l’opinione pubblica israeliana stava sperimentando un ritardo di ore, Ynet [sito israeliano di notizie, ndt.] ha trasmesso un notiziario secondo cui era possibile che fossero stati presi degli ostaggi, ma io avevo già visto immagini di rapimenti. Ciò ha creato una dissonanza tra quello che veniva detto sulla realtà della situazione e la realtà effettiva, e questa sensazione si è intensificata.”

In effetti la disparità tra quello che Mordechai ha scoperto e le informazioni che comparivano sui media israeliani e su quelli stranieri non ha fatto che crescere: “La storia più clamorosa all’inizio della guerra è stata quella dei 40 neonati israeliani decapitati il 7 ottobre. Quella storia ha provocato un sacco di titoli nei media internazionali, ma quando lo confronti con la lista (ufficiale della Previdenza Sociale) degli uccisi ti rendi conto molto in fretta che non è mai avvenuta.”

Mordechai ha iniziato a seguire reportage da Gaza sulle reti sociali e sui media internazionali: “Fin dall’inizio ho avuto un flusso di immagini di distruzione e sofferenza, e ti rendi conto che ci sono due mondi separati che non stanno comunicando tra loro. Mi ci sono voluti alcuni mesi per scoprire quale fosse il mio ruolo. A dicembre il Sudafrica ha presentato la sua denuncia formale contro Israele per genocidio in 84 pagine dettagliate con molteplici riferimenti alle fonti su cui si poteva fare un controllo incrociato.

Non penso che tutto potesse essere accettato come prova,” aggiunge, “ma ti ci devi confrontare, vedere su cosa è basato, prendere in considerazione le sue implicazioni. Fin dall’inizio della guerra volevo tornare in Israele per fare lavoro volontario a favore di una associazione della società civile, ma per ragioni familiari non ho potuto. Ho deciso di utilizzare il tempo libero che ho avuto durante l’anno sabbatico a Princeton per cercare di mettere al corrente il pubblico israeliano che si informa solo sui media locali.”

Il 9 gennaio ha pubblicato la prima versione di “Bearing Witness” lunga solo 8 pagine. Il numero degli uccisi nella Striscia, secondo il ministero della Sanità di Gaza, ufficialmente noto come il ministero palestinese della Sanità – Gaza, allora era di 23.210. “Non credo che qualunque cosa ci sia scritto qui porterà a cambiare politica o a convincere molte persone,” ha scritto all’inizio di quel documento. “Semmai l’ho scritto pubblicamente come storico e cittadino israeliano per mettere a verbale la mia posizione personale riguardo all’orribile situazione attuale a Gaza, mentre gli avvenimenti sono in corso. Scrivo come individuo, in parte a causa del disperante silenzio generale riguardo a questo argomento da parte di molte istituzioni accademiche locali, soprattutto quelle nella posizione di fare commenti, anche se alcuni miei colleghi ne hanno coraggiosamente parlato.”

Da allora Mordechai ha passato molte centinaia di ore a raccogliere informazioni e a scrivere, continuando ad aggiornare il documento che compare sul sito che ha creato. Da quando si è imbarcato in questo progetto ha migliorato il modo in cui lavora: compila meticolosamente articoli da diverse fonti su una pagina Excel da cui, dopo un ulteriore controllo, seleziona i punti che verranno menzionati nel testo. Utilizza una vasta gamma di fonti: immagini riprese da civili, articoli di media, rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, reti sociali, blog e via di seguito.

Pur riconoscendo che alcune delle fonti non rispettano standard giornalistici o etici corretti, Mordechai difende la credibilità della sua documentazione: “Non è che io copio e incollo qualunque cosa con cui se ne esca qualcun altro. D’altra parte è chiaro che c’è una discrepanza tra quello che esiste e quello che noi avremmo effettivamente voglia di vedere: vorremmo che ogni incidente nella Striscia venisse esaminato correttamente da due organizzazioni internazionali indipendenti e autonome, ma questo non avverrà.

Quindi io controllo chi sta informando, se è stato colto a mentire, se c’è qualche associazione o blogger che diffonde informazioni che posso dimostrare siano scorrette, e in quel caso smetto di utilizzarli e li cancello. Attribuisco un grande peso alle fonti neutrali, come organizzazioni per i diritti umani e l’ONU, e faccio una specie di sintesi tra fonti per vedere se (l’informazione) è coerente. Lavoro anche in modo molto aperto e invito chiunque voglia a controllarmi. Sarò molto contento di vedere che mi sono sbagliato riguardo a quello che scrivo, ma non succede. Finora ho dovuto fare pochissime correzioni.”

Una lettura accurata del rapporto di Mordechai aiuta a disperdere la nebbia che ha avvolto gli israeliani da quando è scoppiata la guerra. Un esempio significativo è il numero di vittime: la guerra del 7 ottobre è la prima in cui Israele non fa alcuno sforzo per conteggiare il numero dei morti dall’altra parte. In assenza di altre fonti molte persone in tutto il mondo – governi stranieri, mezzi di informazione, organizzazioni internazionali – si basano su quanto riporta il ministero palestinese della Sanità – Gaza, che si ritiene sia decisamente attendibile. Israele cerca di negare i dati del ministero. I mezzi di informazione locali di solito notano che la fonte di tali dati è “il ministero della Sanità di Hamas”.

Tuttavia pochi israeliani sanno che non solo l’esercito ma anche il governo israeliano non hanno dati propri, numeri alternativi relativi alle vittime, ma che autorevoli fonti israeliane, in mancanza di altri dati, finiscono effettivamente per confermare quelli pubblicati dal ministero di Gaza. Quanto autorevoli?

Lo stesso Benjamin Netanyahu. Il 10 marzo, per esempio, il primo ministro ha affermato in un’intervista che Israele ha ucciso 13.000 miliziani di Hamas e ha stimato che per ognuno di loro sono stati uccisi 1,5 civili. In altre parole, fino a quel momento tra le 26.000 e 32.500 persone erano state uccise nella Striscia. Quel giorno il ministero palestinese aveva pubblicato la cifra di 31.112 morti a Gaza, all’interno del margine citato da Netanyahu. Alla fine del mese Netanyahu ha parlato di 28.000 morti, circa 4.600 in meno rispetto ai dati ufficiali palestinesi. Alla fine di aprile il Wall Street Journal ha citato una stima di alti ufficiali dell’esercito israeliano secondo cui il numero di morti era approssimativamente di 36.000, più del numero pubblicato in quel momento dal ministero palestinese.

Mordechai: “É come se, da parte israeliana, stiano scegliendo di non occuparsi dei numeri, benché Israele potrebbe presumibilmente farlo: la tecnologia esiste e Israele controlla l’anagrafe palestinese. Il sistema della difesa ha anche immagini facciali, potrebbe fare un controllo incrociato e trovare che qualcuno che potrebbe essere stato dichiarato morto ha attraversato un posto di controllo. Forza, fammi vedere! Dammi la prova e cambierò il mio approccio. Mi complicherò la vita, ma sarò molto meno sconvolto.

Penso che dobbiamo chiedere a noi stessi quale “livello” di prove è richiesto perché cambiamo le nostre opinioni riguardo al numero di palestinesi che sono stati uccisi. Questa è la domanda che ognuno di noi deve fare a sé stesso – forse per te le prove che cito non sono sufficienti – perché ci dev’essere una sorta di livello realistico nell’accumulazione di prove arrivati al quale accetteremo il numero come affidabile.

Per me,” spiega, “questo punto è arrivato molto tempo fa. E dopo che uno ha fatto il lavoro sporco e capisce un po’ meglio i dati, la questione comincia ad essere non quanti palestinesi sono morti, ma perché e come l’opinione pubblica israeliana continui a dubitare di questi numeri dopo più di un anno di ostilità e contro ogni evidenza.”

Nel suo rapporto cita i dati del ministero palestinese che riportano, tra i morti da quando è scoppiata la guerra fino allo scorso giugno, 273 dipendenti dell’ONU e di organizzazioni di soccorso, 100 professori, 243 atleti, 489 lavoratori della sanità (compresi 55 medici specialisti), 710 bambini con meno di un anno e quattro nati prematuri morti dopo che l’esercito ha obbligato l’infermiere che se ne prendeva cura a lasciare l’ospedale. L’infermiere si occupava di cinque prematuri e ha deciso di salvarne uno che sembrava avere più possibilità di sopravvivere. I corpi in decomposizione degli altri quattro sono stati trovati nelle incubatrici due settimane dopo.

Nel testo di Mordechai la nota che riguarda questi neonati non fa riferimento a un tweet di un gazawi o di un blog filo-palestinese, ma a un’inchiesta del Washington Post. Gli israeliani che potrebbero mettere in discussione “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” in quanto si basa su reti sociali o su informazioni non verificate devono riconoscere che si fonda anche su decine di inchieste di praticamente tutti i principali mezzi di informazioni occidentali. Numerosi mezzi di informazione hanno esaminato incidenti a Gaza utilizzando standard giornalistici rigorosi, e ne hanno ricavato prove di atrocità. Un’inchiesta della CNN ha confermato l’accusa palestinese riguardo al “massacro della farina”, in cui il primo marzo circa 150 palestinesi che erano arrivati per prendere cibo da un convoglio di aiuti sono stati uccisi. L’esercito israeliano ha dichiarato che erano state la ressa e la fuga precipitosa degli stessi gazawi ad ucciderli, non gli spari di avvertimento dei soldati che si trovavano in zona. Alla fine l’inchiesta della CNN, basata su attente analisi della documentazione e su 22 interviste a testimoni oculari, ha scoperto che la maggioranza delle vittime in effetti è stata causata dagli spari.

Il New York Times, ABC, CNN, la BBC, organizzazioni internazionali e l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem hanno pubblicato i risultati delle loro inchieste su casi di torture, maltrattamenti, stupri e altre atrocità perpetrati contro detenuti palestinesi nella base di Sde Teiman dell’esercito israeliano nel Negev e in altre strutture. Amnesty International ha esaminato quattro incidenti in cui non c’erano obiettivi militari o giustificazioni per un attacco, in cui le forze dell’IDF hanno ucciso un totale di 95 civili.

Un’inchiesta a fine marzo di Yaniv Kubovich su Haaretz ha mostrato che l’IDF ha creato “zone di uccisione” in cui molti civili sono stati colpiti dopo aver attraversato una linea immaginaria delimitata da un comandante sul campo: i morti sono stati definiti terroristi dopo morti. La BBC ha messo in dubbio la stima dell’IDF sul numero di terroristi che le sue forze hanno ucciso in generale; la CNN ha ampiamente informato su un incidente in cui è stata spazzata via un’intera famiglia; la NBC ha indagato su un attacco contro civili nelle cosiddette zone umanitarie; il Wall Street Journal ha verificato che l’IDF si stava basando sui rapporti delle vittime a Gaza pubblicati dal ministero palestinese della Sanità; l’AP ha sostenuto in un rapporto dettagliato che l’IDF ha presentato solo una prova affidabile che mostra che Hamas stesse operando nei sotterranei di un ospedale, nel tunnel scoperto nel cortile dell’ospedale Shifa; il New Yorker e il Telegraph hanno pubblicato i risultati di approfondite indagini su casi che coinvolgono minori i cui arti hanno dovuto essere amputati, e c’è molto altro, tutto citato in “Bearing Witness”.

Non vi è incluso un rapporto pubblicato proprio questa settimana dal ministero palestinese della Sanità – Gaza in cui si afferma che dal 7 ottobre 1.140 famiglie sono state totalmente cancellate dall’anagrafe, molto probabilmente vittime di bombardamenti aerei.

Mordechai cita numerosi elementi relativi alle regole d’ingaggio lassiste dell’IDF nella Striscia di Gaza. Un video mostra un gruppetto di rifugiati con in testa una donna che tiene il figlio con una mano e una bandiera bianca nell’altra; si vede che viene colpita, probabilmente da un cecchino, e cade a terra mentre il figlio lascia la sua mano e fugge per salvarsi. Un altro incidente, ampiamente riportato a fine ottobre, mostra il tredicenne Mohammed Salem che invoca aiuto dopo essere stato ferito in un attacco aereo. Quando delle persone si avvicinano per aiutarlo vengono prese di mira da un altro attacco simile. Salem e un altro ragazzino sono stati uccisi e oltre 20 persone ferite.

Mordechai riconosce che guardare le testimonianze visive della guerra ha indurito il suo cuore, oggi può vedere persino le scene più atroci. “Quando (anni fa) sono stati postati i video dell’ISIS, non li ho guardati. Ma qui ho sentito che era mio dovere, perché questo viene fatto in mio nome, quindi lo devo vedere per comunicare quello che ho visto. Quello che è importante è la quantità, sono minori e di nuovo minori e ancora una volta minori.”

Alla domanda di quale delle migliaia di immagini, che si tratti di video o foto, di morti, feriti o persone che soffrono, ha avuto un maggiore impatto su di lui, Mordechai ci pensa e cita una foto del corpo di un uomo che in seguito è stato identificato come Jamal Hamdi Hassan Ashour. Ashour, 62 anni, sarebbe stato investito da un carrarmato a marzo, il suo corpo straziato fino a renderlo irriconoscibile. Secondo fonti palestinesi una fascetta di plastica su una delle sue mani dimostra il fatto che in precedenza era stato arrestato. L’immagine è stata postata su un canale israeliano di Telegram con la didascalia “Ti piacerà!”

In vita mia non avevo mai visto niente di simile,” dice Mordechai ad Haaretz. “Ma peggio ancora è il fatto che l’immagine è stata condivisa da soldati in un gruppo Telegram israeliano ed ha avuto reazioni molto favorevoli.” Oltre alle informazioni su Ashour, “Bearing Witness” fornisce link a immagini di un certo numero di altri corpi le cui condizioni suggeriscono che sono stati travolti da blindati. In un caso, secondo un rapporto palestinese, le vittime erano una madre con il figlio.

Un caso citato solo in una nota testimonia di questioni relative ai metodi di Mordechai e ai dilemmi che deve affrontare. Alla fine di marzo Al Jazeera ha pubblicato un’intervista a una donna arrivata all’ospedale Shifa di Gaza e ha detto che i soldati dell’IDF avevano stuprato donne. Poco dopo la famiglia della donna ha negato le accuse che lei aveva fatto e Al Jazeera ha eliminato il reportage, ma molte persone continuano ad avere dubbi.

In base alla mia metodologia dopo la cancellazione da parte di Al Jazeera questo non è credibile e non è successo,” dice Mordechai. “Ma mi chiedo anche: forse sto contribuendo a far tacere quella donna? E non per rispettare la verità, ma in nome dell’onore suo e della sua famiglia. É giusto? Non lo è, ma in fondo sono un essere umano e devo decidere. Quindi in una nota ho spiegato che era la denuncia di una donna e ho aggiunto (che era) ‘quasi sicuramente falsa’ per esprimere le mie riserve.

Non garantisco che ogni testimonianza sia completamente attendibile. Di fatto nessuno sa esattamente cosa stia succedendo a Gaza, non i media internazionali, sicuramente non gli israeliani e neppure l’IDF. In ‘’Bearing Witness’ sostengo che mettere a tacere le voci da Gaza – le limitazioni all’informazione che escono da lì – è parte del metodo di lavoro che rende possibile la guerra. Io sostengo le sintesi che sto usando e spero di sbagliarmi. Ma dal lato israeliano non c’è niente. Sto parlando di prove – voglio delle prove!”

Un caso descritto nel documento, anche se per molti israeliani sarà difficile da credere, riguarda l’uso da parte dell’IDF di un drone che emette suoni di un neonato che piange per stabilire dove si trovano civili e forse farli uscire dal loro rifugio. Nel video a cui fa riferimento il link che fornisce Mordechai si sente piangere e si possono vedere le luci di un drone.

Sappiamo che ci sono droni con altoparlanti, forse qualche soldato annoiato ha deciso di farlo come scherzo ed è percepito dai palestinesi come orribile,” afferma. “Ma è davvero così inverosimile che qualche soldato, invece di essere filmato con mutandine e reggiseno o di dedicare l’esplosione di una strada a sua moglie, farebbe qualcosa del genere? Potrebbe essere un’invenzione, ma è compatibile con quello che sto vedendo.” Questa settimana Al Jazeera ha mandato in onda un’inchiesta sui cosiddetti droni che piangono e ha sostenuto che il loro uso è stato confermato da vari testimoni oculari che hanno tutti raccontato la stessa storia.

Possiamo ancora discutere di testimonianze aneddotiche di questo genere, ma è difficile farlo di fronte a montagne di testimonianze più attendibili,” nota Mordechai. “Per esempio decine di medici americani che hanno fatto lavoro volontario a Gaza hanno riportato che praticamente ogni giorno vedono minori colpiti alla testa. Come lo si può spiegare? Stiamo cercando di spiegarlo o ce ne stiamo occupando?”

Uno dei picchi della brutalità dell’esercito israeliano a Gaza è risultato evidente durante il secondo grande attacco contro l’ospedale Shifa a metà marzo, aggiunge lo storico. In effetti gli dedica un capitolo a parte. L’IDF ha sostenuto che l’ospedale all’epoca era un centro di attività di Hamas e che durante il raid c’erano stati scontri a fuoco, dopodiché 90 aderenti ad Hamas, alcuni di alto rango, erano stati arrestati.

Tuttavia l’occupazione dello Shifa da parte dell’IDF è durata circa due settimane. In quel periodo, secondo fonti palestinesi, l’ospedale è diventato una zona di assassinii e torture. A quanto pare 240 pazienti e personale medico sono stati rinchiusi in uno degli edifici per una settimana senza cibo. Medici sul posto hanno raccontato che almeno 22 pazienti sono morti. Un certo numero di testimoni, tra cui personale dell’ospedale, hanno descritto esecuzioni. Un video girato da un soldato mostra detenuti legati e bendati seduti in un corridoio, con la faccia rivolta verso il muro. Secondo le fonti dopo che l’IDF si è ritirato dall’ospedale nel cortile sono stati trovati decine di corpi. Ci sono vari video che documentano l’esumazione dei corpi, alcuni dei quali mutilati, altri sepolti sotto le macerie o a terra in grandi pozze di sangue rappreso. Una corda era legata attorno al braccio di uno degli uomini uccisi, il che probabilmente dimostra che è stato legato prima di essere ucciso.

Un altro picco di brutalità è stato raggiunto durante gli ultimi due mesi nell’operazione militare ancora in corso nella zona settentrionale della Striscia, iniziata il 5 ottobre. L’IDF ha tagliato fuori Jabalya, Beit Lahia e Beit Hanoun da Gaza City e agli abitanti è stato ordinato di andarsene. Molti lo hanno fatto, ma molte migliaia sono rimaste nella zona assediata.

In quella fase l’esercito ha lanciato quella che l’ex capo di stato maggiore dell’IDF ed ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon ha definito questa settimana “pulizia etnica” della zona: alle associazioni di assistenza è stato vietato di entrarvi, l’ultimo magazzino di farina è stato incendiato, le ultime due panetterie chiuse e sono state proibite persino le attività di squadre della protezione civile che portano via le vittime. La fornitura di acqua è stata interrotta, le ambulanze sono state manomesse e gli ospedali attaccati.

Ma i principali sforzi dell’esercito si sono concentrati sugli attacchi aerei. Quasi ogni giorno i palestinesi hanno raccontato di decine di vittime quando edifici residenziali e scuole, diventati campi profughi, sono stati bombardati. Il rapporto di Mordechai cita decine di racconti ben documentati riguardanti bombardamenti, famiglie che hanno raccolto i corpi dei propri cari tra le rovine, inumazioni in grandi tombe comuni, persone ferite coperte di polvere, adulti e bambini scioccati, persone che gridano con parti del corpo sparse attorno a loro, e via di seguito.

In un video del 20 ottobre si vedono due bambini estratti dalle macerie. Il primo sembra stordito, gli occhi gonfi e totalmente coperto di sangue e polvere. Vicino a lui viene estratto un corpo senza vita, che sembra di una ragazza.

Da parte sua nelle ultime due settimane Haaretz ha inviato domande all’unità del portavoce dell’IDF riguardo a circa 30 incidenti, la maggior parte dei quali a Gaza, in cui sono stati uccisi molti civili. L’unità ha risposto che ne ha classificato la maggioranza come eventi insoliti e sono stati deferiti allo stato maggiore per ulteriori indagini.

Mordechai rifiuta categoricamente l’affermazione che si sente dire comunemente dagli israeliani secondo cui quanto sta avvenendo a Gaza non è così terribile se confrontato con altre guerre. “Bearing Witness” mostra, per esempio, che a Gaza sono stati uccisi più minorenni di quelli uccisi in tutte le guerre nel mondo nei tre anni prima di quella del 7 ottobre. Già nel primo mese di guerra il numero dei minori uccisi era 10 volte maggiore di quello della guerra in Ucraina nel corso di un anno.

A Gaza sono stati uccisi più giornalisti che in tutta la Seconda Guerra Mondiale. Secondo un’inchiesta pubblicata da Yuval Avraham sul sito Sicha Mekomit (Local Call) [versione in ebraico del sito in inglese +972 magazine, ndt.] riguardo ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati nelle campagne di bombardamenti dell’IDF a Gaza, è stata data l’autorizzazione di uccidere fino a 300 civili per assassinare alte cariche di Hamas. In confronto documenti rivelano che per l’esercito americano quel dato era di un decimo – 30 civili – nel caso di un assassino di livello molto maggiore di Yahya Sinwar [defunto leader di Hamas, ndt.]: Osama Bin-Laden.

Un’inchiesta del Wall Street Journal afferma che nei primi tre mesi della guerra Israele ha lanciato più bombe su Gaza di quante sono state sganciate dagli Stati Uniti in Iraq in sei anni. Lo scorso anno nelle carceri israeliane sono morti 48 prigionieri rispetto ai 9 a Guantanamo in tutti i suoi 20 anni di esistenza. I dati sono eloquenti anche riguardo alle cifre delle vittime in guerre di altri Paesi: la coalizione delle forze in Iraq ha ucciso 11.516 civili in cinque anni e 46.319 civili sono stati uccisi in 20 anni nella guerra in Afghanistan. Secondo le stime più modeste dal 7 ottobre 2023 circa 30.000 civili sono stati uccisi nella Striscia.

Il rapporto di Mordechai riflette non solo gli orrori che avvengono a Gaza ma anche l’indifferenza di Israele riguardo ad essi: “All’inizio c’è stato un tentativo di giustificare l’invasione dell’ospedale Shifa, oggi non c’è neppure più questa pretesa, si attaccano ospedali e non c’è neppure una discussione pubblica. Non ci occupiamo in alcun modo delle implicazioni di queste operazioni. Apri i social media e sei inondato dalla disumanizzazione. Che cosa ci sta facendo? Sono cresciuto in una società con un’etica totalmente diversa. C’erano sempre mele marce, ma guarda il caso dell’autobus 300 (un avvenimento del 1984, in cui agenti dello Shin Bet sul campo giustiziarono due arabi che avevano dirottato un autobus) e guarda dove siamo arrivati. Per me è importante svelare, è importante che queste cose saltino fuori. Questa è la mia forma di resistenza.”

Un oscuro segreto

Nella versione più recente di “Bearing Witness” Mordechai ha aggiunto un’appendice che spiega perché, secondo lui, le azioni di Israele a Gaza costituiscono un genocidio, un argomento che espone nella nostra conversazione: “Dobbiamo distinguere il modo in cui noi come israeliani pensiamo al genocidio – camere a gas, campi di sterminio e Seconda Guerra Mondiale – dal modello apparso nella Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio (1948)” spiega. “Non ci devono essere campi di sterminio perché venga considerato un genocidio. Si riduce tutto alla commissione di atti, uccisioni, ma non solo, (ci sono) anche persone ferite, rapimento di minori e persino anche solo tentativi di impedire le nascite tra una particolare categoria di persone. Ciò che tutte queste azioni hanno in comune è la distruzione deliberata di un gruppo.

Le persone con cui parlo in genere non discutono delle azioni intraprese, ma delle intenzioni. Diranno che non ci sono documenti che dimostrino che Netanyahu o (il capo di stato maggiore dell’IDF) Herzl Halevi abbiano ordinato un genocidio. Ma ci sono dichiarazioni e testimonianze. Moltissime. Il Sudafrica ha presentato un documento di 120 pagine che contiene un gran numero di testimonianze che dimostrano l’intenzione.”

Il giornalista Yunes Tirawi ha raccolto dichiarazioni sul genocidio e la pulizia etnica dalle reti sociali di più di 100 persone che sono in rapporto con l’IDF, a quanto pare ufficiali della riserva. “Cosa ne facciamo di tutto questo? Dal mio punto di vista i fatti parlano chiaro. Vedo una linea diretta tra queste dichiarazioni, l’assenza del tentativo di fare i conti con queste dichiarazioni e la situazione sul terreno che corrisponde alle dichiarazioni.”

La versione in inglese di “Bearing Witness” fa riferimento ad articoli di sei importanti personalità israeliane che hanno già affermato che a loro parere Israele sta perpetrando un genocidio: l’esperto di Olocausto e genocidio Omer Bartov; il ricercatore sull’Olocausto Daniel Blatman (che ha scritto che quello che Israele sta facendo a Gaza è una via di mezzo tra la pulizia etnica e il genocidio); lo storico Amos Goldberg; lo studioso di Olocausto Raz Segal; l’esperto di diritto internazionale Itamar Mann; lo storico Adam Raz.

La definizione è meno importante,” afferma Mordechai. “Quello che importa sono i fatti. Supponiamo che tra qualche anno la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia dichiari che non è genocidio ma quasi genocidio. Ciò lo rende migliore? Ciò attesta una vittoria morale di Israele? Voglio vivere in un posto che perpetra un ‘quasi genocidio’? Il dibattito sul termine attira l’attenzione, ma le cose succedono in un modo o nell’altro, che raggiungano quel livello o meno. Alla fine dobbiamo chiederci come fermarlo e come risponderemo ai nostri figli quando ci chiederanno cosa abbiamo fatto durante la guerra. Dobbiamo agire.”

Ma la definizione è importante. Tu stai dicendo agli israeliani: “Guardate, state vivendo nella Berlino del 1941.” Qual era l’imperativo morale per la gente che viveva nella Berlino di allora? Cosa si presume faccia un cittadino quando il suo Stato commette un genocidio?

Una posizione morale comporta sempre un costo. Se non c’è alcun costo è semplicemente una posizione accettata, nella norma. Il valore di una cosa per una persona è espresso dal prezzo che è disposta a pagare per essa. D’altra parte mi rendo conto che la gente ha anche altri motivi e necessità – guadagnarsi da vivere, conservare i rapporti con la famiglia – ognuno deve prendere le proprie decisioni. Dal mio punto di vista quello che faccio è parlare e continuare a farlo, che la gente ascolti o meno. Ciò porta via molto tempo e forza mentale, ma sono arrivato alla conclusione che è la cosa più utile che io possa fare.”

Prima che ce ne andiamo Mordechai mi manda un ultimo link. Non riguarda testimonianze di atrocità a Gaza, ma una breve storia della defunta scrittrice americana Ursula K. Le Guin, “Quelli che se ne vanno da Omelas.” La storia riguarda la città di Omelas, dove la gente è bellissima e felice e la sua vita è interessante e gioiosa. Ma da adulti gli abitanti di Omelas imparano gradatamente l’oscuro segreto della loro città: la loro felicità dipende dalla sofferenza di un bambino obbligato a rimanere in una lurida stanza sottoterra e a loro non è consentito consolarlo o assisterlo. “E’ l’esistenza del bambino e la loro consapevolezza della sua esistenza che rende possibile la grandezza della loro architettura, l’intensità della loro musica, la profondità della loro scienza. È a causa del bambino che sono così gentili con i bambini,” scrive Le Guin.

La maggioranza degli abitanti di Omelas continua a vivere con questa consapevolezza, ma ogni tanto uno di loro va a trovare il bambino e non ritorna, ma invece comincia a camminare e lascia la città. La storia finisce così: “Camminano andando avanti nell’oscurità e non tornano indietro. Il posto verso cui si dirigono è un luogo ancor meno immaginabile per la maggioranza di noi della città della gioia. Non posso descriverlo. È possibile che non esista. Ma sembra che sappiano dove stanno andando.”

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha risposto che l’esercito israeliano “opera solo contro obiettivi militari e adotta una serie di precauzioni per evitare danni a non-combattenti, anche inviando avvertimenti alla cittadinanza. Riguardo agli arresti, ogni sospetto di violazione degli ordini o delle leggi internazionali viene indagato ed esaminato. In generale se c’è il sospetto di un comportamento inappropriato, di possibile natura penale, da parte di un soldato viene aperta un’indagine dalla Divisione per le Inchieste Penali della Polizia Militare.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Wael Dahdouh di Al Jazeera vince il premio Coraggio di Reporter Senza Frontiere per il suo lavoro a Gaza

Redazione di MEMO

4 dicembre 2024 – Middle East Monitor

Ieri sera in una cerimonia a Washington il direttore della sede di Gaza di Al Jazeera Wael Dahdouh è stato nominato vincitore per il 2024 del premio Coraggio di Reporter Senza Frontiere.

In un messaggio registrato Dahdouh ha affermato che “abbiamo fatto un enorme sacrificio e pagato un prezzo elevato: estrema stanchezza, notti insonni, sangue, sudore, paura, terrore, perdita, sfollamento, per assicurare che tutte le notizie, le immagini e l’informazione proveniente da Gaza durante questa guerra potesse arrivare al resto del mondo.”

In una dichiarazione Medici Senza Frontiere ha affermato che Dahdouh ha vinto il premio Coraggio perché “non ha mai smesso di informare, nonostante le ferite e la morte di suoi familiari a Gaza.” Egli “racchiude in sé resilienza e lotta per una informazione affidabile,” ha aggiunto.

Ogni anno i premi per la libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere onorano il lavoro dei giornalisti e degli organi di stampa che hanno dato significativi contributi alla difesa e alla promozione della liberà di stampa in tutto il mondo.

La giuria della trentaduesima edizione comprendeva importanti giornalisti, sostenitori della libertà di espressione e fotogiornalisti da tutto il mondo ed è stata presieduta dal presidente di Reporter Senza Frontiere, il giornalista francese Pierre Haski.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Fatto a Gaza: From Ground Zero dà voce ai registi intrappolati in una zona di guerra

Sarah Agha, Bristol, Regno Unito

2 dicembre 2024 – Middle East Eye

Il famoso regista palestinese Rashid Masharawi ha riunito i film realizzati da palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza assediata sotto gli attacchi israeliani

È difficile immaginare un ambiente più difficile della Striscia di Gaza assediata e devastata per girare un film nel 2024. Ma questa è l’ambientazione della nuova e rivoluzionaria antologia di cineasti palestinesi.

From Ground Zero, una raccolta di 22 cortometraggi di artisti che vivono a Gaza, è una pietra miliare nella cinematografia palestinese, una testimonianza della vita durante l’incessante campagna militare israeliana nel territorio assediato iniziata nell’ottobre 2023.

Curata dal famoso regista palestinese Rashid Masharawi il documentario collettivo ha ottenuto un successo internazionale ed è stata selezionata come film di apertura del Film Festival Palestinese di Bristol di quest’anno che inizia il 30 novembre.

Haifa, il film di Masharawi del 1996, era stata la prima produzione palestinese ad essere ufficialmente selezionata al Festival Internazionale di Cannes. 

Il regista ha poi fondato a Ramallah il Centro di Produzione e Distribuzione Cinematografica, dedicando anni ad organizzare cinema e laboratori itineranti.

Questa volta non ho fatto un film. Questa volta ho dato la possibilità ai cineasti che vivono a Gaza – uomini e donne – di fare i loro film: la storia sono loro.” dice Masharawi a Middle East Eye del film collettivo in mostra al festival di Bristol.

Nel novembre 2023, a un mese dall’inizio della guerra di Israele a Gaza, ha istituito il Fondo Masharawi per sostenere artisti e troupe nella Striscia assediata. 

Tutti lo vedono: è cruento, un vero genocidio. Da gazawi, da regista ed essere umano, mi sono chiesto cosa potevo fare. La risposta è arrivata dal cinema.”

‘Vicinanza’

Masharawi dice che voleva concentrarsi sulle “storie personali non dette” di coloro che vivono sotto i bombardamenti e l’assedio israeliano.

Per alcuni era il loro primo film, ma prima del progetto tutti avevano avuto un rapporto con il mondo dell’arte, della musica o del racconto. 

Masharawi ha formato un gruppo di consulenti sul posto per trovare nuove voci e collaboratori, coinvolgendo anche cineasti che conosceva di persona.

Molti dei corti sono documentari e interviste, mentre altri utilizzano generi e strutture diverse. 

Abbiamo film sperimentali, di animazione e video art,” spiega Masharawi.

Ogni regista pensa e sente in modo diverso, ognuno ha avuto una possibilità non solo di fare un film, ma anche di esprimersi.

 “Cercano di sopravvivere, di trovare da mangiare e di vivere da rifugiati spostandosi da un posto all’altro. Ecco perché l’abbiamo intitolato From Ground Zero, perché non c’è distanza fra regista e azione.”

L’uso dell’arte e dell’immaginazione per rappresentare la propria realtà mentre si stanno affrontando delle avversità è da tempo un modo per affrontare il trauma.

Per esempio, Soft Skin di Khamis Masharawi segue un laboratorio di animazione dove 14 bambini imparano a creare film con la tecnica stop motion usando ritagli di disegni colorati. 

Awakening di Mahdi Kreirah è realizzato con straordinarie marionette fatte in modo molto creativo con lattine vuote che contenevano aiuti alimentari.

L’esecuzione e il completamento di From Ground Zero è un risultato enorme dati le evidenti difficoltà e sfide. 

Non è stato facile, è stato incredibilmente complicato far uscire il materiale da Gaza. Il nostro problema principale è stata la corrente elettrica perché senza non si possono caricare i telefonini, i laptop o le batterie delle macchine da presa. 

Qualche volta la gente ha rischiato la vita per andare con un hard disk dalla parte centrale di Gaza o da Deir al-Balah a Rafah, sul confine con l’Egitto.”

 Vicino al confine qualcuno della troupe è riuscito a usare le SIM egiziane per caricare e mandare il proprio materiale. 

Altri hanno trovato soluzioni ingegnose per generare elettricità usando pannelli solari. 

A un certo punto, durante i cinque mesi delle riprese, il team di Masharawi ha trovato un posto vicino all’ospedale di Al Aqsa, dove è riuscito ad accedere all’internet. 

Hanno montato una tenda e l’hanno dichiarata la tenda per la produzione di From Ground Zero.

È stato molto rischioso,” ha detto Masharawi a proposito di un momento particolarmente scioccante. 

Sono stato fortunato. Quando hanno bombardato tutta l’area, inclusa la nostra tenda, il mio gruppo non c’era, se n’erano andati alle tre di notte e hanno bombardato alle 6 e un quarto.”

‘È ancora vivo?’

Parlando con Masharawi è impossibile non notare l’enorme peso della responsabilità che ha sentito lavorando con registi che erano in condizioni fisicamente vulnerabili e pericolose. 

Qualche volta poteva passare una settimana senza contatti con nessuno del suo team sul posto. Allora tentava di contattare dei giornalisti o chiunque avesse una connessione: “È ancora vivo? Si è spostato? Cosa gli è successo?” 

Queste erano le domande che faceva prima di continuare con il progetto, “per essere sicuro che stessero bene “.

Naturalmente star “bene” ha assunto un nuovo significato a Gaza. Diana al-Shinawy, nel film Offerings, dice: “Non so quando questa guerra finirà, avremo tutti bisogno di andare in terapia per sopportare la sofferenza.”

È stato molto difficile per me come gazawi,” dice Masharawi, “ma è stata una decisione per aiutare anche me stesso, per far qualcosa condividendo, partecipando. Mi ha salvato.”

La rapidità dell’esecuzione, dalle riprese alla fine del film, è stata notevole per gli standard del settore. 

Gli artisti sul posto hanno filmato i loro corti dal gennaio al giugno 2024 e a luglio c’è stata la prima della versione lunga al Film Festival Internazionale di Amman. 

A maggio Masharawi aveva anche proiettato sezioni più brevi a un evento speciale organizzato da lui stesso a Cannes per suscitare interesse sul progetto e sulla continua persecuzione del suo popolo.

 La prima edizione di alcuni dei film è stata realizzata a Gaza mentre il montaggio finale e minori modifiche sono state realizzate dal suo team in Francia. 

Abbiamo avuto un sacco di problemi con il sonoro perché a Gaza ci sono ‘zanana’ 24 ore su 24, tutto il giorno.” 

Il termine arabo “zanana” è usato dai palestinesi nella Striscia di Gaza per riferirsi al ronzio prodotto dai droni israeliani. 

Così abbiamo dovuto fare i conti con ‘zanana’ per tutti i film! Abbiamo avuto bisogno di un sound editor speciale per il missaggio, di filtri e programmi per risolvere questi problemi… ma ci siamo riusciti.” 

Masharawi spiega come sia stato essenziale ridurre il rumore per sentire con chiarezza le parole dei partecipanti, ma senza toglierlo del tutto, “perché questa è la realtà”. 

Ora il dialogo è perfettamente chiaro e udibile, ma i droni sono uno sfondo costante in quasi tutti i film, un ricordo agghiacciante della vita quotidiana sotto la minaccia dei bombardamenti.

Il team in Francia è anche intervenuto sulla correzione del colore e per le traduzioni: “Adesso abbiamo i sottotitoli in 11 lingue.” 

Rashid ha fatto i complimenti a Laura Nikolov che è intervenuta alla serata di apertura del Film Festival Palestinese a Bristol per i suoi sforzi per coordinare gli eventi in tutto il mondo e in lingue diverse.

From Ground Zero è presentato in due sezioni: Parte I e Parte II. Ogni parte dura poco meno di un’ora e presenta 11 corti con una varietà di voci e creatori diversi. 

La breve pausa intermedia serve per dare al pubblico il tempo di tirare il fiato prima di guardare la Parte II, data l’intensità delle riprese e la natura sconvolgente delle storie.

Interrogato sul benessere e la sicurezza dei registi ora Masharawi risponde con gravità: 

Due settimane fa uno dei cineasti ha perso otto familiari, lui è ancora vivo. Si chiama Wissam Moussa.”

Il commuovente corto di Moussa Farah and Miriam, rivela le esperienze di due ragazzine, una di loro rimasta intrappolata sotto le macerie per sei ore prima di essere salvata.

Un momento particolarmente toccante nel film è durante il corto di Etimad Washah, che segue un carretto tirato da una mula, simpaticamente soprannominato Taxi Wannisa, dal nome dell’animale che trasporta passeggeri in giro per Gaza. 

Improvvisamente il film si interrompe e la regista si rivolge direttamente al pubblico: mentre era sul set ha ricevuto la notizia che il suo amato fratello Nassem era stato ucciso insieme a tutti i suoi figli.

Senza alcun motivo oramai di terminare il film con un finale di finzione, guarda direttamente nell’obiettivo e dice: “Posso solo finirlo con la mia testimonianza.” È un finale coraggioso, onesto e sorprendente. 

L’ordine attentamente pensato e la cura dei film ti portano in un viaggio. Intervallati a profondo dolore e tristezza ci sono piccoli ma memorabili sprazzi di luce che nulla tolgono alla cupa realtà delle tenebre. 

Resilienza, determinazione e risolutezza traspaiono in varie storie. Nidal Damo, uno stand-up comedian che ha fatto il film Everything Is Fine, resta spavaldo nonostante gli scioccanti massacri nel campo profughi di Nuseriat e dei dintorni: “Guerra o non guerra, mi faccio la doccia e vado in scena.”

 Donne protagoniste

Il film di Hana Eleiwa intitolato No esplora, senza volersi scusare, la difficoltà di evitare un’altra storia di morte e devastazione.

Cerco un soggetto che parli di gioia, felicità, speranza, amore e musica,” dice Eleiwa.

Chiaramente le donne giocano un ruolo prominente in From Ground Zero davanti e dietro la macchina da presa: una notevole proporzione dei film le vede protagoniste e ci sono 7 registe. 

Per me mostrare sette donne che fanno film in questa situazione, sotto i bombardamenti, era molto importante,” dice Masharawi, “perché in realtà le donne sono le più attive nella società, non solo nel cinema! 

Sono loro a proteggere la famiglia, a occuparsi del cibo, a non far mai spegnere il fuoco. Sono loro a salvare le vite della famiglia. Sono forti, potenti. Lo so per esperienza personale, perché sono stato a Gaza durante molte guerre, molte intifade… Conosco il ruolo delle donne e quindi per me le storie delle donne sono importanti.”

From Ground Zero è la dimostrazione di ciò che cineasti creativi e talentuosi possono ottenere nelle condizioni più avverse. 

Tutti i film sono parti autonome, ma è impossibile non riconoscere quanto saranno importanti negli anni a venire come documenti, prove di ciò che è successo sul posto. 

Mentre Israele bombarda e distrugge università, istituzioni d’arte e siti storici con continui atti di cancellazione della cultura, queste testimonianze cinematografiche saranno immortalate per sempre.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’avvertimento di un soldato: quello che ho visto a Gaza determinerà il nostro futuro

Autore anonimo

28 novembre 2024 – Haaretz

La cosa importante è riflettere su quello che sta succedendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva.

La cosa veramente sorprendente riguarda la rapidità con cui ogni cosa sembra normale e ragionevole. Dopo qualche ora ti ritrovi a cercare disperatamente di rimanere colpito dalle dimensioni della distruzione, borbottando dentro di te affermazioni come “è una follia”, ma la verità è che ti ci abitui molto rapidamente.

Diventa banale, di cattivo gusto. Un altro ammasso di pietre. Lì probabilmente c’era un edificio di un’istituzione pubblica, quelle erano case e questa zona era un quartiere. Ovunque tu guardi vedi mucchi di tondini, sabbia, cemento e mattoni monoblocco. Bottiglie d’acqua di plastica vuote e polvere. A perdita d’occhio. Fino al mare. La vista si sposta lungo un edificio che è ancora in piedi. “Perché non lo hanno distrutto?” mi chiede mia sorella su WhatsApp dopo che le ho mandato una foto. “E anche,” aggiunge, “perché diavolo vai lì?’”

Perché sono qui è poco interessante. Qui la vicenda non riguarda me. E questo non è neppure un atto di accusa contro le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.]. Ciò viene fatto altrove, negli editoriali, alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, nelle università degli Stati Uniti, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La cosa importante è riflettere su quello che sta avvenendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva. Volevo capire cosa stesse succedendo qui. E’ quello che ho detto a tutti i miei amici, troppi da contare, che mi hanno chiesto: “Perché vai a Gaza?”

Non c’è molto da dire riguardo alla distruzione. È ovunque. Salta agli occhi quando ti avvicini dal punto di osservazione di un drone a quello che una volta era un quartiere residenziale: un orto coltivato circondato da un muro distrutto e una casa polverizzata. Una baracca improvvisata con un sottile tetto in un vicolo. Macchie nere nella sabbia, una dietro l’altra: evidentemente lì c’era una specie di boschetto, forse un uliveto. Ora è il tempo della raccolta delle olive. E c’è un certo movimento, una persona che si arrampica su un cumulo di macerie, raccogliendo legna su un marciapiede, rompendo qualcosa con una pietra. Tutto visto dalla rotta di volo di un drone.

Più ti avvicini a una strada importante dal punto di vista logistico – Netzarim, Kissufim, Filadelfia – meno strutture sono ancora in piedi. La distruzione è enorme e tale rimarrà. E questa è una cosa che la gente deve sapere: tutto ciò non verrà cancellato nei prossimi cento anni. Non importa quanto impegno ci metterà Israele per farlo sparire, nasconderlo, d’ora in avanti la distruzione a Gaza determinerà le nostre vite e quelle dei nostri figli. È la testimonianza di una furia sfrenata. Un amico ha scritto sul muro della sala operativa: “Alla quiete si risponderà con la quiete, a Nova [il festival musicale attaccato in 7 ottobre da Hamas, ndt.] si risponderà con la Nakba.” I comandanti dell’esercito hanno adottato questa scritta.

Dal punto di vista militare la distruzione è inevitabile. Combattere contro un nemico ben equipaggiato in un’area urbana densamente popolata significa distruzione di edifici su vasta scala o la morte certa per i soldati. Se un comandante di brigata deve scegliere tra la vita dei soldati ai suoi ordini o spianare il territorio, un F-15 carico di bombe percorrerà la pista di decollo della base aerea di Nevatim e una batteria di cannoni prenderà la mira. Nessuno è disposto ad assumersi dei rischi. È la guerra.

Israele può combattere così grazie al flusso di armamenti che riceve dagli Stati Uniti, e la necessità di controllare il territorio con il minimo numero di soldati è spinta fino al limite. Ciò è vero sia per Gaza che per il Libano. La principale differenza tra il Libano e l’inferno giallo che ci circonda sono i civili. A differenza dei villaggi del sud del Libano i civili sono ancora qui. Trascinandosi da un punto di combattimento all’altro, portandosi dietro fagotti strapieni, taniche. Madri con bambini che arrancano lungo la strada. Se abbiamo dell’acqua gliela diamo. Le capacità tecnologiche dell’IDF si sono sviluppate in modo impressionante in questa guerra. La potenza di fuoco, la precisione, la raccolta di informazioni con i droni: ciò fornisce un contropotere rispetto al mondo sotterraneo che Hamas ed Hezbollah hanno costruito nel corso di molti anni.

Ti ritrovi per ore a osservare da lontano un civile che trascina una valigia per qualche chilometro sulla strada Salah al-Din. Il sole cocente picchia su di lui. E tu cerchi di capire: è un ordigno esplosivo? È ciò che resta della sua vita? Vedi gente che gironzola attorno a un gruppo di tende in mezzo al campo, cerchi ordigni esplosivi e fissi disegni sul muro con le tonalità grigie del carboncino. Qui, per esempio, c’è il disegno di una farfalla.

Questa settimana ho fatto una perlustrazione con un drone di un campo di rifugiati. Ho visto due donne che camminavano mano nella mano. Un giovane che è entrato in una casa semidistrutta ed è sparito.

Forse è un miliziano di Hamas ed è andato a consegnare un messaggio attraverso l’ingresso nascosto di un tunnel dove sono stati tenuti ostaggi? Da un’altezza di 250 metri ho seguito uno che andava in bicicletta lungo quella che una volta doveva essere una strada al limite del quartiere, un giretto pomeridiano in mezzo alla catastrofe. A uno degli incroci il ciclista si è fermato nei pressi di una casa da cui sono usciti alcuni bambini e poi si è inoltrato nel campo profughi.

In seguito ai bombardamenti tutti i tetti hanno dei buchi. Su ognuno di essi ci sono barili blu per la raccolta dell’acqua piovana. Se vedi un barile sulla strada devi informare il centro di controllo e segnalarlo come un possibile ordigno esplosivo. Ecco un uomo che cuoce focacce. Vicino a lui c’è un uomo che dorme su un materasso. Grazie a quale forza di inerzia la vita continua? Come può una persona svegliarsi in mezzo a un orrore come questo e trovare la forza di alzarsi, cercare del cibo, tentare di sopravvivere? Quale futuro gli riserva il mondo? Caldo, mosche, fetore, acqua sporca. Un altro giorno se ne va.

Sto aspettando lo scrittore che venga e scriva questo, un fotografo che lo documenti, ma ci sono solo io. Altri combattenti, se hanno un’opinione eretica, se la tengono per sé. Non stiamo parlando di politici perché ce l’hanno chiesto, ma la verità è che semplicemente ciò non interessa a chi abbia fatto 200 giorni di servizio militare nella riserva quest’anno. I riservisti stanno crollando. Chiunque arrivi è già indifferente, preoccupato da problemi personali o da altre questioni. Figli, licenziamenti, studi, mogli. Hanno cacciato il ministro della Difesa. Einav Zangauker [attivista dei familiari favorevoli a un accordo con i rapitori, ndt.], il cui figlio Matan è tenuto in ostaggio da qualche parte qui. I panini con la cotoletta sono arrivati.

Gli unici che si agitano per qualunque cosa sono gli animali. I cani, i cani. Scodinzolanti, corrono in grandi branchi, giocano tra di loro. Cercano avanzi di cibo che l’esercito ha lasciato dietro di sé. Qui e là osano avvicinarsi ai veicoli nel buio, cercano di portare via una scatola di salsicce kabanos [tipiche dell’Europa centro-orientale, ndt.] e sono cacciati da una cacofonia di urli. Ci sono anche molti cuccioli.

Nelle ultime due settimane la sinistra israeliana si è preoccupata del fatto che l’esercito sta scavando sulle strade che passano da est a ovest della Striscia di Gaza. La strada Netzarim, per esempio. Che cosa non è stato detto a questo proposito? Che è stata asfaltata, che vi sono basi a cinque stelle. Che l’IDF è lì per restare, che partendo da queste infrastrutture il progetto di colonizzazione della Striscia risorgerà.

Non escludo queste preoccupazioni. Ci sono abbastanza pazzi che stanno solo aspettando l’opportunità. Ma le strade Netzarim e Kissufim sono zone di combattimento, aree tra grandi concentrazioni di palestinesi. Una massa critica di disperazione, fame e sofferenza. Questa non è la Cisgiordania. Il consolidamento lungo la strada è tattico. Più che garantire un’occupazione civile del territorio ciò è destinato a fornire sicurezza a soldati sfiniti. Le basi e gli avamposti consistono in strutture trasportabili che possono essere smantellate e rimosse su un convoglio di camion in pochi giorni. Naturalmente ciò potrebbe cambiare.

Per tutti noi, da quelli che si trovano nella sala operativa fino all’ultimo combattente, è chiaro che il governo non ne sa un accidente su come continuare. Non ci sono obiettivi verso cui andare, nessuna capacità politica per ritirarsi. Salvo che a Jabalya non ci sono quasi combattimenti. Solo ai margini dei campi. E anche questo in parte, per timore che lì ci siano degli ostaggi. Il problema è diplomatico, non militare né tattico. E quindi ciò è chiaro a chiunque venga richiamato per un’altra fase per le stesse identiche missioni. Arriveranno ancora riservisti, ma meno.

Dov’è il limite tra la comprensione della “complessità” e la cieca obbedienza? Quando ti è stato dato il diritto di rifiutarti di prendere parte a un crimine di guerra? Questo è meno interessante. Quello che è più interessante è quando l’opinione pubblica israeliana si sveglierà, quando sorgerà un leader che spieghi ai cittadini in quale terribile pasticcio ci siamo messi, e chi sarà il primo con la kippah [estremista religioso, ndt.] che mi chiamerà traditore. Perché prima dell’Aia, delle università americane, della condanna del Consiglio di Sicurezza, questa è innanzitutto una questione interna nostra. E di due milioni di palestinesi.

L’autore è un militare in servizio nella riserva che ha partecipato a operazioni di terra in Libano e nella Striscia di Gaza durante lo scorso anno.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Morire all'”Inferno”: il destino dei medici palestinesi incarcerati da Israele

Simon Speakman Cordall

24 novembre 2024 – Aljazeera

Secondo recenti rivelazioni uno dei medici più importanti di Gaza potrebbe essere stato violentato a morte. Non è l’unico.

Attenzione: questo articolo include descrizioni o riferimenti a violenze sessuali che alcuni lettori potrebbero trovare inquietanti.

La vita del dottor Adnan Al-Bursh è in netto contrasto con il modo in cui il carismatico 49enne è morto.

A dicembre il primario di ortopedia dell’ospedale al-Shifa di Gaza stava lavorando all’ospedale al-Awda nel nord di Gaza quando lui e altri medici sono stati arrestati dall’esercito israeliano per riferite “ragioni di sicurezza nazionale”.

Secondo quanto dichiarato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, quattro mesi dopo le guardie della prigione di Ofer hanno trascinato Al-Bursh e lo hanno scaricato nel cortile della prigione, nudo dalla vita in giù, sanguinante e incapace di stare in piedi.

Avendolo riconosciuto alcuni prigionieri hanno portato Al-Bursh in una stanza vicina, dove è morto pochi istanti dopo.

Entrare in un “Inferno”

Il dott. Al-Bursh era diventato una presenza costante nella vita di molti attraverso i video-diari che postava prima del suo arresto.

I suoi video lo mostravano con i suoi colleghi mentre scavavano fosse comuni nel cortile di al-Shifa per seppellire le persone perché Israele non permetteva che i loro corpi venissero portati in un cimitero, o mentre intervenivano su feriti e moribondi con poca o nessuna attrezzatura e aspettavano insieme l’assalto israeliano contro un ospedale dove migliaia di persone avevano cercato sicurezza.

L’assalto è avvenuto a metà novembre quando, in scene catturate dal dott. Al-Bursh, l’esercito israeliano ha ordinato ai pazienti, al personale e a circa 50.000 sfollati rifugiati ad al Shifa di andarsene.

Il dott. Al-Bursh ha raggiunto l’ospedale indonesiano nel nord di Gaza dove ha lavorato fino a quando anche quello non è stato preso di mira, a novembre, e si è trasferito all’ospedale Al-Awda.

Lì è stato arrestato e condotto in un sistema carcerario che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem descrive come “Inferno”.

Israele spesso imprigiona operatori sanitari come il dottor Al-Bursh per “indagini” e li mantiene in condizioni orribili.

“La maggior parte dei medici e infermieri [detenuti da Israele e che hanno parlato con PHRI] ha riferito di essere stati sottoposti ad interrogatori al fine di ottenere informazioni ma senza che gli venisse rivolta alcuna accusa”, ha affermato Naji Abbas, direttore del dipartimento dei prigionieri di Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani – Israele].

“Il nostro avvocato ha visitato decine di operatori sanitari che [sono] ancora in detenzione israeliana da lunghi mesi senza accuse o senza un giusto processo e la maggior parte di loro non ha mai visto un avvocato”, ha aggiunto.

Il Ministero della Salute palestinese a Gaza riferisce che dall’inizio della guerra a Gaza nell’ottobre 2023 Israele ha arrestato almeno 310 operatori sanitari palestinesi.

Molti di loro hanno denunciato abusi e trattamenti crudeli, tra cui l’imposizione di posizioni forzate, la privazione di cibo e acqua e la violenza sessuale, compreso lo stupro.

“Gli operatori sanitari con cui abbiamo parlato sono stati trattenuti per un periodo compreso tra sette giorni e cinque mesi”, ha affermato Milena Ansari di Human Rights Watch (HRW), il cui rapporto di agosto sulla detenzione arbitraria e la tortura degli operatori sanitari ha documentato la situazione.

“Molti non vengono nemmeno accusati, vengono solo poste loro domande generiche, come: ‘Chi è il tuo imam?’, ‘In quale moschea vai?’ o anche ‘Sei un membro di Hamas?’, ma senza fornire alcuna prova”, ha detto.

Di male in peggio e poi diventa un “Inferno”

I resoconti diffusi delle torture e dei maltrattamenti sui prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane sono di lunga data.

Tuttavia tutti gli analisti con cui ha parlato Al Jazeera hanno notato due fasi distinte nel drammatico deterioramento delle condizioni e nell’aumento degli abusi: la prima dopo la nomina di Itamar Ben-Gvir a ministro della sicurezza nazionale nel 2022, seguita dall’esplosione di maltrattamenti dei detenuti dopo l’inizio della guerra israeliana a Gaza nell’ottobre 2023.

“Non gli importa se sei di Gaza o di Gerusalemme, se sei un medico o un lavoratore: se sei un palestinese, sei il nemico”, ha affermato Shai Parness dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

“È brutale e sistematico”, ha detto di un sistema che il rapporto di agosto di B’Tselem, Welcome To Hell, ha descritto come “una rete di campi di tortura”.

“Non è solo violenza, umiliazione e abuso sessuale, è tutto”, ha detto Ansari.

“I resoconti di violenza fisica e sessuale sono abituali. Tra le persone abusate fisicamente le ferite alla testa, alle spalle e, nel caso degli uomini, tra le gambe e il sedere sono abbastanza comuni”, ha aggiunto Ansari.

Ha descritto nei dettagli il caso di un paramedico che ha riferito a HRW di aver incontrato un altro detenuto che sanguinava dall’ano, il quale ha raccontato come tre guardie israeliane si fossero alternate a violentarlo con i loro fucili M16.

“Ridurre i loro diritti”

A luglio, nel rispondere alle accuse di sovraffollamento da parte dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna di Israele, Ben-Gvir si è vantato delle condizioni abominevoli nei suoi sistemi carcerari, scrivendo su X: “Da quando ho assunto la carica di ministro della sicurezza nazionale, uno degli obiettivi più importanti che mi sono prefissato è quello di peggiorare le condizioni dei terroristi nelle prigioni e di ridurre i loro diritti al minimo richiesto dalla legge”.

All’inizio della stessa settimana ha pubblicato un video in cui affermava: “Si dovrebbe sparare ai prigionieri invece di dar loro da mangiare”.

“Era terribile, è sempre stato terribile”, ha detto Abbas ad Al Jazeera, “Ma le cose sono diventate molto pesanti dopo la nomina di Ben-Gvir. Da ottobre è come un altro mondo. È diventato orripilante.

“Prima della guerra c’erano centinaia di prigionieri palestinesi con malattie croniche. Ora in prigione ci sono migliaia di persone in più, il che significa molte più persone con condizioni croniche che non vengono curate”.

A luglio, in seguito all’arresto di soldati israeliani accusati di torture sistematiche e stupri presso il centro di detenzione di Sde Teiman, manifestanti israeliani, tra cui politici eletti, hanno preso d’assalto Sde Teiman e la vicina base di Beit Lid chiedendo il rilascio dei soldati arrestati.

In seguito Ben Gvir ha scritto al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu condannando l’arresto dei soldati per stupro e tortura in quanto “vergognoso” e dicendo delle condizioni nel suo sistema carcerario: “I campi estivi e la pazienza per i terroristi sono finiti”.

Secondo una dichiarazione rilasciata dall’esercito israeliano alla Sky News del Regno Unito, il dottor Al-Bursh è stato portato da Al-Awda a Sde Teiman.

Un altro detenuto, il dottor Khalid Hamouda, ha valutato che più o meno un quarto dei circa 100 prigionieri di Sde Teiman erano operatori sanitari.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’UNRWA avverte che la crisi umanitaria a Gaza si sta aggravando a causa del maltempo invernale

  1. Redazione di MEMO

26 novembre 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia di stampa Anadolu ha riferito che lunedì l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia ONU Assistenza e Lavoro per i Rifugiati Palestinesi] (UNRWA) ha avvisato che l’arrivo dell’inverno sta aggravando la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. La funzionaria dell’ufficio stampa dell’agenzia ONU Enas Hamdan ha riferito ad Anadolu che le famiglie sfollate stanno affrontando “condizioni disastrose” in seguito a forti piogge, forti venti e grandi ondate sulla costa, oltre alla continua “grave riduzione” degli aiuti umanitari.

Hamdan ha osservato che molte tende che ospitano le famiglie di sfollati sono state danneggiate dalle condizioni atmosferiche, lasciando gli abitanti senza adeguato riparo. “Stiamo parlando di una situazione umanitaria catastrofica con riduzioni critiche di forniture invernali essenziali,” ha aggiunto.

I beni di prima necessità come la farina e le scorte alimentari sono quasi esaurite, ha affermato la funzionaria UNRWA, mentre c’è una grave carenza di teli di plastica rinforzata e nylon usati per creare tende di fortuna per famiglie sfollate.

L’UNRWA ha distribuito circa 13.000 pacchi di beni essenziali invernali nella parte meridionale e centrale di Gaza, ma queste forniture coprono solo una piccola parte delle necessità. Infatti la crisi si estende oltre la disponibilità di un rifugio e colpisce anche la sanità.

Hamdan ha indicato una significativa riduzione di forniture mediche e di medicine essenziali, aggravata da sovraffollamento e condizioni di vita inadeguate. Ha inoltre avvertito che circa 1,8 milioni di persone sfollate sono a rischio di malattie accresciuto da carenza di igiene e insufficiente assistenza sanitaria.

Descrivendo la situazione umanitaria a Gaza come “estremamente dura”, la funzionaria ha evidenziato il bisogno urgente di azioni internazionali per affrontare i bisogni degli abitanti ed alleviare le loro sofferenze. Una crescente pressione sulle parti responsabili è necessaria per permettere un maggior flusso di aiuti umanitari dentro Gaza, ha affermato Hamdan, osservando che le attuali consegne di aiuti – limitate a circa 30 camion al giorno – sono insufficienti, dato l’enorme bisogno: “Questi aiuti in entrata sono solamente una goccia nell’oceano in confronto ai disperati bisogni dei palestinesi a causa di una opprimente crisi umanitaria.”

Le sfide per gli abitanti sfollati di Gaza – stimati in circa due milioni – sono aggravate dalle operazioni militari israeliane in corso e da un devastante maltempo invernale. Le municipalità locali a Gaza hanno emesso ripetuti avvisi riguardo a una situazione umanitaria in peggioramento, ma i continui attacchi aerei israeliani, un implacabile assedio e la mancanza di risorse hanno lasciato la crisi per la maggior parte irrisolta.

In precedenza lunedì l’ufficio stampa del governo di Gaza ha affermato che approssimativamente 10.000 tende che ospitano abitanti sfollati sono state distrutte o portate via delle onde negli ultimi due giorni a causa delle avverse condizioni metereologiche.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




A Gaza non si sfugge al terrore

Ahmed Mohammed Jnena  

24 novembre 2024 Mondoweiss

Quando a Gaza è iniziato il genocidio ho confidato in Dio e respinto del tutto la paura. Ma poi, intrappolato sotto le macerie della mia casa distrutta, ho provato un’autentica paura. E da allora non mi ha più abbandonato.

La guerra incalzava. Le bombe cadevano senza sosta, più rumorose e pesanti che mai. Per me non era una novità. Il mio quartiere, al-Shuja’iyya, è stato bombardato innumerevoli volte: 2008, 2012, 2014, 2021, e tra queste c’erano attacchi aerei periodici e lunatici, imprevedibili ma familiari. Questa era la vita a Gaza, che è stata un ciclo infinito di sopravvivenza e ricostruzione. Quindi, quando i primi attacchi aerei seguirono il 7 ottobre, pensai che fosse solo un capitolo della stessa triste storia. Mi sbagliavo.

Il numero dei morti salito a diverse migliaia, gli attacchi aerei implacabili… Il numero di sigarette di mio padre aumentava di giorno in giorno. A Gaza le sigarette non sono un lusso, sono una forma di silenziosa autopunizione o un disperato tentativo di alleviare lo stress. I fattori di stress sono ovunque, anche prima che scoppiasse la guerra. Sapevo che presto i prezzi delle sigarette sarebbero saliti alle stelle, un altro crudele paradosso nelle nostre vite.

Sono Ahmed, ho 23 anni e faccio parte di una famiglia di nove persone. Due dei miei fratelli vivono all’estero: uno è insegnante in Kuwait e ci sostiene economicamente, l’altro è in Turchia e sta cercando di emigrare in Europa per provvedere alla moglie e ai due figli. Una settimana dopo il 7 ottobre mia madre, mia sorella e quattro dei miei fratelli sono stati evacuati nella scuola UNRWA di Al-Rimal, nella parte occidentale di Gaza City. Mio padre, 64 anni, e io siamo rimasti indietro: “i lealisti”, come dicevamo scherzando.

Mio padre non aveva paura della morte. L’accettava con calma rassegnazione, a volte trovando conforto nella sua ineluttabilità. Io, d’altro canto, credevo di poter respingere del tutto la paura riponendo la mia fiducia in Dio. “La paura è un’illusione”, gli dissi una sera. Scosse la testa, la voce ferma.

“La paura è reale, figlio mio”, disse. “Anche i profeti avevano paura. Ricordi Mosè quando gli fu detto di tenere il bastone? La paura esiste tanto quanto il coraggio”.

Allora non ne ero convinto. Ma l’8 novembre ho scoperto la verità sulla paura.

Un F-16 israeliano ha ridotto la nostra casa in macerie in pochi secondi. Ero intrappolato tra due muri crollati, bloccato sul posto dal cemento implacabile. Per due strazianti ore sono rimasto solo in una soffocante oscurità, ascoltando i deboli scricchiolii della distruzione e le grida lontane. La paura mi ha afferrato, cruda e ineluttabile.

Poi l’ho sentito. La voce di mio padre mi chiamava da qualche parte tra le macerie. Era stato colpito dallo stesso attacco aereo ma mi stava cercando tra le rovine. Le sue mani, ferme nonostante il caos, mi guidarono tra le macerie dall’altra parte del muro. Quella fu l’ultima cosa che ricordo chiaramente prima che il secondo attacco aereo ne stroncasse la voce e lo uccidesse. Il mio coraggioso padre se n’era andato.

Quando fui tirato fuori dalle macerie avevo il bacino e parte della spina dorsale rotti. Quando arrivò l’ambulanza fui portato d’urgenza all’ospedale di al-Shifa. Rimasi lì per settimane a ricevere cure prima che l’esercito israeliano circondasse l’ospedale e bombardasse proprio il piano in cui mi trovavo. La morte insisteva nel seguirmi come un’ombra. Non appena l’esercito circondò l’ospedale fui trasferito con altri pazienti e dottori all’Ospedale Europeo di Khan Younis.

La mia spina dorsale e il mio bacino necessitavano di un intervento chirurgico e l’ospedale in cui mi trovavo a malapena funzionava, veniva usato principalmente come rifugio. Alla fine il Ministero della Salute rilasciò un’impegnativa che mi avrebbe consentito di essere curato in Egitto, cosa non facile da ottenere poiché si dà la priorità ai casi più gravi. Però non ha funzionato. Anche se mio fratello poteva garantire i fondi per il mio viaggio in Egitto, gli israeliani hanno presto preso il controllo del valico di Rafah e lo hanno chiuso, mettendo le cure fuori discussione.

Dovevo perseverare in questa lotta senza fine, non avevo scelta. Un doloroso passo dopo l’altro, la mia salute è migliorata e alla fine riesco a camminare. Ora vendo sapone fatto in casa per le strade di Deir al-Balah per sostenere mia madre, i miei fratelli e mia sorella, ma anche perché non ho altra scelta.

Penso che nonostante tutte queste difficoltà posso ancora farcela. Abbiamo sempre lottato a Gaza prima del 7 ottobre. Ma ciò che non riesco a gestire è la profonda paura che mi ha sconvolto quella notte.

Da quella notte la paura non mi ha più abbandonato. I miei ricordi prima dell’attacco sembrano frammenti di un sogno, sfocati e irraggiungibili. Non ricordo molto della mia vita prima di allora. Forse se tornassimo alle macerie, ai resti della nostra casa, qualche oggetto dimenticato potrebbe scatenare un ricordo. Per ora, però, vivo nel presente, portando il peso di un passato che non riesco a ricordare e una paura che non posso negare.

La paura esiste. È reale. Mio padre ha ragione. Ora ho capito.

.(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Mandati di arresto della CPI: i palestinesi hanno prevalso nella “guerra della legittimità”

Richard Falk

22 novembre 2024-Middle East Eye

Il valore permanente dell’emissione dei mandati di arresto è quello di aiutare la Palestina a conquistare il primato del diritto, della moralità e del dibattito pubblico

La Corte penale internazionale (CPI) ha ritardato di sei mesi l’emissione formale di mandati di arresto per i principali leader politici israeliani che hanno diretto l’assalto genocida a Gaza, sebbene abbia risposto affermativamente nel giro di pochi giorni a una richiesta analoga che riguardava le accuse di responsabilità penale del presidente russo Vladimir Putin in Ucraina

Doppi standard, certo, ma l’azione della CPI è una valida alternativa al rifiuto della raccomandazione del procuratore capo Karim Khan del 20 maggio o al ritardo indefinito della decisione se emettere o meno i mandati di arresto.

La sentenza della Sezione preliminare n.1 della CPI di emettere mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, data l’evidenza schiacciante della loro responsabilità per gravi crimini internazionali, è una grande notizia.

È un colpo contro l’impunità geopolitica e a favore della responsabilità. Se questa azione della CPI viene valutata in base alla sua capacità di influenzare il comportamento a breve termine di Israele in direzioni più in linea con il diritto internazionale e con le opinioni prevalenti nelle Nazioni Unite, nel Sud del mondo e nell’opinione pubblica mondiale, questa decisione della CPI può essere cinicamente liquidata come un gesto vuoto.

Alcuni sostengono che l’impatto tangibile dei mandati di arresto, se pur ve ne sarà alcuno, consisterà solo nel modificare leggermente i piani di viaggio futuri di Netanyahu e Gallant. La decisione obbliga i 124 stati membri della CPI a effettuare l’arresto di questi individui, qualora fossero così audaci da avventurarsi nel loro territorio. Gli Stati non membri, tra cui Stati Uniti, Russia, Cina, Israele e altri, non sono nemmeno soggetti a questo minimo obbligo.

Limitazioni

Ricordiamo che la Palestina è parte del trattato della CPI.

Quindi se Netanyahu o Gallant dovessero mettere piede nei territori palestinesi occupati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, l’autorità governativa di Ramallah sarebbe legalmente obbligata ad arrestarli.

Tuttavia, se osasse arrestare un leader israeliano, per quanto forti siano le prove contro di lui, ciò metterebbe alla prova il coraggio dell’Autorità Nazionale Palestinese ben oltre il suo comportamento passato. Questa valutazione dell’effetto tangibile non coglie il punto del perché questo sia uno sviluppo storicamente significativo sia per la lotta palestinese che per la credibilità della CPI.

Prima di presentare un argomento sul perché questa mossa della CPI è un passo storico sembra opportuno riconoscerne i grandi limiti.

Innanzitutto, sebbene la raccomandazione del procuratore alla Camera dei giudizi preliminari della CPI sia stata fatta a maggio (o otto mesi dopo il 7 ottobre 2023), non includeva tra i crimini attribuiti a questi due leader il genocidio, che è, ovviamente, il principale crimine dell’assalto israeliano, nonché emanazione del loro ruolo.

Inoltre, un limite notevole è il lungo ritardo della CPI tra i mandati di arresto raccomandati e la sentenza della Sezione.

Ciò è stato sostanzialmente ingiustificabile date le terribili condizioni di emergenza di devastazione, carestia e sofferenza esistenti a Gaza durante questo intervallo, aggravate dal blocco da parte di Israele dell’assistenza umanitaria fornita da Unrwa e da altre organizzazioni umanitarie e degli aiuti internazionali alla popolazione civile di Gaza che aveva un disperato bisogno di cibo, carburante, elettricità, acqua potabile, forniture mediche e operatori sanitari.

La decisione della CPI è ulteriormente soggetta a contestazione giurisdizionale una volta che l’ordine di arresto è stato finalizzato. L’accettazione del provvedimento del 20 novembre è, in senso formale, provvisoria, poiché l’obiezione di Israele all’autorità giurisdizionale della CPI è stata fatta prematuramente, ma può essere fatta senza pregiudizio in futuro ora che la CPI ha agito.

Anche nell’improbabile caso in cui potessero essere effettuati arresti è dubbio che la detenzione potrebbe essere mantenuta, data la legislazione del Congresso degli Stati Uniti che autorizza l’uso della forza per “liberare” dalla prigionia della CPI cittadini statunitensi o alleati accusati.

Ci sono già state minacce da parte di alcuni membri del Senato e della Camera degli Stati Uniti che verranno emanate sanzioni contro Khan e i membri della Camera preliminare della CPI. Tali iniziative, se promulgate, indeboliranno ulteriormente la reputazione degli Stati Uniti come sostenitori dello stato di diritto negli affari internazionali

Significato duraturo

Nonostante queste formidabili limitazioni, questa invocazione dell’autorità procedurale della CPI è di per sé un triste promemoria per il mondo riguardo al fatto che la responsabilità per [perseguire, n.d.t] i crimini internazionali dovrebbe spettare a tutti i governi. Le prove sono state valutate da esperti oggettivi e professionalmente qualificati sotto gli auspici di un’istituzione internazionale che è autorizzata da un trattato ampiamente ratificato a determinare l’appropriatezza legale di prendere una decisione così controversa.

Le decisioni ufficiali della CPI vengono emesse senza essere soggette a un diritto di veto che ha paralizzato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite durante questo periodo di violenza a Gaza. Ciò non significa che seguirà l’attuazione o che l’azione penale andrà avanti, e tanto meno che le future conclusioni di colpevolezza saranno rispettate nell’improbabile eventualità che si verifichino, come ha scoperto, con suo sconcerto, la più anziana Corte internazionale di giustizia [organismo dell’ONU che giudica gli Stati, n.d.t.] sin dalla sua fondazione nel 1945.

Tuttavia, sia la CPI che la Corte internazionale di giustizia sono formalmente libere dal “primato della geopolitica” che così spesso prevale sulla rilevanza del diritto internazionale o della Carta delle Nazioni Unite in altre sedi non giudiziarie.

Un risultato come quello raggiunto dalla CPI in merito ai mandati di arresto è un’applicazione diretta e autorevole del diritto internazionale e, in tal senso, non produce controargomentazioni ma reazioni grossolane. Netanyahu definisce la sentenza della CPI “assurda” e una manifestazione di “antisemitismo”. Questo tipo di intemperanza verbale israeliana è simile a quanto affermato in passato contro l’ONU stessa e le sue attività.

Il significato duraturo dell’emissione dei mandati di arresto è quello di aiutare la Palestina a vincere la “guerra di legittimità” condotta per collocarsi sul terreno più elevato del diritto, della moralità e del discorso pubblico.

I seguaci della scuola “realista” che continuano a dominare le élite di politica estera negli Stati importanti liquidano il diritto internazionale e le considerazioni normative in materia di sicurezza globale e di contesti geopoliticamente infiammati come una distrazione fuorviante per situazioni che [ritengono, ndt.] sono meglio guidate e, in ogni caso, saranno determinate dai rapporti di forza militari.

Un simile modo di pensare trascura l’esperienza di tutte le guerre anticoloniali del secolo precedente vinte militarmente dalla parte più debole. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare questa lezione nella guerra del Vietnam dove hanno dominato i campi di battaglia aerei, marittimi e terrestri e tuttavia hanno perso la guerra.

La parte più debole ha prevalso militarmente, ovvero ha prevalso nella guerra per la legittimità che il più delle volte ha controllato gli esiti politici sin dal dal 1945 nei conflitti interni di identità nazionale. Questi esiti riflettono il declino dell’agenzia storica del militarismo anche di fronte a molte innovazioni tecnologiche, apparentemente rivoluzionarie, nella guerra.

Per questa ragione, ma indipendentemente da questa linea di analisi, sempre più osservatori attenti sono giunti alla sorprendente conclusione che Israele ha già perso la guerra e, nel farlo, ha messo a repentaglio la sua futura sicurezza e prosperità, e forse anche la sua esistenza.

Alla fine la resistenza palestinese potrebbe ottenere la vittoria nonostante il prezzo indicibile imposto da un così orribile assalto genocida.

Se questo risultato si avverasse, uno dei fattori internazionali a cui si darebbe attenzione è la decisione della CPI di emettere mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant, per quanto futile possa sembrare oggi tale azione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




ONU: l’85% delle richieste di aiuti umanitari nel nord di Gaza bloccati o ritardati da Israele

  1. Redazione di MEMO

12 novembre 2024 – Middle East Monitor

Le Nazioni Unite hanno riferito che lo scorso mese l’85% delle sue richieste di concordare l’invio di convogli di aiuti ed ingressi umanitari nel nord di Gaza sono stati o bloccati o ritardati dalle autorità israeliane.

Secondo un portavoce dell’ONU, Stephane Dujarric, l’UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs [ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha inoltrato 98 richieste di accesso per il passaggio attraverso un posto di controllo nella Gaza Valley, ma solo 15 sono state approvate.

Egli ha annunciato che “negli ultimi tre giorni équipe dell’OCHA, di agenzie ONU che si occupano di diritti umani e di altre organizzazioni umanitarie hanno visitato nove luoghi a Gaza City per valutare i bisogni di centinaia di famiglie sfollate, molte delle quali stanno tornando nel nord di Gaza.”

Dujarric ha espresso serie preoccupazioni per i palestinesi ancora nel nord di Gaza a causa del blocco ancora in corso, sollecitando Israele a permettere operazioni umanitarie essenziali.

Inoltre, secondo un portavoce ONU un nuovo rapporto redatto da OCHA rivela inoltre che a ottobre organizzazioni umanitarie hanno presentato 50 richieste per entrare a Gaza nord, delle quali 33 sono state rigettate e 8 sono state accolte ma hanno subito ritardi che hanno inciso negativamente sulle loro missioni.

Il rapporto è stato pubblicato nel mezzo di una crescente crisi umanitaria, dato che la parte settentrionale di Gaza presenta gravi condizioni di carestia dopo 50 giorni durante i quali non è stato permesso l’ingresso di aiuti o approvvigionamenti. Le agenzie ONU avvertono che le centinaia di migliaia di abitanti dell’area stanno sperimentando estrema violenza, inclusi trasferimento forzato e carenze di cibo e risorse potenzialmente mortali.

Decine di migliaia di palestinesi, incluse decine di pazienti in tre ospedali nel nord della Striscia di Gaza, sono “in immediato pericolo di morte per fame o di conseguenze di lungo periodo sulla salute” ha avvertito domenica l’Euro-Med Human Rights Monitor.

Il Monitor ha aggiunto che “l’uso della denutrizione come arma di guerra da parte di Israele è parte del genocidio in corso nella Striscia, che include anche uccisioni di massa e trasferimenti forzati.”

Dall’attacco di Hamas dello scorso anno Israele ha continuato una devastante offensiva contro Gaza, nonostante una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che chiede un immediato cessate il fuoco.

Da allora sono state uccise più di 43.600 persone, per la maggior parte donne e minori, e altre circa 103.000 ferite, secondo fonti della sanità locale.

Israele deve inoltre affrontare una accusa di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia per le sue azioni contro Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)