Come Israele ridefinisce il diritto internazionale per coprire i suoi crimini a Gaza

Ben White

5 Novembre 2019 – Middle East Eye

L’approccio di Israele al diritto internazionale può essere sintetizzato così: ‘Se fai qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il mondo lo accetterà’.

Da quando Israele, nel 2005, ha evacuato coloni e ha riposizionato le sue forze armate lungo la barriera perimetrale, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a numerose aggressioni devastanti, un blocco e costanti attacchi contro persone come agricoltori e pescatori.

Molte di queste politiche hanno ricevuto pesanti condanne – da parte palestinese ovviamente, ma anche da parte di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali e addirittura da parte di leader e politici mondiali – seppure, purtroppo, raramente accompagnate da azioni concrete a livello di Stati. Israele tuttavia ha cercato di evitare anche solo la possibilità di una significativa assunzione di responsabilità. Il suo approccio è stato molto semplice: di fronte alle critiche per aver violato le leggi, cambia le leggi.

Fornire copertura

Più precisamente, Israele si è impegnato molto a sviluppare e promuovere interpretazioni del diritto internazionale che forniscano una copertura alle sue politiche e tattiche nella Striscia di Gaza.

Nel gennaio 2009, all’indomani di un’offensiva israeliana [operazione Piombo Fuso, ndtr.] che ha portato al rapporto Goldstone commissionato dall’ONU, è stato pubblicato su Haaretz un dettagliato articolo sul lavoro della sezione sul diritto internazionale all’interno dell’ufficio dell’Avvocatura Generale militare. Si tratta dei dirigenti responsabili di controllare (o forse autorizzare) le azioni e le tattiche militari e di fornire la giustificazione legale a tali azioni.

Una delle persone intervistate in quell’articolo era Daniel Reisner, che era stato in precedenza a capo della sezione sul diritto internazionale. “Se fai qualcosa abbastanza a lungo il mondo la accetterà”, ha detto. “Il complesso del diritto internazionale è ora basato sul concetto che un atto vietato oggi diventa accettabile se attuato da un sufficiente numero di Paesi…Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni ad esso.”

È stata la Striscia di Gaza ad essere usata da Israele come laboratorio per simili violazioni “progressive”. Un esempio è dato dallo stesso status di Gaza. Fin dal 2005 la posizione di Israele è stata che Gaza non è né occupata né sovrana, bensì costituisce un’“entità ostile”.

Nel suo recente libro ‘Justice for some’ [Giustizia per alcuni], la studiosa Noura Erakat analizza in dettaglio le implicazioni di una simile definizione, che fa di Gaza “né uno Stato in cui i palestinesi hanno il diritto di governarsi e proteggersi, né un territorio occupato la cui popolazione civile Israele ha il dovere di proteggere.”

Di fatto, Israele ha usurpato il diritto dei palestinesi a difendersi, in quanto non appartengono ad alcuna sovranità embrionale, si è sottratto ai suoi obblighi in quanto potenza occupante ed ha ampliato il proprio diritto a dispiegare la forza militare, rendendo così i palestinesi della Striscia di Gaza tre volte vulnerabili”, ha sottolineato Erakat.

Intento deliberato

La pretesa che la Striscia di Gaza non sia più occupata è ovviamente errata, non ultimo perché Israele ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio. Le sue forze armate entrano quando vogliono per terra e per mare e Israele ha il controllo sullo spazio aereo di Gaza, sullo spettro elettromagnetico [cioè sulle frequenze per le telecomunicazioni, ndtr.], sulla maggior parte dei movimenti in entrata e uscita e sull’anagrafe – oltre al blocco tuttora in corso.

La Striscia di Gaza è soltanto una parte del territorio palestinese occupato, che, insieme alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme est), costituisce un’unica entità territoriale. Lo status di Gaza come occupata dal 2005 è stato quindi sancito da molte istituzioni importanti, compreso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La “creatività” giuridica dei dirigenti israeliani è dimostrata molto spesso da alcune delle tattiche adottate dall’esercito israeliano durante gli attacchi.

Nell’offensiva israeliana su Gaza del 2014 [operazione Margine Protettivo, ndtr.], 142 famiglie palestinesi hanno subito l’uccisione di tre o più membri nel corso dello stesso incidente. Questi numeri impressionanti sono stati in parte il risultato della scelta di Israele di prendere di mira decine di case di famiglie palestinesi, oltre a quelle colpite in seguito a bombardamenti indiscriminati.

La chiave di lettura è la decisione da parte di Israele che qualunque (presunto) membro di una fazione armata palestinese fosse un obbiettivo legittimo, anche quando non partecipava alla lotta – cioè era a casa con la famiglia – e che i membri della famiglia diventassero legittimi “danni collaterali” sulla base della presenza di un sospetto nella casa (tra l’altro, anche se quella persona non era in realtà in casa in quel momento). Come ha detto un ufficiale israeliano: “Voi la chiamate casa, noi la chiamiamo centrale operativa.”

Vittime civili

Nonostante il fatto che in base al diritto internazionale Israele dovesse dimostrare che ogni struttura presa di mira svolgeva una funzione militare, come ha specificato l’associazione per i diritti B’Tselem, “nessun comandante ha sostenuto che ci fosse alcuna connessione tra una casa presa di mira e una specifica attività militare in quel luogo.”

Perciò le spiegazioni dell’esercito israeliano per la distruzione delle case è apparsa “nient’altro che una mistificazione della reale ragione della distruzione, cioè l’identità degli abitanti” – il che significa che queste sono state “demolizioni punitive di case…condotte da aerei, mentre gli abitanti erano ancora all’interno”.

Un’altra tattica utilizzata dall’esercito israeliano è la diffusione di “avvisi” ai civili, sia attraverso il telefono che con messaggi a specifici edifici, o con volantini lanciati su interi quartieri. Israele presenta questa tattica come una prova del fatto che fa il possibile per evitare vittime civili, anche se questi avvertimenti sono di fatto un obbligo piuttosto che “buone azioni”.

È ovvio che fondamentalmente questi avvisi non privano gli abitanti civili dello status di persone sotto protezione. Tuttavia ci sono sufficienti prove che indicano che questa non è una posizione condivisa all’interno dell’esercito israeliano.

Nel citato articolo di Haaretz del 2009 un comandante ha detto: “Le persone che entrano in una casa nonostante un avviso non devono essere annoverate nel conto dei danni a civili, poiché sono scudi umani volontari. Dal punto di vista legale non devo preoccuparmi per loro.”

Quindi, con una deformazione sconcertante, mentre gli avvisi sono presentati come modo per minimizzare le vittime civili, in realtà servono ad agevolare gli attacchi e possono anche aumentare il numero di morti.

Normalizzare l’illegalità

Questi sono solo alcuni esempi di come Israele cerca di normalizzare ciò che è illegale, con due obbiettivi. Si noti che è stato dopo la pubblicazione del rapporto Goldstone che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu “ha dato ordine ai dirigenti del governo di elaborare proposte per modificare il diritto internazionale di guerra.”

Le “innovazioni” di Israele nel diritto internazionale sono quindi tese a facilitare la sempre più brutale soppressione di palestinesi sul terreno, mentre a livello internazionale queste interpretazioni sono avanzate sia per confondere le acque nei consessi giuridici sia, in ultima analisi, per ottenere l’appoggio da di altri Stati terzi.

È importante ricordare che il problema della responsabilità è precedente agli sviluppi più recenti. Israele ha a lungo violato il diritto internazionale e giustificato in termini giuridici certe politiche – dalla confisca della terra nei territori occupati all’insediamento di colonie.

Questo ci aiuta a capire che il problema centrale è politico – e che la risposta a come contestare l’impunità e resistere alle interpretazioni “innovative” delle leggi da parte di Israele è la stessa: la pressione politica.

Un fallimento su questo fronte verrà percepito molto pesantemente dai più vulnerabili: i palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è autore di ‘Apartheid israeliano: una guida per i neofiti’ e di ‘Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia’. Scrive per Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Twitter censura le notizie dalla Palestina

Ali Abunimah

4 novembre 2019 – Electronic Intifada

Twitter ha cancellato, senza preavviso o motivazioni, gli account di Quds News Network, un’importante rete di notizie palestinesi.

Twitter non ha fornito nessun chiarimento sul perché nel fine settimana abbia cancellato gli account di Quds News Network , un importante organo di informazione palestinese.

Questo allarmante atto di censura è un’ulteriore segnale della complicità delle principali compagnie di social media nei tentativi di Israele di nascondere notizie e informazioni riguardanti i suoi abusi nei confronti dei diritti dei palestinesi.

Lunedì QNN ha rivelato che sabato mattina i suoi quattro principali account sono stati sospesi senza preavviso o motivazioni.

La QNN ha dichiarato di aver tentato di chiedere la sospensione [della procedura] attraverso il sito Web di Twitter, ma di non aver ricevuto risposta.

Twitter in genere avvisa gli utenti sulle presunte violazioni delle sue regole di servizio e offre loro l’opportunità di rimuovere i contenuti in violazione o di fare ricorso contro una decisione.

Electronic Intifada ha anche scritto sabato all’ufficio stampa di Twitter per richiedere delle spiegazioni riguardo alle iniziative della compagnia contro la QNN, ma non ha ricevuto risposta.

La QNN ha riferito che “rifiuta di rispondere alle pressioni israeliane, che attaccano le notizie palestinesi con il pretesto di combattere “violenza e terrorismo”‘

“Tali pratiche sono del tutto funzionali all’occupazione israeliana contro il popolo palestinese”, ha aggiunto la dichiarazione.

The Electronic Intifada nei suoi articoli ha frequentemente citato i tweet della QNN, in quanto la rete fornisce spesso una copertura quasi in tempo reale degli eventi sul terreno in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Tale copertura è risultata altamente affidabile.

Twitter ha precedentemente imposto la censura militare israeliana costringendo gli utenti a eliminare dei tweet specifici.

Ma eliminare integralmente delle fonti giornalistiche dalla sua piattaforma segna una nuova fase nel tentativo di bloccare le informazioni da e sulla Palestina.

L’azione di Twitter fa fatto seguito a una recente decisione dell’Autorità palestinese di bloccare l’accesso ai siti Web di decine di organi di informazione palestinesi, tra cui la QNN, nel segno di una grave repressione della libertà di espressione.

L’Autorità Nazionale Palestinese collabora a stretto contatto con le forze di occupazione israeliane all’insegna del “coordinamento per la sicurezza”.

L’azione di Twitter fa anche seguito ad una lunga campagna di censura di Facebook rivolta a giornalisti e pubblicazioni palestinesi.

Pressione del Congresso

Alcuni utenti di Twitter hanno sottolineato che la sospensione degli account della QNN è coincisa con la chiusura degli account associati alle organizzazioni che si oppongono a Israele, in particolare di Hamas e degli Hezbollah libanesi – che Israele e gli Stati Uniti considerano “terroristi”.

Twitter sembra aver disabilitato l’account di Al Manar, un canale televisivo gestito da Hezbollah [si tratta di una rete televisiva libanese già messa al bando nel 2004 dagli USA e, successivamente, da alcune Nazioni europee, n.d.tr.].

Questa censura fa seguito alle pressioni dei membri del Congresso che a settembre hanno scritto a Twitter e ad altri social media chiedendo la chiusura dell’account di Al Manar e degli account associati ad Hamas.

I parlamentari hanno chiesto alle aziende di fornire un “piano dettagliato e una sequenza temporale sulle modalità della rimozione dei contenuti e degli account della [Organizzazione terroristica straniera], nonché degli account delle fonti di propaganda che diffondano ulteriori contenuti terroristici”.

In una prima risposta ai parlamentari – il democratico Josh Gottheimer del New Jersey e i repubblicani Tom Reed di New York e Brian Fitzpatrick della Pennsylvania -, Twitter ha dichiarato che avrebbe rimosso i cosiddetti contenuti “terroristici”.

Tuttavia, la compagnia di social media ha inizialmente resistito alla richiesta perentoria di prendere severi provvedimenti anche contro i discorsi di partiti politici e media.

Twitter ha affermato di “poter fare delle eccezioni limitatamente ai gruppi che si siano ravveduti o che stiano attualmente impegnandosi in processi di soluzione pacifica, nonché ai gruppi che abbiano rappresentanti nominati a cariche pubbliche attraverso le elezioni,

Ma i parlamentari hanno continuato a fare pressione, e Gottheimer ha accusato Twitter di “opporsi alle leggi degli Stati Uniti sostenendo palesemente organizzazioni terroristiche straniere, tra cui Hamas e Hezbollah”. “Twitter sta letteralmente e arrogantemente contestando la decisione del governo degli Stati Uniti riguardo a ciò che costituisce un’organizzazione terroristica”, ha aggiunto Gottheimer.

Il deputato afferma che il governo ha il diritto di decidere con decreto esecutivo quali organizzazioni possano o meno avere la parola o essere ascoltate dagli americani semplicemente etichettandole come “terroriste” – una palese violazione del Primo Emendamento.

Ma invece di difendere i diritti di libertà di parola, questa volta sembra che Twitter abbia ceduto alle pressioni politiche e alle intimidazioni sopprimendo una vasta gamma di account che sfidano la politica israeliana e americana.

Essi includono quelli della QNN, una rete indipendente.

Il deputato Gottheimer è un importante sostenitore della censura dei media al fine di proteggere Israele.

L’anno scorso ha firmato una lettera in cui si chiedeva che il governo degli Stati Uniti indicasse Al Jazeera come un “agente straniero” perché la rete aveva realizzato un documentario che rivelava attività segrete negli Stati Uniti da parte di Israele e della sua lobby.

Al Jazeera non ha mai trasmesso il documentario, The Lobby – USA, dopo che il finanziatore della rete del Qatar è stato sottoposto a forti pressioni da parte della lobby israeliana.

Tuttavia, dopo esser entrato in possesso di una copia fatta filtrare clandestinamente, un anno fa Electronic Intifada ha divulgato pubblicamente il film completo.

Seguire le imposizioni del governo?

Twitter sembra seguire le imposizioni delle autorità statunitensi per mettere a tacere anche in altri Paesi i nemici [da loro] ufficialmente indicati.

A settembre, ad esempio, ha chiuso gli account dei media e [quelli] di importanti funzionari cubani.

L’anno scorso ha anche chiuso gli account appartenenti all’ufficio stampa del governo venezuelano.

Nel frattempo, Twitter consente alle forze di occupazione israeliane di utilizzare liberamente la sua piattaforma per esaltare i crimini di guerra contro i palestinesi.

Twitter non è inoltre riuscito a sopprimere le dilaganti minacce di morte contro Ilhan Omar e altri parlamentari statunitensi che sono stati presi di mira da istigazioni razziste e da campagne diffamatorie per aver criticato Israele e la politica estera degli Stati Uniti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 15 – 28 ottobre 2019 (due settimane)

Le dimostrazioni collegate alla “Grande Marcia del Ritorno”, iniziate il 30 marzo 2018, si sono ripetute per l’80esima settimana consecutiva. Nel corso delle proteste settimanali [svolte nel periodo di riferimento del presente Rapporto], 335 palestinesi, tra cui 168 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; non sono stati segnalati morti.

Dei 335 feriti, 68 (di cui 29 minori) sono stati colpiti con armi da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati, bombe a mano e bottiglie incendiarie e che ci sono stati diversi tentativi di aprire brecce nella recinzione. Non sono stati registrati ferimenti di israeliani.

In almeno 28 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle aree della Striscia di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa. Sono stati segnalati due feriti [palestinesi], uno dei quali un lavoratore. In altri due episodi, le forze israeliane hanno arrestato quattro palestinesi che, a quanto riferito, avrebbero tentato di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale; due di loro erano minori. Le forze israeliane hanno effettuato quattro incursioni [entro la Striscia] e compiuto operazioni di spianatura del terreno nei pressi della recinzione perimetrale.

Il 18 ottobre, al checkpoint di Jubara (Tulkarm), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese 25enne. Secondo le autorità israeliane, l’uomo avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano, mentre, secondo Organizzazioni per i Diritti Umani, i soldati hanno sparato e ucciso l’uomo perché si era avvicinato ad un’area riservata del checkpoint, non rispettando l’ordine di fermarsi. Il suo corpo è ancora trattenuto dalle forze israeliane. Il 24 ottobre le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni nella zona H2 (controllata da Israele) della città di Hebron. Come conseguenza, 70 palestinesi, tra cui 28 minori, avendo inalato gas, hanno avuto bisogno di cure mediche e sono stati trasportati in ospedale. La mattina seguente è morto un neonato palestinese.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, altri 134 palestinesi, tra cui almeno sette minori, sono stati feriti da forze israeliane [di seguito il dettaglio]. 52 feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso e, a Turmus’ayya (Ramallah), durante una manifestazione contro gli attacchi al villaggio da parte di coloni israeliani e la recente installazione, sempre ad opera di coloni, di due strutture sulla terra del villaggio, vicino all’insediamento colonico di Shilo. Nel villaggio di Qaffin (Tulkarm), vicino a una porta della Barriera, in due casi distinti, le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese e ne hanno aggredito fisicamente un altro; entrambi avevano tentato di attraversare la Barriera senza permesso. Nella città di Nablus, altri 51 palestinesi sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane, avvenuti in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito religioso della Tomba di Giuseppe. Altri 9 palestinesi sono rimasti feriti nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah), in scontri verificatisi durante una “demolizione punitiva”, descritta in un successivo paragrafo. In un episodio separato, accaduto nel medesimo Campo, le forze israeliane hanno sparato e ferito un palestinese. Secondo resoconti di media israeliani, si sarebbe trattato di un tentativo di aggressione con auto, e l’uomo sarebbe stato colpito, dopo lo scontro, perché sospettato di avere con sé un oggetto sospetto. Fonti locali palestinesi hanno riferito che l’uomo si è schiantato accidentalmente contro una jeep militare. Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Complessivamente, quasi la metà dei [134] feriti è stata curata per aver inalato gas lacrimogeno, il 38% perché colpito da proiettili di gomma e i rimanenti per aver subito aggressioni fisiche o ferite di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 79 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 86 palestinesi, tra cui nove minori. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nel governatorato di Hebron (23), seguono i governatorati di Ramallah e di Gerusalemme.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto le persone ad autodemolire, cinque strutture, sfollando dieci persone e causando ripercussioni di diversa entità su altre 19 [segue dettaglio]. Tre delle strutture colpite erano a Gerusalemme Est e due in Area C. Due di queste [cinque strutture] si trovavano nei quartieri di Beit Hanina e Jabal al Mukabbir (Gerusalemme Est), dove due famiglie palestinesi sono state costrette ad autodemolire una struttura abitativa in un caso, ed una di sostentamento nell’altro, provocando lo sfollamento per la prima famiglia e ripercussioni sulla sussistenza della seconda. A Gerusalemme Est, oltre un quarto delle demolizioni di quest’anno (52 su 178 strutture) sono state eseguite dagli stessi proprietari palestinesi, principalmente per evitare di pagare al Comune il costo della demolizione. La terza demolizione, effettuata dalle autorità israeliane a Gerusalemme Est, vicino al checkpoint di Qalandiya, riguardava due piani in costruzione, per otto appartamenti. Altre due proprietà [delle 5] sono state demolite in Area C, vicino al Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron); si trattava di strutture agricole e per animali. Il numero di strutture demolite finora in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, rileva un aumento di quasi il 35% rispetto al corrispondente periodo del 2018.

Il 24 ottobre, nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah), in Area A [ad amministrazione palestinese], le autorità israeliane hanno demolito, per “motivi punitivi”, un edificio residenziale a tre piani in costruzione, colpendo quattro famiglie (tredici persone). La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese che era stato accusato di aver ucciso, nel maggio 2018, un soldato israeliano durante un’operazione di ricerca-arresto; successivamente l’uomo era stato condannato all’ergastolo dalle autorità israeliane. Degli scontri scoppiati durante la demolizione è stato riferito sopra [nel 4° paragrafo]. Dall’inizio del 2019, per “motivi punitivi” sono state demolite sette case. Erano state sei nel 2018 e nove nel 2017.

In diverse aree della Cisgiordania, la raccolta delle olive è stata pesantemente disturbata dalla violenza di coloni israeliani: sono stati aggrediti e feriti due agricoltori [palestinesi], sono stati danneggiati 1.085 alberi e rubate diverse tonnellate di olive. Le Comunità colpite includevano Al Jab’a e Nahhalin (entrambe in Betlemme), Burin e Awarta (entrambe in Nablus), Kafr ad Dik e Yasuf (entrambe a Salfit) e Turmus’ayya (Ramallah). Sono stati inoltre segnalati numerosi altri episodi di lancio di pietre da parte di coloni nei confronti di agricoltori palestinesi. La raccolta delle olive, che si svolge ogni anno tra ottobre e novembre, è un evento chiave per i palestinesi, sia sul piano economico che sociale e culturale.

Cinque attacchi di coloni hanno provocato ferimenti e danni a proprietà palestinesi. Un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani nell’area controllata da Israele [zona H2] della città di Hebron. Oltre 40 veicoli e alcune case sono stati vandalizzati nei villaggi di Yatma (Nablus) e Deir Ammar (Ramallah). In altri due casi, verificatisi nei villaggi di Al Mughayyir (Ramallah) e Qusra (Nablus), è stato riferito che coloni israeliani hanno danneggiato una struttura agricola di proprietà palestinese, hanno spruzzato graffiti tipo “questo è il prezzo da pagare” e vandalizzato un cancello e serbatoi d’acqua. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 270 casi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o danneggiato proprietà palestinesi; un numero un po’ più alto rispetto a quello del corrispondente periodo del 2018 (213 casi), ma più che doppio rispetto a quello del 2017 (124 casi).

Media israeliani hanno riportato tre episodi di attacchi con pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; almeno tre veicoli hanno subìto danni. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 90 casi in cui palestinesi hanno ucciso o ferito coloni o altri civili israeliani oppure danneggiato le loro proprietà; un calo rispetto al numero di episodi avvenuti nei corrispondenti periodi del 2018 (141 casi) e 2017 (211 casi).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’Autorità Palestinese fa il lavoro sporco per Israele: è per questo che fu creata

Asa Winstanley

30 Ottobre 2019 Middle East Monitor

Nonostante ciò che ne avrete sentito dire, l’Autorità Nazionale Palestinese non è un “governo palestinese”. Infatti, “Autorità Nazionale Palestinese” è una denominazione impropria, perché l’organismo non è dotato di autorità vera e propria e non agisce nell’ interesse della maggioranza dei palestinesi.

Innanzitutto, non è sicuramente un’istituzione democratica. Sono almeno 14 anni che non si tengono elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, se escludiamo le votazioni interne.

L’ultima volta che il parlamento fittizio dell’ANP ha indetto elezioni effettivamente democratiche è stato nel 2006. Dal punto di vista dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, però, vinse il partito sbagliato. Il Movimento Islamico di Resistenza, Hamas, vinse grazie a un programma di welfare e lotta alla corruzione, con una lista di candidati chiamata Change and Reform [Cambiamento e Riforma, ndt]. Gli elettori palestinesi votarono per Hamas vedendo in esso un cambiamento rispetto alla corruzione, ritenuta dilagante nel partito di maggioranza Fatah di Mahmoud Abbas.

Anche il fallimento della strategia del “processo di pace” del presidente dell’ANP, cioè la resa ad Israele attraverso i negoziati, ebbe un certo peso nella sorprendente sconfitta del suo partito. Eppure, invece di riflettere sul messaggio forte e chiaro inviato dagli elettori, e prepararsi a vivere all’opposizione, Fatah rifiutò di accettare il risultato delle elezioni “libere e democratiche” e di trasferire il potere ad Hamas, il nuovo governo eletto. La leadership di Fatah venne incoraggiata a questa pericolosa reazione dagli americani, dagli europei, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Il risultato fu la spietata guerra civile palestinese del 2007.

Le forze armate a Gaza, guidate da Mohammed Dahlan, all’epoca influente personaggio di Fatah, erano pronte a realizzare un colpo di stato contro Hamas e i suoi combattenti. Hamas scoprì il piano ed espulse da Gaza Dahlan e i suoi uomini. Venne quindi organizzato da Abbas un colpo di stato in Cisgiordania contro il governo eletto di Hamas.

Nonostante anni di interminabili e intermittenti negoziati tra Hamas e Fatah per un “governo di unità nazionale”, da allora non ci sono state elezioni, né legislative né presidenziali. L’“Autorità Nazionale Palestinese”, quindi, non ha alcun mandato democratico. E, di fatto, non lo ha nemmeno Abbas; il suo incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2009.

Ancor più importante, l’ANP non ha il mandato della totalità dei palestinesi, la maggior parte dei quali vivono in esilio, come rifugiati. I loro diritti non sono tutelati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo il fallimentare processo degli Accordi di Oslo, iniziato negli primi anni ‘90, il loro legittimo diritto al ritorno non è stato rispettato né tutelato.

Inoltre, anche relativamente alla limitata sfera d’influenza e alla parte di popolazione palestinese che sostiene di rappresentare nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza – che insieme costituiscono appena il 22% della Palestina storica – l’Autorità Nazionale Palestinese agisce per far rispettare la volontà di Israele. Il settore più attivo e meglio finanziato dell’autorità è quello della sicurezza, con circa 70.000 funzionari che operano in una mezza dozzina di servizi di sicurezza.

Gli addetti alla sicurezza dell’ANP vengono addestrati da USA ed Europa, ed esistono unicamente per controllare il popolo palestinese. Il loro unico compito è prevenire la resistenza, armata o pacifica che sia, contro Israele, proteggere Israele e tutelare i leader dell’ANP. Gli ordini loro impartiti sono di farsi da parte se, sulla scena di qualsiasi evento, arriva il personale della sicurezza israeliano.

Nel 2014 Abbas definì “sacro” il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele. Con il passare degli anni, però, ha più volte minacciato di porre fine a tale collaborazione con Israele, di solito quando sono stati a rischio i finanziamenti all’ANP. Eppure è rimasto fedele al suo discorso del 2004, e il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele rimane ben saldo.

L’ ANP, quindi, può essere ragionevolmente considerato una marionetta, un organismo collaborazionista che esegue gli ordini dell’occupazione israeliana. Non sorprende, quindi, scoprire che sta impedendo la libertà di parola e agendo in modo autoritario e oppressivo. In questo, l’ ANP è complementare alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, che è sempre stata dittatoriale.

Con la sua ultima mossa autoritaria, l’ANP ha oscurato un gran numero di siti e social network palestinesi e arabi. Su richiesta del Procuratore Generale dell’ANP, il 17 ottobre la pretura di Ramallah ha ordinato il blocco di altri 59 siti web e pagine di notizie in rete.

Secondo l’ordinanza, i siti violavano la legge sui crimini informatici, approvata dall’ANP nel 2017. I gruppi per i diritti umani hanno definito la legge uno “strumento per mettere a tacere la legittima libertà di espressione e la critica alle autorità”.

La lista dei siti oscurati include Arab48, Wattan TV, Shebab News Agency, Quds News Network, Gaza Now e Metras. È da sottolineare che nessuno dei siti oscurati è israeliano.

L’Autorità Nazionale Palestinese sta nascondendo la testa sotto la sabbia, cercando di impedire la libertà di espressione e rispedendo i media nazionali in quell’oscurità in cui aveva tentato di relegarli l’occupazione israeliana, senza riuscirci”, ha dichiarato Husam Badran, portavoce di Hamas. “Il nuovo divieto può significare solo che l’ ANP e l’occupazione stanno lottando dalla stessa parte contro l’espressione nazionale palestinese, che denuncia le violazioni da parte dell’occupazione, la corruzione e il crimine”.

L’ANP si vende come strumento utile all’occupazione israeliana; riesce a fare cose che Israele non può fare. Eppure, gli israeliani considerano l’ANP sempre più irrilevante. Perché dovrebbero impiegare un subappaltatore per l’occupazione, quando possono direttamente portarla avanti loro? Questo è il dilemma in cui si trova l’ANP, da qui le periodiche e vuote minacce di chiudere la collaborazione per la sicurezza.

Tuttavia, almeno per ora, possiamo aspettarci che l’Autorità Nazionale Palestinese continuerà a fare il lavoro sporco per Israele. Dopotutto, è esattamente il motivo per cui fu creata.

Le opinioni espresse nell’articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Due brevi notizie

 

Attacchi aerei israeliani contro Gaza in risposta al lancio di razzi

MEE e agenzie

2 novembre 2019 Middle East Eye

Secondo il Ministero della Sanità un uomo è stato ucciso e due sono stati feriti nelle incursioni. 

Non è stato detto se appartenessero a qualche fazione.

Una fonte di Hamas ha riferito alla Associated France Press che è stata usata la contraerea contro gli aerei durante i raid e l’esercito israeliano ha confermato il “fuoco nemico” da Gaza.

Gli attacchi sono avvenuti dopo che venerdì almeno 10 razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza  verso il sud di Israele, colpendo un’abitazione residenziale.

L’esercito israeliano ha affermato che otto razzi sono stati intercettati dal sistema “Iron Dome” di difesa anti-missile del territorio.

Nessuna fazione armata a Gaza si è dichiarata responsabile del lancio dei razzi, ma il [comando] militare israeliano sostiene che  in ultima analisi Hamas è responsabile degli attacchi.

Secondo Ha’aretz, che ha riferito di un altro razzo sparato giovedì da Gaza, questo è stato il secondo episodio di lancio di razzi.

L’aumento della tensione avviene contemporaneamente allo stallo politico in Israele.

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz è bloccato nei negoziati per formare un nuovo governo dopo che lo scorso mese Benjamin Netanyahu ha detto di non essere in grado di farlo.

Se anche Gantz non riuscirà a formare una coalizione di maggioranza, gli israeliani andranno a votare per la terza volta da aprile.

Dal 2008 Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre nella Striscia di Gaza.

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Israele arresta l’esponente palestinese di sinistra Khalida Jarrar

Al Jazeera.

L’ex deputata Jarrar è stata arrestata da decine di soldati israeliani nella sua casa di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

31ottobre 2019 Al Jazeera

Nella notte di giovedì le forze israeliane hanno arrestato l’importante esponente palestinese nella sua casa di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, .

I media locali riferiscono che Khalida Jarrar, ex membro del disciolto Consiglio Legislativo Palestinese, è stata arrestata alle 3 del mattino ora locale e portata in luogo sconosciuto.

Secondo la figlia Yara Jarrar, la casa è stata circondata da più di 70 soldati, arrivati con 12 veicoli militari.

La mamma e [mia] sorella dormivano quando sono arrivati,” ha detto Yara in un post su Twitter.

La 56enne Jarrar, che appartiene al movimento di sinistra Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (PFLP) – considerato da Israele un gruppo “terrorista”- era già stata arrestata nel 2015 e nel 2017.

L’ultimo rilascio da una prigione israeliana è avvenuto lo scorso febbraio dopo 20 mesi di “detenzione amministrativa”- un sistema di incarcerazione inbase al quale un detenuto è tenuto in arresto senza un’accusa e senza processo.

Secondo “Samidoun”, una rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, Jarrar da molto tempo si batte per la liberazione dei prigionieri palestinesi ed è stata in passato vice presidente e direttrice esecutiva del gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”.

“Samidoun” ha scritto sul suo sito: “All’interno delle prigioni dell’occupazione israeliana Jarrar ha svolto un ruolo di guida nel favorire l’educazione delle ragazze minorenni recluse, organizzando lezioni sui diritti umani e dando ripetizioni alle ragazze quando la direzione del carcere negava loro un insegnante per gli esami obbligatori alle superiori”

Attualmente ci sono sette politici palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, di cui cinque in condizione di detenzione amministrativa.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un “attacco” contro i mezzi di comunicazione: il blocco di siti web da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese suscita indignazione

Shatha Hammad – RAMALLAH, Territori palestinesi occupati (Cisgiordania)

Venerdì 25 ottobre 2019 – Middle East Eye

Giornalisti e difensori dei diritti umani affermano che la rivolta popolare libanese ha spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a soffocare la libertà d’espressione

In seguito a una richiesta del procuratore generale l’Autorità Nazionale Palestinese ha bloccato 59 siti e pagine palestinesi d’informazione sulle reti sociali, una decisione che, secondo i giornalisti e i militanti della società civile, intende soffocare il dissenso e le critiche nei confronti del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

L’ANP accusa i siti vietati di insultare i suoi responsabili, di pubblicare articoli e foto che mettono a rischio la “sicurezza nazionale” e la “pace civile” palestinesi e che nuocciono all’opinione pubblica palestinese.

Evocando le recenti rivolte popolari in Libano e altrove nella regione, chi critica la decisione afferma che questa repressione nei confronti dei mezzi di comunicazione è un tentativo da parte dell’ANP inteso a garantire che i palestinesi non facciano altrettanto.

Il divieto è stato in primo luogo segnalato da Maan, un’agenzia di stampa palestinese strettamente legata all’ANP.

Prende di mira siti web e pagine sulle reti sociali che criticano l’Autorità Nazionale Palestinese o che sono percepiti come sostenitori di Mohammed Dahlan, il rivale esiliato del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Secondo Maan l’ordinanza del tribunale per bloccare l’accesso ai siti è arrivata lunedì, dopo una richiesta della procura in base all’articolo 39 comma 2 della legge relativa ai reati informatici.

I provider e le imprese di telecomunicazioni palestinesi hanno applicato la decisione fin dal suo annuncio.

Nel 2017 l’ANP è stata oggetto di vivaci critiche quando, con un decreto esecutivo, è stata adottata la legge relativa alla criminalità informatica, i cui critici accusavano il governo con sede in Cisgiordania di cercare di soffocare le voci dell’opposizione e le critiche per le sue scelte sia politiche che economiche, compresa l’attuale cooperazione con Israele in materia di sicurezza.

Lunedì “Samidoun”, la rete palestinese di solidarietà con i prigionieri, ha dichiarato che la decisione di vietare i siti “rivela il timore (da parte dell’ANP) di un’esplosione popolare simile alle rivoluzioni arabe, l’ultima delle quali si sta svolgendo attualmente in Libano.”

I siti vietati sono tutti considerati oppositori dell’ANP, e tra questi figurano “Quds News Network” e “Arab48”.

Per Ahmed Jarrar, direttore di “Quds News”, è la seconda volta che l’ANP blocca l’accesso al sito web del canale informativo. Creata nel 2013, la rete è seguita da più di 7,8 milioni di persone sulle reti sociali.

Jarrar dice a Middle East Eye che il personale di “Quds News” è spesso molestato dalle forze di sicurezza israeliane e dell’ANP, che impediscono in particolare di informare sulle manifestazioni ed effettuano regolarmente dei controlli di sicurezza.

Definisce la decisione di bloccare i siti “un massacro contro i media palestinesi. Ci siamo già rivolti alla giustizia palestinese e ci torneremo, nonostante la nostra sensazione che non si tratti di una decisione giudiziaria. Comunque contatteremo le istituzioni per i diritti dell’uomo e quelle internazionali perché ci sostengano e facciano annullare questa decisione,” insiste Jarrar.

Il blocco è un crimine”

Dall’applicazione del divieto, alcuni giornalisti difensori dei diritti dell’uomo e avvocati palestinesi si sono uniti nella campagna telematica spontanea con lo slogan “Il blocco è un crimine”, per chiedere l’annullamento dell’ordinanza.

Omar Nazzal, membro della segreteria generale del sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), ritiene che la decisione di bloccare i siti sia scioccante e che si tratti di una giornata nera per la stampa palestinese.

Questa decisione è un attentato alla libertà d’opinione ed espressione, come anche al diritto dei cittadini di informarsi attraverso fonti diversificate,” ha dichiarato a MEE.

Inoltre sottolinea che il PJS aveva già messo in guardia contro gli effetti distruttivi della legge sulla criminalità informatica per i media palestinesi: “Avevamo già avvertito che questa legge era una spada di Damocle per i giornalisti.”

A Gaza alcuni giornalisti hanno organizzato una manifestazione davanti al locale ufficio del sindacato dei giornalisti per esprimere il proprio rifiuto del blocco.

Secondo loro questa decisione è legata al timore dell’ANP che i palestinesi possano scendere in piazza – in linea con le “rivoluzioni arabe” che si manifestano in tutta la regione – per protestare contro le loro specifiche difficoltà politiche ed economiche.

Un portavoce del sindacato di Gaza, Ahmad Zoabar, dice a MEE che il blocco dei siti è una decisione politica che serve ad Israele, impedendo ai giornalisti palestinesi di mettere in evidenza la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’ Autorità Nazionale Palestinese teme che la stampa ne denunci la corruzione, cosa che potrebbe portare a un’esplosione popolare simile a quella che sta avvenendo il Libano,” ritiene.

Questo mese migliaia di manifestanti libanesi sono scesi in strada per protestare contro la corruzione dello Stato e la disastrosa situazione economica del Paese. Inoltre chiedono la cacciata del governo libanese e dei membri della classe dirigente.

Una legge adottata in segreto

La legge riguardante la criminalità informatica è stata adottata per la prima volta nel 2017, “in segreto” e senza prendere in considerazione i contributi forniti all’ANP dalle istituzioni della società civile palestinese, spiega Issam Abdeen, consigliere politico del gruppo palestinese di difesa dei diritti umani “Al-Haq”.

Dopo una generalizzata reazione di rifiuto, è stata modificata e adottata di nuovo l’anno dopo.

Ciononostante questi “emendamenti sono stati insufficienti”, dichiara Abdeen a Middle East Eye. Secondo Abdeen, l’articolo 39 della legge è particolarmente problematico, in quanto “consente ai servizi di sicurezza di presentare al procuratore generale una richiesta di bloccare i siti web, che in seguito viene inviata al tribunale, il cui unico compito è di esaminarla e prendere una decisione entro 24 ore.”

I siti web e i link possono essere bloccati se le autorità decidono che essi “potrebbero minacciare la sicurezza nazionale, la pace civile, l’ordine pubblico o la moralità pubblica,” stabilisce l’articolo.

Al-Haq” e altre organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti dell’uomo hanno chiesto che l’articolo 39 e altri articoli della legge vengano modificati, ma Abdeen sostiene che le loro richieste sono state respinte. Ciò “ci ha spinti a congelare la nostra adesione al comitato formato per modificare la legge,” precisa.

Questa legge è una delle più gravi e più pericolose per la libertà d’opinione e d’espressione, per le libertà dei mezzi di informazione e le libertà digitali, così come per l’accesso alle informazioni,”

Mohammed al-Hajjar ha contribuito a questo articolo da Gaza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Quando dare del pane a Gaza costituisce un crimine

Yvonne Ridley

25 ottobre 2019 – Middle East Monitor

L’inviato del Qatar Mohammed Al-Emadi è arrivato a Gaza lo scorso weekend con 180 milioni di dollari da distribuire ai palestinesi bisognosi. Nel caso di Gaza questo significa potenzialmente l’intera popolazione, visto che essa si dibatte da una crisi umanitaria all’altra a causa del feroce assedio imposto da Israele da un lato e dall’Egitto dall’altro.

Il denaro del Qatar è disperatamente necessario per pagare il combustibile per l’elettricità, i salari e gli aiuti economici alle famiglie palestinesi che lottano per vivere sotto l’assedio. La speciale consegna non è una sorpresa per Israele, poiché già in maggio il Qatar ha annunciato che avrebbe inviato 480 milioni di dollari alla Cisgiordania occupata e a Gaza per “aiutare il popolo palestinese fratello a far fronte ai propri bisogni primari.”

Il denaro è entrato con l’appoggio (senza dubbio riluttante) di Tel Aviv, che con la mediazione dell’Egitto ha accettato una tregua “ufficiosa” con Hamas, che sostanzialmente governa ancora la Striscia di Gaza. Il denaro sarà utilizzato per pagare i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese ed ha permesso all’ONU di incrementare gli aiuti.

Comunque, il fatto stesso che questo sta accadendo ha un enorme significato e dovrebbe ora essere usato come prova per mettere fine al dramma kafkiano che ha visto cinque americani palestinesi incarcerati in quello che è stato descritto come uno dei peggiori casi di errore giudiziario negli Stati Uniti. Il dramma è iniziato nel 2004 quando l’FBI, insieme al Dipartimento del Tesoro statunitense e ad una serie di diverse forze di polizia del Texas e della California, ha arrestato dei funzionari della ‘Holy Land Foundation’ (Fondazione Terra Santa) nel corso di ispezioni a sorpresa. I “cinque HLF” erano –e sono ancora – Shukri Abu Baker, Mohammad El-Mezain, Ghassan Elashi, Mufid Abdulqader e Abdulrahman Odeh, che nel 1990 avevano fondato l’associazione musulmana di beneficienza.

I cinque sono stati accusati di aver fornito supporto materiale a Hamas e nel primo processo la giuria non ha raggiunto un verdetto. Il nuovo processo presso il tribunale federale di Dallas è iniziato nel settembre 2008 ed ha incluso una testimonianza senza precedenti fornita segretamente da una spia israeliana nota semplicemente come “Avi”. Gli avvocati della difesa non sono stati in grado di mettere in discussione il passato e le credenziali di Avi.

Il giudice Jorge Solis ha detto alla giuria che era consentito soppesare la credibilità del soggetto alla luce del suo anonimato, ma ha respinto il diritto dell’imputato, in base al Sesto Emendamento, di “confrontarsi con i testimoni contro di lui.” Fino ad allora niente nella costituzione americana aveva permesso una condanna in base ad accuse anonime, ma il tribunale è andato avanti ed ha condannato tutti i cinque uomini.

Una delle 108 accuse contenute nella condanna affermava che la ‘Holy Land Foundation’ aveva favorito gli attacchi suicidi fornendo assistenza agli orfani degli attentatori. È poi risultato che, dei 200 attentatori suicidi che hanno agito in Palestina in quel periodo, nessuno aveva dei figli. Infatti – ed in stridente contrasto – in realtà la HLF ha fornito assistenza finanziaria ai figli di persone messe a morte da Hamas per collaborazionismo con Israele.

E’ anche emerso che le ispezioni a sorpresa e l’arresto dei cinque sono stati la conseguenza di supposizioni fatte dallo Stato di Israele che l’associazione fosse il terminale di un’operazione illecita di riciclaggio di denaro, che dirottava finanziamenti ad Hamas (dichiarata organizzazione terroristica dagli USA sotto la presidenza di Bill Clinton) attraverso i Comitati Zakat [fondati in Kuwait nel 1981 per raccogliere denaro in base alla legge islamica, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

Simili illazioni hanno portato gli USA a definire nel 2003 la ‘British Charity Interpal’ un “ente terrorista globale”, senza che uno straccio di prova sia mai stato prodotto dal governo americano (o israeliano). Quella definizione è ancora in vigore oggi, nonostante Interpal operi legalmente in Inghilterra e fornisca tuttora aiuti ai palestinesi in difficoltà.

Nel corso del secondo processo contro HLF gli imputati sono stati accusati di aver fornito “supporto materiale” a Hamas e, nel 2009, sono stati condannati dai 15 ai 65 anni di carcere. Il processo è stato presentato come una farsa in un duro libro pubblicato l’anno scorso da Mike Peled, figlio di un famoso generale israeliano e fervente anti-sionista.

Peled ha intervistato le persone incriminate e i loro familiari e si è anche recato nei loro luoghi di nascita in Cisgiordania. Il suo resoconto dettagliato del caso della ‘Holy Land Foundation’ prova senza ombra di dubbio che si è trattato di un caso politico messo in piedi dalle lobby sioniste e da Israele per compromettere, intimidire e criminalizzare chiunque lavori o doni denaro alle associazioni di beneficienza che assistono i palestinesi bisognosi.

La questione è semplice: è impossibile distribuire denaro nella Palestina occupata senza chiedere il permesso delle autorità al potere. Nella Cisgiordania occupata i soldi confluiscono nelle associazioni di beneficienza registrate non solo presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche in Israele e in alcuni casi presso il governo giordano. I trasferimenti monetari devono essere certificati dal sistema bancario israeliano e chiunque si presenti di persona a nome di un’associazione di beneficienza deve ottenere l’autorizzazione dalle stesse autorità per entrare nel Paese. Nel caso della Striscia di Gaza questo significa il governo democraticamente eletto in mano a Hamas e tutte le associazioni di beneficienza devono essere registrate presso l’ANP e gli israeliani. Con questa procedura i soldi non passano di mano, ma le organizzazioni assistenziali e le associazioni di beneficienza operano su autorizzazione delle autorità.

Ora che sappiamo che il Qatar ha spedito un inviato con 180 milioni di dollari in contanti a Gaza con il permesso di Tel Aviv, dovrebbe esserci spazio per un ricorso da parte dei cinque di ‘Holy land Foundation’, in quanto ciò demolisce l’insensatezza dell’onnipresente argomentazione del ”supporto materiale”.

Il sistema giudiziario statunitense dovrebbe vergognarsi del fatto che questi uomini continuino a languire in carcere per non aver svolto altro che un compito umanitario. I veri criminali non sono quelli che sfamano i bambini palestinesi, ma quelli dell’amministrazione Trump che preferirebbero vedere i bambini di Gaza morire di fame piuttosto che consentire loro una sembianza di vita normale in quelle che sono circostanze del tutto anormali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Avete sentito parlare delle violenze in Cile. Probabilmente non avete sentito dire che il suo esercito ha imparato le sue tattiche in Israele

Benjamin Zinevich
 New York

22 ottobre 2019 – The Indipendent

Negli ultimi anni pare che l’IDF abbia utilizzato un metodo per rendere invalidi i manifestanti palestinesi invece di sparare per ucciderli – e ciò lo abbiamo visto riprodotto in Cile questa settimana.

Quello che è iniziato come un atto di disobbedienza civile degli studenti contro l’aumento dei biglietti della metropolitana di Santiago ora si è esteso fuori dalla capitale cilena. Con un’improvvisa rivolta contro l’austerità e la persistente diseguaglianza economica, la proposta di un aumento delle tariffe (per una cifra equivalente a 2 centesimi di euro) è stata semplicemente sale versato su una ferita aperta per i poveri e i lavoratori del Cile. Quando sono state disperse con la forza dalla polizia nazionale, le proteste pacifiche, sono diventate violente. Il governo, guidato da un miliardario di destra, il presidente Sebastián Piñera, ha risposto decretando lo stato d’emergenza e chiedendo all’esercito di sedare le proteste, dichiarando che lo Stato era “in guerra”.

Mentre l’esercito metteva in atto azioni brutali nei confronti di civili che non si vedevano più dai tempi della dittatura, terminata all’inizio degli anni ’90, è importante evidenziare i legami internazionali di tale brutalità. Dovrebbe essere particolarmente messo in rilievo il sostegno militare in termini di tecniche e di risorse dello Stato di Israele al Cile nel passato e nel presente.

Durante il regime di Augusto Pinochet, appoggiato dagli USA, il Cile ha assistito all’incarcerazione, all’uccisione o alla sparizione di decine di migliaia di oppositori politici. Durante quegli anni, Israele e il Cile hanno avuto un rapporto di collaborazione, in quanto Israele era uno dei principali fornitori di armamenti alla giunta militare.

Il periodo oscuro del governo di Pinochet ha significativi rapporti con il presente. Il presidente Piñera, che ha nominato nel suo governo personaggi che hanno fatto commenti a favore di Pinochet, ha anche lavorato per perfezionare leggi cosiddette “antiterrorismo” dell’epoca della giunta. Queste leggi hanno a loro volta aumentato la sorveglianza e l’oppressione dei mapuche [principale popolazione indigena del Cile, ndtr.] e dei gruppi di sinistra.

Oggi le forze armate di Cile e Israele non tentano neppure di nascondere la loro alleanza, citando sul sito web dell’ambasciata cilena in Israele l’intenzione di “incrementare i legami con…Israele per rendere possibile lo scambio di competenze, addestramento ed esperienze.” Nel 2018, durante la visita di quell’anno in Cile del generale israeliano Yaacov Barak, Cile e Israele hanno firmato un accordo in cui si parla di promuovere ulteriore “cooperazione nella formazione, nell’addestramento e nella dottrina militare”

Mentre in entrambi i Paesi questa alleanza notoriamente favorisce il potere dell’esercito, quelli che ne risentono in modo più negativo sono la classe operaia e i popoli indigeni delle due regioni. In Israele i palestinesi sono sottoposti a un sistema di occupazione e di apartheid, e in Cile i lavoratori e i gruppi indigeni, come i mapuche, hanno vissuto per secoli l’oppressione su base coloniale.

Negli ultimi anni l’Israeli Defence Force [Forza di Difesa Israeliana, l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) pare abbia utilizzato la prassi di rendere invalidi i manifestanti palestinesi invece di colpirli mortalmente. Ormai da più di un anno civili palestinesi manifestano nei pressi del muro di Gaza per protestare contro l’occupazione israeliana e l’IDF ha sparato a circa il 60% di questi 10.511 civili agli arti inferiori, con più del 90% delle vittime provocate da proiettili veri.

Durante la settimana scorsa questo metodo israeliano è stato utilizzato contro civili cileni in varie occasioni su cui si hanno informazioni. Una donna è stata colpita a una coscia e si troverebbe in condizioni critiche a causa della perdita di sangue. In un’altra circostanza un giovane di 23 anni è stato colpito a una gamba prima che un veicolo militare lo schiacciasse uccidendolo.

Queste tecniche simili non sono casuali e sono considerate a livello internazionale parte di quello che gruppi di attivisti come “Jewish Voice for Peace” [gruppo di ebrei statunitensi antisionisti, ndtr.] hanno denominato “lo scambio mortale”. Negli Stati Uniti la polizia municipale, agenti dell’ICE [Immigration and Costumer Enforcement, la polizia USA anti-immigrazione, ndtr.] e altri funzionari della sicurezza fanno addestramento insieme all’IDF, condividendo metodi e armamenti che possono incoraggiare l’identificazione in base alla razza, le uccisioni extragiudiziarie e un crescente controllo contro i gruppi più emarginati di entrambi i Paesi.

Emilio Dabed, un avvocato cileno-palestinese, aveva già delineato i collegamenti, scrivendo: “In entrambi i casi i palestinesi e la popolazione indigena del Cile vivono in una condizione di eccezione imposta loro dai colonizzatori e in base alla quale il popolo colonizzato è (visto come) né titolare di diritti di cittadinanza né soggetto politico, ma piuttosto come una minaccia – corpi da governare con una violenza normata nelle leggi.”

Le armi israeliane, che hanno mantenuto al potere Pinochet con la forza, sono state usate in modo sproporzionato contro i mapuche, che hanno appoggiato i tentativi della sinistra, come l’elezione del socialista Salvador Allende nel 1970. Oggi molti indigeni partecipano alle manifestazioni e costituiscono molte delle vittime provocate dall’esercito.

Fuori dal Cile e da Israele è importante denunciare la collaborazione militare che perpetua l’oppressione di popolazioni indigene emarginate. Questi legami tra l’IDF e le forze armate di altri Paesi dovrebbero essere indagati e messi in discussione. Un’ulteriore militarizzazione delle comunità non produce la pace, ma ulteriore brutalità e ingiustizia – ed è tempo di parlare del perché ignoriamo questo fatto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le proteste contro la violenza armata provocano un risveglio politico nei palestinesi residenti in Israele

Henriette Chacar

23 ottobre 2019 – +972

Secondo la nota attivista Fida Tabony, un’ondata di manifestazioni contro la violenza armata e la negligenza della polizia ha suscitato un rinnovato senso di solidarietà tra i cittadini palestinesi residenti in Israele. Dopo anni di divisioni, afferma, “ci stiamo comportando come un popolo”.

Fida Tabony ricorda che un giorno, circa due mesi fa, intorno alle 14, mentre lasciava il suo ufficio a Nazareth, una motocicletta le è sfrecciata davanti. Non ci sarebbe stato nulla di insolito in quel consueto viaggio verso casa se quello stesso motociclista non si fosse poi fermato soltanto due auto più avanti e non avesse aperto il fuoco.

Tabony ricorda al telefono che l’incidente è avvenuto in pieno giorno mentre i bambini stavano tornando a casa dalla scuola. “Ci sono i primi cinque secondi – dice – in cui ti chiedi come poter reagire, non sapendo cosa fare. Ricordo di essermi sentita spaventata e nervosa, ma anche arrabbiata.”

Tabony accenna ad un altro fatto, lo scorso maggio, quando Tufiq Zaher è stato ucciso a colpi di arma da fuoco semplicemente per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Cittadino rispettoso della legge, Zaher stava camminando a Nazaret con sua nipote quando è stato colpito da un proiettile vagante.

All’epoca ero via e le mie figlie dovevano prendere l’autobus da casa a scuola. L’autobus attraversa quella stessa area in cui [Zaher] è stato ucciso. Sono entrata nel panico – dice Tabony – e ho pensato: “Questo potrebbe accadere a chiunque di noi”.

Almeno 74 cittadini palestinesi cittadini di Israele sono stati uccisi dall’inizio dell’anno a causa della violenza armata o di attività criminali all’interno della comunità palestinese. Nel 2018 il numero di vittime nel corso dell’anno è stato di 71. Queste cifre sono solo la punta dell’iceberg, poiché non tengono conto del ripetersi quotidiano di sparatorie o del crimine organizzato che sono arrivati a caratterizzare la realtà giornaliera di così tanti cittadini palestinesi.

Nel corso delle ultime settimane, decine di migliaia di palestinesi cittadini di Israele sono scesi in piazza per protestare contro la violenza armata e l’insufficiente controllo da parte della polizia nelle loro comunità. Sembra che le manifestazioni siano state scatenate dall’uccisione di due fratelli nella città di Majd al-Krum, nella Galilea settentrionale, con le autorità locali che dopo l’episodio hanno abbastanza rapidamente mobilitato la gente, in coordinamento con l’ Higher Arab Monitoring Committee (Comitato superiore arabo per il monitoraggio) – un’organizzazione ombrello che rappresenta 1.9 milioni di cittadini palestinesi cittadini del Paese.

Tabony, co-direttrice della fondazione Mahpach-Taghir e membro del Comitato per la Lotta contro la Violenza di Nazareth, è una nota attivista sociale e politica che è stata coinvolta nell’organizzazione della recente ondata di proteste. Le ho posto domande sulle dimostrazioni, su cosa rivelano dei rapporti della comunità palestinese con le autorità israeliane e su cosa gli organizzatori sperano di ottenere.

Questa intervista è stata riveduta e ridotta per [ragioni di] chiarezza.

Perché queste proteste avvengono ora? Cosa c’è di diverso in questo momento?

Questo è il segno di quanto insopportabile sia diventato il dolore. È così, abbiamo esaurito la pazienza. Le persone non lo accetteranno più. A mio avviso, il fatto che noi, come comunità, decidiamo di nuovo di organizzarci è un segnale positivo. Ci stiamo comportando come un popolo, il che è positivo dopo un lungo periodo di divisioni “.

Che cosa vuoi dire con questo?

Come comunità palestinese che vive all’interno di Israele – afferma Tabony – sappiamo che dal 1948 fino ad oggi lo Stato ha cercato in tanti modi di indebolirci, di distruggere la nostra identità di palestinesi e la nostra unità come popolo. Penso che non siano riusciti a farlo, ma negli ultimi 20 anni, specialmente dall’ottobre 2000 e, ancora di più, nell’ultimo decennio, sotto il governo di Netanyahu, è stato intrapreso un cammino verso leggi estremamente razziste. Stiamo subendo tanto razzismo “.

Nell’ottobre 2000, poco dopo l’inizio della Seconda Intifada, la polizia israeliana ha ucciso 13 palestinesi, di cui 12 civili, mentre protestavano in solidarietà con i manifestanti in Cisgiordania e Gaza. Alla fine il governo ha nominato una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni, ma non è stato incriminato un solo ufficiale. La violenza ha segnato una svolta per i cittadini palestinesi di Israele, erodendo ulteriormente la scarsa fiducia che avevano nelle istituzioni statali e nelle forze dell’ordine.

Questa grave violazione della fiducia, tuttavia, è stata accompagnata da politiche economiche che hanno integrato meglio i cittadini palestinesi nella forza lavoro israeliana, spiega Tabony, creando un singolare equilibrio: “Da un lato, il razzismo è costante”, dice, e dall’altro , “ci vengono presentate nuove opportunità di lavoro”, come la risoluzione 922, con la quale il governo nel dicembre 2015 ha promesso 3,3 – 3,8 miliardi di euro per la promozione dello sviluppo economico nella società araba nei successivi cinque anni. Ciò ha dato origine all’individualismo, spronato dalla frenetica competitività della vita moderna, “che spesso ci allontana dal nostro senso di identità e dalla nostra principale battaglia – rivolta a porre fine all’occupazione.

“A tal proposito – aggiunge Tabony – le donne hanno assunto un ruolo chiaramente centrale in questa lotta”.

In che modo?

“Quando abbiamo bloccato la strada n°6 [una delle autostrade a pagamento nel centro di Israele], era notevole il numero di donne che guidavano le auto da sole. C’era un gruppo impressionante di donne che protestavano anche in testa [al corteo], dirigendo gli slogan e assumendo un ruolo attivo. Il numero di donne e ragazze alla protesta di Majd al-Krum è stato sorprendente. In entrambe le proteste di Nazareth che ho contribuito a organizzare, le donne hanno fatto parte della pianificazione e hanno costituito una parte significativa dei partecipanti. Ciò dimostra una partnership più autentica nella nostra comunità – afferma Tabony. – Lo spazio per le donne si è ampliato.”

Secondo Tabony, un altro motivo per cui queste manifestazioni stanno prendendo piede ora è la sensazione tra i cittadini palestinesi di essere uniti sotto un’unica guida “di fronte a un governo e a un regime fortemente razzisti” – in particolare con il ritorno, alle elezioni nazionali di settembre, della Lista Unita, che riunisce candidati palestinesi ed ebrei non sionisti. “In occasione di ogni protesta partecipano sempre più persone e spero che i nostri numeri continueranno a crescere”, afferma.

Ma sono le stesse persone, la leadership non è cambiata. Cosa c’è di diverso ora?

Sono tutti stufi. Da quando io ricordi ho sempre partecipato alle proteste. Ora vedo in queste dimostrazioni persone che non avrei mai immaginato di vedere. C’è una ventata di entusiasmo, unito a una maggiore consapevolezza sociale e politica – spiega Tabony. – C’è un più forte senso di responsabilità tra le persone”.

Tabony ritiene che la sparatoria di Majd al-Krum sia ciò che ha scatenato le proteste in parte a causa del classismo nella società palestinese. “Quando la violenza si manifestava nell’area del “Triangolo ” [una concentrazione di città e villaggi arabi israeliani adiacenti alla Linea Verde, situata nella pianura orientale di Sharon tra le colline del Samarian, n.d.tr.] o a Ramleh, Lyd e Yaffa, quante persone abbiamo mobilitato? Ci siamo davvero comportati come un solo popolo? No.”

Intendi a causa della disuguaglianza socio-economica?

C’è sicuramente del classismo nella nostra comunità. – afferma Tabony – Il nord è diverso dal sud”.

La maggior parte dei cittadini palestinesi israeliani vive nelle regioni “periferiche”, lontano dal centro economico e culturale del paese. Circa il 57% degli arabi vive nel nord, tra cui Haifa e la Galilea. Il “Triangolo” si riferisce a un gruppo di città e cittadine palestinesi più vicine al centro geografico di Israele, dove, insieme alle “città miste” [tra ebrei e arabi, n.d.tr.] di Jaffa, Ramleh e Lyd, vive circa il 10,7% della popolazione palestinese israeliana.

I palestinesi [che vivono] nei piccoli comuni e nelle città esclusivamente arabe del nord sono orgogliosi del loro parziale senso di autonomia dallo Stato, irraggiungibile per i palestinesi delle “città miste”. Mentre il governo esercita ancora un controllo significativo sulle località esclusivamente arabe in termini di stanziamenti di bilancio e pianificazione, ad esempio, c’è un senso condiviso dell’agire politico che ispira l’azione collettiva.

La povertà svolge un ruolo significativo nel perpetuare la violenza. Voglio dire, questi due ragazzi che mi sono passati davanti in moto, sono sicari; sono pagati per uccidere. Con la prospettiva di guadagnare grandi somme di denaro in breve tempo, quando non si riesce a trovare lavoro altrove – hanno intravisto questo lavoro “.

In base alle statistiche del 2014, il tasso di povertà tra i palestinesi cittadini di Israele è circa tre volte quello degli ebrei. Secondo i dati del 2011, una media del 47% dei diplomati presso le scuole superiori delle località arabe ha accesso all’iscrizione universitaria, rispetto al 61% delle aree ebraiche.

Ci sono molti altri mali da cui i cittadini palestinesi sono affetti in quanto comunità emarginata e con pochi servizi a disposizione, tra cui le disparità nello stanziamento di fondi pubblici, la segregazione e la confisca delle terre. Perché le proteste si concentrano sulla violenza armata?

“È collegato alla nostra gerarchia dei bisogni. Dopo la garanzia del cibo e di un riparo, viene la necessità del sentirsi al sicuro. La sicurezza personale è un’esigenza fondamentale “.

Secondo Tabony, si ha la sensazione che le autorità abbiano “perso il controllo”. La polizia israeliana e le istituzioni statali, afferma, sono arrivate alla conclusione che questa situazione non sia più sostenibile.

Il rapporto tra la comunità palestinese e le forze dell’ordine israeliane è stato storicamente difficile e complicato. Da un lato, al fine di sentirci più sicuri, chiediamo alla polizia di recarsi nelle città arabe e di svolgere correttamente il proprio lavoro. Dall’altro, non ci fidiamo di loro.

Tabony cita i risultati di un sondaggio del 2019 dell’Abraham Fund [organizzazione che intende promuovere la coesistenza in Palestina tra i tre popoli abramitici: ebrei, cristiani e musulmani, n.d.tr.], secondo il quale solo il 26,1% degli intervistati palestinesi dichiara di fidarsi della polizia israeliana e il 24% esprime soddisfazione per il funzionamento della polizia. Tuttavia, in base a quello stesso rapporto, il 58% di questi intervistati ha affermato che si rivolgerebbe alla polizia se essi stessi o qualcuno nella loro famiglia subisse una violenza.

“Questo dimostra che vogliamo che la polizia faccia il suo lavoro” – afferma Tabony. – “Ma quando non lo fa, ognuno perde fiducia in quell’istituzione.

La polizia stessa – l’intero sistema – è razzista nei nostri confronti e si comporta con noi alla stregua di una minaccia nazionale, non come cittadini con diritto agli stessi diritti e servizi che ottengono i cittadini ebrei. Il punto di partenza per la polizia è che noi siamo dei nemici dello Stato col proposito di uccidere. Solo dopo aver dimostrato che non rappresentiamo alcuna minaccia, iniziano ad aiutarci.”

Ma l’altro lato di tale equazione è che, poiché non ci fidiamo della polizia, non ci relazioniamo con loro in quanto organo legittimo.

Quando un giovane sparò dei colpi di arma da fuoco nel mezzo di Tel Aviv, il Paese si fermò fino a quando non venne trovato e non furono confiscate le sue armi da fuoco. Quando i colpi vengono sparati in una città araba e la polizia non fa nulla, cosa significa? Che la polizia approva [il fatto] che gli arabi si uccidano a vicenda. Approva la diffusione delle armi. Quello che vogliamo è che la polizia faccia effettivamente il proprio lavoro, e non che si rechi nei nostri villaggi e città solo per comminare più sanzioni o mostrarci chi è che comanda durante le proteste politiche”.

L’occupazione salta fuori durante queste proteste? Ne discutete come organizzatori?

Innanzitutto, facciamo sventolare la bandiera palestinese in quasi tutte le nostre manifestazioni, e questo è essenziale. Anche gli slogan; alcuni riguardano i nostri prigionieri, altri riguardano la fine dell’occupazione. Ci sono state persone che lo hanno criticato, che hanno detto: ‘Che cosa c’entra la bandiera palestinese con questo? La violenza armata è un problema interno’. Ma ovviamente sono [problemi] interconnessi.”

Come spiegheresti questo a qualcuno che non vede alcun legame tra il modo in cui le autorità israeliane trattano i cittadini palestinesi e il modo in cui controllano i palestinesi sotto occupazione?

In primo luogo, [farei presente] che la maggior parte delle armi da fuoco proviene dalla polizia e che l’esercito è la prova più chiara del fatto che [le autorità] sono coinvolte in questo, che è loro interesse sostenere questa violenza. Perché sono interessati a perpetuare questa situazione? Dovremmo chiedercelo. La violenza ci rende più deboli. Perché? Perché ci allontana dalle questioni centrali mentre siamo impantanati a causa delle minacce quotidiane alla nostra esistenza, cercando di sopravvivere.

Anche la modernizzazione e il capitalismo, qual è il loro obiettivo, alla fine? Darci la sensazione di possedere il controllo sulla nostra vita, [del fatto] che possiamo uscire e prendere un caffè in un bel locale, che la vita è bella. Le persone possono incontrare difficoltà ai posti di blocco, ma succede lì, qui va tutto bene. [Credere] che tutto ciò per cui dobbiamo impegnarci è il nostro benessere personale ci fa sentire padroni del nostro destino.

“Sai quante persone sulla mia pagina Facebook dicono cose come ‘la soluzione per noi è partire?’ Non è strettamente connesso? Sai quanti [cittadini palestinesi] sono già emigrati a causa di questa realtà?”

Intendi dire che questo è un altro modo attraverso cui Israele sta buttando fuori i palestinesi?

Indirettamente, sì. Spingendoci ad emigrare, interrompendo il nostro legame con questa terra, facendoci sentire come se dovessimo esistere solo come individui e prendere le distanze dagli altri. Questo ci rende più deboli. Riduce il nostro senso di solidarietà, la nostra identità di gruppo.

Questo è l’ideale per lo Stato, non solo perché siamo arabi, ma perché è così che impedisce a tutti i gruppi emarginati di formare alleanze. Se durante la protesta etiope [in Israele, nel luglio 2019, da parte degli ebrei etiopi, n.d.tr.], dopo l’uccisione del giovane, ci fossimo ritrovati tutti insieme, immagina le proteste che avremmo potuto organizzare. È la chiara strategia del ‘divide et impera’.

“Ma dico anche che abbiamo una responsabilità in quanto comunità. Supponiamo che il 70% della soluzione del problema spetti al governo: infondere un senso di sicurezza, sequestrare tutte le armi e elaborare un chiaro piano economico che offra opportunità alla comunità araba, compreso un coerente piano sociale per i nostri giovani. Dell’altro 30% del problema è responsabile la nostra comunità. Dobbiamo riconoscervi anche la nostra parte.”

Ultimamente, i cittadini palestinesi hanno anche organizzato importanti manifestazioni sulla violenza contro le donne e le molestie verso i LGBTQ. Queste questioni si sovrappongono nell’attuale ondata di proteste?

“Più del 50% delle donne uccise in Israele sono palestinesi e noi rappresentiamo solo il 20% della popolazione israeliana. Lo stesso vale per le uccisioni in generale: circa il 60% delle vittime di omicidio in Israele sono arabi. Questo in parte perché stiamo passando da una società tradizionale alla modernizzazione. Gli altri aspetti riguardano la consapevolezza riguardo il genere e i diritti delle donne.

La violenza domestica è [un tema] importante da discutere, ma differisce dalla più estesa ondata di violenza nella nostra comunità. Dobbiamo parlare dei diritti delle donne e dei diritti LGBTQ sempre all’interno della nostra più ampia lotta nazionale.

Le minacce che le persone affrontano a causa del loro genere sono un segno del dominio patriarcale e del controllo su di noi come donne. Il crimine dilagante nella nostra comunità, tuttavia, è una conseguenza di fattori economici e politici, oltre che patriarcali. Ciò significa che le donne vengono uccise a causa del desiderio della società di controllare le nostre decisioni e i nostri corpi, semplicemente per [il fatto di] essere donne. Quando si tratta di violenza ed episodi criminali, tuttavia, i soggetti che si scontrano tra di loro hanno lo stesso potere. Quindi, le dinamiche di potere sono diverse.”

Ci sono degli obiettivi specifici che state cercando di raggiungere con queste proteste?

Chiediamo un piano globale per combattere la violenza e il crimine nella società araba. Sembra che i ministeri si stiano finalmente svegliando rispetto a questa realtà. Il ministero dell’Interno ha inviato una lettera ai vari comuni affermando di avere l’interesse a procedere con dei progetti su questo tema. È chiaro che questo non è un problema che possiamo risolvere da soli e le autorità devono fare la loro parte.

“Stiamo presentando questi piani al governo, tenendo presente che non esiste ancora un governo e che potremmo avvicinarci alle terze elezioni politiche [in meno di un anno, n.d.tr]. Ma le nostre richieste sono chiare: innanzitutto, porre fine alla violenza arrestando gli autori e sequestrando tutte le armi da fuoco. Questo è essenziale. Tuttavia, ciò non avrà successo senza un programma più esteso che affronti anche i fattori sociali ed economici in gioco”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’altro Benjamin: chi è Benny Gantz, il rivale di Netanyahu?

Marie Niggli

Giovedì 24 ottobre 2019 – Middle East Eye

Dopo la rinuncia di Benjamin Netanyahu lunedì, Benny Gantz è stato nominato per tentare di formare una coalizione di governo. Una missione difficile, se non impossibile, per questo ex-capo di stato maggiore dell’esercito di cui è difficile definire gli obiettivi

Bibi” contro “Benny”: negli ultimi mesi la politica israeliana si è ridotta a un duello al vertice tra i due Benjamin. Da una parte Benjamin Netanyahu, la vecchia volpe, soprannominato Bibi dai suoi sostenitori, che detiene il record di longevità come primo ministro in Israele; dall’altra il novellino Benjamin Gantz, detto Benny, un ex-militare che si è lanciato in politica da meno di un anno.

Dopo due elezioni in meno di sei mesi – lo scorso aprile e in settembre – il Paese si trova in una situazione di stallo politico. Né vincitore né vinto: di per sé per Netanyahu, che ha dominato l’arena politica negli ultimi dieci anni, è già una sconfitta. Lunedì sera è persino sembrato che vacillasse: incapace di mettere insieme un governo, il primo ministro uscente ha restituito il mandato al presidente israeliano.

Per la prima volta dal 2009 è un altro, Benny Gantz, che cercherà di formare una coalizione per prendere il suo posto. Ha 28 giorni di tempo. Una missione impossibile, prevede la maggior parte degli osservatori.

Com’è riuscito questo ashkenazita [ebreo di origine europea, ndtr.] alto e dagli occhi azzurri a far inciampare Netanyahu, là dove tanti politici esperti in precedenza si sono rotti le ossa? Sicuramente non grazie alla sua esperienza politica: non ne ha affatto.

Il suo curriculum? Quello di un militare che ha salito i gradini uno a uno. Arruolato nell’esercito nel 1977, questo figlio di un sopravvissuto alla Shoah è diventato paracadutista, nel 1991 ha partecipato all’operazione “Salomon”, che in 48 ore ha trasferito 14.000 ebrei dall’Etiopia verso Israele, ha combattuto in Libano nel 2000 e alla fine è diventato capo di stato maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015.

Fascino militare

Gantz ha lasciato un’impronta sanguinosa: sotto il suo comando, Israele e Hamas si impegnano in due guerre a Gaza. Nel 2012 l’offensiva israeliana ha fatto 163 morti nell’enclave. Nel 2014, durante più di un mese e mezzo, un diluvio di fuoco si è abbattuto sulla stretta striscia di terra e sono stati uccisi 2.220 palestinesi, di cui più di 1.500 civili (550 minori).

Nel 2015 un rapporto dell’ONU ha affermato di aver raccolto “delle informazioni rilevanti che mettono in evidenza possibili crimini di guerra commessi sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi.” Ha rimproverato all’esercito israeliano in particolare l’“uso intensivo di armi concepite per uccidere e ferire in un ampio raggio.”

Invece di tener nascosto questo bilancio disastroso, l’ex capo di stato maggiore l’ha utilizzato per lanciare la sua campagna elettorale. Con una serie di video scioccanti, il prudente Gantz si è trasformato in falco, vantando gli atti di guerra sanguinosi dell’esercito israeliano a Gaza nel 2014 sotto il suo comando, che secondo lui hanno riportato certe zone dell’enclave “all’età della pietra.”

Un macabro calcolo sulle immagini dei funerali di palestinesi si conclude con questo slogan: “Solo i forti sopravvivono.”

Questo immaginario parla al pubblico ebraico in Israele: è “una società molto militarizzata”, spiega Yara Hawari, analista politica di Al-Shabaka, un centro di analisi palestinese. Gli israeliani hanno “molto rispetto per i generali, perché c’è anche questo contesto un po’ machista, una certa mascolinità nociva e i generali vengono quindi percepiti come forti.”

Salvo il fatto che, tra tutti i militari che hanno sfondato in politica, Benny Gantz è il meno esperto.

Ehud Barak era un ex-capo di stato maggiore che è diventato primo ministro, ma da quasi due anni dirigeva il partito Laburista. Ariel Sharon, tutti lo dimenticano, è stato in politica per circa 30 anni prima di diventare primo ministro,” ricorda Dahlia Scheindlin, consigliera politica che ha aiutato a elaborare sette campagne elettorali per conto di diversi partiti israeliani, di cui l’ultima con il partito di sinistra “Unione democratica”.

Anche se figlio del responsabile politico del partito Laburista nella comunità dove è nato, Kfar Ahim – costruito sulle rovine del villaggio palestinese di Qastina –, a 60 anni Gantz ha scoperto il gioco politico nello scorso dicembre, quando ha lanciato il suo partito, “Hosen L’Yisrael” – “Resilienza per Israele”.

All’inizio la formazione sembrava un “piccolo gruppo di amici che hanno preso un anno sabbatico e di professionisti della campagna elettorale reclutati all’ultimo momento,” sfotte il quotidiano israeliano di sinistra “Haaretz”. Insomma, tutto meno che un partito di militanti impegnati.

Ma il rigido militare, un po’ austero, trova dei partner ideali: un ex-ministro, Yaïr Lapid, e due ex-capi di stato maggiore, Gabi Ashkenazi e Moshe Ya’alon, quest’ultimo anche lui con esperienza di governo. Di che rafforzare la sua base politica: ecco com’è nata, all’inizio del 2019, la coalizione “Blu e Bianco”, dai colori della bandiera israeliana.

Presentata come di centro, la lista in “altri luoghi nel mondo sarebbe definita di destra,” sottolinea Yara Hawari, che nota lo spostamento dello scacchiere politico israeliano verso l’estrema destra.

Uniti contro i palestinesi

Ormai circondato da “partner politici e consiglieri”, Gantz ha “condotto due campagne elettorali” che l’hanno fatto progressivamente maturare, ricorda Ofer Zalzberg, analista del Medio Oriente dell’ “International Crisis Group” [Ong con sede in Belgio che cerca di prevenire i conflitti, ndtr.] (ICG). Ma sul piano politico, con più di 30 anni di carriera, “Netanyahu ha un vantaggio enorme.”

In confronto il militare fatica ancora, poco presente sulle reti sociali, non sempre a suo agio, ambiguo nella linea politica. “È molto complicato sapere chi è Benny Gantz e per cosa si batte,” constata Dalhia Scheindlin.

Salvo che in politica estera e sulla questione palestinese. Benny o Bibi, sono la stessa cosa, evidenzia Yara Hawari: secondo lei entrambi applicheranno la stessa politica “violenta d’occupazione e di colonizzazione” nei territori palestinesi.

Quello che cambierà sarà il discorso, la retorica utilizzata da Israele. (Gantz e i suoi alleati) utilizzeranno un linguaggio più accattivante per perpetuare il progetto coloniale e continueranno l’annessione di fatto” della Cisgiordania, territorio sotto il controllo di Israele da 52 anni. Quanto alla prospettiva di negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, essa tornerà a “negoziare i termini del nostro imprigionamento, non quelli della liberazione” dei palestinesi, sottolinea la ricercatrice.

Con un linguaggio più educato, più diplomatico, Gantz “cercherà di riconquistare gli alleati internazionali” trascurati da Netanyahu, che si accontentava del sostegno incondizionato che gli concede il presidente americano Donald Trump, in spregio al diritto internazionale.

Gli “europei sono pronti per questo,” vedono nell’ex-militare “qualcuno a cui possono parlare, lo definiscono un partner per la pace, cosa che è risibile,” continua Yara Hawari. “Penso che ciò sia pericoloso.”

A meno che le sfumature non siano anche da decifrare tra le righe. Nel 2015, dopo aver lasciato l’esercito, “Gantz ha fatto un discorso e sostenuto la soluzione dei due Stati,” ricorda Ofer Zalzberg, dell’ICG. Una posizione che non esprime più in pubblico, ma, se riuscisse ad essere eletto, “proporrà una graduale separazione tra i due popoli,” ritiene.

Resta il fatto che l’ex capo di stato maggiore non ha più evocato uno Stato palestinese durante la sua campagna elettorale. Peggio, ha chiaramente affermato la sovranità israeliana sulla valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, quando Netanyahu ha proposto di annetterla – tutt’al più una differenza semantica.

Religiosi contro laici

Né molto avvenente né molto carismatico, Gantz ha raggiunto da zero la cima della politica israeliana grazie a una fortunata congiunzione astrale. Dopo 10 anni di Netanyahu, il paesaggio politico si ricompone soprattutto attorno alla divisione della destra, ormai scissa tra religiosi e laici.

Il primo ministro uscente “è stato estremamente generoso con i partiti ebrei ultra-ortodossi, e la destra laica è rimasta frustrata,” analizza Ofer Zalzberg. “Non vuole più sedersi a fianco dei religiosi.”

Il grande simbolo di questo cambiamento? La rottura, insieme personale ed ideologica, tra Avigdor Lieberman, ex-ministro di Netanyahu, e il suo antico mentore: è lui che ha fatto fallire tutti i tentativi del primo ministro uscente di formare un governo dopo aver provocato le elezioni anticipate ritirandosi un anno fa dalla precedente coalizione.

Trasporti pubblici – ridotti – durante il sabato, giorno di riposo settimanale degli ebrei, durante il quale la religione vieta ai fedeli di lavorare, l’introduzione del matrimonio civile, la sua estensione agli omosessuali…il programma di Benny Gantz su alcune questioni sociali che sono diventate delle grandi sfide durante le ultime elezioni sono in netto contrasto rispetto a quanto imposto dagli alleati ultra-ortodossi di Netanyahu.

La divisione all’interno della destra tuttavia non è sufficiente a far arrivare Gantz alla guida di un governo, è solo sufficiente a impedire a Netanyahu di rimanere primo ministro,” nota Ofer Zalzberg.

Ed è lì tutta la debolezza della campagna di Benny Gantz. In pochi mesi, il militare discreto ha dolcemente instillato nell’opinione pubblica israeliana di essere l’anti-Bibi. Calmo, pragmatico, mette l’accento sull’unità quando Netanyahu ha costruito la sua carriera politica sulle polemiche e sull’incitamento all’odio verso i palestinesi, che siano o meno cittadini israeliani.

Nel mondo d’oggi si osservano due tipologie di politici,” ricorda Ofer Zalzberg. “Quelli di una sorta di politico ribelle, che si presenta come antisistema, e altri che rivendicano l’appartenenza al sistema e difendono le istituzioni. (Gantz) fa chiaramente parte di questa seconda categoria,” di fronte a un Netanyahu che si scaglia contro media e istituzioni come se gli fossero ostili.

Solo che per strappare Israele dalle mani di un dirigente così avvezzo al gioco politico come il primo ministro uscente, in un Paese frammentato e tormentato dalle divisioni, Benny Gantz non può appoggiarsi unicamente su un programma che caldeggia lo status quo.

La sua campagna elettorale non è riuscita a garantirgli la maggioranza: ha ormai poco meno di un mese per immergersi nell’aspra arena politica israeliana e andarsi a cercare il sostegno che ancora gli manca. In caso contrario, il Paese rivoterà per la terza volta in meno di un anno …

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)