Soldati israeliani: a Gaza tutti erano considerati terroristi

 

 

Un gruppo di soldati: Nella guerra di Gaza l’IDF  ha supposto che chiunque fosse un terrorista

L’organizzazione “Breaking the Silence “ [Rompere il silenzio] afferma che l’adozione del principio di rischio minimo per i soldati ha comportato più vittime civili.

 

Di Gili Cohen, 4/5/2015

Haaretz

“Breaking the Silence” ha aspramente criticato l’esercito israeliano [IDF, Israeli Defence Forces] per la sua strategia operativa nella guerra a Gaza della scorsa estate, sostenendo che ha comportato “un danno enorme e senza precedenti alla popolazione civile ed alle infrastrutture nella Striscia di Gaza”.

L’organizzazione di veterani dell’esercito ha pubblicato un rapporto con le testimonianze di 60 soldati ed ufficiali dell’IDF coinvolti nell’operazione Margine Protettivo di luglio e agosto dell’anno scorso. Secondo questo gruppo, le testimonianze segnalano un principio generale che ha ispirato l’intera operazione militare: il minimo rischio per le forze israeliane, anche quando ciò significasse perdite civili.

Le regole d’ingaggio stabilivano fondamentalmente che “chiunque si trovasse in un’area [operativa] dell’IDF, che l’esercito aveva occupato, non era un civile. Questo era il criterio”, ha affermato uno dei soldati.

Un carrista ha riferito che, a un certo punto, si è capito che tutte le case in cui le forze israeliane erano entrate e che avevano utilizzato sarebbero poi state distrutte da grossi bulldozer D9. “In nessun momento fino alla fine dell’operazione….nessuno ci ha detto quale utilità operativa avesse la distruzione delle case”, ha detto. “ Durante un colloquio i comandanti dell’unità hanno spiegato che non si trattava di un atto di vendetta. A un certo punto ci siamo resi conto che era una costante. Si abbandona una casa e la casa non c’è più. Arriva il D9 e la demolisce.”

Un altro soldato ha aggiunto: “C’era un comandante di alto grado che amava veramente i D9 e era proprio favorevole alle distruzioni; li ha utilizzati parecchio. Basta dire che quando lui si trovava in un certo luogo, tutte le infrastrutture intorno all’edificio venivano totalmente distrutte – quasi ogni casa era colpita da una granata.”

Un soldato di fanteria ha ricordato un incidente in cui un militare ha identificato due figure sospette che camminavano in un frutteto, distante poche centinaia di metri. Le sentinelle non potevano identificarle immediatamente, per cui è stato inviato un drone per fare un sopralluogo. Si trattava di due donne che attraversavano il frutteto, parlando ai cellulari. “L’aereo le ha prese di mira e le ha uccise”, ha detto. Un comandante di blindati che è arrivato in seguito per perlustrare l’area ha trovato i corpi delle due donne, che avevano entrambe più di 30 anni ed erano disarmate.

Secondo il soldato, il fatto che le donne avessero in mano solo i cellulari è stato riferito al comandante del battaglione. Nonostante questo, nei rapporti scritti in seguito, le donne vennero classificate come “terroriste” – vedette che stavano operando nella zona. “Il comandante se n’è andato e noi abbiamo proseguito. Loro sono state contate tra i terroristi. Sono state uccise, quindi è chiaro che erano terroriste”, ha detto.

Sono stati riportati numerosi altri casi relativi all’uccisione di civili. Ad una donna chiaramente malferma e che non costituiva minaccia è stato ingiunto dal comandante di divisione di dirigersi ad ovest, verso una zona dove erano fermi dei carri armati. Quando si è avvicinata ai mezzi corazzati, è stata mitragliata a morte. (Pare che questo sia uno degli incidenti su cui sta indagando la polizia militare.)

Un altro soldato che combatteva nel nord di Gaza ha riferito di un vecchio ucciso un pomeriggio quando si è avvicinato ad un militare. Precedentemente i militari erano stati avvertiti di stare attenti ad un uomo anziano che avrebbe potuto portare con sé delle granate. “Il ragazzo che era di guardia – io non so che cosa gli sia successo; ha visto un civile, gli ha sparato, e non lo ha ucciso subito. L’uomo giaceva a terra contorcendosi dal dolore”, ha detto il soldato.

Un altro soldato che ha riferito lo stesso incidente ha detto che un altro militare alla fine ha sparato all’uomo uccidendolo. “Nessun sanitario ha voluto avvicinarglisi (per paura che potesse avere addosso degli esplosivi)”, ha spiegato. “Era chiaro a tutti che potevano accadere due cose: o lo lasciavamo morire lentamente, o ponevamo termine alla sua agonia. Alla fine, hanno posto termine alla sua agonia. E’ arrivato un D9, lo ha ricoperto di terra e ed è finita così.”

Le dettagliate testimonianze contenute nel rapporto includono altre pratiche adottate da alcune unità durante l’operazione “Margine Protettivo”. Un carrista ha riferito che dopo la morte di un compagno di plotone il comandante ha annunciato che dovevano sparare una raffica di colpi in sua memoria. “Colpi come si sparano ai funerali, ma con proiettili e contro le case. Non si trattava di colpi sparati in aria. Dovevi solo scegliere dove sparare. Il comandante ha spiegato: ‘Scegliete la casa più lontana, gli farà più male.’ Era una forma di vendetta”, ha detto.

Un altro carrista ha detto che dopo tre settimane di combattimento si è creata una competizione tra i componenti della sua unità – su chi sarebbe riuscito a colpire dei veicoli in movimento su una strada su cui transitavano auto, camion e anche ambulanze.

“Quindi ho visto un veicolo, un taxi, ed ho cercato di colpirlo ma l’ho mancato”, ricorda. “Sono arrivati altri due veicoli ed io ho tentato un paio di altri colpi, ma non ci sono riuscito. Allora il comandante è arrivato e ha detto ‘Dai, smettila, stai sprecando tutti i colpi. Finiscila’. Allora siamo andati verso la mitragliatrice”, ha aggiunto.

Ha detto che aveva capito che stava sparando a civili. Interrogato a questo proposito, ha detto: “Penso, in fondo, che questo mi abbia un po’ turbato. Ma dopo tre settimane a Gaza, quando spari a qualunque cosa si muova, ed anche a ciò che non si muove, ad un ritmo psicotico, tu non….il bene e il male si confondono un po’, la tua moralità incomincia a svanire e perdi la bussola. Diventa un video gioco. Davvero, davvero tranquillo e realistico.”

Traduzione di Cristiana Cavagna




Secondo l’ONU Israele a Gaza ha colpito scuole e rifugi

Da un’inchiesta risulta che Israele è responsabile di aver colpito scuole e rifugi delle Nazioni Unite a Gaza

 

Ban Ki-moon condanna gli attacchi, compreso quello alla scuola delle Nazioni unite, in cui furono uccise 20 persone e ferite dozzine, qualificandoli “ questione di estrema gravità”

Peter Beaumont, Gerusalemme

The Guardian – Lunedì 27 aprile 2015

Israele è responsabile per aver colpito sette siti delle Nazioni Unite utilizzati come rifugi per i civili durante la guerra di Gaza del 2014, azione in cui sono morti 44 palestinesi e 227 sono rimasti feriti:

questa la conclusione di un’inchiesta ordinata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.

Presentando il rapporto lunedì, Ban ha condannato gli attacchi definendoli “una questione di estrema gravità” e ha detto che “coloro che hanno confidato di essere al sicuro e che hanno chiesto e ottenuto riparo in quei luoghi si sono viste negare le loro speranze e la loro fiducia.” Ban ha ribadito che i siti ONU erano “inviolabili”.

Il problema è particolarmente delicato in quanto la posizione delle strutture dell’ONU – comprese le scuole usate come rifugi – viene regolarmente comunicata all’esercito israeliano ed aggiornata in tempo di guerra. Le critiche di Ban sono state pubblicate in una lettera che riassumeva un rapporto interno riservato di 207 pagine, commissionato dal Segretario Generale a novembre.

In questa lettera Ban accusa anche gruppi di miliziani palestinesi per aver messo a rischio alcune scuole dell’ONU a Gaza nascondendo armi in tre luoghi che non erano usati come rifugi.

“Sono sconcertato dal fatto che dei gruppi armati palestinesi abbiano messo a rischio scuole dell’ONU nascondendovi le loro armi”. Ha comunque aggiunto che “le tre scuole dove sono state trovate le armi erano vuote in quel momento e non erano utilizzate come rifugi.”

Diplomatici israeliani hanno fatto pressione sulle Nazioni Unite perché rinviassero la pubblicazione del rapporto fino alla conclusione delle inchieste dello stesso Israele sugli attacchi – condotte dall’avvocato generale dell’esercito israeliano Danny Efroni. L’esercito israeliano a settembre ha avviato cinque inchieste penali sulle proprie operazioni belliche a Gaza, compresi gli attacchi contro alcune scuole delle Nazioni Unite ed un incidente in cui sono rimasti uccisi quattro bambini palestinesi su una spiaggia.

L’inchiesta delle Nazioni Unite, che ha preso in esame sia prove giudiziarie che testimonianze dello staff delle Nazioni Unite a Gaza durante i 50 giorni di guerra della scorsa estate, ha concluso che sette episodi erano attribuibili all’esercito israeliano.

Ban ha aggiunto: “Lavorerò con tutti gli interessati e non risparmierò alcuno sforzo per assicurare che tali incidenti non abbiano mai più a ripetersi.”

Benché il rapporto non abbia valore giuridico, la diffusione delle conclusioni dell’inchiesta avviene in un momento difficile per Israele sulla scena internazionale, a fronte di un crescente isolamento internazionale della sua politica e dopo l’accettazione, all’inizio di questo mese, dell’adesione dell’Autorità Palestinese alla Corte Penale Internazionale.

Gli attacchi alle scuole ONU utilizzate come rifugi sono stati tra gli episodi più controversi della guerra. Il diritto umanitario internazionale – peraltro complesso – esige che le forze attaccanti in aree in cui si trovino dei non-combattenti proteggano i civili e rispettino il principio di proporzionalità, garanzie ancor più tassative quando i civili si trovino sotto protezione ONU.

In uno degli incidenti più gravi, la scuola dell’UNRWA a Jabaliya è stata colpita dal fuoco israeliano, che ha ucciso 20 persone e ne ha ferite decine.

In seguito all’attacco Israele ha sostenuto – anche in un rapporto sull’incidente – che i soldati nei pressi della scuola erano stati presi di mira.

In un altro incidente, in cui l’artiglieria israeliana ha colpito una scuola delle Nazioni Unite a Beit Hanoun, nel cortile sono stati uccisi 15 palestinesi , ed altre decine sono state ferite, mentre attendevano di essere evacuati.

Fonti israeliane hanno inizialmente cercato di insinuare che l’attacco era stato causato da un razzo di Hamas che aveva fallito l’obbiettivo.

L’inchiesta delle Nazioni Unite – distinta da un’inchiesta avviata dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU – è stata condotta dal generale a riposo Patrick Cammaert, ex ufficiale dell’esercito olandese, ed ha incluso esperti militari e legali.

Oltre 2.100 palestinesi, per la maggior parte civili, sono rimasti uccisi durante il conflitto di Gaza lo scorso luglio ed agosto. 67 soldati israeliani e 6 civili sono stati uccisi in Israele dai razzi e dagli attacchi di Hamas e di altri gruppi di miliziani.

I contenuti in dettaglio della commissione d’inchiesta sono riservati e solo la lettera di Ban è stata resa pubblica. Ammettendo che il rapporto è di “notevole interesse”, egli ha affermato di aver preso la decisione di pubblicare una sintesi dei risultati dell’inchiesta.

Il rapporto contiene analisi sulle armi, relazioni mediche, fotografie e materiale filmato, dichiarazioni e testimonianze sia dello staff delle Nazioni Unite che di altre organizzazioni.

Ban ha ringraziato Israele per la cooperazione nella stesura del rapporto e per aver permesso agli inquirenti di entrare a Gaza. Egli ha scritto: “Deploro il fatto che almeno 44 palestinesi siano stati uccisi dalle azioni di Israele ed almeno 227 siano stati feriti in edifici delle Nazioni Unite utilizzati come rifugi di emergenza. Gli edifici delle Nazioni Unite sono inviolabili e dovrebbero essere luoghi sicuri, soprattutto in situazioni di conflitto armato.”

Ha aggiunto: “Rilevo che questa è la seconda volta nel corso del mio mandato di Segretario Generale in cui sono stato costretto a nominare una commissione d’inchiesta su incidenti che hanno coinvolto edifici e personale delle Nazioni Unite a Gaza, verificatisi durante i tragici conflitti nella Striscia di Gaza.”

“Ancora una volta devo sottolineare la mia profonda e costante preoccupazione per la popolazione civile della Striscia di Gaza e di Israele, ed il loro diritto a vivere in pace e sicurezza, libere dalle minacce di violenza e terrorismo.”

Quando Ban ha visitato Gaza in ottobre, ha affermato che la distruzione era “indescrivibile” e “molto più grave” di ciò di cui era stato testimone nel territorio palestinese nel 2009 dopo la precedente guerra tra Israele e Hamas.

Ban ha detto lunedì di aver nominato un gruppo di alti funzionari per occuparsi delle raccomandazioni dell’inchiesta. Diverse questioni non sono state affrontate nella sintesi del rapporto, non ultimo il problema di quali comunicazioni esistevano tra il personale delle Nazioni Unite e l’esercito israeliano, in particolare prima dell’attacco alla scuola di Beit Hanoun, quando lo staff delle Nazioni Unite risulta aver comunicato alle forze armate israeliane l’intenzione di portare via con degli autobus i civili che aspettavano di essere evacuati al momento dell’attacco.

Senza spiegazione è anche il perché le forze armate israeliane abbiano colpito luoghi protetti in assenza di condizioni di immediata necessità di autodifesa, benché fossero a conoscenza della concentrazione di civili che vi avevano trovato rifugio.

Chris Gunnes, portavoce dell’UNRWA, che gestisce le scuole delle Nazioni Unite a Gaza, ha detto: “L’inchiesta ha rilevato che, nonostante diverse comunicazioni all’esercito israeliano delle precise

coordinate GPS delle scuole e sulla presenza di sfollati, in tutti i sette casi indagati dallaCommissione d’Inchiesta in cui le nostre scuole sono state colpite direttamente o nelle immediate vicinanze, l’attacco è attribuibile all’esercito israeliano (IDF).

“La Commissione conferma l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di armi quali proiettili anticarro da 120 mm e proiettili da 155 mm sull’area delle scuole dell’UNRWA o nelle sue vicinanze, dove dei civili avevano trovato rifugio. Negli incidenti esaminati almeno 44 persone sono state uccise e 227 ferite, comprese donne e bambini. In nessuna delle scuole colpite direttamente o nelle immediate vicinanze sono state trovate armi o sono stati sparati colpi. Se venisse confermato che dei miliziani hanno sparato razzi dalle nostre scuole noi lo condanneremmo, come abbiamo fermamente condannato altre violazioni della nostra neutralità.”

“I risultati dell’inchiesta del Segretario Generale sono perfettamente coerenti con le dichiarazioni dell’UNRWA secondo cui noi non abbiamo consegnato nessun’arma ad Hamas. La Commissione d’Inchiesta non ha trovato alcuna prova che lo abbiamo fatto. La Commissione d’Inchiesta ha rilevato che dopo la prima scoperta i responsabili dell’UNRWA hanno riferito delle armi alle autorità locali ed hanno chiesto che venissero rimosse. Entro pochi giorni dalla prima scoperta, senza precedenti, l’ONU ha messo in atto un meccanismo per occuparsi delle armi e al momento della terza scoperta erano disponibili degli esperti internazionali.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




Guerre per l’energia in Medio Oriente

Michael SchwartzMEE

Giovedì 26 febbraio 2015

In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas, con le distruzioni che probabilmente comporteranno.

 

Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche

Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di catastrofiche crisi ambientali.

Tra i vari conflitti legati alle fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire persino gli israeliani.

Le guerre per le risorse, ovviamente, non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni ’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la Russia.

 

La storia avvelenata del gas naturale di Gaza

Nel lontano1993, quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano, nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì. Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.

BG promise di finanziare e gestire il loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas sufficiente a coprire le loro necessità.

Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi fossero usati per “finanziare il terrorismo.”

Con questo, gli accordi di Oslo erano ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.

Il veto israeliano portò all’intervento del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi contro Israele.

Questo accordo non aveva ancora soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”

Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).

Quando i palestinesi rifiutarono di nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza, nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso del partito radicale islamista.”

In base a questa logica, nell’inverno del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant, il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era “rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da cui vengono sparati razzi contro Israele.”

L’operazione “Piombo fuso” ha effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400 palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo, lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui giacimenti di gas a Israele.”

 

Più fonti di gas uguale più fonti di guerra

Nel 2009 il neoeletto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da decenni.

Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano, Siria, Cipro e dei palestinesi.

In altre parole, questo immenso giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni violente.”

Nei tre anni che hanno fatto seguito alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del 2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe “permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro” di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.

Il ministro israeliano delle Risorse ha accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma anche il diritto marittimo internazionale.”

Terzian, giornalista esperto nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello scontro:

In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”

Sufficientemente sicuro, Israele ha continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi, schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal 2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah.

Tuttavia Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa territoriale di lunga durata con Israele.”

Dall’inizio del 2015 è sembrato che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione, nessuna attività è iniziata.

Nel frattempo in Siria, dove la violenza si è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti, è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria. Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.

Mentre la presenza russa ha apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato, come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza militare israeliana sulle Alture del Golan.

E poi c’è Cipro, l’unico Paese che rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti.

Di conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in modo incommensurabile le tensioni.

 

Gaza, ancora e ancora

Ricordate il sistema “Iron Dome”, sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque “capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele.”

L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e infiammabili.

Il fallimento dell’operazione “Eco di ritorno” per mettere tutto posto ha dato il via a un’altra serie di negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale. Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di Israele.

Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47% nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione. Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.

Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato (forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia, è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture energetiche previste.

 

Senza fine

Dopo 25 anni e cinque tentativi militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni che probabilmente porteranno.

-Michael Schwartz, un eminente docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare l’Iraq.

Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

(traduzione di Amedeo Rossi)