Due spettri si aggirano: sovranismo* e razzismo.

Ugo Giannangeli

luglio 2019

Nota redazionale: pubblichiamo volentieri su Zeitun questo contributo di Ugo Giannangeli, giurista e da anni impegnato nella solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la libertà e la giustizia. Partendo da un articolo scritto da Patrizia Cecconi, anche lei nota attivista a favore dei palestinesi, Giannangeli disegna il contesto giuridico internazionale e suggerisce la necessità di collegare le varie lotte contro razzismo e discriminazione con quella contro le politiche di Israeliane, che è diventato un modello sia ideologico che pragmatico per ogni tipo di sovranismo.

L’articolo di Patrizia Cecconi a cui fa riferimento la prima parte del contributo è il seguente:

https://www.pressenza.com/it/2019/07/uno-spettro-si-aggira-ma-non-e-il-comunismo/

Nell’articolo pubblicato su Pressenza il 23 luglio Patrizia Cecconi, sull’onda dello sdegno per l’ennesimo crimine sionista (la demolizione di palazzi costruiti a Sur Bahig nella zona A della Palestina con tanto di autorizzazione della ANP), ripercorre le tappe più importanti della marcia del sionismo, individuandone conseguenze nefaste non limitate all’area mediorientale. L’articolo ricorda la assoluta inanità del Diritto universale umanitario, la vanificazione della legalità internazionale a partire dalle Convenzioni di Ginevra; ricorda l’insipienza dell’Onu, l’impunità assoluta di Israele; ricorda la nascita di Israele sulla base di una preteso diritto su quella terra promessa agli ebrei dal loro dio, l’interesse delle potenze occidentali all’insediamento di uno Stato “occidentale” in Medio Oriente e giunge a definire “nuova Shoah” la tragedia del popolo palestinese, precisato il significato della parola ebraica e fatto il dovuto distinguo tra la volontà nazista di eliminazione degli ebrei e la volontà sionista di espulsione di tutti i palestinesi dalla loro terra.

Cecconi ricorda infine il ricatto dell’accusa di antisemitismo che va a colpire qualsiasi critica al disegno sionista e alla politica di Israele e torna, in conclusione, sul concetto di “ falsa legalità” che governa Israele ma non gli impedisce di essere ritenuto una democrazia: l’Alta corte di giustizia, ad esempio, ha attribuito la patente di legalità anche a questo ultimo crimine di demolizione creando la nuova figura del “crimine legale” con insanabile e inconciliabile contrapposizione tra la pretesa legalità interna e la legalità internazionale. L’articolo forse per questa sua capacità di sintesi, forse per la narrazione sofferta (si leggano le ultime righe) ha provocato in me una reazione: di fronte a queste verità palesi e inoppugnabili da decenni, come dimostrato anche dalla necessità di fare ricorso alla farsa dell’accusa di antisemitismo in assenza di qualsiasi possibilità di contrasto reale, che senso ha continuare a denunciare l’inanità del diritto internazionale e l’inutilità dell’Onu? Dopo 71 anni di violazioni ha senso ancora attribuire la perenne impunità sionista solo a un certo benevolo lassismo nei confronti di Israele derivante principalmente dalla Shoah (Golda Meir fu facile profeta: “Dopo la Shoah tutto ci sarà permesso”)? La prima insubordinazione alla legalità internazionale risale al 1948 (risoluzione 181); i primi crimini di guerra e contro l’umanità risalgono allo stesso anno (la Nakba), senza tenere conto dei crimini sionisti precedenti la nascita dello Stato (il terrorismo ebraico di Irgun e Banda Stern); gli ultimi crimini sono dell’altro ieri.

Mai una sanzione, mai qualcosa che andasse al di là del buffetto sulla guancia, buffetto puntualmente dato dall’ONU anche per queste ultime demolizioni. Nulla dopo il parere della Corte di giustizia de L’Aia sulla illegalità del muro nel 2004; nulla dopo la risoluzione n. 2334 del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 26 dicembre 2016 di condanna delle colonie. Non solo, ma ad ogni timida critica ad Israele, e, soprattutto, ad ogni modesta concessione ai diritti dei palestinesi, Israele ha sempre risposto contrattaccando: ammessa la Palestina all’Onu come Stato osservatore? Il giorno dopo deliberate nuove colonie; ammessa all’Unesco? Nuove colonie; sottoscritta la adesione palestinese al Tribunale penale internazionale? Nuove colonie. Gli attacchi sono a largo raggio: all’ UNRWA; al Consiglio dei diritti umani definito da Yair Lapid “Consiglio per i diritti dei terroristi”; ai sostenitori del Bds, a livello nazionale con la legge che ne vieta l’ingresso in Israele, a livello internazionale con la richiesta (accolta in alcuni casi) di leggi o sentenze repressive e criminalizzanti il movimento.

Questo sul piano delle relazioni. Sul terreno, ai bombardamenti indiscriminati di civili inermi nelle varie “ operazioni” contro Gaza nel 2008/ 2009, 2012, 2014 ha fatto seguito lo sterminio mirato di vecchi, donne, bambini, medici, infermieri, giornalisti durante la Grande marcia del ritorno. L’Occidente ha parlato solo di “uso eccessivo della forza”! Dobbiamo allora dare ragione a Trump quando, quattro giorni dopo la risoluzione n.2334, ha twittato: “L’ONU è un club dove le persone si riuniscono, chiacchierano e si divertono”?

Tutto questo, rapidamente riassunto in una sintesi incompleta, è sotto gli occhi di tutti, è palese, incontrovertibile da sempre. Sono giunto allora a una conclusione e attendo speranzoso una smentita: non è forse tutto voluto e pianificato? Se non dal 1948, almeno dal 1967 quando tutti hanno tifato Israele credendo alla frottola della guerra difensiva e continuando a crederci anche dopo che tre generali israeliani protagonisti della guerra dei 6 giorni nel 1972 hanno smentito la versione ufficiale. Cos’è la legge sullo Stato nazione del luglio 2018 che proclama Israele Stato degli ebrei e solo degli ebrei se non un atto di guerra al diritto internazionale? Se le colonie, fresche della condanna ad opera della risoluzione n.2334, sono da valorizzare e incrementare; se Gerusalemme, definita unica e indivisibile, è proclamata capitale dello Stato ebraico in spregio al diritto internazionale, quale significato attribuire a questi articoli della legge se non che Israele è autorizzato a fare quello che vuole? Se non c’è reazione agli omicidi mirati sul border di Gaza, c’è da stupirsi se il dovere di soccorso dei profughi in mare è diventato un diritto e infine un crimine da pagare con la galera? L’imbarbarimento indotto dalle leggi e dalle pratiche israeliane dilaga a favore dei sovranismi e dei razzismi nel mondo. Quale Stato è più sovranista e più razzista, ora anche per legge, di Israele? Chi, se non Israele, faceva affari con il Sudafrica dell’apartheid in violazione del boicottaggio internazionale? E’ casuale il feeling di Israele con Orban e tutti i Paesi di Visegrad o non c’è forse una comunanza di amorosi sensi politici ed economici? Così si può chiudere un occhio, anzi entrambi, sull’antisemitismo (questo sì, vero) di questi signori (Orban: “noi perdoniamo la vostra occupazione, voi il nostro antisemitismo”).

Fermiamoci un attimo a casa nostra: Renzi va alla Knesset e neppure cita la questione palestinese; Salvini prosegue il “lavoro” di Minniti sui profughi, va in Israele, attacca Hezbollah e si trova in buona sintonia con Netanyahu; è stata approvata una legge che aumenta la pena se l’istigazione all’odio razziale riguarda la Shoah; pende un progetto di legge di criminalizzazione del Bds. Il servilismo è assoluto; l’omaggio ad Israele è obbligatorio per chiunque aspiri a carriere politiche.

Se tutto ciò è vero, com’è vero, ha senso continuare a fare riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di cui Israele viola praticamente tutti gli articoli, alle Convenzioni di Ginevra, pacificamente applicabili ai Territori occupati e continuamente violate, alle convenzioni internazionali a tutela dei bambini, metodicamente imprigionati in Israele, o contro la tortura, regolarmente praticata, si veda l’ultimo rapporto di B’Tselem? ( per inciso: quanto sdegno, mentre scrivo, attorno alla benda sugli occhi del giovane assassino statunitense del carabiniere a Roma quando questa pratica è normalmente in uso contro le migliaia di prigionieri palestinesi nella più assoluta indifferenza!); ha senso sperare in una sentenza della Corte penale internazionale (dinanzi alla quale pende un procedimento fermo da anni in fase preliminare) la cui attività istruttoria andrebbe a scontrarsi inevitabilmente con l’omertà anzi la complicità dell’autorità israeliana che mai consegnerebbe gli indagati o fornirebbe prove a loro carico? Mai Israele ha collaborato con le commissioni d’inchiesta dell’Onu anzi ne ha impedito addirittura l’ingresso sul proprio territorio (Goldstone docet), figuriamoci con un Tribunale internazionale cui neppure ha aderito e di cui contesta la giurisdizione.

Immagino la critica più immediata a questa mia reazione: ma cos’altro abbiamo a disposizione? Rispondo: il rafforzamento delle lotte, migliorando il loro coordinamento. In particolare il Bds ma in generale tutte le lotte. Perché devono essere distinte le lotte a favore dei profughi (costretti a fuggire da guerre e carestie quasi sempre indotte dall’Occidente) da quelle per i palestinesi che, invece, vogliono rimanere nella loro terra? Quelle per il disarmo, quando Israele detiene armi atomiche ma non sottoscrive trattati di non proliferazione, e testa armi e sostanze sperimentali sui gazawi? Quelle contro il razzismo sempre più diffuso e che riprende piede in Europa anche nella sua veste militarizzata con la recente scoperta di vere e proprie organizzazioni armate neonaziste (ad esempio in Ucraina) quando è Israele a distinguere i diritti della propria popolazione su base etnica e religiosa? Quelle contro il TAV e per la tutela del territorio e dell’ambiente, quando Israele è un reticolato di muri, filo spinato, checkpoints, by pass roads e colonie? Quelle per la riaffermazione di principi fondamentali proclamati nell’immediato dopoguerra e poi mano a mano affondati nella palude della impunità di Israele. I Paesi occidentali hanno appoggiato la nascita di Israele come avamposto occidentale contro la cosiddetta barbarie araba. Da tempo l’Occidente e il suo avamposto soffrono di un grave deficit di valori e di democrazia. Da quando le guerre sono state chiamate umanitarie o sono diventate operazioni di polizia internazionale imperialismo e capitalismo hanno avuto gioco più facile dovunque. Paesi sovrani sono stati distrutti (Jugoslavia, Libia, Iraq), con altri si è tentato in vario modo (Siria, Venezuela), altri sono in guerra perenne ( l’Afghanistan da 18 anni). La lotta per i diritti del popolo palestinese si inserisce a pieno titolo in questo contesto di lotte: contro l’imperialismo, contro il capitalismo, contro il razzismo, contro la guerra.

Occorre sviluppare la solidarietà internazionale e mobilitare un sostegno popolare internazionale, così come fa il BDS per la Palestina, movimento che non a caso si vuole criminalizzare fingendo di dimenticare che analogo strumento è stato usato vittoriosamente contro il Sudafrica e contro i boicottatori dei neri negli USA.

Tornando in conclusione all’uso del diritto, faccio mie le parole di Nicola Perugini e Neve Gordon nel loro splendido “Il diritto umano di dominare”: “Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità; ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge, invece che la sua critica, riproduce i meccanismi della dominazione” ( op.cit. pagg. 209-210). Si pensi al caso delle leggi razziali del 1938 che conferivano “legittimità” all’odio razziale o, oggi, ai decreti sicurezza che rendono “legittime” le stragi nel mare.

Sul piano internazionale l’uso dell’arma giuridica è stato parificato al ricorso al terrorismo. Perugini e Gordon ricordano un rapporto del Pentagono intitolato “La strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America” in cui si legge: ”La nostra forza di Stato nazionale continuerà ad essere messa in discussione da coloro che useranno la strategia dei deboli ricorrendo a forum internazionali, cause giudiziarie e terrorismo” (op.cit.pag.99). Ben in sintonia Israele:” Nel novembre 2010 il Ministero degli Affari esteri israeliano pubblicò un lungo rapporto dal titolo” La campagna per diffamare Israele” nel quale sosteneva che “ ……….. se il teorico militare tedesco Carl von Clausewitz ha affermato che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, bisogna riconoscere che anche la guerra giuridica è la continuazione della attività terroristica con altri mezzi” (op. cit. pag. 102).

Questa opera denigratoria (anzi: criminalizzante) nei confronti dello strumento giuridico potrebbe indurre a pensare che, quindi, questo strumento qualche timore lo suscita e che, quindi, il suo uso potrebbe portare a risultati positivi. Così non è: si vuole semplicemente tacitare ogni forma di critica e dissenso.

In un mondo senza regole, senza arbitri e senza voci critiche conta solo una legge, quella della forza, sia essa politica, militare, economica, mediatica.

Per questo la lotta per i diritti del popolo palestinese è in realtà una lotta per i diritti di noi tutti.

Luglio 2019 Ugo Giannangeli

*In questo contesto uso il termine “sovranismo”, dai molteplici significati, per intendere la pretesa di uno Stato di non rispettare normative sovranazionali anche se sottoscritte e ratificate.




L’esercito israeliano ha riconosciuto che non era necessario uccidere in tempo reale i manifestanti a Gaza

Edo Konrad

24 luglio 2019 – + 972

L’esercito israeliano ammette di aver segretamente cambiato la propria politica dopo che si è reso conto che sparare alle gambe a manifestanti disarmati era letale. Le associazioni per i diritti affermano che la rivelazione è un’ammissione che Israele ha ucciso i manifestanti senza alcuna giustificazione.

L’esercito israeliano avrebbe cambiato le regole sull’aprire il fuoco per i propri cecchini schierati lungo la barriera tra Israele e Gaza, dopo che è risultato chiaro che hanno ucciso senza che vi fosse necessità manifestanti palestinesi disarmati, cosa che le associazioni per i diritti umani ed altre denunciano da molto tempo.

Nel corso della Grande Marcia del Ritorno a Gaza i cecchini e i tiratori scelti israeliani hanno ucciso 206 manifestanti palestinesi e ferito migliaia di altri – compresi minori, medici e giornalisti. Le proteste settimanali tuttora in corso, che sono iniziate nel marzo 2018, chiedono la fine dell’assedio israeliano a Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi.

La giornalista israeliana Carmela Menashe, reporter militare per la radio pubblica israeliana, all’inizio di questa settimana ha twittato che le IDF [esercito israeliano, ndtr] hanno apportato la modifica quando hanno capito che “sparare alla parte bassa del corpo sopra il ginocchio in molti casi ha provocato la morte, pur non essendo questo l’obbiettivo.” Secondo Menashe i soldati hanno ricevuto istruzioni di “sparare sotto il ginocchio e, in seguito, alle caviglie.”

Un alto ufficiale della scuola antiterrorismo dell’esercito ha detto al sito di notizie israeliano Ynet che l’obbiettivo dei cecchini “non era uccidere ma ferire, perciò una delle lezioni (apprese) è stata a che cosa dovessero sparare …Inizialmente gli abbiamo detto di sparare alle gambe, abbiamo capito che ciò poteva uccidere, per cui gli abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo emesso un ordine più preciso di sparare alle caviglie.”

Una dichiarazione pubblicata mercoledì dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem accusa gli ufficiali israeliani di aver ammesso apertamente di essere a conoscenza che i loro soldati uccidevano persone che, “anche agli occhi dello Stato, non c’era ragione che venissero ammazzate.”

“Nessuno si è preoccupato di cambiare gli ordini e l’esercito ha continuato ad agire per tentativi ed errori, come se non si trattasse di persone reali che potevano essere uccise o ferite…Persone le cui vite, e le vite dei loro familiari, sono state distrutte per sempre”, ha dichiarato B’Tselem.

L’esercito israeliano ha a lungo sostenuto che le proteste presso la barriera dovrebbero essere considerate nel contesto di un conflitto armato a lungo termine con Hamas, quindi le regole per aprire il fuoco sono soggette alle norme di un conflitto armato, che consentono un più ampio margine di azione per l’uso della forza letale.

Le associazioni per i diritti umani e molte altre hanno respinto questa logica, sostenendo che trattare proteste civili come conflitti armati è illegale. Al culmine delle manifestazioni, mentre aumentava il numero delle vittime, la procuratrice della Corte Penale Internazionale ha pubblicato un avvertimento secondo cui “la violenza contro civili – in una situazione come quella attuale a Gaza” potrebbe costituire un crimine di guerra. Chiunque ordini, incoraggi o attui tale violenza, ha detto, “è passibile di incriminazione dinnanzi alla Corte.”

Nonostante le critiche internazionali e le richieste di un’indagine indipendente sull’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza, le autorità israeliane hanno ripetuto gli ordini di aprire il fuoco sui manifestanti disarmati.

Lo scorso maggio l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto due ricorsi delle associazioni israeliane per i diritti umani che chiedevano la fine delle uccisioni di civili disarmati presso la barriera. L’esercito israeliano in quel caso ha sostenuto che i proiettili veri potevano essere usati in risposta a “violenti disordini che costituiscono un pericolo reale e imminente per le forze dell’esercito o per i civili israeliani”, e che le regole d’ingaggio consentono “di sparare con precisione alle gambe di un importante fomentatore o istigatore [di disordini], per evitare il pericolo di una rivolta violenta.”

Lo Stato Maggiore ha anche aggiunto che “vi è un sistematico processo di elaborazione di istruzioni operative e loro implementazione”, che l’esercito ha affinato le procedure riguardo ad aprire il fuoco per “ridurre ulteriormente il più possibile le morti”, e che i casi in cui sono stati uccisi dei palestinesi sono stati riferiti allo Stato Maggiore per ulteriori indagini.

Edo Konrad è scrittore, blogger e traduttore e vive a Tel Aviv. In precedenza ha lavorato come redattore al quotidiano Haaretz ed è attualmente vice caporedattore della rivista +972 Magazine.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestinesi israeliani respingono le scuse di Ehud Barak

Maureen Clare Murphy

24 July 2019 – Electronic Intifada

Questa settimana l’associazione per i diritti umani Adalah ha affermato che le scuse di Ehud Barak per il suo ruolo nel massacro di manifestanti palestinesi nell’ottobre 2000 “non valgono niente.”

Barak era primo ministro di Israele quando 13 dimostranti palestinesi disarmati, tutti cittadini di Israele tranne un uomo di Gaza, vennero uccisi dalla polizia nella prima settimana di quel mese.

L’ex-primo ministro “ordinò alla polizia israeliana di utilizzare mezzi letali –compresi cecchini” contro i manifestanti, afferma Adalah.

Le sue scuse “non hanno alcun valore finché non verrà presentato un rinvio a giudizio contro i poliziotti israeliani responsabili della strage dell’ottobre 2000.”

Il gesto, aggiunge Adalah, è vuoto in quanto “la violenza della polizia contro i cittadini palestinesi di Israele continua fino ai nostri giorni.”

Provocazione e proteste

Le proteste dell’ottobre 2000 vennero provocate dalla visita nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme dell’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon, accompagnato da un ingente contingente di poliziotti.

La provocazione di Sharon e la letale repressione delle proteste fu il catalizzatore della seconda Intifada.

“Mi prendo ogni responsabilità per quanto successe durante il mio incarico come primo ministro, compresi gli avvenimenti del 2000, quando vennero uccisi cittadini arabi di Israele e un palestinese di Gaza,” ha detto martedì Barak alla radio pubblica israeliana.

“Non c’è ragion d’essere per l’uccisione di manifestanti da parte della sicurezza e delle forze di polizia dello Stato di Israele, il loro Stato. Esprimo il mio rincrescimento alle famiglie (delle persone uccise) e alla comunità araba,” ha aggiunto.

Attualmente Barak guida il partito “Israele Democratico” e sta facendo di tutto per garantirsi un altro mandato come primo ministro.

In settembre si terranno nuove elezioni dopo che l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un nuovo governo dopo il voto di aprile.

Barak è stato incalzato da notizie riguardanti la sua collaborazione in affari e il suo rapporto personale con Jeffrey Epstein, il finanziere americano condannato per reati sessuali che deve affrontare imputazioni per traffico sessuale di minori dai 14 anni in su.

Non vogliamo essere una foglia di fico”

Le scuse di Barak sono state viste come un tentativo di corteggiare il voto dei palestinesi cittadini di Israele. Il suo ruolo nelle uccisioni dell’ottobre 2000 si è dimostrato un ostacolo per la formazione di una coalizione con il partito della sinistra sionista Meretz. Esawi Frej, un deputato del Meretz nel parlamento israeliano e palestinese cittadino dello Stato, ha detto che “gli arabi non vogliono essere una foglia di fico e un salvagente. Vogliamo essere partner.” Frej ha anche citato l’incarico di Barak come ministro della Difesa durante la presidenza di Netanyahu. Era titolare di quella carica durante l’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza nel dicembre 2008 [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.].

Più di 1.400 palestinesi, compresi circa 1.200 civili, vennero uccisi durante l’offensiva di tre settimane.

“Se ci alleassimo con lui, mi dovrei difendere dagli sputi nelle strade arabe,” ha aggiunto Frej.

I padri di due palestinesi uccisi nell’ottobre 2000 dalla polizia in seguito agli ordini di Barak hanno rifiutato le scuse.

“Per noi è stato lui che ha ucciso i nostri figli e ha dato gli ordini, e lui, come altri ufficiali e comandanti, deve andare in prigione,” ha detto al quotidiano di Tel Aviv Haaretz Ibrahim Siyam, il cui figlio Ahmad era tra le vittime.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Adolescenti obbligati a seguire un corso propagandistico di Israele prima di viaggiare all’estero

Tamara Nassar

19 luglio 2019 – Electronic Intifada

Il ministero dell’Educazione di Israele sta pretendendo che tutti gli studenti di scuole superiori, compresi cittadini palestinesi di Israele, seguano un corso propagandistico e facciano una prova di verifica come condizione per andare a fare un viaggio scolastico all’estero.

Lo scorso mese “Adalah”, un gruppo di assistenza legale per i palestinesi di Israele, ha inviato una lettera al ministero dell’Educazione chiedendo che elimini questa imposizione e ponga fine al corso di hasbara [propaganda israeliana, ndtr.].

Il ministero dell’Educazione israeliano sta cercando di trasformare gli studenti della secondaria in propagandisti incaricati di diffondere un’ideologia estremamente razzista,” ha affermato l’avvocatessa di “Adalah” Nareman Shehadeh-Zoabi. “È vergognoso e illegale.”

Adalah” agisce per conto dell’istituto educativo “Masar”, che gestisce alcune scuole a Nazareth.

Una delle sue scuole aveva un programma di scambi con una scuola superiore in Svezia destinato a favorire il dialogo internazionale e lo scambio culturale.

Ma la scuola ha dovuto bloccare il programma come unico modo per evitare di sottoporre i propri studenti alla propaganda razzista, e specificamente antiaraba, del governo israeliano.

Gli studenti sono obbligati a guardare una serie di video prima di essere sottoposti a una verifica.

Le domande sono volte ad inculcare “una visione politica radicale e razzista che vede i palestinesi, gli arabi e i musulmani come terroristi e come una minaccia,” afferma “Adalah”.

Ogni domanda ha una sola risposta “corretta” che è una “presa di posizione politica che lo studente deve assimilare.”

I video sono una sorta di brutale lavaggio del cervello che tenta di modellare la visione del mondo di adolescenti che gli ideatori del corso ritengono opportuna,” aggiunge la lettera.

Il corso è particolarmente offensivo per gli studenti palestinesi, che per essere promossi sono “obbligati a interiorizzare affermazioni umilianti su se stessi e sulle loro famiglie,” cosa che “Adalah” definisce un “palese insulto” e una violazione della legge.

Falsa informazione

Il corso insegna agli studenti che fonti contemporanee di antisemitismo includono il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi – così come quelle che definisce “organizzazioni musulmane”.

In realtà secondo “Adalah” il BDS è radicato nei principi universali di giustizia, libertà e uguaglianza e “si oppone per principio a ogni forma di razzismo, compresi islamofobia e antisemitismo.”

Una domanda chiede agli studenti come le organizzazioni palestinesi usino le reti sociali online. Secondo Adalah delle quattro possibili risposte quella “corretta” è “per incoraggiare la violenza”.

Adalah” sostiene che il corso impone agli studenti anche affermazioni politiche relative al ritiro di coloni da Gaza da parte di Israele nel 2005 e altri argomenti riguardanti il conflitto tra palestinesi e israeliani.

Il solo fatto di presentare in questo modo così unilaterale questioni che per loro natura richiedono dialogo trasmette agli studenti un messaggio sbagliato e vanifica ogni tentativo di educarli al dialogo e a esaminare problemi complessi da ogni punto di vista prima di formulare un’opinione,” afferma la lettera.

Parco solo per gli ebrei

All’inizio di questo mese a Shehadeh-Zoabi e al suo bambino è stato negato l’ingresso in un parco pubblico nella città settentrionale di Afula.

L’avvocatessa ha trovato un cartello che stabilisce che il parco è aperto solo agli abitanti di Afula.

Quando la guardia di sicurezza ha appreso che venivano dalla città prevalentemente palestinese di Nazareth, alla madre e al bambino è stato vietato l’ingresso.

Mi sono sentita profondamente umiliata dalla situazione,” ha detto Shehadeh-Zoabi.

Mentre mi veniva impedito di entrare ed ero obbligata ad andarmene – solo perché vengo dalla città araba di Nazareth – gli abitanti ebrei entravano liberamente nel parco di cui avevo così spesso usufruito con mio figlio.”

Secondo “Adalah” il divieto è stato emanato in seguito all’esplicita promessa elettorale del sindaco di Afula Avi Elkabetz di agire contro quella che ha definito la “conquista del parco” da parte degli abitanti delle vicine città arabe.”

Adalah” ha affermato che il divieto “intende in primo luogo impedire agli abitanti delle vicine comunità arabe di far uso della vasta struttura.”

In seguito a una petizione da parte di “Adalah”, il 14 luglio un tribunale di Nazaret ha ordinato ad Afula di annullare il divieto di ingresso nel parco per i non residenti.

Lo scorso mese, mentre organizzava una manifestazione per protestare contro la vendita di una casa a una famiglia araba in città, il consigliere comunale Itai Cohen ha detto alla radio militare israeliana che il Comune è intenzionato a garantire che “Afula conservi il suo carattere ebraico.”

Per chiunque cerchi una città mista Afula non è il posto giusto,” ha detto Cohen. “Siamo un luogo di destra con caratteristiche ebraiche.”

Il ministro dell’educazione sostiene l’apartheid

Il ministro dell’Educazione israeliano Rafi Peretz, nominato il mese scorso, ha evidenziato il suo sostegno alla formalizzazione dell’apartheid.

Lo scorso sabato, durante un’apparizione sul Canale 12 israeliano, Peretz ha affermato di volere che Israele “estenda la propria sovranità” su tutta la Cisgiordania occupata, ma senza dare ai palestinesi il diritto di voto.

Alla domanda se ciò non costituisse apartheid, Peretz non ha escluso la possibilità che lo sia,” ha informato il giornale Haaretz.

Nella società e nello Stato di Israele viviamo in una situazione molto complicata, e dovremo trovare le soluzioni,” ha detto Peretz.

Durante la stessa intervista il ministro ha appoggiato la “terapia di conversione” – una screditata pratica pseudoscientifica che tenta di cambiare l’orientamento sessuale e che può danneggiare gravemente chi vi viene sottoposto – ed ha affermato di averla fatta lui stesso.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato come “inaccettabili” i giudizi di Peretz sulla terapia di conversione, ma non ha detto niente sul suo evidente sostegno all’apartheid.

In seguito Peretz ha ritirato i suoi commenti riguardo alla terapia di conversione, definendo la pratica “illegittima e grave” e affermando che vi si oppone.

Migliaia di insegnanti, attivisti e associazioni scolastiche avevano firmato una petizione chiedendo che Peretz venisse cacciato per le sue affermazioni se non le avesse ritirate e minacciato uno sciopero.

Mentre i commenti di Peretz sulla terapia di conversione in Israele hanno provocato una condanna unanime, quelli che sostengono l’apartheid sono stati accolti dal silenzio quasi totale.

Di recente Peretz ha anche paragonato la percentuale di matrimoni misti tra gli ebrei statunitensi a un “secondo Olocausto.”

Secondo la rivista Axios, egli ha fatto queste osservazioni durante un consiglio dei ministri all’inizio di questo mese.

Hamas condanna affermazioni antiebraiche

Le dichiarazioni di Peretz sull’apartheid giungono la stessa settimana in cui l’importante dirigente di Hamas Fathi Hammad ha invocato l’uccisione di ebrei “ovunque nel mondo”.

L’organizzazione della resistenza palestinese ha preso le distanze dalle affermazioni di Hammad, sostenendo che “non riflettono le posizioni ufficiali di Hamas né la sua politica, secondo cui la nostra lotta è solo contro l’occupazione israeliana della nostra terra che dissacra i nostri luoghi santi.”

Di nuovo, la nostra lotta non è contro gli ebrei altrove o contro l’ebraismo come religione,” ha aggiunto l’organizzazione. “Hamas ha condannato e continua a condannare ogni attacco contro gli ebrei e i loro luoghi di culto in tutto il mondo.”

Ciò è coerente con i principi guida di Hamas aggiornati nel 2017, che rifiutano esplicitamente l’antisemitismo.

Il documento politico dell’organizzazione afferma che “il conflitto è con il progetto sionista e non contro gli ebrei a causa della loro religione.”

Aggiunge: “Hamas non conduce una lotta contro gli ebrei in quanto tali ma contro i sionisti che occupano la Palestina. Ma sono i sionisti che identificano costantemente l’ebraismo e gli ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale.”

Hamas ha anche commentato le dichiarazioni di Hammad riguardo alla Grande Marcia del Ritorno, ripetendo che le manifestazioni che continuano dal marzo dello scorso anno sono “pacifiche e popolari.”

Omar Shakir, il direttore dell’ufficio di “Human Right Watch” [Ong USA per la difesa dei diritti umani, ndtr.], ha condannato le affermazioni di Hammad.

Nickolay Mladenov, inviato dell’ONU per il Medio Oriente, ha definito il comunicato di Hammad “pericoloso, ripugnante e provocatorio.”

Ma Mlademov – che non ha detto niente riguardo alle affermazioni di Peretz –in precedenza si è presentato insieme all’ex-ministro dell’Educazione Naftali Bennett [dirigente di un partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], che elogia apertamente l’uccisione di arabi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “crisi ambientale” di Israele è colpa sua

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

7 luglio 2019 – Al Jazeera

La distruzione da parte di Israele dell’ambiente nei territori palestinesi ora minaccia le vite israeliane.

La crescente crisi umanitaria di Gaza viene finalmente percepita in Israele come un problema pressante che richiede un’azione “chiara ed immediata”. Tuttavia non è l’impatto della crisi sulla popolazione di Gaza che desta l’allarme a Tel Aviv, ma il potenziale danno ambientale che la perdurante povertà di Gaza può causare ad Israele.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele.”

Ci si aspetterebbe che qualunque rapporto sulla situazione ambientale a Gaza si concentrasse sul fatto che quasi due milioni di palestinesi nella Striscia vivono in condizioni disumane a causa del blocco israeliano che dura ininterrottamente da 12 anni e dei continui attacchi militari devastanti, che rendono l’area “inabitabile entro il 2020” [secondo un documento ONU del 2015, ndtr.].

Invece il rapporto presuppone che gli abitanti del luogo siano gli unici responsabili dell’imminente catastrofe ambientale a Gaza, che sta minacciando la sicurezza e il benessere dei cittadini israeliani. Anche il giornale israeliano Haaretz, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sulla presentazione, ha trattato la questione come problema di sicurezza nazionale.

Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. L’occupazione, la colonizzazione, lo spossessamento e l’aggressione contro la Palestina e i palestinesi hanno provocato un tale danno ambientale che ora anche l’occupante israeliano ne sta soffrendo.

Inquinare Gaza

In questo momento la situazione ambientale a Gaza è certo tragica, ma non sono i palestinesi che l’ hanno causata. Né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali ne sono le cause principali. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni hanno documentato dettagliatamente come e perché il principale colpevole sia Israele, i suoi violenti attacchi a Gaza ed il suo spietato assedio.

Consideriamo la questione delle acque reflue non trattate che finiscono in mare, che causano problemi agli israeliani che vanno al mare e agli impianti di desalinizzazione. Il motivo per cui le acque reflue vengono smaltite in questo modo “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio.

Le acque reflue non trattate sono parte della più ampia crisi idrica di Gaza. Come correttamente sottolinea il rapporto, gli abitanti di Gaza fanno uso eccessivo della falda acquifera sotto la Striscia, che è divenuta sempre più inquinata da acqua di mare e prodotti chimici e che costituisce l’unica fonte di acqua pulita per gli abitanti a causa della separazione non voluta dalla Cisgiordania.

La ragione per cui i palestinesi di Gaza non sono in grado di creare un adeguato sistema di gestione dell’acqua ancora una volta non è una loro responsabilità. Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture idriche, comprese le tubature dell’acqua, i pozzi e altre strutture, e l’estenuante assedio israeliano ha impedito alle autorità locali di ripararle e di costruire un impianto di desalinizzazione.

Il problema dell’acqua a Gaza non è soltanto una seccatura per gli israeliani, ma una potenziale causa di epidemie per i palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono già raddoppiate le patologie diarroiche, raggiungendo livelli epidemici, mentre anche la salmonella e la febbre tifoidea stanno aumentando.

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”. Come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati.

Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, che di nuovo sono legati all’occupazione israeliana e all’aggressione contro i palestinesi.

L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele. Il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua.

Anche i ripetuti attacchi israeliani con pesanti bombardamenti sulla Striscia hanno contribuito all’inquinamento. Vi sono prove che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

Inoltre le armi usate nelle operazioni militari israeliane hanno contaminato l’ambiente di Gaza con metalli pesanti come tungsteno, mercurio, cobalto, bario e cadmio, che notoriamente causano cancro, malformazioni congenite, infertilità, ecc.

Colonialismo e devastazione ambientale

Che Israele, che è orgoglioso perché avrebbe “fatto fiorire il deserto”, sia il responsabile di un gravissimo disastro ambientale in quello stesso “deserto”, non sorprende molto. Posto che si tratta di un progetto di colonialismo di insediamento, il supersfruttamento della terra colonizzata a scapito dell’ambiente e della popolazione locale è parte intrinseca del suo modus operandi.

Certamente, tutta la terra che Israele ha preso ed occupato ha subito in un modo o nell’altro un degrado ambientale, e i suoi effetti dannosi vengono opportunamente scaricati sulla terra, sui villaggi e sulle città palestinesi.

L’aggressiva prassi israeliana di costruzione di insediamenti non solo ha sradicato, segregato e spossessato centinaia di migliaia di palestinesi, ma ha anche danneggiato l’ambiente. Ha causato un eccessivo consumo di acqua, che non solo ha significativamente ridotto l’accesso all’acqua per i palestinesi, spingendo alcuni a parlare di “apartheid dell’acqua”, ma ha anche impoverito le risorse idriche in generale.

L’uso aggressivo di acqua per l’agricoltura – per lo più da parte di coloni illegali in Cisgiordania – ha causato l’impoverimento delle falde acquifere ed una drastica riduzione dei livelli del lago di Tiberiade e del fiume Giordano.

Israele inquina la terra palestinese anche utilizzandola letteralmente come discarica. È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni palestinesi.

Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente senza alcun riguardo per la salute dei palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi. Questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Tutte queste attività che danneggiano l’ambiente in cui vive il popolo palestinese si vanno accumulando nel tempo. Oggi mettono a rischio le vite dei palestinesi, ma domani minacceranno anche le vite degli israeliani.

Se Israele continua a trattare la questione come “un problema di sicurezza” non lo risolverà mai, perché alla sua base vi è la logica distruttiva di un’impresa coloniale che cerca di sfruttare sia la terra che la popolazione senza riguardo per la natura ed il benessere degli esseri umani.

In altri termini, Israele non otterrà mai la sicurezza – dell’ambiente o di altro – finché continuerà ad opprimere i palestinesi, ad occupare la loro terra e a devastare l’ambiente. L’aria, l’acqua e l’ambiente israeliano nel suo complesso non saranno mai immuni dai disastri perpetrati da Israele nella Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, consulente dei media, scrittore.

Romana Rubeo è una scrittrice e traduttrice freelance che vive in Italia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli etiopi hanno l’opportunità di essere solidali con i palestinesi

Ashraf Ghandour – +972mag

Solomon Tekah è stato ucciso da un poliziotto israeliano perché era nero. I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope. Ma se questa prenderà coscienza della causa palestinese e del suo ruolo nel dramma di un popolo, potrà unirsi a un movimento trasversale

15 luglio 2019, Nena News – Da più di una settimana sto seguendo la battaglia, rumorosa e legittima, che gli etiopi israeliani stanno portando avanti contro il razzismo sistematico che li tiene sottomessi da 35 anni. Da palestinese, e da persona di colore, non posso che provare empatia per la loro sofferenza, oltre a uno strano senso di smarrimento perché noto che gli israeliani di ogni tipo non riescono a collegare la giusta lotta degli etiopi con quelle di altri gruppi oppressi da Israele.

Ma a Solomon Tekah hanno sparato perché era nero e, dato che io sono palestinese, non potevo che seguire la cosa molto attentamente.

Tekah, un etiope israeliano di 19 anni, è stato colpito la scorsa settimana, nel suo quartiere alla periferia di Haifa, da un poliziotto fuori servizio. Dopo gli spari, migliaia di persone della comunità etiope sono scese in strada per protestare contro il trattamento riservato alla loro gente dalle forze dell’ordine, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’oppressione che gli israeliani di origine etiope devono affrontare da quando hanno iniziato a migrare in Israele, alla metà degli anni ’80.

Tuttavia, i media israeliani hanno scelto immediatamente di concentrarsi sulla violenza e sugli atti vandalici di alcuni manifestanti etiopi contro la polizia, disumanizzando i manifestanti con appellativi come “animali”. Gran parte della copertura mediatica si è concentrata molto più sulle conseguenze sofferte dai civili bianchi, dei disordini nelle strade principali di Israele che sulla drammatica situazione dei manifestanti stessi.

Ho sentito professori di origine etiope parlare a nome dei manifestanti, paragonando la loro battaglia a quella delle comunità nere in America, a migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, chi fa dichiarazioni pubbliche ignora apertamente il dramma di quattro milioni di palestinesi rinchiusi in Cisgiordania e Gaza, prigioni a cielo aperto, così come del milione e novecentomila palestinesi cittadini di Israele: sono il 20% della popolazione, ma rappresentano oltre la metà della popolazione carceraria.

I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso, hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope, che preferisce mantenere le distanze da tali associazioni.

L’assassinio di Solomon e la reazione della maggior parte degli israeliani ricordano l’assassinio, da parte della polizia, di Michael Brown a Ferguson, Missouri, a cui sono seguite proteste di massa della comunità nera. Mentre crescevano le proteste, molti bianchi americani erano occupati a discutere sulla validità dell’uso della violenza da parte dei manifestanti neri, distogliendo l’attenzione dalla brutalità della polizia e dalla storia di un diciottenne assassinato, che sarebbe stato loro dovere proteggere.

Nel frattempo, i manifestanti di Ferguson imparavano via Twitter dagli abitanti di Gaza – che erano nel bel mezzo della guerra di Gaza del 2014 – come affrontare i lacrimogeni. È stato un momento politico che ha contribuito a rafforzare la solidarietà tra il movimento di solidarietà con la Palestina e il Black Lives Matter. Questo tipo di solidarietà, però, sembra essere totalmente svanito in coloro che hanno parlato a nome della comunità etiope in Israele la scorsa settimana.

I palestinesi non hanno bisogno di dimostrare competenza in Teoria Politica per sapere dove condurrà la battaglia degli etiopi. Siamo troppo abituati alla persecuzione, all’incarcerazione, alla disumanizzazione e alla mancanza di alleati israeliani veramente solidali con noi. Abbiamo visto la nostra condizione trasformarsi in una discussione annacquata sull’uso della violenza nelle proteste; abbiamo sentito la frase “perdi quando tiri la prima pietra”; siamo vittime a cui viene data la colpa, e ci mettono alle strette per farci condannare le azioni violente da parte di una manciata di manifestanti, il tutto mentre il nostro messaggio viene lentamente sepolto insieme alle vittime dell’occupazione e della crudeltà. Siamo stati gasati con i lacrimogeni, arrestati, e ci hanno sparato, e quando abbiamo visto il giovane manifestante etiope in piedi su una macchina in corsa, mentre batteva i pugni sul parabrezza, la sua frustrazione e la sua rabbia ci sono suonate anche troppo familiari.

Ma la distanza tra empatia e solidarietà è grande. Dopotutto, sono vostre le facce che vediamo, e vostre le mani sotto i nostri vestiti ai check-point. I vostri uomini armati, molti della stessa età di Solomon, vengono spediti a proteggere gli insediamenti e a fare irruzione a casa nostra, nei nostri campi profughi. Forse la vostra cecità verso la nostra situazione è il risultato della promessa di combattere un nemico comune.

Quando Mohammed Ali rifiutò di combattere in Vietnam, disse chiaramente che “non aveva niente contro i Vietcong”, piuttosto ce l’aveva con la guerra. Ora, ve lo devo chiedere: che problema avete con il popolo palestinese? Riuscite a passare al prossimo livello, a fare vostro il valore della giustizia per tutti e a rifiutarvi di partecipare alla prevaricazione di un intero popolo? Perché prendete le distanze da una battaglia contro la stessa supremazia bianca che ha distrutto villaggi palestinesi, rinchiuso gli arabi israeliani in campi profughi, sottratto i figli agli immigrati yemeniti e portato la disperazione nella vostra comunità?

C’è una via di uscita per tutto questo. Se prenderete coscienza della causa palestinese e del vostro ruolo nel dramma della popolazione palestinese, potrete unirvi a un movimento che è davvero trasversale e che incontra la solidarietà internazionale. Potrete unirvi a una voce sempre più forte che dà potere alle persone, non attraverso la repressione del prossimo, ma con l’abbattimento di sistemi di oppressione rivolti contro tutti coloro che non appartengono alla classe dominante.

In caso contrario, sarete condannati a vivere le vostre vite compiacendo i vostri alleati bianchi, che vi riserveranno condizioni di vita cui loro non si sottoporranno mai. Vi rivolgeranno un sorriso beffardo ogni volta che sarete troppo chiassosi, troppo violenti o troppo sensibili. Nel frattempo, continueranno a bombardare Gaza, ad arrestare bambini e a puntare la pistola contro il prossimo Solomon Tekah

(Traduzione di Elena Bellini) da NenaNews



Israele isola università palestinesi

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2019 – Electronic Intifada

Israele sta isolando le università palestinesi per obbligare studiosi internazionali a lasciare i propri incarichi accademici nella Cisgiordania occupata.

Due gruppi palestinesi per i diritti umani, così come l’università di Birzeit, stanno chiedendo a Israele di togliere le restrizioni che impediscono ad accademici internazionali di lavorare in Cisgiordania e di rendere nota “una procedura chiara e legale per il rilascio di visti di ingresso e di lavoro.”

La politica di Israele di negare a stranieri l’ingresso in Cisgiordania, così come di negare e non trattare per tempo le richieste per l’estensione dei visti, ha colpito decine di studiosi che lavorano nelle università palestinesi.

Ranking a rischio

L’istituzione educativa e i gruppi per i diritti affermano che le restrizioni israeliane minacciano il ranking di Birzeit, inclusa nel 3% delle migliori università del mondo. La percentuale di docenti e studenti internazionali è un indicatore fondamentale per determinare il livello dell’università.

Impedendo a Birzeit di assumere corpo docente straniero, Israele sta ostacolando la sua possibilità di funzionare come un’università che risponda agli standard internazionali,” hanno affermato l’università e i gruppi per i diritti “Al-Haq” e “Adalah”.

Negli ultimi due anni quattro docenti a tempo pieno e tre a tempo parziale di Birzeit, la più antica università palestinese aperta in Cisgiordania, sono stati obbligati a lasciare il Paese e non hanno potuto continuare ad insegnare dopo che Israele ha rifiutato di rinnovare i loro visti.

Quest’anno Israele ha negato l’ingresso a due [docenti] stranieri con contratti a tempo pieno alla Birzeit. Sei membri del corpo docente sono attualmente senza visto valido e altri cinque, compreso un direttore di dipartimento, “sono all’estero senza chiare indicazioni se potranno tornare.”

Decine di membri del personale e docenti stranieri sono stati “colpiti durante gli ultimi due anni dalle restrizioni israeliane riguardo alle richieste di nuovi visti o di prolungamento del visto o dal rifiuto di consentire loro di entrare in Cisgiordania.”

Molti sono palestinesi con passaporto internazionale e la maggioranza proviene dagli USA e da Stati membri dell’Unione Europea.

La politica di Israele nei confronti degli accademici stranieri “viola la libertà delle università di espandere le aree di ricerca e di studio che offrono agli studenti sia palestinesi che stranieri. Di conseguenza Israele sta impedendo alla popolazione palestinese occupata di decidere da sé che tipo di educazione voglia avere.”

Un regolamento emanato dal COGAT, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, consente a “docenti ed esperti” stranieri di presentare domanda per un visto di soli tre mesi. Nel contempo le università israeliane “possono reclutare professori stranieri con una procedura separata che consente l’ingresso e il lavoro di stranieri per periodi fino a cinque anni.”

Regime dei permessi

Il regime dei permessi israeliani impedisce ai palestinesi di Gaza di studiare nelle università della Cisgiordania e viceversa.

Una volta gli studenti di Gaza rappresentavano il 35% degli iscritti nelle università della Cisgiordania. A causa del blocco israeliano che dura da più di 10 anni, lo scorso anno la disoccupazione tra i neolaureati ha raggiunto a Gaza circa l’80%.

Le associazioni internazionali di docenti, comprese l’“Associazione per gli Studi sul Medio Oriente”, con sede negli USA, “Docenti della California per la Libertà Accademica” e la “Società Britannica per gli Studi sul Medio Oriente”, hanno condannato le restrizioni israeliane sui docenti stranieri nelle università palestinesi. Nel contempo accademici e ricercatori europei hanno chiesto la fine dei finanziamenti dell’UE alle istituzioni accademiche israeliane con “stretti legami con l’industria militare israeliana.”

L’Unione Europea ha destinato più di 800 milioni di dollari ai ricercatori israeliani, soprattutto attraverso il suo programma di finanziamenti “Horizon 2020”.

Dal 2004 gruppi della società civile palestinese hanno chiesto un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane.

L’appello al boicottaggio afferma che tali istituzioni “hanno contribuito direttamente a mantenere, difendere o comunque giustificare” l’oppressione dello Stato di Israele o “con il loro silenzio” sono state complici.

In quella che si dice sia la prima volta, un’associazione di studiosi della salute mentale ha appena annullato il progetto di tenere la sua conferenza del 2021 a Gerusalemme.

ENMESH” avrebbe preso la decisione dopo la reazione fortemente negativa di alcuni membri della direzione che non vogliono che l’organizzazione passi i prossimi due anni sotto pressione da parte di attivisti solidali con i palestinesi.

Secondo il giornale israeliano Haaretz, “è la prima volta che un’organizzazione di questo genere fa marcia indietro su sulla decisione già approvata di tenere un convegno in Israele, dimostrando il fatto che la campagna di boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane forse sta prendendo piede.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Noto attivista anti occupazione aggredito a Tel Aviv

Oren Ziv

8 luglio 2019 – +972

L’attivista di sinistra Jonathan Pollak aggredito da due assalitori fuori dal suo posto di lavoro nel sud di Tel Aviv. Gli aggressori mentre lo picchiavano avrebbero gridato ‘stronzo di sinistra’, prima che uno di loro tirasse fuori un coltello e lo ferisse in modo lieve.

Domenica a Tel Aviv un noto attivista di sinistra è stato aggredito fisicamente da due assalitori sconosciuti mentre usciva dal lavoro. Pare che gli aggressori mentre lo picchiavano abbiano gridato “stronzo di sinistra”, prima che uno di loro estraesse un coltello e lo ferisse in modo lieve al viso e alle braccia.

Jonathan Pollak, che ha militato a lungo nel movimento anti-occupazione in Israele e in Cisgiordania, è stato aggredito mentre usciva dall’edificio di Haaretz, nel sud di Tel Aviv, dove lavora come grafico.

Pollak ha detto che aveva notato di essere seguito da due individui che lui ha pensato fossero poliziotti che cercavano di arrestarlo a causa di un mandato di cattura. “Ho cercato di correre ma mi hanno raggiunto, mi hanno spinto a terra e hanno incominciato a prendermi a pugni e calci”, ha raccontato a casa sua dopo l’aggressione. “Quando ho cercato di difendermi uno di loro ha estratto un coltello e mi ha fatto un taglio in faccia”. Pollak ha riferito che i due mentre lo picchiavano gridavano “stronzo di sinistra”, prima di scappare.

Pollak ha riportato graffi al volto e alle braccia ed è stato colpito in faccia e alle costole. Ha detto di non avere idea di chi lo abbia aggredito, ma gli assalitori sembravano avere “tra i 20 e i 30 anni”.

Nel dicembre 2018 ‘Local Call’ [sito web in ebraico di +972, ndtr.] ha riferito che il gruppo di destra ‘Ad Kan’ ha avviato un’azione giudiziaria privata contro tre israeliani, compreso Pollak, per aver partecipato alle proteste contro la barriera di separazione in Cisgiordania. L’azione giudiziaria privata di ‘Ad Kan’, la prima di questo genere contro attivisti anti-occupazione, accusa gli imputati di “aggresssione contro soldati dell’esercito israeliano e contro la polizia di frontiera.”

Ad Kan’ si è messo in evidenza per la prima volta negli ultimi anni per aver infiltrato i suoi collaboratori nelle organizzazioni per i diritti umani per registrare con telecamere nascoste ogni loro mossa.

Tuttavia Pollak si è rifiutato di comparire in tribunale, sostenendo di non riconoscere la legittimità di un sistema che mantiene una “dittatura militare” su “soggetti privati di tutti i fondamentali diritti democratici” in Cisgiordania e Gaza, o che sono “cittadini di serie B” in Israele.

Il tribunale ha quindi emesso un mandato di arresto per Pollak, che consente alle autorità di trattenerlo fino all’ udienza successiva, prevista a settembre. Secondo il tribunale Pollak verrà rilasciato se accetterà di pagare una cauzione di 1.000 shekels (250 euro).

Non intendo presentare denuncia alla polizia perché verrò arrestato, ma non lo avrei fatto comunque”, ha detto Pollak. “Mi rifiuto di andare in tribunale perché i miei amici palestinesi ed io veniamo processati con diversi sistemi giudiziari e mi rifiuto di utilizzare i servizi della polizia che si attivano per me, mentre non lo fanno per i palestinesi.”

Immediatamente dopo il suo rifiuto di presentarsi in tribunale, ‘Ad Kan’ ha pubblicato parecchi post su Facebook e Twitter, inclusa una fotografia di Pollak, chiedendo al pubblico di contribuire a localizzarlo. Un utente di Twitter ha risposto che Pollak “si trova spesso nell’edificio di Haaretz in Schoken Street”, dove si è verificata l’aggressione di lunedì.

Dopo l’aggressione, ‘Ad Kan’ ha twittato: “Negli ultimi 15 anni Pollak è stato coinvolto in violente manifestazioni contro i soldati dell’esercito israeliano. Pollak attualmente ha in corso una denuncia penale che noi abbiamo presentato contro di lui. Noi, al contrario di Pollak, siamo contrari ad ogni forma di attività violenta. Il signor Pollak è invitato a contattare le forze dell’ordine, che ha recentemente dichiarato di non riconoscere, in modo che possano esaminare le sue accuse.”

Da anni i palestinesi e coloro che si oppongono all’occupazione vengono aggrediti nei territori occupati. Oggi questo è successo anche a Tel Aviv”, ha dichiarato dopo l’aggressione Ayman Odeh, capo del partito ‘Hadash-Ta’al [partito di sinistra arabo-israeliano, ndtr.]. “Dopo una campagna di istigazione delle organizzazioni di coloni mirata contro Jonathan Pollak, due uomini – di cui uno armato di coltello – lo hanno aggredito. Si tratta di un altro violento colpo basso e di una vittoria per l’apparato di istigazione della destra.”

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

Oren è un fotogiornalista e membro fondatore del collettivo di fotografi ‘Activestills’. Dal 2003 ha documentato una serie di vicende sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi, con una particolare attenzione nei confronti delle comunità di attivisti e delle loro lotte.

Tra gli eventi che io documento, con la convinzione che la fotografia possa provocare dei cambiamenti, vi sono: le proteste contro il muro e le colonie, la possibilità di avere un’abitazione ed altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e le discriminazioni e la lotta per liberare gli animali.

Sono stato collaboratore di +972 quasi fin dall’inizio e lavoro anche per diversi altri mezzi di informazione locali e internazionali.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




rapporto OCHA del periodo 18 giugno-1 luglio (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 494 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane nel corso delle manifestazioni tenute nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno” che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale con Israele.

Oltre il 45% dei feriti è stato ricoverato in ospedale.

Sempre nella Striscia di Gaza, in almeno 12 occasioni non riconducibili alle manifestazioni della”Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi per far loro rispettare le restrizioni di accesso alle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa; agricoltori e pescatori sono stati costretti a lasciare tali aree. Tre pescatori sono stati arrestati e un altro è rimasto ferito, oltre a danni causati a tre barche da pesca e alla confisca di reti da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (ad est di Beit Hanoun e di Khan Yunis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 giugno, Israele, in risposta al lancio di palloncini incendiari da Gaza verso i propri territori, ha sospeso le consegne di carburante, costringendo la Centrale Elettrica di Gaza ad operare a potenza circa dimezzata, riducendo di conseguenza l’erogazione di energia elettrica nei giorni dal 25 al 28 giugno.

In Cisgiordania, il 27 giugno, durante scontri nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, un 21enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco, da un poliziotto israeliano. Secondo fonti della Comunità locale, l’uomo è stato colpito al petto da distanza ravvicinata ed è deceduto poco dopo il ricovero presso un ospedale israeliano. Il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane fino al 1 luglio. Secondo fonti israeliane, quando gli hanno sparato, l’uomo era rivolto nella direzione di poliziotti israeliani e stava accendendo un petardo. Fonti palestinesi affermano che si trattava di un astante non coinvolto negli scontri. Dopo l’omicidio, nella zona di Al Isawiya, gli scontri tra palestinesi e forze israeliane sono proseguiti per diversi giorni, provocando decine di feriti palestinesi (vedi sotto).

Ancora in Cisgiordania, durante proteste e diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito 168 palestinesi, tra cui almeno sei minori [di seguito il dettaglio]. 134 di questi 168, (tra cui almeno tre minori) sono stati feriti durante scontri con forze israeliane avvenuti a seguito dell’uccisione del 21enne palestinese il 27 giugno (vedi sopra): 124 [dei 134] in quattro diverse occasioni verificatesi ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e altri 10 [dei 134] vicino a Bab Az Zawiya (Hebron). Altri 22 feriti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto nel villaggio di Kobar e nel Campo profughi di Al Am’ari (entrambi a Ramallah). I venerdì successivi (21 e 28 giugno) un totale di dodici persone, tra cui tre minori, sono stati feriti durante le manifestazioni settimanali, tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni. Altre tre persone [non conteggiate nel totale], tra cui una donna, sono state ferite il 19 giugno, in una manifestazione svoltasi nella città di Al Isawiya a Gerusalemme Est, per protestare contro le ricorrenti operazioni di ricerca condotte [dalle forze israeliane] nella città. Nell’Area H2 della città di Hebron, due palestinesi, un uomo di 53 anni ed il figlio 14enne, mentre tentavano di accedere, tramite il checkpoint 56, alla loro casa nella via Ash Shuhada, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani [non conteggiati nel totale].

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 155 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato almeno 168 palestinesi, tra cui 13 minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato la più alta quota di operazioni (41) e di arresti (56).

Il 29 giugno, poliziotti israeliani di confine hanno fatto irruzione nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est, interrompendo le prestazioni mediche di emergenza e arrestando due palestinesi. Secondo quanto riferito, stavano ricercando manifestanti feriti negli scontri avvenuti nelle aree di Al Isawiya e At Tur di Gerusalemme Est.

Nella zona C e a Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 27 strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 52 persone, tra cui 35 minori, sono state sfollate e altre 5.074 hanno subìto ripercussioni di entità diverse [di seguito il dettaglio]. Tre delle strutture demolite o sequestrate erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni nei villaggi di Qusra e Majdal Bani Fadil (entrambi a Nablus). Tra le strutture colpite, 24 si trovavano in nove Comunità dislocate in Area C. Tra queste, la Comunità di pastori di Zatara al Kurshan (Betlemme), dove, il 27 giugno, sei strutture sono state demolite, provocando lo sfollamento di 46 persone, tra cui 32 minori. Tale Comunità si trova all’interno di una zona designata da Israele come “area militare chiusa”. In un’altra “area militare chiusa”, nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito un’abitazione presso la Comunità di pastori di Umm Fagarah, sfollando cinque persone, tra cui tre minori. A Barta’a ash Sharqiya (Jenin), in Area C, per mancanza di un permesso di costruzione, è stata sequestrata una roulotte, parte di un progetto per la gestione dei rifiuti. Il provvedimento ha colpito l’attuazione del progetto pensato per servire l’intero villaggio dove vivono circa 4.950 persone. Le restanti 13 strutture dislocate in Area C comprendevano due strutture abitative, cinque di sostentamento e quattro strutture agricole, oltre a due serbatoi d’acqua. Inoltre, tre strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una nell’area di Ras al ‘Amud, dove una famiglia palestinese di sei persone, tra cui quattro minori, è stata costretta ad auto-demolire un ampliamento della propria casa.

Diciotto episodi aggressivi, perpetrati da coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella zona H2 della città di Hebron, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. In altri tre episodi distinti, in base a riprese video realizzate da una Organizzazione per i Diritti Umani e secondo testimoni oculari, coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti di Homesh, Yitzhar e Beitar Illit, hanno incendiato decine di ettari di terreni appartenenti a contadini di Madama e Burin (entrambi a Nablus) e Wadi Fuqin (Betlemme), danneggiando almeno 287 ulivi. In un ulteriore episodio, riferito da fonti della Comunità locale palestinese, coloni hanno vandalizzato altri 37 ulivi e alberelli appartenenti al villaggio di Surif (Hebron). A Yasuf (Salfit), in un’area il cui accesso richiede un preliminare coordinamento con le autorità israeliane, risulta che coloni abbiano dato fuoco a circa 0,5 ettari di terra coltivata a grano e orzo. In due distinti casi, coloni hanno anche spianato circa 1,5 ettari di terra a Wadi Fukin (Betlemme) e Khirbet Samra (Tubas), danneggiando le colture. Dall’inizio del 2019, OCHA ha registrato le segnalazioni di azioni di sradicamento, di incendio o di vandalizzazione di oltre 4.100 alberi perpetrate da coloni israeliani. Sulla media mensile, ciò rappresenta un aumento del 126% rispetto al 2018 e del 37% rispetto al 2017. Gli episodi rimanenti includono la vandalizzazione di 35 veicoli e le scritte offensive spruzzate su muri di case di Deir Istiya (Salfit), Beitin e Sinjil (entrambi a Ramallah).

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in tre occasioni: vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah. Risultano danneggiati almeno tre veicoli.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Sparare ai manifestanti mentre si riposano: le nuove regole d’ingaggio di Israele

Maureen Clare Murphy

28 giugno 2019 – Electronic Intifada

Sparare ai “principali istigatori” durante le proteste disarmate a Gaza quando si stanno riposando. Aprire il fuoco contro adolescenti che cercano di andare a pregare a Gerusalemme benché non rappresentino un pericolo.

Questo è il normale, ingiustificato e criminale uso letale di armi da fuoco contro palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane.

Un documento dell’esercito israeliano afferma che i cecchini hanno il permesso di sparare a palestinesi che essi ritengano essere “i principali istigatori” o “principali facinorosi” durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

L’esercito definisce “principali istigatori” le persone che “dirigono o guidano attività” durante le proteste, come “posizionamento tattico” e bruciare copertoni.

Principali facinorosi” sono definiti quelli il cui comportamento “determina le condizioni grazie alle quali irruzioni di massa o infiltrazioni” in Israele da Gaza possono avvenire.

Il documento dell’esercito israeliano afferma che ai cecchini è consentito “sparare a un istigatore importante” mentre “si allontana temporaneamente dalla folla e si riposa prima di continuare la sua attività.” Il documento presenta simili azioni come un esempio di “moderazione” e suggerisce che tali precauzioni riducono il rischio di “colpire qualcun altro”.

Israele giustifica l’uso di forza letale contro manifestanti definendo le mobilitazioni della “Grande Marcia del Ritorno” – manifestazioni nelle zone orientale e settentrionale di Gaza tenute periodicamente dall’inizio dello scorso anno – una “sommossa” o “violenti disordini” che pongono una minaccia all’esercito e alle sue infrastrutture o in qualche caso a quelle civili.

Afferma anche che il confine di Gaza “separa due parti di un conflitto armato”, una tesi rifiutata da una commissione d’inchiesta ONU che ha stabilito che le manifestazioni sono di carattere civile. Associazioni per i diritti umani affermano che le proteste di massa lungo i confini sono una questione civile di applicazione della legge regolata dal quadro delle leggi internazionali sui diritti umani.

Una di queste organizzazioni, “Adalah”, chiede che Israele proibisca l’uso di proiettili veri contro i manifestanti.

Secondo Adalah il concetto di “principali istigatori non è né fissato dalle leggi internazionali,” né è stato definito dalle autorità durante audizioni dello scorso anno presso l’alta corte israeliana in seguito alle richieste di gruppi per i diritti che contestavano gli ordini dell’esercito di aprire il fuoco.

Secondo Adalah allora la corte “ha accolto in toto la posizione dell’esercito israeliano”, sentenziando che l’uso di proiettili veri potrebbe essere consentito solo quando ci sia “un immediato e imminente pericolo per le forze o per i civili israeliani.”

Più di 200 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati uccisi e circa 8.500 feriti da proiettili veri durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Gli esperti indipendenti sui diritti umani nominati dall’ONU per indagare sull’uso della forza da parte di Israele contro la Grande Marcia del Ritorno hanno preso in considerazione tutte le vittime delle proteste avvenute dall’inizio delle manifestazioni, il 30 marzo 2018, fino alla fine di quell’anno.

La commissione di inchiesta ha notato solo un incidente, il 14 maggio 2018, “che può aver rappresentato una ‘partecipazione diretta alle ostilità’” e un altro il 12 ottobre di quell’anno “che potrebbe aver costituito una ‘imminente minaccia di vita o di gravi conseguenze’ per le forze di sicurezza israeliane.”

In tutti gli altri casi la commissione ha scoperto che “l’uso di proiettili letali da parte delle forze di sicurezza israeliane contro manifestanti è stato illegale.”

Giustificazione retroattiva

Suhad Bishara, avvocatessa di Adalah, ha affermato che l’idea di “principale istigatore” è stata “creata retroattivamente per giustificare il fatto di aver sparato contro persone che non rappresentavano un pericolo reale e immediato per soldati o civili israeliani.”

Ha aggiunto che il tentativo dell’esercito di giustificare l’uso di proiettili veri contro dimostranti disarmati “deriva da un totale disprezzo per la vita umana.”

Il disprezzo israeliano riguardo alla vita dei palestinesi non si limita a Gaza ed è stato esemplificato dalla recente uccisione di un adolescente mentre l’ultimo venerdì di Ramadan tentava di raggiungere Gerusalemme per pregare nella moschea di al-Aqsa con la sua famiglia.

Durante il Ramadan Israele riduce le restrizioni che impediscono ai palestinesi della Cisgiordania il libero accesso ai luoghi sacri a Gerusalemme. Anche con le limitazioni parzialmente revocate, i palestinesi devono attraversare posti di controllo militari e quest’anno ai maschi tra i 16 e i 30 anni è stato vietato di entrare a Gerusalemme durante il Ramadan.

Il 31 maggio questo divieto ha portato Luai Ghaith a accompagnare suo nipote e suo figlio di 15 anni Abdallah nei pressi del muro di Israele in modo che potessero arrampicarvisi e incontrarsi dall’altra parte con i membri della loro famiglia che avevano il permesso di attraversare il posto di controllo.

Dopo che Abdallah e suo cugino si sono arrampicati sul filo spinato e hanno raggiunto un percorso tra il filo spinato e il muro, il cugino ha visto un ufficiale della polizia di frontiera.

Secondo B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani,“è tornato indietro sul filo spinato e ha gridato ad Abdallah di scappare. A quel punto poliziotti di frontiera hanno sparato due pallottole calibro 0,22 contro Abdallah, una delle quali lo ha colpito al petto.”

Abdallah è riuscito a saltare indietro sul filo spinato e correre via per alcuni metri prima di crollare al suolo.”

Luai Ghaith ha detto a B’Tselem che suo figlio “era così eccitato all’idea di andare a pregare ad al-Aqsa l’ultimo venerdì di Ramadan. L’ufficiale della polizia israeliana che gli ha sparato non ne sapeva niente di tutto ciò.”

Nessuna giustificazione”

Circa un’ora prima che Abdallah venisse ferito a morte, nello stesso luogo poliziotti di frontiera hanno sparato e ferito un ventenne palestinese che cercava di raggiungere Gerusalemme per pregare.

Non ci possono essere scusanti per questo uso delle armi da fuoco, con queste conseguenze prevedibilmente letali,” ha affermato B’Tselem. “Ciò dimostra quanto poco contino le vite dei palestinesi agli occhi sia dei poliziotti sul campo che di tutta la catena di comando che consente che tali azioni avvengano.”

Secondo B’Tselem né Abdallah né l’uomo colpito poco prima rappresentavano alcun pericolo per i poliziotti di frontiera che hanno sparato contro di loro: “Non si tratta di un caso di pericolo mortale, o di un qualunque pericolo in assoluto.”

Nessuno sarà chiamato a rendere conto della morte di Abdallah, né la famiglia riceverà un risarcimento in quanto Israele ha “approvato una legge che ha strategicamente escluso per i palestinesi ogni opzione praticabile per denunciare lo Stato per danni.”

Finora quest’anno più di 70 palestinesi sono morti a causa del fuoco israeliano.

Secondo B’Tselem, “il fatto che il prevedibile e mortale risultato di questa vergognosa condotta sia accolto dall’indifferenza dell’opinione pubblica e che questo comportamento riceva il totale sostegno di tutte le istituzioni ufficiali dimostra solo quanto poco valore sia attribuito alle vite dei palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)