Duecento ex ufficiali della sicurezza presentano un piano per porre fine alla situazione di stallo

Associated Press, Ynet

28/05/2016

Generali dell’IDF e loro pari grado di Mossad, Shin Bet [rispettivamente servizi segreti e servizio di sicurezza interna di Israele. Ndtr] e polizia chiedono il congelamento della costruzione nelle colonie, l’accettazione dell’iniziativa di pace araba [proposta di un accordo di pace con Israele formulata dall’Arabia Saudita ed accolta dalla Lega Araba nel 2002. Ndtr.] e il riconoscimento che Gerusalemme est dovrebbe fare parte del futuro Stato palestinese; gli ex ufficiali della sicurezza invocano anche il completamento della barriera di sicurezza [o Muro di separazione. Ndtr.].

Venerdì [27 maggio] un gruppo di oltre 200 militari ed ufficiali dell’intelligence hanno criticato il governo per la sua inazione nella soluzione del conflitto israelo-palestinese ed hanno presentato un piano dettagliato che secondo loro potrebbe porre fine alla situazione di stallo. La pubblicazione del rapporto segue di poco la nomina del leader del partito Yisrael Beytenu [partito ultranazionalista. Ndtr], Avigdor Lieberman, a ministro della Difesa.

Con i colloqui di pace completamente bloccati, venerdì il piano dei “Comandanti per la Sicurezza di Israele” ha indicato le “condizioni di garanzia” per negoziare con i palestinesi. Chiede un complesso di iniziative politiche e per la sicurezza insieme alla contestuale concessione di miglioramenti economici per i palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

 Auspica un congelamento della costruzione di colonie, l’accettazione in linea di massima dell’ “Iniziativa di Pace Araba” e il riconoscimento che Gerusalemme est debba essere parte di un futuro Stato palestinese “quando ciò sia stabilito come parte di un futuro accordo.”

Il leader del gruppo, Amnon Reshef, un ex-generale dell’IDF, ha detto che il piano “smentisce i venditori di paura” che sostengono che attualmente non ci sia una controparte palestinese per la pace o che le condizioni non sono adeguate per i negoziati. Ha affermato che questo argomento, comune in Israele dopo anni di conflitto e di fallimenti dei negoziati, “non dovrebbe essere una scusa per la passività e l’inazione.”

Reshef ha messo in guardia:”L’attuale status quo è un’illusione” che danneggia una soluzione dei due Stati del conflitto.

Il piano chiede anche alle autorità di completare la costruzione del Muro di sicurezza, in modo tale da non impedire la soluzione dei due Stati. In particolare, invita le autorità a completarne la costruzione attorno a Gush Etzion, Ma’ale Adumim [due colonie nei pressi di Gerusalemme, in Cisgiordania. Ndtr.]e nel sud della Cisgiordania.

Reshef ha detto che il suo gruppo intende garantire le condizioni per futuri colloqui di pace con i palestinesi ottimizzando nel frattempo la sicurezza nazionale di Israele e le relazioni regionali e internazionali. ” Sappiamo per esperienza che non puoi sfidare il terrore solo con mezzi militari, devi migliorare la qualità della vita dei palestinesi,” ha affermato.

Il gruppo di veterani militari ha detto di sperare che il piano sia preso in considerazione dai decisori politici e dall’opinione pubblica in Israele e negli USA, dove la prossima settimana verrà lanciata una campagna con l’ ong “Israel Policy Forum” [organizzazione statunitense di ricerca, studio e formazione impegnata per la realizzazione della soluzione dei due Stati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA sulla settimana 17- 23 maggio 2016

Una 17enne palestinese è stata uccisa dalla polizia di frontiera israeliana mentre si avvicinava al checkpoint di Beit Iksa, a nord di Gerusalemme. Secondo i media israeliani, prima di essere colpita, la ragazza aveva sollevato un coltello e non aveva rispettato l’ordine di fermarsi.

Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Dall’inizio del 2016, nel corso di aggressioni e presunte aggressioni, le forze israeliane hanno ucciso 52 palestinesi sospetti aggressori, mentre, nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, ne furono uccisi 89. Le circostanze di molti episodi hanno creato preoccupazione per l’uso eccessivo della forza.

Le autorità israeliane hanno restituito alle loro famiglie i cadaveri di cinque palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Vengono tuttora trattenuti i corpi di altri nove palestinesi. Il 24 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che avrebbero sospeso la consegna dei cadaveri, a causa di un episodio di presunta violazione delle condizioni concordate per lo svolgimento dei funerali.

In Cisgiordania almeno 49 palestinesi, tra cui quattro minori e una donna, sono stati feriti dalle forze israeliane, in prevalenza durante scontri; la maggior parte dei ferimenti si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, in riferimento ai fatti del 1948, i palestinesi definiscono “Al-Nakba” [la Catastrofe]: in particolare ad Al ‘Eizariya e Silwan (Gerusalemme) e a Ni’lin (Ramallah). Altri feriti si sono avuti nelle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya); a Deir Isitya (Salfit), durante una protesta contro la recinzione di una strada principale che impedisce l’accesso alla terra e durante alcune delle 82 operazioni di ricerca-arresto svoltesi nella settimana. Il lancio di lacrimogeni in uno degli scontri verificatisi nel campo profughi di Al Fawwar (Hebron) ha appiccato il fuoco e bruciato 45 ulivi e viti. A Gaza, durante le manifestazioni presso la recinzione, due palestinesi sono stati feriti con armi da fuoco.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 13 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) lungo la recinzione perimetrale e in mare. In uno di questi casi un contadino è stato ferito, mentre dieci pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni delle forze navali israeliane, dove sono stati arrestati. Pur mancando una comunicazione ufficiale o una delimitazione, le aree fino a 300 metri dalla recinzione perimetrale sono considerate zone “vietate”, fatta eccezione per gli agricoltori che possono avvicinarsi fino a 100 metri; tuttavia fino a 1.000 metri le aree sono considerate ad alto rischio, e ciò ne scoraggia la coltivazione.

Il 22 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato la revoca del divieto di importazione di cemento per il settore privato nella Striscia di Gaza. Il divieto, in vigore dal 3 aprile 2016, era motivato dalla preoccupazione israeliana per il possibile dirottamento di materiali da costruzione verso gruppi armati e dalla scoperta di un tunnel sotterraneo sotto il confine tra Gaza ed Israele.

Le forze israeliane hanno bloccato temporaneamente due delle strade principali per il villaggio Hizma (Gerusalemme), impedendo l’accesso veicolare a circa 7.000 persone. Ciò ha fatto seguito alla esplosione, verificatasi la settimana precedente al checkpoint di Hizma (che controlla l’accesso a Gerusalemme Est), di un ordigno artigianale che ferì un soldato.

A Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre case palestinesi ed un locale per la preghiera, sfollando 26 persone, tra cui nove minori, e coinvolgendone altre otto. Dall’inizio del 2016, a Gerusalemme Est sono state demolite 72 strutture (di cui tre per motivi punitivi), rispetto alle 79 dell’intero anno 2015.

Il 18 maggio, un tribunale israeliano si è pronunciato a favore di una organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà di tre appartamenti e due negozi nella zona di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, ordinandone lo sgombero entro il 10 giugno 2016. Quattro famiglie sono a rischio imminente di sfollamento. A Gerusalemme Est, la creazione di insediamenti israeliani nel cuore dei quartieri palestinesi ha inasprito le tensioni e compromesso le condizioni di vita dei palestinesi residenti.

Nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano, un gruppo di coloni israeliani è entrato in una casa palestinese ed ha aggredito fisicamente e ferito un 16enne palestinese e suo padre. Le forze israeliane sono intervenute e, in base alle affermazioni dei coloni israeliani che sostenevano di essere stati antecedentemente aggrediti dai due, hanno arrestato il ragazzo e suo padre.

Secondo i media israeliani, un bus israeliano che transitava vicino al villaggio di Tuqu ‘(Betlemme) e la metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni: il primo per uno sparo e la seconda per il lancio di una bottiglia, presumibilmente ad opera di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah è stato chiuso sul lato egiziano. L’ultima volta è stato aperto l’11 e il 12 maggio, dopo 85 giorni consecutivi di chiusura. Secondo le autorità palestinesi, almeno 30.000 persone, di cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, sono registrate e in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah solo per cinque giorni su 144.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 10-16 maggio 2016

A Gerusalemme Est, tre israeliani, tra cui due donne anziane, sono stati feriti con coltelli in due distinte aggressioni. La polizia israeliana ha arrestato il sospetto autore palestinese di una delle aggressioni, mentre, nel secondo caso, i responsabili sono fuggiti.

Al checkpoint di Hizma (Gerusalemme), secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito dall’esplosione di un ordigno; in relazione a questo episodio, sono stati arrestati due palestinesi. Dall’inizio di aprile 2016, è stato registrato un calo significativo, rispetto ai mesi precedenti, nella frequenza di aggressioni palestinesi e presunte aggressioni contro israeliani.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane sono rimasti feriti almeno 78 palestinesi, tra cui 32 minori. La maggior parte degli scontri si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, riferendosi al 1948, i palestinesi chiamano “al-Nakba” [la catastrofe]*. Lacrimogeni sparati dalle forze israeliane in due degli scontri hanno appiccato il fuoco e parzialmente bruciato 30 alberi a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e parte di una casa a Kafr ad Dik (Salfit).

* nota di Assopace: il 14 maggio 1948 gli ebrei proclamarono unilateralmente la nascita dello Stato di Israele. L’intervento degli Stati Arabi scatenò la prima delle guerre arabo-israeliane. Gli israeliani, vincitori, occuparono parte del territorio destinato dall’ONU ai palestinesi: circa 600.000 ebrei, in fuga dai paesi arabi, trovarono rifugio in Israele mentre circa 750.000 palestinesi fuggirono nei paesi arabi vicini (campi profughi).

In un altro episodio, in cui non ci sono stati scontri, un incendio è scoppiato vicino al villaggio di Beit ‘Awa (Hebron) a seguito del lancio di bengala (razzi illuminanti) da parte delle forze israeliane: sono bruciati circa 25 ettari di terra coltivata ad ulivo. Le circostanze di questo episodio rimangono poco chiare.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 78 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 106 palestinesi; il più alto numero di arresti (31) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme. Due di queste operazioni hanno innescato scontri che hanno provocato il ferimento di quattro palestinesi. Nella Striscia di Gaza, in Aree di mare ad Accesso Riservato, 12 pescatori, tra cui quattro minorenni, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso imbarcazioni delle forze navali israeliane dove sono stati arrestati.

Le forze israeliane hanno revocato le restrizioni imposte nel novembre 2015 sull’accesso dei palestinesi non residenti ad alcune parti della città di Hebron attraverso due punti di controllo chiave (Container e Gilbert checkpoint); nonostante questa facilitazione, il movimento dei palestinesi all’interno dell’area di insediamento israeliano della città rimane soggetto a forti restrizioni. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno vietato a due palestinesi l’accesso alla Moschea di Al Aqsa per due e tre mesi rispettivamente, a motivo del loro coinvolgimento in proteste contro l’ingresso di coloni israeliani nello stesso sito.

L’11 e il 12 maggio, in occasione della Giornata della Commemorazione [dei soldati caduti e delle vittime del terrorismo] e della Giornata dell’Indipendenza di Israele [è lo stesso evento che i palestinesi ricordano come al-Nakba], le autorità israeliane hanno dichiarato una chiusura generale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, impedendo ai titolari di permesso di accedere ad Israele e a Gerusalemme Est, eccetto casi umanitari urgenti ed alcune altre eccezioni. Tutti i valichi commerciali sono stati chiusi.

Le autorità israeliane hanno consegnato alle loro famiglie i cadaveri di due palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Sono ancora trattenuti i cadaveri di altri 13 palestinesi.

In Area C della Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 16 strutture di proprietà palestinese per mancanza dei permessi di costruzione. Il 16 maggio, nella comunità beduina palestinese di Jabal al Baba (Gerusalemme), sette container ad uso abitativo, finanziati da donatori, sono stati demoliti ed i materiali per realizzarne altri tre sono stati confiscati. Tale Comunità si trova in una zona destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (il piano E1) ed è una delle 46 comunità beduine nella Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato a causa di un piano di “rilocalizzazione” avanzato dalle autorità israeliane. Altri sei strutture di sostentamento sono state demolite nei villaggi di Al Walaja (Betlemme) e Deir al Ghusun (Tulkarem).

Nel corso della settimana sono stati registrati due aggressioni da parte di coloni, con lesioni o danni a palestinesi: nella zona H2 della città di Hebron, una palestinese e sua figlia sono state fisicamente aggredite e ferite da un gruppo di coloni israeliani; in Asfeer (Hebron), un villaggio palestinese situato nella zona chiusa dietro la Barriera, circa 30 coloni hanno vandalizzato la recinzione di una casa e molestato la famiglia, invitandoli a lasciare la zona.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto l’11 e 12 maggio. A fronte di oltre 30.000 persone registrate e in attesa di attraversare, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, è stata consentita l’uscita da Gaza a 739 palestinesi e l’ingresso a 1.220. Questa apertura è avvenuta dopo 85 giorni consecutivi di chiusura – il periodo più lungo dal 2007.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Rapporto OCHA della settimana 3- 9 maggio 2016

Nel corso di una serie di raid aerei e cannoneggiamenti effettuati da carri israeliani sulla Striscia di Gaza, una 54enne palestinese, intenta a coltivare la sua terra ad est di Khan Younis, è stata uccisa e altri otto civili palestinesi, tra cui sei minori, sono stati feriti.

La violenza si è intensificata il 4 maggio, quando le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno avviato operazioni militari, a quanto riferito in seguito alla scoperta di un tunnel sotto il confine tra Gaza ed Israele. Gruppi armati palestinesi hanno risposto con colpi di mortaio verso le forze israeliane; non sono stati segnalati feriti israeliani. Durante la settimana, in cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

Il 3 maggio, un 36enne palestinese ha investito i soldati israeliani in servizio ad un posto di blocco “volante” nei pressi di Deir Ibzi’ (Ramallah); ne ha feriti tre ed è stato successivamente ucciso dagli altri soldati. Più tardi, la stessa notte, il corpo del palestinese è stato consegnato alla famiglia. Questo porta a 51 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, in Cisgiordania, durante attacchi e presunti attacchi.

Il 5 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che intendono consegnare quanto prima i cadaveri di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani negli ultimi sei mesi. Durante il periodo di riferimento, a Gerusalemme Est, uno di questi cadaveri è stato riconsegnato alla famiglia, con la condizione che il funerale fosse limitato a 30 persone, e che fosse versato un deposito di 20.000 NIS (pari a 4.675 euro) a garanzia del rispetto di suddetta condizione. Le autorità israeliane trattengono ancora 15 corpi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 86 palestinesi, tra cui dieci minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati durante proteste: manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e proteste nei pressi della recinzione che separa Gaza e Israele, oppure nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Tra i feriti, un 15enne colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma, nel villaggio di Al Khader (Betlemme), vicino ad una scuola, durante scontri tra forze israeliane ed un gruppo di ragazzi. Inoltre, tre giornalisti palestinesi sono stati feriti da schegge di granate assordanti sparate dalle forze israeliane durante una manifestazione tenuta al checkpoint di Beituniya, nei pressi della prigione di Ofer (Ramallah), in occasione della Giornata Mondiale della Libertà di Stampa.

Nel governatorato di Hebron, vicino al villaggio di Beit Einoun, le forze israeliane hanno riaperto due cancelli metallici che impedivano ai palestinesi l’accesso ad una importante strada di collegamento. A partire dalla loro chiusura, avvenuta nel mese di ottobre 2015, nei pressi dei cancelli si sono verificati vari attacchi e presunti attacchi contro le forze israeliane ivi operanti, con conseguente uccisione di otto palestinesi e il ferimento di sei soldati israeliani. L’apertura è stata decisa per ridurre le tensioni e facilitare il movimento di 35.000 persone: impiegati, studenti e pazienti che in precedenza erano costretti a lunghe ed onerose deviazioni.

Nella città di Nablus, le autorità israeliane hanno demolito “per punizione” la casa di famiglia di un palestinese, attualmente in stato di detenzione, accusato dell’uccisione di due coloni israeliani, avvenuta il 1° ottobre 2015. Di conseguenza, la moglie incinta è stata sfollata; inoltre, a causa dei danni arrecati durante la demolizione a due appartamenti adiacenti, sono stati coinvolti altri otto palestinesi, tra cui due minori.

Il 6 maggio, per mancanza di un permesso di soggiorno, una 36enne palestinese, madre di tre figli, è stata espulsa a forza dalle autorità israeliane da Gerusalemme Est, dove viveva da anni. La donna, titolare di documento di identità della Cisgiordania, è sposata con il titolare di documento di identità di Gerusalemme che, attualmente, sta scontando una pena detentiva per un attacco perpetrato nel 2002, dopo il quale la loro casa venne sigillata.

Il 9 maggio, secondo quanto riferito dall’organizzazione di coloni di ‘Ateret Cohanim, un gruppo di coloni israeliani si è trasferito in un edificio di tre piani nella città vecchia di Gerusalemme Est; non sono stati segnalati sfollamenti. A Gerusalemme Est, dal 1967, le leggi e la prassi israeliana hanno agevolato l’acquisizione di proprietà e la creazione di insediamenti nel cuore dei quartieri palestinesi. Nel 2015, coloni israeliani si sono impossessati di quattro case, sfollando 17 palestinesi.

Questa settimana sono stati registrati quattro attacchi di coloni israeliani contro palestinesi: nella città di Hebron l’aggressione fisica contro un difensore dei diritti umani; a Shufa (Tulkarem) un furto di bestiame; due episodi di vandalismo contro proprietà vicino a Deir Istiya e a Kifl Haris (entrambe in Salfit). In questa ultimo caso, secondo quanto riferito, coloni israeliani accompagnati da forze israeliane, sono entrati nel villaggio per visitare un sito religioso e, mentre impedivano ad abitanti palestinesi di rientrare nelle loro case, hanno compiuto atti vandalici.

Nella Striscia di Gaza, per l’uso improvvido di candele impiegate per far fronte alla grave carenza di energia elettrica, tre bambini (di 9 mesi, 2 e 4 anni) sono morti per un incendio scoppiato nella loro casa. Durante la settimana, in circostanze simili, sono stati segnalati almeno altri cinque casi che hanno provocato lesioni a tre persone. Da sette settimane consecutive sono in corso interruzioni di energia elettrica (fino a 18-20 ore al giorno), che subordinano l’erogazione dei servizi pubblici fondamentali alla disponibilità del carburante necessario ad azionare generatori di emergenza. Durante la settimana, in tutta la Striscia di Gaza, ci sono state diverse proteste contro questa situazione.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 84 giorni il periodo di chiusura ininterrotta: il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

L’11 maggio, l’Egitto ha aperto il valico di Rafah con Gaza, in entrambe le direzioni, per due giorni. Questa apertura fa seguito ad 85 giorni consecutivi di chiusura; il periodo più lungo a partire dal 2007.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

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https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

considerano già noti ai lettori abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Analisi: gli arabi hanno tradito la Palestina?

30 aprile 2016, aggiornato 2 maggio 2016, Ma’an News

Di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”

All’età di 21 anni ho attraversato il confine da Gaza all’Egitto per conseguire una laurea in scienze politiche. Il momento non avrebbe potuto essere peggiore. L’invasione irachena del Kuwait nel 1990 aveva condotto ad una coalizione internazionale guidata dagli USA e ad un grave conflitto, che alla fine ha spianato la strada all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003. Mi resi conto che i palestinesi vennero da subito “odiati” in Egitto a causa dell’appoggio di Yasser Arafat all’Iraq a quell’epoca. Solo non conoscevo la portata di quel presunto “odio”.

E’ stato in un modesto albergo del Cairo, dove ho pian piano speso i pochi denari egiziani che avevo a disposizione, che ho incontrato Hajah Zainab, una gentile vecchia custode che mi ha trattato come un figlio. Aveva un aspetto malsano, camminava zoppicando e si appoggiava ai muri per prendere fiato prima di proseguire nei suoi incessanti lavori domestici. I tatuaggi sul suo viso, un tempo disegnati accuratamente, erano diventati macchie di inchiostro raggrinzito che deturpava la sua pelle. Eppure la gentilezza dei suoi occhi aveva la meglio e appena mi vedeva mi abbracciava e piangeva.

Hajah Zainab piangeva per due motivi: aveva pena per me perché avevo a che fare con un ordine di deportazione del Cairo – per la sola ragione che ero un palestinese nel momento in cui Arafat appoggiava Saddam Hussein, mentre Hosni Mubarak sceglieva di allearsi con gli Stati Uniti. La mia disperazione cresceva e mi angosciava la possibilità di affrontare l’intelligence israeliana, lo Shin Bet, che poteva convocarmi nei suoi uffici una volta che avessi attraversato il confine per tornare a Gaza. L’altro motivo era che l’unico figlio di Hajah Zainab, Ahmad, era morto combattendo gli israeliani nel Sinai.

La generazione di Zainab considerava le guerre dell’Egitto con Israele, quella del 1948, del 1956 e del 1967, come guerre in cui una delle cause principali era la Palestina. Nessuna politica egoista e nessun condizionamento mediatico avrebbe potuto modificare ciò. Ma la guerra del 1967 fu quella della totale sconfitta. Con l’appoggio diretto e massiccio degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali, gli eserciti arabi furono sonoramente sconfitti, battuti su tre differenti fronti. Gaza, Gerusalemme est e la Cisgiordania furono perdute, insieme alle Alture del Golan, la Valle del Giordano ed anche il Sinai.

Fu allora che i rapporti di alcuni paesi arabi con la Palestina iniziarono a cambiare. La vittoria di Israele ed il costante appoggio di Stati Uniti e dell’ occidente convinsero alcuni governi arabi ad abbassare le loro pretese e auspicavano che anche i palestinesi facessero lo stesso. L’Egitto, che era stato il portabandiera del nazionalismo arabo, cedette ad un senso collettivo di umiliazione ed in seguito ridefinì le sue priorità con l’obbiettivo di liberare la propria terra dall’occupazione israeliana. Privi della cruciale leadership egiziana, gli stati arabi si divisero in campi differenti, ogni governo con la propria strategia. La Palestina intera era allora sotto controllo israeliano e gli arabi lentamente si allontanarono da una causa che un tempo era considerata la causa principale della nazione araba.

La Guerra del 1967 pose anche fine al dilemma di un’azione indipendente palestinese, di cui si appropriarono quasi del tutto vari paesi arabi. Inoltre la guerra spostò l’attenzione sulla Cisgiordania e Gaza e consentì alla fazione palestinese Fatah di rafforzare la propria posizione alla luce della sconfitta araba e della conseguente divisione.

Tale divisione venne alla luce pienamente al summit di Khartoum dell’agosto 1967, in cui i leaders arabi si scontrarono su priorità e definizioni. Le conquiste territoriali di Israele dovrebbero ridefinire lo status quo? Gli arabi dovrebbero concentrarsi sul ritorno alla situazione precedente il 1967 o a quella precedente il 1948, quando la Palestina storica fu occupata per la prima volta ed i palestinesi furono fatti oggetto di una pulizia etnica?

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 242, che rispecchiava il desiderio dell’amministrazione americana Johnson di avvantaggiarsi del nuovo status quo: il ritiro di Israele “dai territori occupati” in cambio della normalizzazione con Israele.

Il nuovo linguaggio del periodo immediatamente successivo al 1967 allarmò i palestinesi, che si resero conto che qualunque assetto politico futuro avrebbe ignorato la situazione preesistente alla guerra.

Infine, l’Egitto combatté e celebrò la sua vittoria nella Guerra del 1973, che gli consentì di consolidare il controllo sulla maggior parte dei suoi territori perduti. Alcuni anni dopo, gli accordi di Camp David nel 1979 divisero ancor di più le fila degli arabi e posero fine alla solidarietà ufficiale dell’Egitto con i palestinesi, garantendo allo stato arabo più popoloso un controllo condizionato sul proprio territorio nel Sinai. Le ripercussioni negative di quell’accordo non possono essere sopravvalutate. Comunque il popolo egiziano, nonostante il passare del tempo, non ha mai veramente normalizzato i rapporti con Israele.

In Egitto esiste ancora una frattura tra il governo, il cui comportamento si basa sull’urgenza politica e sull’autoconservazione, ed il popolo che, nonostante una campagna anti-palestinese imposta su vari media, è come sempre determinato a rifiutare la normalizzazione con Israele finché la Palestina non sia libera. A differenza del ben finanziato circo mediatico che negli ultimi anni ha demonizzato Gaza, gli amici di Hajah Zainab dispongono di pochissimi programmi in cui possono apertamente esprimere la loro solidarietà con i palestinesi. Nel mio caso, sono stato abbastanza fortunato da imbattermi nella vecchia custode che piangeva per la Palestina e per il suo unico figlio tanti anni fa.

Tuttavia quello stesso spirito, di Zainab, mi si è presentato nuovamente nel mio percorso di viaggi, diverse volte. Lo incontrai in Iraq nel 1999. Era incarnato in una vecchia venditrice di verdura che viveva a Sadr City. Lo incontrai in Giordania nel 2003. Si trattava di una taxista, con una bandiera palestinese che sventolava dal suo specchietto retrovisore. Era anche una giornalista saudita in pensione che incontrai a Gedda nel 2010, e una studentessa marocchina incontrata in un giro di conferenze a Parigi nel 2013. Aveva poco più di vent’anni. Dopo il mio intervento, mi disse piangendo che la Palestina per il suo popolo era come una ferita aperta. “Prego ogni giorno per una Palestina libera”, mi disse, “come facevano i miei defunti genitori in ogni preghiera.”

Hajah Zainab è anche l’Algeria, tutta l’Algeria. Quando la nazionale di calcio palestinese ha incontrato la squadra algerina, lo scorso febbraio, si è verificato uno strano fenomeno mai visto prima, che lasciò molti attoniti. I tifosi algerini, tra i più accesi amanti del calcio di ogni dove, hanno tifato per i palestinesi, per tutta la partita. E quando la squadra palestinese ha segnato un goal, è stato come se gli spalti si incendiassero. L’affollato stadio è esploso in un canto entusiasta per la Palestina e solo per la Palestina. Allora, gli arabi hanno tradito la Palestina? La domanda si sente spesso ed è spesso seguita da un affermativo “si, lo hanno fatto”. I media egiziani che fanno dei palestinesi dei capri espiatori a Gaza, i palestinesi perseguitati ed affamati a Yarmouk in Siria, la scorsa guerra civile in Libano, le vessazioni dei palestinesi in Kuwait nel 1991 e più tardi in Iraq, sono esempi spesso citati. Adesso alcuni sostengono che la cosiddetta “primavera araba” sia stata l’ultimo colpo di grazia alla solidarietà araba con la Palestina.

Vi prego di non fare confusione. Il risultato della sfortunata “primavera araba” è stato una grandissima delusione, se non un tradimento, non solo per i palestinesi, ma per la maggior parte degli arabi. Il mondo arabo è diventato il terreno per sporche politiche tra vecchi e nuovi avversari. Se i palestinesi ne sono stati vittime, i siriani, gli egiziani, i libanesi, gli yemeniti ed altri lo stanno diventando anche loro.

Si deve fare una chiara distinzione politica del termine “arabi”. Arabi possono essere dei governi non eletti altrettanto quanto lo può essere una gentile vecchietta che guadagna due dollari al giorno in un infimo albergo del Cairo. Arabe sono le potenti elites che si preoccupano solo dei propri privilegi e ricchezze, mentre non gli importa né dei palestinesi né delle loro proprie nazioni, ma lo sono anche tanti popoli, differenti, unici, emancipati, oppressi, che si trovano in questo momento storico a consumarsi per la propria sopravvivenza e lottano per la libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA della settimana 26 aprile- 2 maggio

Il 27 aprile, una 23enne palestinese, madre ed incinta, e il fratello 16enne sono stati uccisi vicino al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), secondo quanto riferito da personale della società di sicurezza privata israeliana che presidia il checkpoint.

Le circostanze sono controverse: secondo fonti israeliane, i due portavano dei coltelli e non hanno obbedito all’alt impartito dalle forze israeliane; testimoni oculari palestinesi hanno riferito che il personale di sicurezza ha aperto il fuoco sulla donna che era entrata per errore nella corsia del checkpoint riservata ai veicoli e, successivamente, hanno sparato al fratello accorso per aiutarla. Le autorità israeliane trattengono ancora i loro corpi, insieme a quelli di 16 palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi [contro israeliani] negli ultimi sei mesi.

Nel villaggio di Beit Ur al Foqa (Ramallah), una 16enne palestinese è stata ferita con arma da fuoco durante un presunto tentativo di aggressione contro soldati israeliani. I media israeliani hanno riferito che lei e la sua amica portavano un coltello, una siringa e un biglietto d’addio. Entrambe le ragazze sono state arrestate e non sono stati segnalati feriti tra i soldati israeliani. Secondo i media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un colono israeliano 60enne è stato accoltellato e ferito da un palestinese; è stato inoltre riferito che il presunto aggressore è fuggito, ma è stato successivamente arrestato.

Durante la settimana, vicino alla colonia di Efrata (Betlemme), un bambino israeliano è stato ferito sull’auto su cui viaggiava, colpita da pietre; inoltre, a Gerusalemme Est, la metropolitana leggera è stata danneggiata da una pietra (o bottiglia), si sospetta, lanciata da palestinesi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 85 palestinesi, tra cui 20 minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) che, da sola, registra 43 feriti; ad Abu Dis (Gerusalemme) e al Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah) contro la recente uccisione di palestinesi; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. In un caso, nei pressi della Al Khader School (Betlemme), un ragazzo di 10 anni è stato urtato e ferito da una jeep israeliana.

In Cisgiordania, a seguito dell’ingresso di coloni e di altri gruppi israeliani in vari siti religiosi in occasione della Pasqua ebraica, sono stati registrati parecchi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane. I siti coinvolti includono: il Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio a Gerusalemme Est; il villaggio di Al Karmel nel sud di Hebron; le Piscine di Suleiman presso il villaggio di Al Khader (Betlemme); il villaggio Sebastiya (Nablus); la Tomba di Giuseppe a Nablus. In quest’ultima località, le forze israeliane hanno ferito, con arma da fuoco, un 17enne palestinese. La polizia israeliana ha vietato a quattro palestinesi, per due settimane, l’ingresso nel Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio e, in un altro caso, secondo quanto riferito, ne ha allontanato otto visitatori israeliani.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 21 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, ed hanno arrestato due pescatori dopo averli costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni israeliane, dove sono stati tratti in arresto. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 45 operazioni di ricerca-arresto arrestando 93 palestinesi: il governatorato di Gerusalemme registra la quota più alta di arresti (65, tra cui 10 minori), per la maggior parte effettuati nella moschea di Al Aqsa.

Per la prima volta in sette anni, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno iniziato ad aprire, per due ore al giorno, il cancello sulla Barriera a Dahiyat al Barid, consentendo ai possessori di documenti di identificazione di Gerusalemme, l’utilizzo di un percorso più breve tra Ramallah e le comunità vicine. Le forze israeliane hanno anche riaperto un cancello stradale, chiuso da ottobre 2015, all’ingresso orientale del villaggio di ‘Ein Yabrud (Ramallah), consentendo a circa 11 comunità il transito veicolare verso la strada 60. Un altro cancello stradale, che conduce al villaggio Jamma’in (Nablus), è stato chiuso questa settimana, costringendo i residenti ad una lunga deviazione.

Per mancanza dei permessi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture di sussistenza ed hanno confiscato due serbatoi per l’acqua in un settore dell’Area C della città di Qalqiliya. Il provvedimento interessa 10 famiglie di rifugiati palestinesi, tra cui 32 minori.

In questa settimana non sono stati segnalati attacchi di coloni con vittime o danni [a palestinesi]. Tuttavia, a sud di Yatta (Hebron), coloni israeliani hanno impedito a contadini palestinesi di accedere ai loro terreni che si trovano oltre la Barriera.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 77 giorni il periodo di chiusura ininterrotta; il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Dal 4 maggio la tensione lungo il confine tra Gaza e Israele è in aumento, concretizzata in una serie di attacchi fra gruppi armati palestinesi ed esercito israeliano. Secondo le prime notizie dei media, una palestinese è stata uccisa ed altri quattro civili palestinesi (di cui tre minori) e un soldato israeliano sono rimasti feriti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto Ocha della settimana 19-25 aprile 2016

Durante la settimana non sono state registrate uccisioni di palestinesi o israeliani. Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 70 palestinesi, tra cui 11 minori.

La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: ad Abu Dis (Gerusalemme), contro la recente uccisione di palestinesi; a Ni’lin (Ramallah), contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. I numeri di questa settimana includono sette palestinesi feriti in scontri con le forze israeliane durante una demolizione punitiva.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 26 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, ferendo un pescatore e arrestandone altri sette, confiscando una barca e distruggendone un’altra. Due degli arrestati sono stati costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, sulle quali sono stati trattenuti in detenzione preventiva.

Le autorità israeliane trattengono ancora i corpi di 16 palestinesi uccisi nel corso di episodi verificatisi negli ultimi sei mesi. Secondo i media israeliani, nel marzo 2015, il Primo Ministro israeliano, ha dato istruzioni alle autorità competenti di fermare, fino a nuova comunicazione, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 74 operazioni di ricerca-arresto; il maggior numero nel governatorato di Hebron (20 operazioni). In totale sono stati arrestati 132 palestinesi; la quota più alta di arresti è stata registrata nel governatorato di Gerusalemme: 66, tra cui 19 minori, soprattutto nella città vecchia di Gerusalemme (23 arresti) e nel quartiere di Al ‘Isawiya (23 arresti, tra cui 15 minori).

Durante la settimana, le forze israeliane hanno chiuso il checkpoint di Al Jalama (Jenin), impedendone l’attraversamento a piedi ai lavoratori palestinesi; il checkpoint è tuttavia rimasto aperto per il movimento dei veicoli. Per diverse ore è stata chiusa anche la strada tra Azzun (Qalqiliya) e Jit (Nablus) mentre era in corso una marcia di coloni israeliani, tenutasi tra gli insediamenti di Karnei Shomron e Kedumim. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di polizia e ordini giudiziari che vietano, per 15 giorni, a 24 palestinesi di entrare nella Spianata delle Moschee/Monte del Tempio; ad altri cinque è stato vietato, fino a 10 giorni, di entrare a Gerusalemme. I provvedimenti sono motivati dal fatto che gli interessati sono stati implicati in proteste contro l’ingresso nel Complesso di coloni israeliani e di altri gruppi israeliani. Secondo i media israeliani, in seguito a presunte violazioni delle prescrizioni imposte da Israele, a due israeliani è stato proibito l’ingresso nel Complesso ed almeno altri 13 ne sono stati allontanati.

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le autorità israeliane hanno effettuato una demolizione punitiva contro la casa di famiglia di un palestinese sospettato di aver ucciso, il 25 gennaio 2016, una colona israeliana. Di conseguenza, è stata sfollata una famiglia di otto persone, di cui cinque minori. Nel mese di novembre 2014, il coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale”. Inoltre, nella zona di Sur Bahir di Gerusalemme Est, per la mancanza di un permesso di costruzione rilasciato da Israele, le autorità israeliane hanno costretto una famiglia ad auto-demolire un ampliamento della loro casa.

Questa settimana sono stati registrati due attacchi di coloni con conseguenti danni materiali: ad Husan (Betlemme), il danneggiamento di circa 7 ettari di terra agricola palestinese inondata da acque di scolo, pompate dall’insediamento colonico di Betar Illit; a Far’ata (Qalqiliya), il furto di attrezzi agricoli. Segnalato inoltre, non incluso nel conteggio, il ferimento di due palestinesi, di cui uno in modo grave, investiti da veicoli con targa israeliana. In uno dei due casi si trattava di un minore al quale le forze israeliane hanno prestato i primi soccorsi.

Una carrozza della metropolitana leggera, nell’attraversamento del quartiere di Shu’fat, a Gerusalemme Est, è stata colpita e danneggiata da una pietra (o bottiglia) lanciata, si sospetta, da palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, continua a restare chiuso in entrambe le direzioni da ormai 70 giorni consecutivi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare 30.861 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 aprile, una 23enne madre di due figli e il fratello 16enne sono stati uccisi dalle forze israeliane al checkpoint di Qalandiya a Gerusalemme, in circostanze poco chiare. I corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme

13 aprile 2016 -* Al-Shabaka e Ma’an News

 

Di : Munir Nuseibah

Israele è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi, approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi momentanee per promuovere misure permanenti.

Ora sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da Gerusalemme est.

Questo nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani, oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele. Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).

Queste misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire” la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto. Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in una nuova campagna.

I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”

La continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana, ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace iniziato nei primi anni ’90.

I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza, prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei con doppia cittadinanza americana e israeliana.

Di conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero. Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.

Per dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.

Nel 1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il “centro della sua vita” non era più in Israele.

Dopo questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti. Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della vita”.

Questi due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di Gerusalemme è diventata a rischio.

Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”

L’ultimo punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese (CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme, nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.

Tuttavia il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre), che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà” verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro gerosolimitani.

Quindi non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita” in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui residenza è stata revocata nel 2006.

Nessuno sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa informazione.

Vale la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi, giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai palestinesi.

Da una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.

Resistere alla politica di espulsione forzata

La lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da Gerusalemme.

Inoltre non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della residenza a Gerusalemme.

La maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e non un territorio occupato.

Israele deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.

Di fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai professionisti dei diritti umani.

La campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se, tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.

Istituzioni pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile, dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse la sensazione di essere sotto esame.

Rimane da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo, comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi, organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case. Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

*Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha della settimana 5- 11 aprile 2016

Per la seconda settimana consecutiva non sono stati registrati morti palestinesi o israeliani nel contesto di aggressioni o scontri.

Dal mese di ottobre 2015, quando ebbe inizio l’esplosione di violenza, questo è il periodo più lungo senza morti.

Nei Territori palestinesi occupati le forze israeliane hanno ferito 104 palestinesi, tra cui 17 minori; la maggior parte (82%) in scontri verificatisi nel corso di manifestazioni. Il maggior numero di ferimenti (45) registrato nel corso di un singolo episodio è avvenuto nel villaggio di Duma (Nablus), causati dalle forze israeliane intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani che, secondo quanto riferito, marciavano verso il villaggio per esprimere solidarietà al colono israeliano sotto processo per l’attacco incendiario che, nel luglio 2015, provocò la morte di tre membri di una famiglia palestinese.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 37 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco ferendo un pescatore e un contadino; altri sei palestinesi sono stati arrestati. In almeno sei occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno spianato terreni ed effettuato scavi. L’8 aprile, un veicolo delle forze israeliane che era entrato in un’area ad est della città di Gaza, ha subito danni a seguito dell’esplosione di un ordigno. Il 10 aprile, nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, vi è stato uno scambio di colpi tra palestinesi e forze israeliane; non sono state segnalate vittime.

In tre episodi verificatisi a Gerusalemme Est e Nablus sono rimasti feriti tre israeliani, tra cui una donna. A Gerusalemme Est e nei governatorati di Betlemme ed Hebron, il veicolo di un colono israeliano, un autobus e una carrozza della metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni per lancio di pietre da parte di palestinesi. Il 5 aprile, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in seguito ad un episodio di lancio di pietre, coloni israeliani hanno effettuato una dimostrazione, nel corso della quale, attraverso altoparlanti, hanno invitato i negozianti a chiudere i loro esercizi. Le forze israeliane hanno poi costretto negozi e botteghe a chiudere per diverse ore.

L’Avvocato Generale Militare di Israele (MAG) ha annunciato la chiusura delle indagini nei confronti di un alto ufficiale che, il 3 luglio 2015, sparò e uccise un 17enne palestinese, sospettato del lancio di pietre contro il suo veicolo. Il MAG ha accolto il ricorso dell’ufficiale che, secondo i media, mirò alle gambe del giovane ma, per errore, lo colpì nella parte superiore del corpo. Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha condannato la decisione e ha espresso preoccupazione per la “impunità” riguardante l’uccisione di palestinesi.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 ei 25 anni di età attraverso due posti di blocco che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron sotto controllo israeliano. Questo provvedimento, in vigore dal 22 marzo, si aggiunge ad altre rigide restrizioni, vigenti da ottobre 2015, sull’accesso dei palestinesi a tale zona. Sempre nella zona H2, una ragazza palestinese è stata investita dall’auto di un colono israeliano che è fuggito senza prestare soccorso.

L’11 aprile, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno punitivamente sigillato la casa di famiglia di un palestinese sospettato di essere coinvolto in un caso di lancio di pietre che, nel mese di settembre 2015, ha provocato la morte di un colono israeliano; due membri della famiglia del sospettato sono stati sfollati. La Corte Suprema israeliana ha accettato il ricorso di altri tre palestinesi sospettati del coinvolgimento nello stesso caso e ha revocato l’ordine che avrebbe comportato la demolizione o sigillatura delle loro case. Dall’inizio dell’anno, le autorità israeliane hanno demolito o sigillato per motivi punitivi 12 abitazioni ed altre strutture, sfollando 64 persone, tra cui 27 minori. Questa pratica è in contrasto con una serie di disposizioni del diritto internazionale, tra cui il divieto di sanzioni collettive.

Per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, e in un caso costretto i proprietari ad auto-demolire, 71 strutture, 23 delle quali fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, un totale di 159 palestinesi, tra cui 75 minori, sono stati sfollati e altri 326 sono stati in vario modo coinvolti. L’episodio più consistente (34 strutture demolite su 71) si è verificato nella comunità pastorizia di Khirbet Tana (Nablus), che si trova in una zona designata [dalle autorità israeliane] come “zona militare per esercitazioni a fuoco”; qui sono stati 69 i palestinesi sfollati (di cui 49 minori). Dall’inizio dell’anno, questa è la quarta ondata di demolizioni che colpisce questa comunità. Dopo l’episodio appena citato, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha espresso allarme per il rischio di trasferimento forzato che minaccia la comunità. Delle 71 strutture citate, 16 sono state demolite in cinque comunità beduine che vivono nel governatorato di Gerusalemme, in una zona assegnata per l’espansione dell’insediamento di Ma’ale Adumim (piano di colonizzazione E1); l’espansione creerebbe un’area edificata continua tra l’attuale insediamento e Gerusalemme Est. Queste 16 demolizioni hanno causato lo sfollamento di 55 beduini palestinesi, tra cui 31 minori. Le 586 strutture demolite o confiscate nel 2016, già oggi superano il totale di quelle demolite o confiscate nell’intero 2015 (547).

Per la seconda settimana consecutiva, le autorità israeliane hanno continuato ad impedire l’importazione in Gaza di cemento per il settore privato, affermando che [in consegne precedenti] una notevole quantità di cemento era stata dirottata rispetto ai destinatari autorizzati. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del Meccanismo per la Ricostruzione di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte in [corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti originali considerano

conosciute dai lettori abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 29 marzo- 4 aprile

Per la prima settimana, da quasi sei mesi, non sono state registrate vittime, né palestinesi né israeliane. Ottantotto palestinesi, tra cui 18 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nei Territori palestinesi occupati.

La maggior parte delle lesioni (76%) sono state registrate il 30 marzo, durante le dimostrazioni per ricordare la “Giornata della Terra”, compresi sei ferimenti presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza; seguono le lesioni nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime comprendono incursioni in Azzun ‘Atma (Qalqiliya) e Ya’bad (Jenin), con conseguenti danni materiali e confisca di due veicoli, e un blitz in una scuola a Ras Al Amud, a Gerusalemme Est. 30 gli episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare di Gaza: feriti due palestinesi a 350 metri dalla recinzione. Inoltre, le forze navali israeliane hanno cannoneggiato una barca da pesca ad ovest della città di Rafah, distruggendola completamente.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 e i 25 anni attraverso due checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, in materia di accesso dei palestinesi a questo settore. Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno rimosso le restrizioni che erano state imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme) e che avevano impedito l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti; tali restrizioni furono imposte in seguito ad un attacco palestinese contro soldati israeliani vicino a Salfit, nel corso del quale i presunti responsabili furono uccisi. Le forze israeliane hanno riaperto anche l’ingresso occidentale della città di Hebron, che si raccorda alla strada 35 e al checkpoint commerciale di Tarqumiya.

Il 31 marzo e il 4 aprile, nella città di Hebron e Qabatiya (Jenin), le autorità israeliane hanno effettuato quattro demolizioni punitive contro le case di famiglia di presunti autori di due attentati verificatisi nel mese di dicembre 2015 e febbraio 2016. Conseguentemente 21 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati e tre strutture adiacenti alle abitazioni demolite hanno subito danni; inoltre, nel corso degli scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane durante due delle demolizioni, sono stati registrati 15 feriti. Dal gennaio 2016, 12 strutture sono state demolite per motivi punitivi, sfollando 62 persone, tra cui 27 minori. Nel mese di novembre 2015, il Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati richiese di porre termine a tale pratica, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, perciò vietate dal diritto internazionale”.

Per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 36 strutture. Come risultato, 28 palestinesi, tra cui 11 minori, sono stati sfollati e altri 110 risultano coinvolti. Di queste strutture, 16 si trovavano a Gerusalemme Est, 5 nel governatorato di Ramallah, 5 nel governatorato di Gerico, 4 nel governatorato di Jenin, 4 nel governatorato di Nablus, 2 nel governatorato di Hebron. Di queste strutture 4 erano state finanziate da donatori, tra cui una strada agricola di due chilometri, in Qaryut. Nel villaggio di Jinba, situato nell’area di Masafer Yatta, designata dalle autorità israeliane come “zona militare per esercitazioni a fuoco”, le forze israeliane hanno sequestrato circa 160 pecore per il fatto che pascolavano nei pressi della “Linea Verde” (la Linea di Armistizio del 1949). Nel 2016, ad oggi [in circa tre mesi], sono già state effettuate 513 demolizioni, pari al 94% di tutte le demolizioni effettuate nell’arco del 2015 (547).

Il 23 marzo, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), le forze israeliane hanno occupato una casa abitata, convertendola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare; ne risultano colpite tre famiglie di 25 membri, tra cui 19 minori. Secondo il proprietario, le forze israeliane sostengono che, da quella zona, palestinesi abbiano lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani.

Nel governatorato di Hebron, il veicolo di un colono israeliano ha subito danni dal lancio di pietre, si sospetta, da parte di palestinesi. Durante la settimana, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in due occasioni, le forze israeliane hanno costretto circa 250 negozi a chiudere per diverse ore, in risposta a presunti lanci di pietre, verificatisi nella zona, ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, lungo la strada Ramallah-Nablus, un veicolo palestinese ha subito danni in seguito a lanci di pietre. Inoltre, sono stati registrati almeno tre episodi di intimidazione che avevano lo scopo di allontanare dei pastori, tra cui due minori, dai pascoli circostanti le colonie israeliane di Yitzhar (Nablus), Mitzpe Yair (Hebron) e Carmelo (Hebron).

Il 3 aprile 2016, le autorità israeliane, pur mantenendo le attuali 6 miglia nautiche quale limite di pesca lungo la costa settentrionale della Striscia di Gaza, hanno ampliato da 6 a 9 miglia nautiche la zona di pesca lungo la costa meridionale. Le restrizioni sono in corso dal 1999, ma dal 2013 Israele, attraverso arresti, utilizzo del “fuoco di avvertimento” e confisca/distruzione di strumenti di lavoro, aveva imposto il limite di pesca a 6 miglia nautiche lungo l’intera costa di Gaza e una “zona vietata” di 1,5 miglia nautiche lungo i confini marittimi settentrionali tra le acque di Gaza e quelle di Israele. Gli accordi di Oslo* (1993-1995) prevedevano un limite di pesca di 20 miglia nautiche. Oltre 35.000 palestinesi dipendono da questo settore per il loro sostentamento.

* nota di Assopace: gli Accordi di Oslo (1993-1995, conclusi a Oslo e firmati a Washington) furono la conclusione di una serie di negoziati condotti tra il Governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione Palestina) come avvio di un processo di pace. Alla presenza di Bill Clinton, la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sanciva gli accordi.

A partire dal 3 aprile, le autorità israeliane hanno sospeso l’importazione di cemento in Gaza per il settore privato, affermando che una notevole quantità del medesimo non era stata consegnata ai destinatari autorizzati, ma era stata dirottata. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del GRM (Meccanismo di Ricostruzione di Gaza).

Dal 26 marzo, a causa della mancanza di carburante, la Centrale elettrica di Gaza è stata costretta a ridurre del 50% l’attività (la potenza è stata limitata a 35 MW), determinando una media giornaliera di 18 ore di interruzione di corrente. Al momento l’erogazione dei servizi di base, tra cui la sanità e l’acqua, avviene solo grazie alla distribuzione di combustibile per far funzionare i generatori di emergenza degli enti erogatori.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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