La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I lacrimogeni devastano le condizioni di vita a Gaza

Amjad Ayman Yaghi

6 novembre 2019 – The Electronic Intifada

Attraverso le sue fotografie Atia Darwish ha documentato come, nonostante il fatto di essere sottoposta a un brutale blocco israeliano, la gente di Gaza riesca ancora a trovare momenti di gioia.

La sua immagine di bambini palestinesi che mangiano un’anguria in spiaggia è stata ospitata in un’esposizione all’aperto che in settembre ha circolato in Libano.

Molti di quelli che si sono meravigliati dell’immagine probabilmente non erano a conoscenza del fatto che l’uomo che l’ha fotografata attualmente non può lavorare. Darwish ha perso parzialmente la vista – indispensabile per un fotografo – a causa di ferite inflittegli da Israele.

Il 14 dicembre dello scorso anno Darwish stava lavorando durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno nella zona orientale di Gaza. Stava scattando foto da circa mezz’ora quando è stato ferito da un candelotto lacrimogeno.

Darwish ha perso conoscenza. Quando l’ha riacquistata, si è ritrovato in terapia intensiva all’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Il candelotto lo aveva colpito sotto l’occhio sinistro. Ha perso alcune ossa attorno all’occhio e anche la mascella è stata danneggiata.

L’occhio ha continuato a sanguinare per una settimana e il mio orecchio nei due giorni successivi,” dice.

Darwish teme di non poter recuperare la vista.

Nel febbraio di quest’anno è andato a farsi curare in Egitto. Lì un medico gli ha diagnosticato una fibrosi della retina e ha detto che non è curabile.

Posso solo essere sottoposto ad [un intervento di] chirurgia estetica,” dice Darwish. “Mi sento abbandonato. Il mondo non considera le bombe lanciate contro di noi da Israele come pericolose. Ma possono uccidere persone e i sogni dei nostri giovani.”

Darwish con l’occhio sinistro non può vedere a più di 15 cm. È anche diventato parzialmente sordo.

Il drammatico cambiamento del suo aspetto provocato dalla ferita lo ha scioccato. “Quando sono tornato a Gaza (dall’Egitto), mi sono sentito senza speranza guardando le vecchie foto di me su Facebook e Instagram,” dice. “Non sarò mai più così.”

Darwish spera di riprendere a lavorare come fotografo, facendo affidamento sul suo occhio destro. “Dovrò stare più attento,” afferma.

Non era la prima volta che Darwish veniva colpito da un candelotto lacrimogeno mentre fotografava la Grande Marcia del Ritorno.

Nel luglio dello scorso anno uno di questi candelotti lo ha colpito alla gamba destra. In seguito ha dovuto essere curato per le ustioni.

Non letali?

Le sue ferite sono tutt’altro che rare. Benché l’esercito israeliano descriva i lacrimogeni come “non letali”, queste armi hanno ucciso [dei] palestinesi.

Almeno sette persone sono morte perché colpite da candelotti lacrimogeni sparati da Israele durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziate il 30 marzo 2018. Quattro delle vittime erano minorenni.

Hasan Nofal è morto dopo essere stato colpito a febbraio da un lacrimogeno sparato verso i manifestanti. Aveva solo 16 anni.

Suo padre Nabil sta ancora cercando di capire cosa sia successo.

In un primo tempo, quando ha saputo che Hasan era stato ferito, Nabil non ha pensato che la ferita potesse essere troppo grave. Hasan si trovava ad una distanza sufficiente dalla barriera che separa Gaza da Israele, ha pensato Nabil.

Hasan è morto quattro giorni dopo essere stato portato in ospedale.

Mio figlio era innocente,” dice Nabil. “Israele sa che le bombe che lancia stanno uccidendo persone?”

Mentre la loro tragedia viene spesso ignorata dai mezzi di comunicazione occidentali, i manifestanti sono regolarmente feriti a Gaza. “Al Mezar”, un’organizzazione per i diritti umani, ha informato che solo il 25 ottobre 13 persone che hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno sono state direttamente colpite da candelotti lacrimogeni. Ahmad Ammar, un ventitreenne di al-Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City, è stato colpito da uno di questi candelotti a settembre. La bocca e la guancia destra sono rimaste gravemente ustionate, provocando danni a lungo termine al suo volto.

Ero lontano dalla barriera di confine,” dice Ammar. “Stavo bevendo un succo perché avevo la nausea a causa dei gas lacrimogeni, che hanno un forte odore. Quando ho iniziato lentamente ad allontanarmi ho sentito qualcuno gridarmi di stare attento alle bombe lacrimogene visibili vicino a me. Mi sono girato e improvvisamente sono stato colpito da una di loro.”

Disoccupato

Ammar ha perso conoscenza. “Quando mi sono risvegliato ero in ospedale,” racconta. “Alcuni dei miei amici erano vicino a me. Ho chiesto loro uno specchio per vedere la mia faccia, ma si sono rifiutati di darmelo.”

Ammar era solito vendere ortaggi in un mercato locale. Da quando è stato ferito non è tornato a lavorare. Non può pensare ad altro che alla sua ferita e ad ottenere una terapia correttiva. “Ho bisogno di una chirurgia estetica,” dice. “Sfortunatamente non si può avere a Gaza. Alcuni dottori mi hanno detto che qui non abbiamo le risorse necessarie. E fuori da Gaza è molto cara.”

I lacrimogeni che l’occupazione israeliana spara contro di noi uccidono i nostri sogni e le nostre speranze,” afferma. “Ogni giorno mi alzo e mi vedo allo specchio. Mi sento malissimo.”

Anche Mohammad Fseifes è rimasto disoccupato a causa delle ferite riportate durante una protesta a fine maggio.

Lavorava nelle costruzioni e nell’agricoltura nella zona di Khan Younis a Gaza. Da quando è rimasto ferito non è riuscito a trovare un lavoro.

Da circa cinque mesi ha frequenti dolori alla testa e stenta a dormire. Non si sente sufficientemente bene neppure per giocare a pallone.

Fseifes si trovava nei pressi della barriera di confine quando le truppe israeliane lo hanno colpito con un candelotto lacrimogeno. “Ricordo di essere caduto a terra,” dice. “Sei giorni dopo mi sono svegliato e ho visto mio padre. Ho forti dolori alla testa. Il medico mi ha detto che il mio cranio è stato fratturato.”

Sono molto triste quando mi guardo allo specchio,” aggiunge. “Il medico dice che posso essere operato al cranio, ma solo fuori da Gaza. Non so cosa ne sarà di me.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista con sede a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sta falsificando la storia palestinese e rubando la sua eredità

Nabil Al Sahli

6 novembre 2019 Middle East Monitor

La Palestina è uno dei paesi più ricchi del mondo in termini di antichità, in competizione con l’Egitto nel mondo arabo. Almeno 22 civiltà hanno lasciato il segno in Palestina, la prima delle quali fu quella dei Cananei; presenza che è ancora visibile fino a oggi.

Dal 1948, i governi israeliani che si sono succeduti hanno prestato una particolare attenzione alle antichità che hanno una spiccata identità araba e palestinese. Hanno formato comitati di archeologi israeliani per indagare in ogni parte della Palestina su cui è stato fondato Israele.

L’obiettivo è ancora quello di creare una falsa narrativa storica giudaizzando le antichità palestinesi.

Monumenti storici nelle principali città palestinesi, come Acri, Giaffa, Gerusalemme e Tiberiade, non sono stati risparmiati da questo processo.

Inoltre, Israele ha usato varie istituzioni per giudaizzare la moda palestinese attraverso il furto culturale e la falsificazione del suo patrimonio.

Nemmeno le ricette locali si salvano. Israele ha partecipato a mostre internazionali per mostrare moda e cucina palestinesi etichettate come “israeliane”. È così che l’occupazione israeliana e le “mafie” che vendono oggetti d’antiquariato di valore inestimabili stanno rubando l’eredità e la storia della Palestina risalenti a migliaia di anni fa.

Questo accade in un momento in cui i partiti palestinesi stanno prendendo provvedimenti e chiedono la protezione del loro retaggio, della loro storia e della loro civiltà.

In questo contesto, studi hanno indicato che ci sono più di 3.300 siti archeologici nella sola Cisgiordania occupata. Diversi ricercatori confermano che, in media in Palestina, ogni mezzo chilometro esiste un sito archeologico che indica la vera identità e la storia della terra.

Qui è importante menzionare gli effetti devastanti del muro di separazione israeliano nel futuro delle antichità e dei monumenti palestinesi.

La costruzione in corso del muro sulle terre palestinesi in Cisgiordania porterà infine all’annessione di oltre il 50% del territorio occupato. Comprenderà inoltre oltre 270 importanti siti archeologici, oltre a 2.000 postazioni archeologiche e storiche. Decine di siti e monumenti storicamente importanti sono stati distrutti durante la costruzione del muro.

Studi specializzati sulle antichità palestinesi indicano che, da quando ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel giugno 1967, Israele ha potuto rubare e vendere ancora più manufatti palestinesi dalla Cisgiordania. Questo fenomeno è stato esacerbato dallo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa alla fine di settembre 2000.

Studi palestinesi indicano che la ragione di questa Nakba (catastrofe) in corso è il crollo di qualsiasi sistema per proteggere le aree palestinesi a causa del controllo israeliano. Tale protezione rientra nella gestione diretta dell’occupazione, il che significa sostanzialmente che l’esercito israeliano è libero di distruggere il patrimonio culturale, come è accaduto a Gerusalemme, Nablus, Hebron, Betlemme e altre città e villaggi palestinesi.

Il furto archeologico e la violazione dei siti del patrimonio palestinese sono una delle maggiori sfide che i palestinesi devono affrontare mentre cercano di preservare la loro cultura e presenza fisica nella loro patria, minacciati dalla giudeizzazione e guidati dalle sistematiche politiche israeliane. Dobbiamo sensibilizzare la società palestinese perché affronti questa nuova e vecchia sfida imposta da Israele.

Dobbiamo anche aumentare la nostra capacità di combattere il furto della nostra storia da parte di Israele a livello locale, regionale e internazionale. Ciò può essere rafforzato dalla piena adesione della Palestina alle pertinenti organizzazioni internazionali, compreso l’UNESCO.

La diversità culturale in Palestina risale a migliaia di anni fa. È vergognoso che permettiamo che questo venga cancellato dalla storia, perché Israele cerca “prove” per la sua falsa narrazione dello “stato ebraico”, escludendo le popolazioni indigene.

(Traduzione dallo spagnolo di Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)




Come Israele ridefinisce il diritto internazionale per coprire i suoi crimini a Gaza

Ben White

5 Novembre 2019 – Middle East Eye

L’approccio di Israele al diritto internazionale può essere sintetizzato così: ‘Se fai qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il mondo lo accetterà’.

Da quando Israele, nel 2005, ha evacuato coloni e ha riposizionato le sue forze armate lungo la barriera perimetrale, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a numerose aggressioni devastanti, un blocco e costanti attacchi contro persone come agricoltori e pescatori.

Molte di queste politiche hanno ricevuto pesanti condanne – da parte palestinese ovviamente, ma anche da parte di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali e addirittura da parte di leader e politici mondiali – seppure, purtroppo, raramente accompagnate da azioni concrete a livello di Stati. Israele tuttavia ha cercato di evitare anche solo la possibilità di una significativa assunzione di responsabilità. Il suo approccio è stato molto semplice: di fronte alle critiche per aver violato le leggi, cambia le leggi.

Fornire copertura

Più precisamente, Israele si è impegnato molto a sviluppare e promuovere interpretazioni del diritto internazionale che forniscano una copertura alle sue politiche e tattiche nella Striscia di Gaza.

Nel gennaio 2009, all’indomani di un’offensiva israeliana [operazione Piombo Fuso, ndtr.] che ha portato al rapporto Goldstone commissionato dall’ONU, è stato pubblicato su Haaretz un dettagliato articolo sul lavoro della sezione sul diritto internazionale all’interno dell’ufficio dell’Avvocatura Generale militare. Si tratta dei dirigenti responsabili di controllare (o forse autorizzare) le azioni e le tattiche militari e di fornire la giustificazione legale a tali azioni.

Una delle persone intervistate in quell’articolo era Daniel Reisner, che era stato in precedenza a capo della sezione sul diritto internazionale. “Se fai qualcosa abbastanza a lungo il mondo la accetterà”, ha detto. “Il complesso del diritto internazionale è ora basato sul concetto che un atto vietato oggi diventa accettabile se attuato da un sufficiente numero di Paesi…Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni ad esso.”

È stata la Striscia di Gaza ad essere usata da Israele come laboratorio per simili violazioni “progressive”. Un esempio è dato dallo stesso status di Gaza. Fin dal 2005 la posizione di Israele è stata che Gaza non è né occupata né sovrana, bensì costituisce un’“entità ostile”.

Nel suo recente libro ‘Justice for some’ [Giustizia per alcuni], la studiosa Noura Erakat analizza in dettaglio le implicazioni di una simile definizione, che fa di Gaza “né uno Stato in cui i palestinesi hanno il diritto di governarsi e proteggersi, né un territorio occupato la cui popolazione civile Israele ha il dovere di proteggere.”

Di fatto, Israele ha usurpato il diritto dei palestinesi a difendersi, in quanto non appartengono ad alcuna sovranità embrionale, si è sottratto ai suoi obblighi in quanto potenza occupante ed ha ampliato il proprio diritto a dispiegare la forza militare, rendendo così i palestinesi della Striscia di Gaza tre volte vulnerabili”, ha sottolineato Erakat.

Intento deliberato

La pretesa che la Striscia di Gaza non sia più occupata è ovviamente errata, non ultimo perché Israele ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio. Le sue forze armate entrano quando vogliono per terra e per mare e Israele ha il controllo sullo spazio aereo di Gaza, sullo spettro elettromagnetico [cioè sulle frequenze per le telecomunicazioni, ndtr.], sulla maggior parte dei movimenti in entrata e uscita e sull’anagrafe – oltre al blocco tuttora in corso.

La Striscia di Gaza è soltanto una parte del territorio palestinese occupato, che, insieme alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme est), costituisce un’unica entità territoriale. Lo status di Gaza come occupata dal 2005 è stato quindi sancito da molte istituzioni importanti, compreso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La “creatività” giuridica dei dirigenti israeliani è dimostrata molto spesso da alcune delle tattiche adottate dall’esercito israeliano durante gli attacchi.

Nell’offensiva israeliana su Gaza del 2014 [operazione Margine Protettivo, ndtr.], 142 famiglie palestinesi hanno subito l’uccisione di tre o più membri nel corso dello stesso incidente. Questi numeri impressionanti sono stati in parte il risultato della scelta di Israele di prendere di mira decine di case di famiglie palestinesi, oltre a quelle colpite in seguito a bombardamenti indiscriminati.

La chiave di lettura è la decisione da parte di Israele che qualunque (presunto) membro di una fazione armata palestinese fosse un obbiettivo legittimo, anche quando non partecipava alla lotta – cioè era a casa con la famiglia – e che i membri della famiglia diventassero legittimi “danni collaterali” sulla base della presenza di un sospetto nella casa (tra l’altro, anche se quella persona non era in realtà in casa in quel momento). Come ha detto un ufficiale israeliano: “Voi la chiamate casa, noi la chiamiamo centrale operativa.”

Vittime civili

Nonostante il fatto che in base al diritto internazionale Israele dovesse dimostrare che ogni struttura presa di mira svolgeva una funzione militare, come ha specificato l’associazione per i diritti B’Tselem, “nessun comandante ha sostenuto che ci fosse alcuna connessione tra una casa presa di mira e una specifica attività militare in quel luogo.”

Perciò le spiegazioni dell’esercito israeliano per la distruzione delle case è apparsa “nient’altro che una mistificazione della reale ragione della distruzione, cioè l’identità degli abitanti” – il che significa che queste sono state “demolizioni punitive di case…condotte da aerei, mentre gli abitanti erano ancora all’interno”.

Un’altra tattica utilizzata dall’esercito israeliano è la diffusione di “avvisi” ai civili, sia attraverso il telefono che con messaggi a specifici edifici, o con volantini lanciati su interi quartieri. Israele presenta questa tattica come una prova del fatto che fa il possibile per evitare vittime civili, anche se questi avvertimenti sono di fatto un obbligo piuttosto che “buone azioni”.

È ovvio che fondamentalmente questi avvisi non privano gli abitanti civili dello status di persone sotto protezione. Tuttavia ci sono sufficienti prove che indicano che questa non è una posizione condivisa all’interno dell’esercito israeliano.

Nel citato articolo di Haaretz del 2009 un comandante ha detto: “Le persone che entrano in una casa nonostante un avviso non devono essere annoverate nel conto dei danni a civili, poiché sono scudi umani volontari. Dal punto di vista legale non devo preoccuparmi per loro.”

Quindi, con una deformazione sconcertante, mentre gli avvisi sono presentati come modo per minimizzare le vittime civili, in realtà servono ad agevolare gli attacchi e possono anche aumentare il numero di morti.

Normalizzare l’illegalità

Questi sono solo alcuni esempi di come Israele cerca di normalizzare ciò che è illegale, con due obbiettivi. Si noti che è stato dopo la pubblicazione del rapporto Goldstone che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu “ha dato ordine ai dirigenti del governo di elaborare proposte per modificare il diritto internazionale di guerra.”

Le “innovazioni” di Israele nel diritto internazionale sono quindi tese a facilitare la sempre più brutale soppressione di palestinesi sul terreno, mentre a livello internazionale queste interpretazioni sono avanzate sia per confondere le acque nei consessi giuridici sia, in ultima analisi, per ottenere l’appoggio da di altri Stati terzi.

È importante ricordare che il problema della responsabilità è precedente agli sviluppi più recenti. Israele ha a lungo violato il diritto internazionale e giustificato in termini giuridici certe politiche – dalla confisca della terra nei territori occupati all’insediamento di colonie.

Questo ci aiuta a capire che il problema centrale è politico – e che la risposta a come contestare l’impunità e resistere alle interpretazioni “innovative” delle leggi da parte di Israele è la stessa: la pressione politica.

Un fallimento su questo fronte verrà percepito molto pesantemente dai più vulnerabili: i palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è autore di ‘Apartheid israeliano: una guida per i neofiti’ e di ‘Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia’. Scrive per Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Twitter censura le notizie dalla Palestina

Ali Abunimah

4 novembre 2019 – Electronic Intifada

Twitter ha cancellato, senza preavviso o motivazioni, gli account di Quds News Network, un’importante rete di notizie palestinesi.

Twitter non ha fornito nessun chiarimento sul perché nel fine settimana abbia cancellato gli account di Quds News Network , un importante organo di informazione palestinese.

Questo allarmante atto di censura è un’ulteriore segnale della complicità delle principali compagnie di social media nei tentativi di Israele di nascondere notizie e informazioni riguardanti i suoi abusi nei confronti dei diritti dei palestinesi.

Lunedì QNN ha rivelato che sabato mattina i suoi quattro principali account sono stati sospesi senza preavviso o motivazioni.

La QNN ha dichiarato di aver tentato di chiedere la sospensione [della procedura] attraverso il sito Web di Twitter, ma di non aver ricevuto risposta.

Twitter in genere avvisa gli utenti sulle presunte violazioni delle sue regole di servizio e offre loro l’opportunità di rimuovere i contenuti in violazione o di fare ricorso contro una decisione.

Electronic Intifada ha anche scritto sabato all’ufficio stampa di Twitter per richiedere delle spiegazioni riguardo alle iniziative della compagnia contro la QNN, ma non ha ricevuto risposta.

La QNN ha riferito che “rifiuta di rispondere alle pressioni israeliane, che attaccano le notizie palestinesi con il pretesto di combattere “violenza e terrorismo”‘

“Tali pratiche sono del tutto funzionali all’occupazione israeliana contro il popolo palestinese”, ha aggiunto la dichiarazione.

The Electronic Intifada nei suoi articoli ha frequentemente citato i tweet della QNN, in quanto la rete fornisce spesso una copertura quasi in tempo reale degli eventi sul terreno in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Tale copertura è risultata altamente affidabile.

Twitter ha precedentemente imposto la censura militare israeliana costringendo gli utenti a eliminare dei tweet specifici.

Ma eliminare integralmente delle fonti giornalistiche dalla sua piattaforma segna una nuova fase nel tentativo di bloccare le informazioni da e sulla Palestina.

L’azione di Twitter fa fatto seguito a una recente decisione dell’Autorità palestinese di bloccare l’accesso ai siti Web di decine di organi di informazione palestinesi, tra cui la QNN, nel segno di una grave repressione della libertà di espressione.

L’Autorità Nazionale Palestinese collabora a stretto contatto con le forze di occupazione israeliane all’insegna del “coordinamento per la sicurezza”.

L’azione di Twitter fa anche seguito ad una lunga campagna di censura di Facebook rivolta a giornalisti e pubblicazioni palestinesi.

Pressione del Congresso

Alcuni utenti di Twitter hanno sottolineato che la sospensione degli account della QNN è coincisa con la chiusura degli account associati alle organizzazioni che si oppongono a Israele, in particolare di Hamas e degli Hezbollah libanesi – che Israele e gli Stati Uniti considerano “terroristi”.

Twitter sembra aver disabilitato l’account di Al Manar, un canale televisivo gestito da Hezbollah [si tratta di una rete televisiva libanese già messa al bando nel 2004 dagli USA e, successivamente, da alcune Nazioni europee, n.d.tr.].

Questa censura fa seguito alle pressioni dei membri del Congresso che a settembre hanno scritto a Twitter e ad altri social media chiedendo la chiusura dell’account di Al Manar e degli account associati ad Hamas.

I parlamentari hanno chiesto alle aziende di fornire un “piano dettagliato e una sequenza temporale sulle modalità della rimozione dei contenuti e degli account della [Organizzazione terroristica straniera], nonché degli account delle fonti di propaganda che diffondano ulteriori contenuti terroristici”.

In una prima risposta ai parlamentari – il democratico Josh Gottheimer del New Jersey e i repubblicani Tom Reed di New York e Brian Fitzpatrick della Pennsylvania -, Twitter ha dichiarato che avrebbe rimosso i cosiddetti contenuti “terroristici”.

Tuttavia, la compagnia di social media ha inizialmente resistito alla richiesta perentoria di prendere severi provvedimenti anche contro i discorsi di partiti politici e media.

Twitter ha affermato di “poter fare delle eccezioni limitatamente ai gruppi che si siano ravveduti o che stiano attualmente impegnandosi in processi di soluzione pacifica, nonché ai gruppi che abbiano rappresentanti nominati a cariche pubbliche attraverso le elezioni,

Ma i parlamentari hanno continuato a fare pressione, e Gottheimer ha accusato Twitter di “opporsi alle leggi degli Stati Uniti sostenendo palesemente organizzazioni terroristiche straniere, tra cui Hamas e Hezbollah”. “Twitter sta letteralmente e arrogantemente contestando la decisione del governo degli Stati Uniti riguardo a ciò che costituisce un’organizzazione terroristica”, ha aggiunto Gottheimer.

Il deputato afferma che il governo ha il diritto di decidere con decreto esecutivo quali organizzazioni possano o meno avere la parola o essere ascoltate dagli americani semplicemente etichettandole come “terroriste” – una palese violazione del Primo Emendamento.

Ma invece di difendere i diritti di libertà di parola, questa volta sembra che Twitter abbia ceduto alle pressioni politiche e alle intimidazioni sopprimendo una vasta gamma di account che sfidano la politica israeliana e americana.

Essi includono quelli della QNN, una rete indipendente.

Il deputato Gottheimer è un importante sostenitore della censura dei media al fine di proteggere Israele.

L’anno scorso ha firmato una lettera in cui si chiedeva che il governo degli Stati Uniti indicasse Al Jazeera come un “agente straniero” perché la rete aveva realizzato un documentario che rivelava attività segrete negli Stati Uniti da parte di Israele e della sua lobby.

Al Jazeera non ha mai trasmesso il documentario, The Lobby – USA, dopo che il finanziatore della rete del Qatar è stato sottoposto a forti pressioni da parte della lobby israeliana.

Tuttavia, dopo esser entrato in possesso di una copia fatta filtrare clandestinamente, un anno fa Electronic Intifada ha divulgato pubblicamente il film completo.

Seguire le imposizioni del governo?

Twitter sembra seguire le imposizioni delle autorità statunitensi per mettere a tacere anche in altri Paesi i nemici [da loro] ufficialmente indicati.

A settembre, ad esempio, ha chiuso gli account dei media e [quelli] di importanti funzionari cubani.

L’anno scorso ha anche chiuso gli account appartenenti all’ufficio stampa del governo venezuelano.

Nel frattempo, Twitter consente alle forze di occupazione israeliane di utilizzare liberamente la sua piattaforma per esaltare i crimini di guerra contro i palestinesi.

Twitter non è inoltre riuscito a sopprimere le dilaganti minacce di morte contro Ilhan Omar e altri parlamentari statunitensi che sono stati presi di mira da istigazioni razziste e da campagne diffamatorie per aver criticato Israele e la politica estera degli Stati Uniti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 15 – 28 ottobre 2019 (due settimane)

Le dimostrazioni collegate alla “Grande Marcia del Ritorno”, iniziate il 30 marzo 2018, si sono ripetute per l’80esima settimana consecutiva. Nel corso delle proteste settimanali [svolte nel periodo di riferimento del presente Rapporto], 335 palestinesi, tra cui 168 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; non sono stati segnalati morti.

Dei 335 feriti, 68 (di cui 29 minori) sono stati colpiti con armi da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati, bombe a mano e bottiglie incendiarie e che ci sono stati diversi tentativi di aprire brecce nella recinzione. Non sono stati registrati ferimenti di israeliani.

In almeno 28 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle aree della Striscia di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa. Sono stati segnalati due feriti [palestinesi], uno dei quali un lavoratore. In altri due episodi, le forze israeliane hanno arrestato quattro palestinesi che, a quanto riferito, avrebbero tentato di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale; due di loro erano minori. Le forze israeliane hanno effettuato quattro incursioni [entro la Striscia] e compiuto operazioni di spianatura del terreno nei pressi della recinzione perimetrale.

Il 18 ottobre, al checkpoint di Jubara (Tulkarm), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese 25enne. Secondo le autorità israeliane, l’uomo avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano, mentre, secondo Organizzazioni per i Diritti Umani, i soldati hanno sparato e ucciso l’uomo perché si era avvicinato ad un’area riservata del checkpoint, non rispettando l’ordine di fermarsi. Il suo corpo è ancora trattenuto dalle forze israeliane. Il 24 ottobre le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni nella zona H2 (controllata da Israele) della città di Hebron. Come conseguenza, 70 palestinesi, tra cui 28 minori, avendo inalato gas, hanno avuto bisogno di cure mediche e sono stati trasportati in ospedale. La mattina seguente è morto un neonato palestinese.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, altri 134 palestinesi, tra cui almeno sette minori, sono stati feriti da forze israeliane [di seguito il dettaglio]. 52 feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso e, a Turmus’ayya (Ramallah), durante una manifestazione contro gli attacchi al villaggio da parte di coloni israeliani e la recente installazione, sempre ad opera di coloni, di due strutture sulla terra del villaggio, vicino all’insediamento colonico di Shilo. Nel villaggio di Qaffin (Tulkarm), vicino a una porta della Barriera, in due casi distinti, le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese e ne hanno aggredito fisicamente un altro; entrambi avevano tentato di attraversare la Barriera senza permesso. Nella città di Nablus, altri 51 palestinesi sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane, avvenuti in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito religioso della Tomba di Giuseppe. Altri 9 palestinesi sono rimasti feriti nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah), in scontri verificatisi durante una “demolizione punitiva”, descritta in un successivo paragrafo. In un episodio separato, accaduto nel medesimo Campo, le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese. Secondo resoconti di media israeliani, si sarebbe trattato di un tentativo di aggressione con auto, e l’uomo sarebbe stato colpito, dopo lo scontro, perché sospettato di avere con sé un oggetto sospetto. Fonti locali palestinesi hanno riferito che l’uomo si è schiantato accidentalmente contro una jeep militare. Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Complessivamente, quasi la metà dei [134] feriti è stata curata per aver inalato gas lacrimogeno, il 38% perché colpito da proiettili di gomma e i rimanenti per aver subito aggressioni fisiche o ferite di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 79 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 86 palestinesi, tra cui nove minori. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nel governatorato di Hebron (23), seguono i governatorati di Ramallah e di Gerusalemme.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto le persone ad autodemolire, cinque strutture, sfollando dieci persone e causando ripercussioni di diversa entità su altre 19 [segue dettaglio]. Tre delle strutture colpite erano a Gerusalemme Est e due in Area C. Due di queste [cinque strutture] si trovavano nei quartieri di Beit Hanina e Jabal al Mukabbir (Gerusalemme Est), dove due famiglie palestinesi sono state costrette ad autodemolire una struttura abitativa in un caso, ed una di sostentamento nell’altro, provocando lo sfollamento per la prima famiglia e ripercussioni sulla sussistenza della seconda. A Gerusalemme Est, oltre un quarto delle demolizioni di quest’anno (52 su 178 strutture) sono state eseguite dagli stessi proprietari palestinesi, principalmente per evitare di pagare al Comune il costo della demolizione. La terza demolizione, effettuata dalle autorità israeliane a Gerusalemme Est, vicino al checkpoint di Qalandiya, riguardava due piani in costruzione, per otto appartamenti. Altre due proprietà [delle 5] sono state demolite in Area C, vicino al Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron); si trattava di strutture agricole e per animali. Il numero di strutture demolite finora in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, rileva un aumento di quasi il 35% rispetto al corrispondente periodo del 2018.

Il 24 ottobre, nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah), in Area A [ad amministrazione palestinese], le autorità israeliane hanno demolito, per “motivi punitivi”, un edificio residenziale a tre piani in costruzione, colpendo quattro famiglie (tredici persone). La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese che era stato accusato di aver ucciso, nel maggio 2018, un soldato israeliano durante un’operazione di ricerca-arresto; successivamente l’uomo era stato condannato all’ergastolo dalle autorità israeliane. Degli scontri scoppiati durante la demolizione è stato riferito sopra [nel 4° paragrafo]. Dall’inizio del 2019, per “motivi punitivi” sono state demolite sette case. Erano state sei nel 2018 e nove nel 2017.

In diverse aree della Cisgiordania, la raccolta delle olive è stata pesantemente disturbata dalla violenza di coloni israeliani: sono stati aggrediti e feriti due agricoltori [palestinesi], sono stati danneggiati 1.085 alberi e rubate diverse tonnellate di olive. Le Comunità colpite includevano Al Jab’a e Nahhalin (entrambe in Betlemme), Burin e Awarta (entrambe in Nablus), Kafr ad Dik e Yasuf (entrambe a Salfit) e Turmus’ayya (Ramallah). Sono stati inoltre segnalati numerosi altri episodi di lancio di pietre da parte di coloni nei confronti di agricoltori palestinesi. La raccolta delle olive, che si svolge ogni anno tra ottobre e novembre, è un evento chiave per i palestinesi, sia sul piano economico che sociale e culturale.

Cinque attacchi di coloni hanno provocato ferimenti e danni a proprietà palestinesi. Un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani nell’area controllata da Israele [zona H2] della città di Hebron. Oltre 40 veicoli e alcune case sono stati vandalizzati nei villaggi di Yatma (Nablus) e Deir Ammar (Ramallah). In altri due casi, verificatisi nei villaggi di Al Mughayyir (Ramallah) e Qusra (Nablus), è stato riferito che coloni israeliani hanno danneggiato una struttura agricola di proprietà palestinese, hanno spruzzato graffiti tipo “questo è il prezzo da pagare” e vandalizzato un cancello e serbatoi d’acqua. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 270 casi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o danneggiato proprietà palestinesi; un numero un po’ più alto rispetto a quello del corrispondente periodo del 2018 (213 casi), ma più che doppio rispetto a quello del 2017 (124 casi).

Media israeliani hanno riportato tre episodi di attacchi con pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; almeno tre veicoli hanno subìto danni. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 90 casi in cui palestinesi hanno ucciso o ferito coloni o altri civili israeliani oppure danneggiato le loro proprietà; un calo rispetto al numero di episodi avvenuti nei corrispondenti periodi del 2018 (141 casi) e 2017 (211 casi).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’Autorità Palestinese fa il lavoro sporco per Israele: è per questo che fu creata

Asa Winstanley

30 Ottobre 2019 Middle East Monitor

Nonostante ciò che ne avrete sentito dire, l’Autorità Nazionale Palestinese non è un “governo palestinese”. Infatti, “Autorità Nazionale Palestinese” è una denominazione impropria, perché l’organismo non è dotato di autorità vera e propria e non agisce nell’ interesse della maggioranza dei palestinesi.

Innanzitutto, non è sicuramente un’istituzione democratica. Sono almeno 14 anni che non si tengono elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, se escludiamo le votazioni interne.

L’ultima volta che il parlamento fittizio dell’ANP ha indetto elezioni effettivamente democratiche è stato nel 2006. Dal punto di vista dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, però, vinse il partito sbagliato. Il Movimento Islamico di Resistenza, Hamas, vinse grazie a un programma di welfare e lotta alla corruzione, con una lista di candidati chiamata Change and Reform [Cambiamento e Riforma, ndt]. Gli elettori palestinesi votarono per Hamas vedendo in esso un cambiamento rispetto alla corruzione, ritenuta dilagante nel partito di maggioranza Fatah di Mahmoud Abbas.

Anche il fallimento della strategia del “processo di pace” del presidente dell’ANP, cioè la resa ad Israele attraverso i negoziati, ebbe un certo peso nella sorprendente sconfitta del suo partito. Eppure, invece di riflettere sul messaggio forte e chiaro inviato dagli elettori, e prepararsi a vivere all’opposizione, Fatah rifiutò di accettare il risultato delle elezioni “libere e democratiche” e di trasferire il potere ad Hamas, il nuovo governo eletto. La leadership di Fatah venne incoraggiata a questa pericolosa reazione dagli americani, dagli europei, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Il risultato fu la spietata guerra civile palestinese del 2007.

Le forze armate a Gaza, guidate da Mohammed Dahlan, all’epoca influente personaggio di Fatah, erano pronte a realizzare un colpo di stato contro Hamas e i suoi combattenti. Hamas scoprì il piano ed espulse da Gaza Dahlan e i suoi uomini. Venne quindi organizzato da Abbas un colpo di stato in Cisgiordania contro il governo eletto di Hamas.

Nonostante anni di interminabili e intermittenti negoziati tra Hamas e Fatah per un “governo di unità nazionale”, da allora non ci sono state elezioni, né legislative né presidenziali. L’“Autorità Nazionale Palestinese”, quindi, non ha alcun mandato democratico. E, di fatto, non lo ha nemmeno Abbas; il suo incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2009.

Ancor più importante, l’ANP non ha il mandato della totalità dei palestinesi, la maggior parte dei quali vivono in esilio, come rifugiati. I loro diritti non sono tutelati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo il fallimentare processo degli Accordi di Oslo, iniziato negli primi anni ‘90, il loro legittimo diritto al ritorno non è stato rispettato né tutelato.

Inoltre, anche relativamente alla limitata sfera d’influenza e alla parte di popolazione palestinese che sostiene di rappresentare nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza – che insieme costituiscono appena il 22% della Palestina storica – l’Autorità Nazionale Palestinese agisce per far rispettare la volontà di Israele. Il settore più attivo e meglio finanziato dell’autorità è quello della sicurezza, con circa 70.000 funzionari che operano in una mezza dozzina di servizi di sicurezza.

Gli addetti alla sicurezza dell’ANP vengono addestrati da USA ed Europa, ed esistono unicamente per controllare il popolo palestinese. Il loro unico compito è prevenire la resistenza, armata o pacifica che sia, contro Israele, proteggere Israele e tutelare i leader dell’ANP. Gli ordini loro impartiti sono di farsi da parte se, sulla scena di qualsiasi evento, arriva il personale della sicurezza israeliano.

Nel 2014 Abbas definì “sacro” il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele. Con il passare degli anni, però, ha più volte minacciato di porre fine a tale collaborazione con Israele, di solito quando sono stati a rischio i finanziamenti all’ANP. Eppure è rimasto fedele al suo discorso del 2004, e il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele rimane ben saldo.

L’ ANP, quindi, può essere ragionevolmente considerato una marionetta, un organismo collaborazionista che esegue gli ordini dell’occupazione israeliana. Non sorprende, quindi, scoprire che sta impedendo la libertà di parola e agendo in modo autoritario e oppressivo. In questo, l’ ANP è complementare alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, che è sempre stata dittatoriale.

Con la sua ultima mossa autoritaria, l’ANP ha oscurato un gran numero di siti e social network palestinesi e arabi. Su richiesta del Procuratore Generale dell’ANP, il 17 ottobre la pretura di Ramallah ha ordinato il blocco di altri 59 siti web e pagine di notizie in rete.

Secondo l’ordinanza, i siti violavano la legge sui crimini informatici, approvata dall’ANP nel 2017. I gruppi per i diritti umani hanno definito la legge uno “strumento per mettere a tacere la legittima libertà di espressione e la critica alle autorità”.

La lista dei siti oscurati include Arab48, Wattan TV, Shebab News Agency, Quds News Network, Gaza Now e Metras. È da sottolineare che nessuno dei siti oscurati è israeliano.

L’Autorità Nazionale Palestinese sta nascondendo la testa sotto la sabbia, cercando di impedire la libertà di espressione e rispedendo i media nazionali in quell’oscurità in cui aveva tentato di relegarli l’occupazione israeliana, senza riuscirci”, ha dichiarato Husam Badran, portavoce di Hamas. “Il nuovo divieto può significare solo che l’ ANP e l’occupazione stanno lottando dalla stessa parte contro l’espressione nazionale palestinese, che denuncia le violazioni da parte dell’occupazione, la corruzione e il crimine”.

L’ANP si vende come strumento utile all’occupazione israeliana; riesce a fare cose che Israele non può fare. Eppure, gli israeliani considerano l’ANP sempre più irrilevante. Perché dovrebbero impiegare un subappaltatore per l’occupazione, quando possono direttamente portarla avanti loro? Questo è il dilemma in cui si trova l’ANP, da qui le periodiche e vuote minacce di chiudere la collaborazione per la sicurezza.

Tuttavia, almeno per ora, possiamo aspettarci che l’Autorità Nazionale Palestinese continuerà a fare il lavoro sporco per Israele. Dopotutto, è esattamente il motivo per cui fu creata.

Le opinioni espresse nell’articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Due brevi notizie

 

Attacchi aerei israeliani contro Gaza in risposta al lancio di razzi

MEE e agenzie

2 novembre 2019 Middle East Eye

Secondo il Ministero della Sanità un uomo è stato ucciso e due sono stati feriti nelle incursioni. 

Non è stato detto se appartenessero a qualche fazione.

Una fonte di Hamas ha riferito alla Associated France Press che è stata usata la contraerea contro gli aerei durante i raid e l’esercito israeliano ha confermato il “fuoco nemico” da Gaza.

Gli attacchi sono avvenuti dopo che venerdì almeno 10 razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza  verso il sud di Israele, colpendo un’abitazione residenziale.

L’esercito israeliano ha affermato che otto razzi sono stati intercettati dal sistema “Iron Dome” di difesa anti-missile del territorio.

Nessuna fazione armata a Gaza si è dichiarata responsabile del lancio dei razzi, ma il [comando] militare israeliano sostiene che  in ultima analisi Hamas è responsabile degli attacchi.

Secondo Ha’aretz, che ha riferito di un altro razzo sparato giovedì da Gaza, questo è stato il secondo episodio di lancio di razzi.

L’aumento della tensione avviene contemporaneamente allo stallo politico in Israele.

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz è bloccato nei negoziati per formare un nuovo governo dopo che lo scorso mese Benjamin Netanyahu ha detto di non essere in grado di farlo.

Se anche Gantz non riuscirà a formare una coalizione di maggioranza, gli israeliani andranno a votare per la terza volta da aprile.

Dal 2008 Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre nella Striscia di Gaza.

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Israele arresta l’esponente palestinese di sinistra Khalida Jarrar

Al Jazeera.

L’ex deputata Jarrar è stata arrestata da decine di soldati israeliani nella sua casa di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

31ottobre 2019 Al Jazeera

Nella notte di giovedì le forze israeliane hanno arrestato l’importante esponente palestinese nella sua casa di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, .

I media locali riferiscono che Khalida Jarrar, ex membro del disciolto Consiglio Legislativo Palestinese, è stata arrestata alle 3 del mattino ora locale e portata in luogo sconosciuto.

Secondo la figlia Yara Jarrar, la casa è stata circondata da più di 70 soldati, arrivati con 12 veicoli militari.

La mamma e [mia] sorella dormivano quando sono arrivati,” ha detto Yara in un post su Twitter.

La 56enne Jarrar, che appartiene al movimento di sinistra Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (PFLP) – considerato da Israele un gruppo “terrorista”- era già stata arrestata nel 2015 e nel 2017.

L’ultimo rilascio da una prigione israeliana è avvenuto lo scorso febbraio dopo 20 mesi di “detenzione amministrativa”- un sistema di incarcerazione inbase al quale un detenuto è tenuto in arresto senza un’accusa e senza processo.

Secondo “Samidoun”, una rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, Jarrar da molto tempo si batte per la liberazione dei prigionieri palestinesi ed è stata in passato vice presidente e direttrice esecutiva del gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”.

“Samidoun” ha scritto sul suo sito: “All’interno delle prigioni dell’occupazione israeliana Jarrar ha svolto un ruolo di guida nel favorire l’educazione delle ragazze minorenni recluse, organizzando lezioni sui diritti umani e dando ripetizioni alle ragazze quando la direzione del carcere negava loro un insegnante per gli esami obbligatori alle superiori”

Attualmente ci sono sette politici palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, di cui cinque in condizione di detenzione amministrativa.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un “attacco” contro i mezzi di comunicazione: il blocco di siti web da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese suscita indignazione

Shatha Hammad – RAMALLAH, Territori palestinesi occupati (Cisgiordania)

Venerdì 25 ottobre 2019 – Middle East Eye

Giornalisti e difensori dei diritti umani affermano che la rivolta popolare libanese ha spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a soffocare la libertà d’espressione

In seguito a una richiesta del procuratore generale l’Autorità Nazionale Palestinese ha bloccato 59 siti e pagine palestinesi d’informazione sulle reti sociali, una decisione che, secondo i giornalisti e i militanti della società civile, intende soffocare il dissenso e le critiche nei confronti del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

L’ANP accusa i siti vietati di insultare i suoi responsabili, di pubblicare articoli e foto che mettono a rischio la “sicurezza nazionale” e la “pace civile” palestinesi e che nuocciono all’opinione pubblica palestinese.

Evocando le recenti rivolte popolari in Libano e altrove nella regione, chi critica la decisione afferma che questa repressione nei confronti dei mezzi di comunicazione è un tentativo da parte dell’ANP inteso a garantire che i palestinesi non facciano altrettanto.

Il divieto è stato in primo luogo segnalato da Maan, un’agenzia di stampa palestinese strettamente legata all’ANP.

Prende di mira siti web e pagine sulle reti sociali che criticano l’Autorità Nazionale Palestinese o che sono percepiti come sostenitori di Mohammed Dahlan, il rivale esiliato del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Secondo Maan l’ordinanza del tribunale per bloccare l’accesso ai siti è arrivata lunedì, dopo una richiesta della procura in base all’articolo 39 comma 2 della legge relativa ai reati informatici.

I provider e le imprese di telecomunicazioni palestinesi hanno applicato la decisione fin dal suo annuncio.

Nel 2017 l’ANP è stata oggetto di vivaci critiche quando, con un decreto esecutivo, è stata adottata la legge relativa alla criminalità informatica, i cui critici accusavano il governo con sede in Cisgiordania di cercare di soffocare le voci dell’opposizione e le critiche per le sue scelte sia politiche che economiche, compresa l’attuale cooperazione con Israele in materia di sicurezza.

Lunedì “Samidoun”, la rete palestinese di solidarietà con i prigionieri, ha dichiarato che la decisione di vietare i siti “rivela il timore (da parte dell’ANP) di un’esplosione popolare simile alle rivoluzioni arabe, l’ultima delle quali si sta svolgendo attualmente in Libano.”

I siti vietati sono tutti considerati oppositori dell’ANP, e tra questi figurano “Quds News Network” e “Arab48”.

Per Ahmed Jarrar, direttore di “Quds News”, è la seconda volta che l’ANP blocca l’accesso al sito web del canale informativo. Creata nel 2013, la rete è seguita da più di 7,8 milioni di persone sulle reti sociali.

Jarrar dice a Middle East Eye che il personale di “Quds News” è spesso molestato dalle forze di sicurezza israeliane e dell’ANP, che impediscono in particolare di informare sulle manifestazioni ed effettuano regolarmente dei controlli di sicurezza.

Definisce la decisione di bloccare i siti “un massacro contro i media palestinesi. Ci siamo già rivolti alla giustizia palestinese e ci torneremo, nonostante la nostra sensazione che non si tratti di una decisione giudiziaria. Comunque contatteremo le istituzioni per i diritti dell’uomo e quelle internazionali perché ci sostengano e facciano annullare questa decisione,” insiste Jarrar.

Il blocco è un crimine”

Dall’applicazione del divieto, alcuni giornalisti difensori dei diritti dell’uomo e avvocati palestinesi si sono uniti nella campagna telematica spontanea con lo slogan “Il blocco è un crimine”, per chiedere l’annullamento dell’ordinanza.

Omar Nazzal, membro della segreteria generale del sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), ritiene che la decisione di bloccare i siti sia scioccante e che si tratti di una giornata nera per la stampa palestinese.

Questa decisione è un attentato alla libertà d’opinione ed espressione, come anche al diritto dei cittadini di informarsi attraverso fonti diversificate,” ha dichiarato a MEE.

Inoltre sottolinea che il PJS aveva già messo in guardia contro gli effetti distruttivi della legge sulla criminalità informatica per i media palestinesi: “Avevamo già avvertito che questa legge era una spada di Damocle per i giornalisti.”

A Gaza alcuni giornalisti hanno organizzato una manifestazione davanti al locale ufficio del sindacato dei giornalisti per esprimere il proprio rifiuto del blocco.

Secondo loro questa decisione è legata al timore dell’ANP che i palestinesi possano scendere in piazza – in linea con le “rivoluzioni arabe” che si manifestano in tutta la regione – per protestare contro le loro specifiche difficoltà politiche ed economiche.

Un portavoce del sindacato di Gaza, Ahmad Zoabar, dice a MEE che il blocco dei siti è una decisione politica che serve ad Israele, impedendo ai giornalisti palestinesi di mettere in evidenza la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’ Autorità Nazionale Palestinese teme che la stampa ne denunci la corruzione, cosa che potrebbe portare a un’esplosione popolare simile a quella che sta avvenendo il Libano,” ritiene.

Questo mese migliaia di manifestanti libanesi sono scesi in strada per protestare contro la corruzione dello Stato e la disastrosa situazione economica del Paese. Inoltre chiedono la cacciata del governo libanese e dei membri della classe dirigente.

Una legge adottata in segreto

La legge riguardante la criminalità informatica è stata adottata per la prima volta nel 2017, “in segreto” e senza prendere in considerazione i contributi forniti all’ANP dalle istituzioni della società civile palestinese, spiega Issam Abdeen, consigliere politico del gruppo palestinese di difesa dei diritti umani “Al-Haq”.

Dopo una generalizzata reazione di rifiuto, è stata modificata e adottata di nuovo l’anno dopo.

Ciononostante questi “emendamenti sono stati insufficienti”, dichiara Abdeen a Middle East Eye. Secondo Abdeen, l’articolo 39 della legge è particolarmente problematico, in quanto “consente ai servizi di sicurezza di presentare al procuratore generale una richiesta di bloccare i siti web, che in seguito viene inviata al tribunale, il cui unico compito è di esaminarla e prendere una decisione entro 24 ore.”

I siti web e i link possono essere bloccati se le autorità decidono che essi “potrebbero minacciare la sicurezza nazionale, la pace civile, l’ordine pubblico o la moralità pubblica,” stabilisce l’articolo.

Al-Haq” e altre organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti dell’uomo hanno chiesto che l’articolo 39 e altri articoli della legge vengano modificati, ma Abdeen sostiene che le loro richieste sono state respinte. Ciò “ci ha spinti a congelare la nostra adesione al comitato formato per modificare la legge,” precisa.

Questa legge è una delle più gravi e più pericolose per la libertà d’opinione e d’espressione, per le libertà dei mezzi di informazione e le libertà digitali, così come per l’accesso alle informazioni,”

Mohammed al-Hajjar ha contribuito a questo articolo da Gaza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Quando dare del pane a Gaza costituisce un crimine

Yvonne Ridley

25 ottobre 2019 – Middle East Monitor

L’inviato del Qatar Mohammed Al-Emadi è arrivato a Gaza lo scorso weekend con 180 milioni di dollari da distribuire ai palestinesi bisognosi. Nel caso di Gaza questo significa potenzialmente l’intera popolazione, visto che essa si dibatte da una crisi umanitaria all’altra a causa del feroce assedio imposto da Israele da un lato e dall’Egitto dall’altro.

Il denaro del Qatar è disperatamente necessario per pagare il combustibile per l’elettricità, i salari e gli aiuti economici alle famiglie palestinesi che lottano per vivere sotto l’assedio. La speciale consegna non è una sorpresa per Israele, poiché già in maggio il Qatar ha annunciato che avrebbe inviato 480 milioni di dollari alla Cisgiordania occupata e a Gaza per “aiutare il popolo palestinese fratello a far fronte ai propri bisogni primari.”

Il denaro è entrato con l’appoggio (senza dubbio riluttante) di Tel Aviv, che con la mediazione dell’Egitto ha accettato una tregua “ufficiosa” con Hamas, che sostanzialmente governa ancora la Striscia di Gaza. Il denaro sarà utilizzato per pagare i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese ed ha permesso all’ONU di incrementare gli aiuti.

Comunque, il fatto stesso che questo sta accadendo ha un enorme significato e dovrebbe ora essere usato come prova per mettere fine al dramma kafkiano che ha visto cinque americani palestinesi incarcerati in quello che è stato descritto come uno dei peggiori casi di errore giudiziario negli Stati Uniti. Il dramma è iniziato nel 2004 quando l’FBI, insieme al Dipartimento del Tesoro statunitense e ad una serie di diverse forze di polizia del Texas e della California, ha arrestato dei funzionari della ‘Holy Land Foundation’ (Fondazione Terra Santa) nel corso di ispezioni a sorpresa. I “cinque HLF” erano –e sono ancora – Shukri Abu Baker, Mohammad El-Mezain, Ghassan Elashi, Mufid Abdulqader e Abdulrahman Odeh, che nel 1990 avevano fondato l’associazione musulmana di beneficienza.

I cinque sono stati accusati di aver fornito supporto materiale a Hamas e nel primo processo la giuria non ha raggiunto un verdetto. Il nuovo processo presso il tribunale federale di Dallas è iniziato nel settembre 2008 ed ha incluso una testimonianza senza precedenti fornita segretamente da una spia israeliana nota semplicemente come “Avi”. Gli avvocati della difesa non sono stati in grado di mettere in discussione il passato e le credenziali di Avi.

Il giudice Jorge Solis ha detto alla giuria che era consentito soppesare la credibilità del soggetto alla luce del suo anonimato, ma ha respinto il diritto dell’imputato, in base al Sesto Emendamento, di “confrontarsi con i testimoni contro di lui.” Fino ad allora niente nella costituzione americana aveva permesso una condanna in base ad accuse anonime, ma il tribunale è andato avanti ed ha condannato tutti i cinque uomini.

Una delle 108 accuse contenute nella condanna affermava che la ‘Holy Land Foundation’ aveva favorito gli attacchi suicidi fornendo assistenza agli orfani degli attentatori. È poi risultato che, dei 200 attentatori suicidi che hanno agito in Palestina in quel periodo, nessuno aveva dei figli. Infatti – ed in stridente contrasto – in realtà la HLF ha fornito assistenza finanziaria ai figli di persone messe a morte da Hamas per collaborazionismo con Israele.

E’ anche emerso che le ispezioni a sorpresa e l’arresto dei cinque sono stati la conseguenza di supposizioni fatte dallo Stato di Israele che l’associazione fosse il terminale di un’operazione illecita di riciclaggio di denaro, che dirottava finanziamenti ad Hamas (dichiarata organizzazione terroristica dagli USA sotto la presidenza di Bill Clinton) attraverso i Comitati Zakat [fondati in Kuwait nel 1981 per raccogliere denaro in base alla legge islamica, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

Simili illazioni hanno portato gli USA a definire nel 2003 la ‘British Charity Interpal’ un “ente terrorista globale”, senza che uno straccio di prova sia mai stato prodotto dal governo americano (o israeliano). Quella definizione è ancora in vigore oggi, nonostante Interpal operi legalmente in Inghilterra e fornisca tuttora aiuti ai palestinesi in difficoltà.

Nel corso del secondo processo contro HLF gli imputati sono stati accusati di aver fornito “supporto materiale” a Hamas e, nel 2009, sono stati condannati dai 15 ai 65 anni di carcere. Il processo è stato presentato come una farsa in un duro libro pubblicato l’anno scorso da Mike Peled, figlio di un famoso generale israeliano e fervente anti-sionista.

Peled ha intervistato le persone incriminate e i loro familiari e si è anche recato nei loro luoghi di nascita in Cisgiordania. Il suo resoconto dettagliato del caso della ‘Holy Land Foundation’ prova senza ombra di dubbio che si è trattato di un caso politico messo in piedi dalle lobby sioniste e da Israele per compromettere, intimidire e criminalizzare chiunque lavori o doni denaro alle associazioni di beneficienza che assistono i palestinesi bisognosi.

La questione è semplice: è impossibile distribuire denaro nella Palestina occupata senza chiedere il permesso delle autorità al potere. Nella Cisgiordania occupata i soldi confluiscono nelle associazioni di beneficienza registrate non solo presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche in Israele e in alcuni casi presso il governo giordano. I trasferimenti monetari devono essere certificati dal sistema bancario israeliano e chiunque si presenti di persona a nome di un’associazione di beneficienza deve ottenere l’autorizzazione dalle stesse autorità per entrare nel Paese. Nel caso della Striscia di Gaza questo significa il governo democraticamente eletto in mano a Hamas e tutte le associazioni di beneficienza devono essere registrate presso l’ANP e gli israeliani. Con questa procedura i soldi non passano di mano, ma le organizzazioni assistenziali e le associazioni di beneficienza operano su autorizzazione delle autorità.

Ora che sappiamo che il Qatar ha spedito un inviato con 180 milioni di dollari in contanti a Gaza con il permesso di Tel Aviv, dovrebbe esserci spazio per un ricorso da parte dei cinque di ‘Holy land Foundation’, in quanto ciò demolisce l’insensatezza dell’onnipresente argomentazione del ”supporto materiale”.

Il sistema giudiziario statunitense dovrebbe vergognarsi del fatto che questi uomini continuino a languire in carcere per non aver svolto altro che un compito umanitario. I veri criminali non sono quelli che sfamano i bambini palestinesi, ma quelli dell’amministrazione Trump che preferirebbero vedere i bambini di Gaza morire di fame piuttosto che consentire loro una sembianza di vita normale in quelle che sono circostanze del tutto anormali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)