Israele uccide un ragazzino in Cisgiordania e un manifestante a Gaza

Maureen Clare Murphy

26 gennaio 2019, Electronic Intifada

Venerdì le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un ragazzino palestinese in Cisgiordania e un uomo durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Questi morti portano a quattro il numero dei palestinesi che sono stati uccisi dal fuoco dell’esercito israeliano durante la settimana, dopo che lunedì soldati hanno sparato e ucciso un uomo in Cisgiordania e martedì hanno lanciato un proiettile d’artiglieria contro un posto di osservazione di Hamas a Gaza, uccidendo un combattente.

Ayman Ahmad Hamid, 16 anni, è morto venerdì dopo essere stato colpito da soldati israeliani lungo la Route 60, un’autostrada utilizzata dai coloni, nei pressi del villaggio di Silwad, nella zona centrale della Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha affermato di aver sparato a tre persone sospettate di lanciare pietre contro i veicoli in transito lungo l’autostrada. Un secondo palestinese è rimasto ferito ad una mano durante l’incidente ed è stato portato in ospedale per essere curato.

Minori uccisi e feriti

Hamid è il secondo ragazzino palestinese ucciso quest’anno dalle forze israeliane. Abd al-Raouf Ismail Salha, 13 anni, è morto il 14 gennaio dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno durante le proteste a Gaza qualche giorno prima.

Durante la settimana almeno altri tre giovani sono stati seriamente feriti in Cisgiordania dalle forze israeliane.

Venerdì è stato riferito che un giovane sarebbe stato colpito alla testa da un proiettile di acciaio rivestito di gomma durante la settimanale manifestazione contro l’occupazione a Ras Karkar, nella zona centrale della Cisgiordania. Il ministero della Sanità dei territori ha detto ai media che il ragazzo non identificato “ha subito una frattura del cranio, che ha provocato un’emorragia interna.”

Venerdì a Yatta, a sud de Hebron, un bambino di 6 anni sarebbe stato seriamente ferito dopo essere stato investito da una jeep dell’esercito israeliano.

Mezzi di informazione palestinesi hanno riferito che le forze di occupazione hanno trasportato il bambino, Sabri Assaf al-Jabarin, in un ospedale in Israele.

Giovedì l’adolescente palestinese Muhammad Issam al-Qawasmi è stato colpito e gravemente ferito da forze israeliane in borghese nel campo profughi di Shuafat, a Gerusalemme est.

Una fonte ufficiale del campo profughi ha detto ai media che al-Qawasmi è stato colpito da un proiettile entrato dalla schiena ed uscito dallo stomaco.

Al suo arrivo all’ospedale “Hadassah” di Gerusalemme per cure d’emergenza, è stato riferito che le forze israeliane hanno arrestato l’adolescente.

Sempre in Cisgiordania le forze israeliane hanno trasferito le spoglie di Hamdan al-Arda, un uomo d’affari ucciso dalle forze di occupazione ad al-Bireh lo scorso mese.

Riguardo alla morte di al-Arda, sul momento Israele aveva sostenuto che l’uomo aveva cercato di investire i soldati con la sua macchina, ma questa versione è stata presto smascherata.

Israele ha sottratto il corpo di al-Arda alla sua famiglia per più di 40 giorni.

Manifestante ucciso a Gaza

Durante la quarantaquattresima protesta settimanale di seguito, tenuta all’insegna della Grande Marcia del Ritorno, nella Striscia di Gaza è stato ucciso Ihab Atallah Hussein Abed, 24 anni.

Adel è stato ferito da un proiettile vero al petto durante una manifestazione a est di Rafah, nella parte più meridionale di Gaza.

Secondo “Al Mezan”, un gruppo per i diritti umani con sede a Gaza, oltre 150 dimostranti sono rimasti feriti durante le proteste.

Tra i feriti durante le proteste di venerdì ci sono cinque paramedici e un giornalista.

Più di 180 palestinesi sono stati uccisi durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno dal loro inizio il 30 marzo 2018.

Il ministero della Sanità ha ripetuto il suo disperato allarme per l’“imminente paralisi” dei servizi sanitari nel territorio, in quanto gli ospedali hanno esaurito il combustibile d’emergenza.

Gli ospedali di Gaza fanno affidamento su generatori di riserva durante le frequenti interruzioni di corrente, ma le scorte di carburante per questo scopo si sono esaurite.

Venerdì l’inviato del Qatar a Gaza ha annunciato che 15 milioni di dollari promessi dal Paese per pagare i salari dei dipendenti pubblici a Gaza verranno invece utilizzati per potenziare i servizi medici e l’elettricità nel territorio.

Hamas avrebbe rifiutato l’ultima rata del finanziamento del Qatar affermando che i palestinesi di Gaza vengono utilizzati come pedine in vista delle imminenti elezioni israeliane.

Israele ha ritardato la consegna [dei fondi del Qatar, ndtr.] ed ha condizionato l’attuale rata alle modalità delle proteste della Grande Marcia del Ritorno del venerdì.

Secondo i media israeliani Benjamin Netanyahu avrebbe calcolato che la consegna del denaro a Gaza sarebbe politicamente troppo onerosa in vista delle elezioni previste per il 9 aprile.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la repressione contro i prigionieri palestinesi?

Yara Hawari

venerdì 25 gennaio 2019, Middle East Eye

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto

Questa settimana le guardie della prigione militare israeliana di Ofer hanno messo in atto pesanti attacchi contro i prigionieri palestinesi.

Le celle sono state messe a soqquadro, effetti personali sono stati distrutti e sono state effettuate perquisizioni corporali invasive. Per molti prigionieri l’aspetto peggiore è stato la confisca di foto, lettere e semplici doni dei membri della famiglia raccolti nel corso degli anni – un’ancora di salvezza per quanti devono scontare decenni di carcere.

I prigionieri sono stati anche obbligati a togliersi i vestiti e ad attendere l’ispezione all’aperto con un freddo intenso.

Non si tratta di nuove tecniche o tattiche, ma piuttosto di quelle che vengono utilizzate periodicamente come forma di punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi.

Punizione collettiva.

L’ultima repressione nel carcere di Ofer si è scontrata con la resistenza collettiva dei prigionieri, che si sono rifiutati di collaborare con le forze israeliane. In seguito a ciò, sono stati attaccati con lacrimogeni, taser, pestaggi, cani poliziotto e persino proiettili di acciaio ricoperti di gomma sparati da breve distanza.

Più di 150 hanno dovuto ricevere cure mediche, sei prigionieri hanno subito fratture e più di 40 sono stati feriti alla testa. Molti hanno patito per le gravi conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni in seguito al fatto che sono stati lanciati candelotti lacrimogeni nelle celle chiuse.

Di conseguenza “Addameer”, l’associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri, ha emesso un comunicato in cui chiede al Comitato Internazionale della Croce Rossa di avviare un’inchiesta su queste “gravissime violazioni” delle leggi internazionali e di fornire protezione ai prigionieri palestinesi.

In risposta a queste azioni e in solidarietà con i prigionieri sono state organizzate manifestazioni sia a Ramallah [in Cisgiordania, ndtr.] che ad Haifa [in Israele, ndtr.]. Durante quest’ultima dimostrazione due attivisti palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Torture e maltrattamenti

In effetti nella società palestinese il problema dei prigionieri è importante, e colpisce molte persone. Dal 1967 il 40% della popolazione maschile adulta in Cisgiordania e a Gaza – ossia circa 800.000 persone – è stato sottoposto a una qualche forma di detenzione da parte di Israele. 

La maggior parte delle comunità e delle famiglie è intimamente consapevole di cosa significhi avere un proprio caro in prigione. Attualmente, secondo i dati di “Addameer”, ci sono 5.500 prigionieri politici palestinesi.

Il sistema carcerario dell’esercito israeliano destinato specificamente ai palestinesi dei territori occupati nel 1967 è ingiusto e viola le leggi internazionali. I prigionieri sono sottoposti a torture, molestie sessuali, prolungati periodi in isolamento – a volte per un tempo fino a 10 anni – cure mediche inadeguate e condizioni di vita inumane, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, con la negazione dei diritti fondamentali dei detenuti.

Un altro meccanismo utilizzato dal regime israeliano è la detenzione amministrativa, che consente di trattenere i detenuti a tempo indeterminato senza un’imputazione o un processo. La detenzione più lunga di questo tipo è durata otto anni.

Tutto il sistema è essenzialmente destinato a sconvolgere e punire la società palestinese, con una percentuale del 99% di sentenze a lunghe pene detentive.

Violenza di genere

Anche nella prigione di Damon le prigioniere hanno dovuto affrontare la repressione. All’insaputa dei più fuori e dentro la Palestina, lo scorso mese il gruppo di detenute palestinesi (54 persone) è stato spostato dal carcere di Hasharon a quello di Damon, una struttura nei pressi di Haifa. Le condizioni sono significativamente peggiorate, con celle sovraffollate e docce all’esterno e al freddo, e a molte sono stati negati gli effetti personali che avevano nella prigione precedente.

La violenza di genere di Israele contro le detenute è ben documentata da ong e gruppi per i diritti umani palestinesi. Le strategie utilizzate contro di loro includono minacce, molestie sessuali, negazione di assorbenti igienici e umiliazioni generalizzate.

Israele è probabilmente l’unico Paese al mondo che processa metodicamente minorenni nel sistema dei tribunali militari. Migliaia di minori palestinesi sono stati arrestati e giudicati dai tribunali militari durante gli ultimi due decenni.

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto. Il loro movimento è limitato a determinate aree e sono costantemente sotto sorveglianza. Praticamente ogni aspetto della loro vita è controllato da Israele, mentre il sistema di incarcerazione continua a violare impunemente le leggi internazionali.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Attivisti fatti scendere dall’autobus per aver protestato contro la discriminazione razziale in un ospedale israeliano

Edo Konrad

20 gennaio 2019, +972

Gli agenti della sicurezza allontanano gli attivisti che protestano su un autobus pubblico di linea nel sud di Israele contro la nuova politica di discriminazione dei palestinesi.

Gli agenti della sicurezza di un ospedale israeliano domenica hanno bloccato 10 attivisti arabi ed ebrei a causa di un’azione di disobbedienza civile di protesta contro la prassi di discriminare, allontanare e controllare i palestinesi su una linea pubblica di autobus nel sud di Israele.

Gli attivisti, che appartengono al movimento di base di protesta ‘Standing Together’ [“Stare insieme”], sono stati fatti scendere dall’autobus all’entrata del centro medico Barzilai ad Ashkelon, dopo essersi rifiutati di mostrare le loro carte di identità e aver chiesto di sapere perché ai passeggeri non arabi non fosse stato chiesto di mostrare le loro.

Local Call’ [sito di notizie e analisi israeliano in ebraico, ndtr.] ha riferito per la prima volta la scorsa settimana che da parecchi mesi gli agenti della sicurezza dell’ospedale chiedono ai passeggeri che hanno sembianze arabe di mostrare le loro carte di identità. Se sono palestinesi, gli agenti li fanno scendere dall’autobus e gli permettono di risalire quando si allontana dall’edificio dell’ospedale. Sia l’ospedale che la compagnia di autobus hanno confermato l’esistenza di questa nuova prassi, ma hanno sostenuto che “viene condotta in modo rispettoso”.

Domenica mattina un agente della sicurezza è salito sull’autobus numero 18 quando è arrivato nei pressi dell’edificio del centro medico Barzilai, si è avvicinato a Gadir Hani – una palestinese cittadina di Israele che indossa il velo ed è attivista di ‘Standing Together’, e le ha chiesto la sua carta di identità.

Una ripresa video mostra Hani che chiede all’agente di sicurezza perché lei fosse discriminata e di richiedere a tutti i passeggeri di mostrare la propria carta d’identità. Anche gli altri passeggeri arabi sull’autobus hanno rifiutato di mostrare i propri documenti, dopodiché sono saliti a bordo parecchi altri agenti della sicurezza.

Quando gli attivisti hanno esibito i loro cartelli, gli agenti gli hanno detto che erano in arresto e li hanno fatti scendere dall’autobus. Pochi minuti dopo è arrivato un ufficiale dell’ospedale di grado più alto e li ha rilasciati.

Questo tipo di discriminazione è esattamente ciò che avevano sperato i promotori della legge dello Stato-Nazione ebraico: mostrare alla società israeliana che è legittimo discriminare, in tutti gli ambiti della vita, tra ebrei ed arabi cittadini di Israele”, ha detto l’attivista di ‘Standing Together’ Uri Weltman. “Non accetteremo la segregazione razziale – sugli autobus o in qualunque altro luogo.”

Secondo il rapporto di ‘Local Call’ sulle pratiche discriminatorie, oltre 3.000 persone hanno firmato una petizione online che chiede che l’ospedale smetta di discriminare e allontanare i passeggeri arabi dall’autobus.

L’ospedale e la compagnia di autobus sostengono che solo i palestinesi residenti in Cisgiordania e Gaza sono sottoposti ad un controllo suppletivo e fatti scendere dal bus quando entra nell’ospedale, giustificando questa prassi con ambigue motivazioni di sicurezza. Tuttavia una residente del luogo che regolarmente usufruisce di quella specifica linea di autobus ha detto a ‘Local Call’ di aver visto anche palestinesi cittadini di Israele cacciati fuori dal bus in diverse occasioni. (I palestinesi residenti in Cisgiordania hanno carte di identità verdi, mentre i residenti e i cittadini di Israele, compresi i palestinesi, hanno carte di identità blu.)

Da quando questa prassi è stata resa pubblica per la prima volta la scorsa settimana in un post su Facebook, molte organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto che l’ospedale, la compagnia di autobus, i ministeri israeliani della Sanità e dei Trasporti la interrompano immediatamente.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 1- 14 gennaio 2019 (due settimane)

Durante le manifestazioni del venerdì, tenute vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, una donna di 44 anni e un tredicenne sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 528 palestinesi sono rimasti feriti.

La donna è stata colpita da un proiettile, mentre il ragazzo è stato colpito alla testa da una bomboletta lacrimogena. Entrambi partecipavano ad una manifestazione tenutasi l’11 gennaio, ad est della città di Gaza; il ragazzo è morto tre giorni dopo, a causa delle lesioni alla testa. Questi episodi portano a 36, da marzo 2018, il numero di minori uccisi a Gaza durante le proteste; nello stesso periodo sono state uccise 3 donne. Inoltre, il 13 gennaio, un uomo palestinese è morto per le ferite riportate durante le proteste di fine ottobre. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, tra le persone ferite durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], 292 sono state ricoverate in ospedale; 67 di loro erano state colpite con armi da fuoco; i rimanenti sono stati soccorsi sul posto. Anche un soldato israeliano è rimasto ferito, colpito da pietre lanciate da manifestanti palestinesi.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 27 occasioni, non riconducibili agli eventi della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre agricoltori. In due distinti episodi, le forze navali israeliane hanno arrestato, per un breve periodo, quattro pescatori ed hanno confiscato due imbarcazioni. In altre quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

Il 6 gennaio, da Gaza è stato lanciato, ed è atterrato nel sud di Israele, un aerostato caricato con un ordigno esplosivo. Durante la sua neutralizzazione da parte delle forze israeliane, l’ordigno è esploso, senza provocare feriti o danni. Successivamente, le forze israeliane hanno effettuato diversi attacchi aerei contro strutture militari di Gaza; non sono stati segnalati feriti.

In Cisgiordania, durante numerose proteste e scontri sono stati feriti dalle forze israeliane 138 palestinesi, tra cui almeno 29 minori. Tre quarti di queste ferimenti (98) si sono verificati nelle città di Al Bireh e Ramallah, durante scontri innescati da operazioni di ricerca-arresto. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 175 operazioni di questo tipo, in aumento del 2% rispetto alla media quindicinale del 2018. Altri 31 feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Ras Karkar e Al Mughayyir (entrambi in Ramallah), durante proteste contro le restrizioni di accesso [ai palestinesi] e contro l’espansione degli insediamenti [colonici] su terreni palestinesi. Di tutti i feriti, 10 sono stati causati da armi da fuoco, 59 da proiettili di gomma e 57 da inalazione di gas lacrimogeno richiedente trattamento medico o colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In due distinti episodi, due palestinesi, un uomo e una donna, sono stati colpiti e feriti da forze israeliane, a quanto riferito, mentre tentavano di pugnalare soldati; nessun israeliano è stato ferito. Gli episodi si sono verificati il 7 e l’11 gennaio, presso il checkpoint di Za’tara (Nablus) e nella zona H2 della città di Hebron, all’ingresso dell’insediamento colonico di Giv’at Ha’avot. I due sospetti aggressori sono stati arrestati.

Per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 13 strutture di proprietà palestinese, sfollando dieci palestinesi e colpendo, in varia misura, altre 100 persone. Nella Comunità di As Simiya (Hebron), in Area C, le autorità israeliane hanno sequestrato, per la seconda volta, tre tende adibite a scuola per 45 studenti; le tende erano state montate per rimpiazzare una scuola demolita nel dicembre 2018, quando non era ancora operativa. Nella Comunità pastorale di Imreiha (Jenin) sono state anche sequestrate una roulotte residenziale e una latrina, fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni. Sempre in Area C, nel villaggio di Beit Iksa (Gerusalemme) sono state demolite sei strutture. A Gerusalemme Est, sul lato rivolto verso il villaggio di Qalandiya, una casa palestinese è stata demolita, mentre a Jabal al Mukabbir abitanti [palestinesi] sono stati costretti a demolire un ampliamento della loro casa.

A Gerusalemme Est, in conseguenza di una sentenza emessa da un tribunale israeliano a favore di un’organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà del terreno, una famiglia di rifugiati palestinesi è esposta ad un aggravato rischio di sfratto forzato dalla propria casa. L’abitazione si trova nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove, negli anni ’50, la famiglia si trasferì con il sostegno delle Nazioni Unite. A Gerusalemme Est circa 3.500 coloni israeliani, dopo aver preso il controllo delle proprietà con il supporto delle autorità israeliane, vivono attualmente in quartieri palestinesi. In tali aree, su oltre 800 palestinesi incombono cause di sfratto intentate da organizzazioni di coloni.

Gli scontri tra forze israeliane e coloni, avvenuti durante l’evacuazione di un avamposto [insediamento colonico non autorizzato dalle autorità israeliane] nella zona di Ramallah, hanno provocato il ferimento di 24 poliziotti e tre coloni. L’episodio è avvenuto, il 3 gennaio, nell’avamposto di Amona, che era stato parzialmente ricostruito dopo la sua evacuazione e demolizione avvenuta all’inizio del 2017. La demolizione era conseguita ad una sentenza di un tribunale israeliano che aveva stabilito che il terreno è di proprietà privata palestinese. Nonostante ciò, i palestinesi proprietari dei terreni non sono mai stati autorizzati ad accedere nuovamente alla propria terra.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e più di 1.000 alberi e 11 veicoli sono stati vandalizzati o danneggiati nel corso di attacchi di coloni israeliani. Nel villaggio di Urif (Nablus), durante scontri scoppiati in seguito a un’incursione di coloni israeliani, un 11enne palestinese è stato ferito da un proiettile sparato da soldati israeliani. Altri due separati episodi, avvenuti nel governatorato di Hebron: a Khirbet Um al Imad, coloni israeliani hanno sguinzagliato un cane che ha ferito un palestinese; a Massafer Yatta, un altro uomo è stato fisicamente aggredito e ferito. In dieci episodi separati, secondo fonti della Comunità, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 1.030 ulivi e altri tipi di alberi nei villaggi di Battir (Betlemme), Ash Shuyukh, At Tuwani, Tarqumiya e nell’area H2 di Hebron (tutti a Hebron); Turmus’ayya (Ramallah); Wadi Qana e Deir Istiya (Salfit); e Burqa (Nablus). Cinque episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani contro palestinesi hanno causato danni a 11 veicoli, ma nessun ferimento.

Secondo quanto riportato da media israeliani, durante diversi casi di lancio di pietre ed un episodio di spari da parte palestinese, sono rimasti feriti 4 coloni israeliani (tra cui una donna) e sono stati danneggiati almeno otto veicoli. I lanci di pietre si sono verificati lungo strade prossime a Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Gerico. Nei pressi dell’insediamento di Beit El (Ramallah), l’autista israeliano di un autobus è stato ferito da schegge di vetro prodotte, a quanto riferito, dagli spari di palestinesi contro il veicolo mentre percorreva la strada 466.

Nella città di Ramallah sono state parzialmente riaperte due strade principali tenute chiuse [dalle forze israeliane] per quasi un mese [segue dettaglio:]. L’11 gennaio, per alcune categorie di palestinesi, il “checkpoint DCO”, principale ingresso della città da est, è stato parzialmente aperto in una direzione (in uscita da Ramallah). Il 14 gennaio è stato riaperto un cancello che bloccava la strada principale da ovest verso Ramallah (la porta di Deir Ibzi). Queste e altre strade verso Ramallah erano state chiuse il 6 e il 13 dicembre 2018; in quest’ultima data, a seguito di un attentato palestinese compiuto nell’area e in cui erano stati uccisi due soldati israeliani.

Il 2 gennaio, nella zona centrale della costa di Gaza, le autorità israeliane hanno esteso a 12 miglia nautiche la zona di pesca autorizzata. Lungo le aree settentrionale e meridionale l’accesso rimane limitato a sei miglia. Questa è la prima volta dal 2002 che i pescatori sono autorizzati a raggiungere tale distanza. Si prevede che l’estensione aumenti il volume e la qualità del pescato.

A Gaza sono scoppiati scontri tra la polizia di Hamas e gli attivisti di Fatah. Gli scontri si sono verificati il 1° gennaio, durante un evento che commemorava l’anniversario del movimento Fatah. Gruppi per i Diritti umani hanno riferito che decine di persone affiliate a Fatah sono state convocate dalle forze di sicurezza di Hamas.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto per 4 giorni in entrambe le direzioni e per altri 5 giorni in una sola direzione (verso Gaza). Quest’ultima apertura parziale ha fatto seguito alla decisione dell’Autorità Palestinese (il 7 gennaio) di ritirare il proprio personale dal valico, in conseguenza di un aumento delle tensioni con Hamas. Un totale di 1.781 persone sono entrate a Gaza e 990 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018 il valico è stato aperto, quasi continuamente, cinque giorni a settimana.

239




Appello del Ministero della Sanità di Gaza sulla mancanza di combustibile negli ospedali della Striscia

Diffondiamo l’appello pervenutoci  del Ministero della Salute di Gaza sulla gravissima situazione negli ospedali della Striscia.

Il ministero della Sanità di Gaza fa appello a tutte le parti in causa affinché intervengano immediatamente per porre fine alla crisi di combustibile che colpisce gli ospedali pubblici nella Striscia di Gaza in quanto i generatori dell’ospedale ostetrico di Rafah chiuderà entro poche ore. Entro qualche giorno questa crisi si estenderà fino a coinvolgere tutte le strutture sanitarie.

Il ministero della Salute palestinese mette in guardia in merito a una preoccupante crisi che colpisce il Sistema sanitario della Striscia di Gaza occupata a causa della carenza nell’approvvigionamento di carburante che fornisce energia agli ospedali.

La crisi di combustibile che colpisce l’ospedale della Mezzaluna degli Emirati e strutture sanitarie è iniziata dopo la fine del novembre 2018 con l’esaurimento delle rimanenti quantità di combustibile a causa delle interruzioni di corrente e dell’aumento dell’aumentato consumo di elettricità a causa del freddo inverno.

Non siamo stati riforniti di alcuna quantità di carburante dai donatori, abbiamo raggiunto uno stato di grave carenza e nelle prossime ore stiamo per spegnere i generatori degli ospedali, il che porterà a interrompere i servizi sanitari di altri ospedali e strutture mediche e pertanto facciamo appello a tutte le parti coinvolte perché riforniscano i nostri ospedali di carburante per garantire la continuità dei servizi sanitari per migliaia di pazienti nella Striscia di Gaza.

Il consumo mensile di carburante è di 300.000 litri.

L’ospedale dei Martiri di Al-Aqsa, nella zona centrale della Striscia di Gaza, ha trasferito 2500 litri di carburante dai propri serbatoi per salvare l’ospedale di ostetricia della Mezzaluna degli Emirati nella città di Rafah, che sta per interrompere la sua operatività a causa della carenza di carburante, notando che la quantità trasferita sarà sufficiente per due giorni nella maternità e il caburante rimanente nell’ospedale Al-Aqsa sarà esaurito in soli 5 giorni.

La continua crisi dovuta all’esaurimento del combustibile avrà conseguenze catastrofiche per i pazienti nella Striscia di Gaza quando i generatori smetteranno di funzionare entro pochi giorni.

Ciò metterà a rischio le vite di 800 pazienti, tra cui 30 minori, con problemi renali che tre volte alla settimana si recano alle 128 apparecchiature per la dialisi. 40 camere operatorie, in cui quotidianamente si effettuano 250 operazioni, saranno chiuse.

La vita di centinaia di donne incinte che hanno bisogno di tagli cesarei saranno in pericolo quando le sale operatorie nei reparti maternità chiuderanno.

La situazione della salute di migliaia di pazienti che richiedono test di laboratorio e trasfusioni di sangue presso le strutture del ministero della Salute peggiorerà ogni giorno di più quando 50 laboratori medici e 10 banche del sangue sospenderanno le loro attività.

La vita di 120 neonati prematuri verrà minacciata in quanto la loro sopravvivenza dipende direttamente dalla fornitura di elettricità nei reparti maternità degli ospedali della Striscia di Gaza.

La vita di 100 pazienti nelle unità di cure intensive sarà in pericolo in quanto le loro vite sono legate alla fornitura costante di energia elettrica che fanno funzionare apparecchiature mediche salvavita.

Bloccandosi i concentratori di ossigeno, le unità di sterilizzazione, le lavanderie e altri servizi sussidiari negli ospedali di Gaza, la situazione sanitaria di migliaia di pazienti sarà a rischio in quanto verranno private di servizi diagnostici nei dipartimenti di radiologia degli ospedali della Striscia di Gaza.

Ogni giorno a decine di pazienti verranno negati servizi di cateteri, di terapia cardiaca e diagnostici.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La presa in giro morale di Israele che chiede soldi agli arabi e agli iraniani per la propria ‘Nakba’

Ramzy Baroud

16 gennaio 2019, Palestine Chronicle

La partita è in corso. Israele, che ci si creda o no, sta chiedendo che sette Paesi arabi e l’Iran paghino 250 miliardi di dollari come risarcimento per ciò che sostiene essere stata l’espulsione forzata di ebrei dai Paesi arabi alla fine degli anni ’40. Gli eventi citati da Israele sarebbero avvenuti nel periodo in cui le milizie ebree sioniste stavano espellendo attivamente circa un milione di arabi palestinesi e distruggendo sistematicamente le loro case, villaggi e città in tutta la Palestina.

L’annuncio di Israele, che avrebbe fatto seguito a “18 mesi di indagini segrete” condotte dal ministro per l’Uguaglianza Sociale, non deve essere registrato nel dossier in continua espansione delle vergognose falsificazioni israeliane della storia. In realtà fa parte di un calcolato tentativo da parte del governo israeliano, in particolare della ministra (per l’Uguaglianza Sociale) Gila Gamliel, di creare una narrazione alternativa alla legittima richiesta di applicazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che subirono una pulizia etnica da parte delle milizie ebraiche tra il 1947 e il 1948.

C’è una ragione dietro l’urgenza di Israele di rivelare una simile discutibile indagine: l’incessante tentativo di Stati Uniti ed Israele negli ultimi due anni di liquidare i diritti dei rifugiati palestinesi, di mettere in discussione il loro numero ridefinendo chi essi siano o meno e di rendere marginali le loro denunce. Fa tutto parte del pacchetto del disegno in atto camuffato da “Accordo del secolo”, col chiaro scopo di rimuovere tutte le importanti questioni che sono al centro della lotta palestinese per la libertà.

È venuto il momento di correggere la storica ingiustizia dei pogrom (contro gli ebrei) in sette Paesi arabi e in Iran, e di restituire alle centinaia di migliaia di ebrei che persero le loro proprietà ciò che legittimamente gli appartiene”, ha detto Gamliel.

La frase “…correggere la storica ingiustizia” non è diversa da quella usata dai palestinesi che da oltre 70 anni chiedono la restituzione dei loro diritti in base alla Risoluzione 194 dell’ONU. La voluta sovrapposizione della narrazione palestinese e di quella sionista ha lo scopo di creare paralleli, nella speranza che un futuro accordo politico si concluda con rivendicazioni che si annullino a vicenda.

Tuttavia, contrariamente a quanto vogliono farci credere gli storici israeliani, non vi fu un esodo di massa forzato di ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Ciò che avvenne fu una massiccia campagna organizzata all’epoca dai capi sionisti per sostituire la popolazione araba indigena in Palestina con immigrati ebrei da tutto il mondo. Le modalità con cui venne portata a termine questa operazione spesso implicarono azioni violente dei sionisti, soprattutto in Iraq.

Di fatto, l’appello agli ebrei a confluire in Israele da tutti gli angoli del mondo resta il grido di battaglia dei leader israeliani e dei loro sostenitori cristiano-evangelici. I primi vogliono assicurare una maggioranza ebraica nello Stato, mentre i secondi cercano di adempiere ad un requisito biblico per le loro a lungo attese Apocalisse e Ascensione in cielo. Attribuire ad arabi e iraniani la responsabilità di questo strano ed irresponsabile comportamento è una violazione della vera narrazione storica alla quale né Gamliel né il suo ministero sono interessati.

Dall’altro lato, e diversamente da quanto gli storici militari israeliani spesso sostengono, l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina nel 1947-48 (e le successive epurazioni della popolazione nativa che seguirono alla guerra del 1967) fu un’azione premeditata di pulizia etnica e genocidio. Fu (ed è ancora) parte di una annosa e attentamente progettata campagna che, fin dal suo inizio, ha costituito la principale strategia al centro della “visione” del movimento sionista riguardo al popolo palestinese.

Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”, scrisse il fondatore di Israele, comandante militare e primo capo del governo, David Ben Gurion, in una lettera a suo figlio Amos nell’ottobre del 1937. Era più di 10 anni prima che fosse messo in atto il Piano D (per Dalet) – che ha visto la distruzione della patria palestinese per mano delle milizie di Ben Gurion e dei gruppi terroristi sionisti.

La Palestina ha un grande potenziale per la colonizzazione”, scrisse inoltre Ben Gurion, “di cui gli arabi non hanno bisogno né sono in grado di sfruttare.” Questa esplicita dichiarazione di un progetto coloniale in Palestina, espressa con lo stesso tipo di inconfondibile linguaggio e insinuazioni razziste che hanno accompagnato tutte le altre esperienze coloniali occidentali per molti secoli, non apparteneva solo a Ben Gurion. Era una mera parafrasi di ciò che allora si percepiva essere la sostanza dell’impresa sionista in Palestina in quel momento.

Come ha concluso il professore palestinese Nur Masalha nel suo libro, Expulsion of the Palestinians [‘Espulsione dei palestinesi’], l’idea del “trasferimento” – il termine sionista per pulizia etnica – del popolo palestinese era e resta fondamentale per la realizzazione delle ambizioni sioniste in Palestina. “I villaggi arabi palestinesi all’interno dello Stato ebraico che resistono ‘devono essere distrutti…e i loro abitanti espulsi al di là dei confini dello Stato ebraico’”, ha scritto Masalha, citando la “History of the Haganah”  [‘Storia dell’Haganah’] di Yehuda Slutsky. L’Haganah era la principale milizia sionista che sarebbe diventata l’esercito israeliano (IDF, Israel Defence Force), insieme a ciò che rimaneva dei gruppi terroristici Irgun e Banda Stern.

Ciò che questo significava nella pratica, come descritto dallo storico palestinese Walid Khalidi, fu che le varie milizie ebraiche presero congiuntamente di mira tutti i centri abitati in Palestina, in modo sistematico e senza eccezioni. “Alla fine di aprile del 1948 l’offensiva congiunta di Haganah e Irgun aveva circondato completamente la città palestinese di Giaffa, costringendo la maggior parte dei civili rimasti alla fuga per mare verso Gaza o l’Egitto; molti annegarono nel tragitto”, ha scritto Khalidi in “Before Their Diaspora” [Prima della loro diaspora’].

Questa tragedia arrivò a colpire tutti i palestinesi dovunque all’interno dei confini della loro patria storica. Decine di migliaia di rifugiati si unirono ad altre centinaia di migliaia in tanti sentieri polverosi in tutto il Paese, crescendo di numero man mano che procedevano, prima di piantare finalmente le loro tende in zone che dovevano essere provvisori campi per rifugiati. Ahimè, rimangono campi per rifugiati palestinesi ancor oggi, disseminati nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Nulla di ciò fu accidentale. La determinazione dei primi sionisti a stabilire un “focolare nazionale” per gli ebrei a spese della popolazione araba palestinese del Paese fu comunicata apertamente, chiaramente e ripetutamente attraverso la formazione del primo pensiero sionista e la trasformazione di quelle ben articolate idee in realtà.

Sono passati 70 anni dalla Nakba – la catastrofe del 1948 – e Israele non si è mai assunto la responsabilità delle proprie azioni né i rifugiati palestinesi hanno ricevuto alcuna misura di giustizia, per quanto piccola o simbolica. Perciò, per Israele chiedere delle compensazioni dai Paesi arabi e dall’Iran è una parodia morale, specialmente dato che i rifugiati palestinesi continuano a sopravvivere in campi profughi in tutta la Palestina e il Medio Oriente.

Sì, certamente “è arrivato il momento di correggere l’ingiustizia storica”, ma non per quelli che Israele ora sostiene essere stati “pogrom” condotti da arabi e iraniani. La vera ingiustizia storica è la continua e terribile distruzione della Palestina e del suo popolo.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Risolta la crisi sugli addetti alla sicurezza italiani a Gaza

Middle East Monitor

17 gennaio 2019

Si è conclusa una crisi riguardante tre addetti alla sicurezza italiani che si pensava fossero forze israeliane in incognito che stavano agendo nella Striscia di Gaza.

In un comunicato diffuso ieri il portavoce del ministero dell’Interno palestinese a Gaza, Iyad Al-Bozm, ha affermato che “nelle scorse ore è stata effettuata un’inchiesta su un veicolo sospetto su cui stavano viaggiando tre italiani, che casualmente si trovavano nella stessa zona in cui il 14 gennaio 2019 ha avuto luogo una sparatoria nella Striscia di Gaza.”

In seguito all’incidente, la macchina è arrivata al quartier generale dell’UNSCO (Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente)” continua, aggiungendo: “Durante l’indagine l’identità dei tre italiani e il loro ingresso regolare a Gaza sono stati confermati. Si è anche chiarito che la vettura non era legata alla sparatoria.”

Il ministero ha ringraziato tutte le parti per aver agevolato l’inchiesta sull’incidente, soprattutto l’inviato speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nicholay Mladenov, il consulente ONU per la Sicurezza nei Territori Palestinesi, il direttore dell’UNSCO a Gaza, l’ambasciata italiana e l’ambasciatore del Qatar, Mohamed Al-Imadi.

Informazioni affermano che l’ambasciatore italiano ha avuto un colloquio telefonico con il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, in merito al problema.

L’agenzia di notizie cinese Xinhau ha informato che gli italiani erano addetti alla sicurezza che si trovavano nella Striscia di Gaza assediata per preparare una visita dell’ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, che sarebbe dovuta avvenire ieri.

Lunedì le guardie della sicurezza palestinese avevano sospettato che i tre uomini fossero forze israeliane in incognito, in quanto il trio trasportava fucili automatici e aveva rifiutato di fermarsi a un posto di controllo nella zona centrale di Gaza.

Le forze palestinesi hanno inseguito i tre sospetti, che allora si sono rifugiati nel quartier generale dell’UNSCO a Gaza. Le forze di sicurezza hanno seguito le regole internazionalmente riconosciute e non sono entrate nell’ufficio per seguirli, chiedendo invece il permesso ufficiale di verificare chi fossero i tre uomini.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mass media in uniforme, carabinieri in borghese e il perfido Hamas

Patrizia Cecconi

16 gennaio 2019, Pressenza

Un giallo si è svolto ieri a Gaza e ha visto coinvolta l’Italia. Non sappiamo con certezza se anche gli italiani, ma l’Italia sì.

Secondo i nostri media di sicuro sono stati coinvolti anche gli italiani, infatti basta vedere i titoli dei quotidiani, cioè “il” titolo, perché il Corriere come la Repubblica, il Messaggero come il Giornale o il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa hanno tutti in sostanza lo stesso titolo, una specie di uniforme da elegante valletto al servizio dallo stesso signore.  Tutti hanno parlato di “carabinieri italiani rifugiati nella sede dell’ONU e assediati da Hamas”. Il perfido Hamas, cioè il partito che governa la Striscia di Gaza e che –  come ci ricorda Vincenzo Nigro su La Repubblica –  “l’Italia considera un movimento terroristico con cui i rapporti politici sono congelati.

Noi ne prendiamo atto chiedendoci, però, come mai, se i rapporti sono congelati l’Italia manda i suoi carabinieri, non turisti o operatori umanitari, ma rappresentanti dell’Arma, dentro la Striscia? E come li manda? Clandestini?

Bene, corre l’obbligo di spiegare ai quattro lettori che ci seguiranno, che Gaza è sotto assedio israeliano, illegittimo e illegale ovviamente, ma sotto assedio e non si può entrare se non con un permesso speciale di Israele. E fin qui certo niente di strano, visto che il governo italiano è amico del governo israeliano. Ma poi serve anche il permesso di Hamas e per avere il permesso di Hamas qualcuno dall’interno della Striscia deve aver fatto la richiesta e questa richiesta deve essere accolta dalle autorità locali, cioè Hamas e presentata alla frontiera.

Lo conoscono  tutto questo iter i bravi valletti che hanno scritto i loro articoli titolandoli tutti “carabinieri italiani assediati da Hamas”?  Forse lo sanno, ma nella velina  c’era l’indicazione di saltare questo passaggio. Forse invece proprio non lo sanno e sono andati tutti dietro la stessa onda senza accorgersi che stavano dando un’informazione non parziale, ma totalmente deformata, il che è più grave che dire parziale o inesatta.

Allora ricostruiamo i fatti.

Dopo l’attentato di due mesi fa contro Nour Barake, uno dei leader della resistenza, commesso da un commando terrorista israeliano entrato presumibilmente di notte da un varco creato ad hoc nella rete dell’assedio, gli addetti alla sicurezza – detti sempre security di Hamas perché fa più effetto – avendo scoperto che il commando mascherato aveva documenti falsi e che a Gaza erano entrati, sempre con documenti falsi, una quindicina di agenti dei servizi segreti israeliani con scopi ovviamente non di tipo caritatevole o umanitario, ha ristretto molto il già esiguo numero di  permessi e ha punteggiato la Striscia, soprattutto nelle due strade principali che uniscono il nord al sud per circa 40 km, con un fitto numero di posti di blocco. In alcune parti addirittura si possono trovare ogni 500 metri.

I posti di blocco, quelli che in Israele si chiamano comunemente check point e che sono tristemente famosi per il numero di omicidi dovuti al grilletto facile dei soldati dell’IDF, i posti di blocco gazawi, che al contrario di quelli israeliani finora non si sono mai macchiati di sangue, consistono solitamente in due blocchi di cemento e una sbarra, lasciando lo spazio perché una vettura passi senza rimuovere la sbarra stessa, ma costringendola a rallentare per entrare nello spazio lasciato libero. Lì ci sono di solito tre o quattro militari che guardano il conducente e i passeggeri, qualche volta chiedono i documenti, ma il più delle volte si affidano al loro intuito e salutano con un sorriso. Una security che contrasta un po’ con l’idea  che la fantasia, con l’aiuto dei media, costruisce di questi militari immaginati sempre come feroci terroristi.

Ad uno di questi posti di blocco la sera del 14 gennaio non si sarebbe fermata una vettura con dentro tre o forse quattro uomini. Al tentativo di fermare la vettura i passeggeri, tutti in borghese, avrebbero estratto delle armi automatiche e sarebbero scappati forzando il blocco. Iniziava un breve inseguimento, breve perché la vettura clandestina andava a ripararsi dentro lo stabile delle Nazioni Unite a poche centinaia di metri e qui la vettura dei militari palestinesi non veniva fatta entrare.

Se lo stesso fatto fosse avvenuto in Israele i tre (o quattro) occupanti della vettura fuggitiva sarebbero stati tre (o quattro) cadaveri crivellati di colpi, ma i feroci terroristi con i quali l’Italia non comunica sono stati dei gentlemen e i fuggiaschi sono ancora vivi.

Una domanda che nessuno dei nostri media mainstream si è posta  pubblicamente è “perché questi signori non hanno mostrato i documenti? Allora erano clandestini? E a servizio di chi?” No, questo non appare nel pezzo della Repubblica, né su quello del Corriere, su nessuno. Forse non era nell’indice della velina.

Dunque i tre (o quattro) giovani uomini, capello corto o cortissimo, aria qualunque, anche palestinese volendo, o comunque mediterranea, potevano essere e probabilmente lo erano spie israeliane, come i quindici precedentemente scoperti.

Le autorità governative, dette dai media minacciosamente “Hamas”, a questo punto fanno circondare il palazzo dell’Onu dai militari, chiedendo che venga fornita l’identità di quei delinquenti che hanno sfondato il posto di blocco e sparato contro la polizia locale.

Per la verità, in qualunque altro paese, Italia compresa, sarebbero stati già arrestati, magari solo per due giorni, ma sarebbero stati arrestati subito per i due reati commessi.

I nostri quotidiani, la nostra Lilli Gruber, i nostri cronisti televisivi e compagnia servente, si sono tutti affannati a dire che Hamas assediava l’Onu, dimenticando di dire che avevano il diritto di  identificare i tre trasgressori e dimenticando anche di dire che Gaza è sotto assedio e che strani personaggi si erano infiltrati sparando contro la polizia locale o, comunque, forzando un posto di blocco.  Si sono anche dimenticati di dire che tutte le forze politiche di Gaza, compresa Fatah, avversario numero uno di Hamas, erano concordi in questa azione.

E’ lecito chiedersi se i personaggi della vettura in questione fossero ubriachi, cosa molto difficile dato il divieto  imposto da Hamas di far entrare alcolici, o se fossero dei provocatori  che hanno agito ad hoc per creare un incidente e poi sviluppare un piano che al momento non ci è dato conoscere.

Da dove sono entrati? Perché Hamas, che rilascia i permessi ai pochissimi internazionali che possono accedere alla Striscia, non li conosceva?

Alla fine, ma solo dopo un giorno e mezzo che deve essere stato abbastanza lungo, è venuto fuori che questi signori erano dei carabinieri italiani in borghese. Carabinieri italiani? E perché non hanno mostrato i documenti? E perché l’Italia, che non comunica con Gaza in quanto governata dal movimento dichiarato terrorista di Hamas, ha mandato i suoi carabinieri? Dalla Farnesina, attraverso il consolato a Gerusalemme rispondono, come ci comunica sollecitamente Davide Frattini, inviato del Corriere della Sera, che si trattava di “personale della sicurezza italiana, entrato a Gaza per una missione ufficiale”.  Una missione ufficiale? Ma allora la Farnesina tratta con Hamas? Ma no, che missione ufficiale poteva essere se i cosiddetti carabinieri erano in clandestinità?  C’è del giallo in tutta questa storia.

Frattini aggiunge e il Corriere lo evidenzia in neretto che “I carabinieri stavano verificando le condizioni di sicurezza… per una visita ufficiale al monastero di Sant’Ilarione”.

C’è del giallo sì, e non c’è neanche conoscenza dei luoghi; infatti i giornalisti, al pari dei lettori che dovrebbero informare,  non sanno che il monastero di Sant’Ilarione si trova a Nusseirat, quindi abbastanza a sud di Gaza city, e in realtà lì c’è un mosaico cristiano di circa 1700 anni fa sopravvissuto miracolosamente ai criminali bombardamenti del 2014. Ma le visite ai siti archeologici non si fanno di notte, e tornare da Nusseirat a Gaza city comporta solo una mezz’ora,  quindi come mai si trovavano a tarda sera a Gaza city? E dove avrebbero alloggiato, visto che il valico di sera è chiuso e non avrebbero potuto far ritorno alla loro sede a Gerusalemme? E su tutte, ancora la stessa domanda: perché fuggire al posto di blocco invece di fermarsi? E poi quanti posti di blocco hanno passato da Nusseirat a Gaza city, ammesso che venissero dal sito archeologico, senza essere fermati? Tutto stranissimo e, per chi conosce Gaza, più che strano  INCREDIBILE.

Intanto le voci che l’ambasciatore o il console italiano si sarebbero incontrati con Ismail Hanyeh per risolvere la questione vengono smentite, così come l’UNRWA smentisce che ci sia stato un assedio nella propria sede. Alla fine, dopo circa 48 ore, le autorità della perfida Hamas rompono il cordone di sicurezza, ovvero il cosiddetto “assedio dei nostri carabinieri”, accettando la versione che si tratti di tre italiani e non di tre sabotatori dei servizi segreti israeliani.

Questo viene raccontato ai lettori, ma noi vogliamo aggiungere una chicca che i nostri media mainstrem non conoscono e che i feroci capi di Hamas non hanno preso in considerazione. Si tratta della proposta fatta da un docente dell’Università Islamica di Gaza, il prof. Khalid El Khalidi il quale ha trovato che nella sua magnificenza e misericordia Dio, detto anche Allah, ha offerto a Gaza la possibilità di liberarsi dall’assedio e di ottenere un risarcimento monetario per le privazioni sofferte in questi anni. Il prof. El Khalidi chiedeva infatti che i tre (o quattro) violatori della legge venissero arrestati. Trattati ovviamente con tutte le cure, ma arrestati e se si scopriva che si trattava di ufficiali dei servizi segreti, cosa di cui lui era convinto,  proporre uno scambio tra la loro liberazione e la fine dell’assedio, chiedendo inoltre di risarcire  Gaza e il suo popolo per l’assedio e la distruzione derivata dalle  tre massicce aggressioni con  20 miliardi di dollari, da consegnare alla resistenza prima dell’estradizione dei tre ufficiali.

Il prof. El Khalidi, come molti altri, seguita a non credere infatti alla versione data dopo 48 ore e aggiunge che “Il nemico ha la capacità di mobilitare per salvare i suoi soldati tutti gli ambasciatori e i presidenti dell’Occidente.” Il suo pensiero è il pensiero di molti gazawi e per questo lo riportiamo, e noi stessi abbiamo il diritto di dubitare che l’Italia si sia prestata a questo gioco potendo contare su un’informazione mediatica telecomandata e giocando sul fatto che la gente non sa che a Gaza non si può entrare in anonimato come turisti qualsiasi.

In conclusione il giallo non è risolto e resta da chiedersi perché il perfido  Hamas si sia così addolcito, fino ad accettare di credere che i tre giovanotti fossero carabinieri italiani in borghese venuti a fare un’indagine su un sito archeologico di Gaza senza le autorizzazioni del ministero di Gaza e senza il permesso di entrata. C’è forse dietro un ricatto? E perché erano armati? I carabinieri in borghese non possono essere armati, soprattutto non possono esserlo a Gaza! E seppure fossero  italiani possono sempre avere la doppia cittadinanza ed essere a servizio dello Stato ebraico, come ad esempio l’ ex-deputata di Forza Italia e colona ebrea Nirenstein, che ha la cittadinanza israeliana poiché, in quanto ebrea, le spetta di diritto. Diritto interno a Israele ovviamente.

A fronte dell’abito borghese dei cosiddetti carabinieri, abbiamo l’uniforme dei valletti mediatici e le due cose insieme spengono le domande di chi invece avrebbe diritto a un’informazione onesta. Perciò seguitiamo a chiederci non solo perché Hamas non ha arrestato o non ha potuto arrestare i tre che hanno violato un bel po’ di norme a partire dalla più banale: l’aver forzato il  posto di blocco, cosa che a un gazawo qualunque sarebbe costata l’arresto e una forte multa., ma ci chiediamo anche perché è stata tirata in mezzo l’Italia e perché l’Italia ha acconsentito. Un ricatto anche qui? O forse una promessa? O semplicemente un ossequio verso un paese amico? Potremmo eliminare, almeno in parte, i dubbi se i tre ex rifugiati, ora liberi, apparissero in televisione a dare la loro versione facendoci conoscere anche i loro nomi.

In assenza di ciò noi facciamo il nostro lavoro di giornale libero, realmente libero, senza diktat né veline e senza uniformi e diciamo che questo è un giallo in cui l’Italia, insieme ai media mainstream fa la parte del servitore che fornisce l’alibi all’assassino.




La lotta palestinese si sta trasformando in movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio

Ramy Younis

11 gennaio 2019, +972

Secondo lo studioso Tareq Baconi la Grande Marcia del Ritorno segnala un cambiamento per il popolo palestinese. I palestinesi non stanno più lottando per uno Stato e stanno rivendicando sempre più i loro pieni diritti – in primo luogo il diritto al ritorno.

I dirigenti della Grande Marcia del Ritorno hanno sorpreso il mondo quando hanno organizzato la prima manifestazione lungo la barriera tra Israele e Gaza il 30 marzo 2018. Decine di migliaia di palestinesi vi hanno partecipato. Già nella prima protesta i cecchini israeliani hanno aperto il fuoco e hanno ucciso 14 palestinesi e ne hanno feriti più di 1.200.

Le proteste sono diventate dimostrazioni settimanali, in quanto ogni venerdì decine di migliaia di gazawi hanno manifestato lungo la barriera. L’esercito israeliano ha continuato a sparare contro di loro. I dirigenti delle marce, un gruppo di circa 20 attivisti, per lo più laici e di sinistra, hanno cercato di evitare per quanto possibile che la gente arrivasse troppo vicino alla barriera. Hamas, che all’inizio ha fornitol’ appoggio logistico che ha contribuito al successo delle proteste (ovvero, gli spostamenti e la propaganda), ha lentamente iniziato a giocare un ruolo più significativo nelle manifestazioni.

Hamas è entrato a forza nella Grande Marcia del Ritorno e potrebbe aver preso il controllo delle proteste, ma comunque senza Hamas Gaza non avrebbe potuto alleggerire il blocco. Hamas è una forza politica che può affrontare Israele come non sono capaci di fare né Fatah né l’Autorità Nazionale Palestinese.

Questo è il giudizio secondo Tareq Baconi, un giovane intellettuale e ricercatore palestinese, in precedenza membro dell’European Council for Foreign Relations [gruppo di studio inter-europeo su questioni di politica estera, ndtr.] e attualmente analista dell’International Crisis Group [ong europea che si occupa della gestione di conflitti, ndtr.]. È uno degli esperti su Hamas più apprezzati. Il nuovo libro di Baconi, “Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance” [Hamas sotto controllo: la nascita e la pacificazione della resistenza palestinese”, Stanford Univ Pr, 2018], analizza la transizione di Hamas dalla lotta armata alla resistenza popolare.

Ho parlato con Baconi di una delle storie più significative del 2018 – le marce del ritorno a Gaza. Si è detto molto sul coinvolgimento, se non sulla presa di controllo, del movimento, iniziato come protesta popolare, da parte di Hamas.

I palestinesi di Gaza sono critici nei confronti delle imposizioni religiose di Hamas, della sua intrusione nella vita quotidiana degli abitanti e della sua ostilità con Fatah. I media israeliani amano mostrare persone di Gaza che accusano Hamas dell’assedio, della povertà e delle vittime in seguito agli attacchi israeliani, ma non è così.

Baconi, figlio di rifugiati palestinesi di Haifa e di Gerusalemme, è cresciuto ad Amman e attualmente vive a Ramallah. Nella nostra conversazione non risparmia critiche a Fatah, ad Hamas e alla dirigenza palestinese in Israele, ma sottolinea ripetutamente che alla base della sua analisi ci sono Israele e gli enormi crimini che sta commettendo: l’occupazione e il blocco di Gaza.

Innanzitutto, cosa pensi della Grande Marcia del Ritorno?

Le marce sono una fonte di speranza. Indicano che le politiche di Hamas e di Fatah hanno fallito, che anche la via del negoziato promossa dagli americani ha fallito, ma che il popolo palestinese rimane saldo e continua a rivendicare i propri diritti dal ’48, non dal ’67, in primo luogo il diritto al ritorno. Le fazioni politiche possono aver fallito, ma il popolo è ancora legato ai propri valori e chiede gli stessi diritti per cui ha lottato fin dall’inizio.

Il popolo palestinese è arrivato a un punto di transizione, passando dalla richiesta di uno Stato alla rivendicazione dei propri diritti. È il passaggio a un movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio. Benché ci siano state proteste nella diaspora palestinese, in Siria e in Libano e all’interno [dei confini] del ’48 [cioè in Israele, ndtr.], ad Haifa, il modo in cui le marce sono iniziate a Gaza mette in luce un percorso da seguire e indica un nuovo sviluppo. Per quanto mi riguarda è una fonte di speranza. Ma mostra anche le sfide che stiamo per affrontare, nel modo in cui le marce si sono sviluppate, nel modo in cui Hamas ha affrontato le proteste e, ovviamente, nel modo in cui Israele ha risposto ad esse.”

Lo scorso anno qualcosa è cambiato nelle piazze palestinesi

Certo, non ho dubbi. E non è solo l’anno passato, è negli ultimi due anni, fin dall’”Intifada della preghiera” ad Al-Aqsa [si riferisce alle vittoriose proteste palestinesi contro l’installazione di sistemi di sorveglianza per l’accesso alla Spianata delle Moschee da parte di Israele, ndtr.]. Ma lo si può vedere anche all’interno [dei confini] del ’48, nel modo in cui i politici [palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] stanno parlando dell’uguaglianza – benché debbano affrontare i loro problemi come cittadini [di Israele], questo linguaggio ha avuto un impatto sul popolo palestinese. Ciò gli ha consentito di vedere politici diversi da Abbas e da Hamas. Gli ha fornito approcci differenti alla lotta e un modo per affrontare le sfide sulla base dei diritti.

Questo periodo di transizione in cui ci troviamo va avanti da più di un anno, forse da due o tre. Quest’anno ha portato il cambiamento più rilevante a causa della politica USA. Quando abbiamo visto quello che è successo a Gerusalemme [il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento in città dell’ambasciata USA, ndtr.] e all’UNRWA [la drastica riduzione dei finanziamenti USA all’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], questo ha portato a una frattura. I politici sono abituati a ripetere le stesse dichiarazioni e stanno ancora riponendo le loro speranze nella politica americana. La gente capisce che è finita, che non possiamo continuare allo stesso modo. Perciò, anche se non sta sorgendo un nuovo movimento politico, possiamo notare un grande cambiamento tra la gente. Sia nei termini di un’ambivalenza in merito a dove stiamo andando, sia anche in termini di speranza. Che possiamo organizzare la lotta per i nostri pieni diritti, basati sul ’48 [data della nascita di Israele e della contemporanea espulsione dei palestinesi, ndtr.], piuttosto che accettare una semi-uguaglianza solo per tirare avanti con le nostre vite.”

Ho detto a Baconi che la distanza tra il popolo palestinese e l’ANP è stata palpabile lo scorso giugno a Ramallah durante la protesta, a cui ho partecipato, contro le sanzioni che l’ANP ha imposto a Gaza. Ho assistito in diretta alla violenza che le forze palestinesi hanno messo in atto contro i manifestanti. Percepisco che c’è rabbia nei confronti dell’ANP.

C’è molta rabbia e l’ANP non può più negare quello che sta succedendo. Quando lo scorso novembre sono scoppiate proteste ad al-Khalil (Hebron), abbiamo visto foto delle forze palestinesi affrontare i manifestanti come avrebbero potuto fare le forze di occupazione.

Inoltre, non c’è più una giustificazione economica per l’ANP. La gente è stanca della durissima situazione economica. Avrebbe potuto essere altrimenti se l’ANP fosse stata in grado di offrire un adeguato livello di vita – che è il principio su cui si basa l’ANP: ignorare l’occupazione e dare l’impressione che si tratti dell’unica entità che governa le vite dei palestinesi –, se fosse stata in grado di garantire una vita economicamente agiata. Ma non esiste neppure questo. Non c’è un processo di riconciliazione guidato dagli americani, le condizioni di vita sono insopportabili e si possono vedere scene in cui l’occupazione e l’ANP lavorano insieme.

D’altra parte la gente vede il modo in cui Hamas affronta le marce, e capisce che Hamas almeno è in grado di trovare delle falle nell’occupazione. È capace di rafforzare la sua posizione politica come l’ANP non è in grado di fare. Perciò ovviamente c’è rabbia.”

Ti pare che la gente sia arrabbiata anche con Hamas per il modo in cui è intervenuta nelle marce?

Penso assolutamente che Hamas intervenga in tutto. Ma Hamas ha fornito al movimento per il ritorno le infrastrutture per [consentire di] dare più risonanza al modo in cui l’ha fatto. Perciò c’è tensione. Da una parte ci sono proteste che si fondano sul diritto al ritorno, iniziate dalla società civile, a cui hanno partecipato centinaia [di migliaia] di persone a Gaza. Hanno introdotto una nuova politica e ci consentono di osservare il futuro della lotta palestinese. Non ho dubbi che ciò sia quello su cui sono fondate le marce.

Dall’altra Hamas ha giocato un notevole ruolo nel fornire risorse, nel consentire al movimento di crescere e nel portare Israele ad accettare di fare delle concessioni. Sono riusciti a obbligare Israele ad alleggerire il blocco. Se Hamas non si fosse impegnato nelle marce del ritorno pensi che il movimento sarebbe stato in grado di ottenere le stesse concessioni da Israele?”

Buona domanda. Non ho una risposta.

In termini di allentamento del blocco, nei termini di consentire l’ingresso di merci a Gaza – se Hamas non fosse intervenuta nelle proteste nel modo in cui l’ha fatto, non penso che Israele avrebbe fatto queste concessioni a Gaza.

È difficile per me da ammettere, perché avrei preferito che queste proteste non avessero avuto niente a che vedere con Hamas. Allo stesso tempo ho visto Hamas diventare una forza politica che può trattare con Israele in un modo in cui Fatah e l’ANP non sono in grado di fare. Attraverso le proteste sono stati capaci di migliorare la loro posizione negoziale.

Sono sempre critico nei confronti di Hamas. Ma per me è importante che l’opinione pubblica israeliana capisca che, a differenza di quello che gli viene detto dai medi israeliani, anche se Hamas ha fornito le infrastrutture e alla fine si è impadronito delle proteste, le marce non sono una minaccia per la sicurezza. Nessun soldato israeliano ha il diritto di sparare contro i manifestanti a Gaza, perché le proteste non rappresentano alcun pericolo per gli israeliani.”

Il 14 maggio 2018, il giorno prima della commemorazione della Nakba e giorno in cui gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, Israele ha superato qualunque limite quando i suoi soldati hanno ucciso 68 dimostranti durante una marcia a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di palestinesi. Nel complesso, in base alle stime più caute, dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno fino al dicembre 2018 sono stati uccisi 235 palestinesi (comprese 60 vittime uccise in attacchi aerei durante l’anno). Dopo sei mesi dall’inizio delle proteste settimanali, sono rimaste ferite più di 25.000 persone, molte delle quali hanno avuto amputata una gamba in conseguenza delle insolitamente vaste e distruttive ferite dovute a proiettili. Tutti pensano che le manifestazioni continueranno. Rimangono l’argomento di cui più si parla nelle strade di Gaza.

Cosa pensi succederà con le proteste a Gaza nel 2019? Continueranno?

Penso che le marce continueranno. Nell’ultima hudna (accordo di cessate il fuoco), Hamas ha accettato di ridurre il numero di manifestanti in modo che Israele non colpisca Gaza. Non è chiaro quanto durerà questo equilibrio. In base alle mie ricerche su Hamas, so che se Israele non alleggerisce l’assedio e se non consente il movimento di persone attraverso i valichi, Hamas sarà obbligata a far pressione su Israele perché prenda atto della fine dell’accordo.

Considerando ogni guerra e attacco israeliano contro Gaza dal 2007 ad oggi, è Israele che ha violato i termini degli accordi e ciò ha obbligato Hamas a rispondere di nuovo con la violenza. Non c’è modo di sapere come questi negoziati incideranno sulle marce in futuro, ma credo che, indipendentemente da quello che è destinato a succedere tra Israele ed Hamas, le marce continueranno. Anche se non continueranno con la stessa intensità, non c’è una soluzione politica all’orizzonte. Credo che stiamo per assistere a più movimenti popolari e rivolte, non solo a Gaza ma ovunque, anche nella diaspora e nel [territorio del] ’48.”

E come pensi che ciò inciderà sull’ANP?

È una bella domanda. Sfortunatamente l’ANP continuerà a utilizzare la forza militare contro i manifestanti. Continuerà a reprimere le proteste. Il grande cambiamento avverrà una volta che capiremo il destino dell’Autorità Nazionale Palestinese dopo Abbas. Voglio credere che ci sarà un cambiamento positivo, ma è molto probabile che le politiche dell’ANP e il coordinamento per la sicurezza con Israele rimarranno.

Non so per quanto tempo ancora l’ANP potrà continuare a controllare il popolo palestinese. Le cose sono peggiorate dal punto di vista sociale e politico, soprattutto se non c’è una soluzione politica con gli israeliani. Con i palestinesi sottoposti all’oppressione sia dell’occupazione che dell’ANP, qualcosa accadrà. Il cambiamento non è ancora noto, ma non penso che la situazione in Cisgiordania sia sostenibile.”

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cecchino israeliano uccide donna di Gaza, prima vittima del 2019

Maureen Clare Murphy

11 gennaio 2019 Electronic Intifada

Una donna colpita venerdì durante le proteste nella Striscia di Gaza occupata è la prima vittima palestinese per mano delle forze di occupazione israeliane nel 2019. Lo stesso giorno un uomo palestinese è stato colpito e gravemente ferito dalle forze israeliane in Cisgiordania.

Amal al-Taramsi, 44 anni, è morta a est di Gaza City dopo che le hanno sparato con proiettili veri alla testa durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il gruppo per i diritti umani con sede a Gaza “Al Mezan”, quando è stata colpita si trovava a 200 metri dalla barriera di confine.

Al-Taramsi è la terza donna ad essere uccisa durante la serie di proteste iniziate il 30 marzo dello scorso anno. Le altre due vittime sono state la dottoressa Razan al-Najjar e la quattordicenne Wesal al-Sheikh Khalil.

Più di 180 palestinesi sono stati uccisi durante le dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute lungo i confini orientali e settentrionali di Gaza.

Secondo Al Mezan, le forze israeliane hanno anche lanciato di proposito candelotti lacrimogeni contro i corpi di palestinesi durante le proteste di venerdì, ferendo 68 persone.

Paramedici e giornalisti presi di mira

Il paramedico volontario Mustafa al-Sinwar, 22 anni, è rimasto gravemente ferito quando è stato colpito alla gola da un lacrimogeno mentre svolgeva il suo lavoro durante le manifestazioni a est di Khan Younis, a sud di Gaza.

Husni Salah, 25 anni, fotogiornalista che lavora per l’agenzia di notizie AFP [Agenzia France Presse, ndtr.], è stato colpito al volto con un candelotto lacrimogeno mentre stava informando sulle proteste lungo il confine centro-orientale di Gaza.

Anche un altro giornalista, Hussein Karsou, 44 anni, è stato colpito al volto da un lacrimogeno a est di Gaza City.

Circa 150 palestinesi sono rimasti feriti durante le proteste di venerdì. Un filmato mostra una persona che sarebbe stata gravemente ferita dopo essere stata colpita alla testa.

Il ministero della Salute di Gaza ha affermato che, da quando sono iniziate, circa 14.000 persone sono state ricoverate in ospedale per le ferite riportate durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

I dimostranti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro il territorio e che i rifugiati palestinesi possano esercitare il loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie sono state espulse nel periodo della fondazione di Israele nel 1948.

Due terzi dei più di due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati, molti dei quali originari delle terre che si trovano appena al di là della barriera di confine di Israele.

Nel contempo nella Cisgiordania occupata un uomo palestinese è stato colpito da un civile israeliano e da soldati.

L’esercito israeliano sostiene che Ghazi Skafi, 35 anni, ha cercato di accoltellare dei soldati a un posto di controllo militare nella colonia di Kiryat Arba [colonia di stremisti nazional-religiosi, ndtr.], nei pressi di Hebron.

Un video mostra che l’uomo è stato colpito due volte, prima da un uomo con abiti civili e poi da un soldato in uniforme. “Uccidilo” dice nel filmato in inglese un uomo non ripreso dalla telecamera.

Si sentono anche persone che assistono alla scena affermare “Dio è buono, dio è buono” e “Brucia all’inferno, stronzetto” in inglese con accento nordamericano.

Il video mostra Skafi steso sulla strada con sopra una coperta. La cinepresa si sposta verso destra e mostra a terra quello che sembra un piccolo coltello.

Secondo quanto riferito dai media, Skafi è stato curato all’ospedale per ferite all’addome e alle gambe.

Lo scorso anno le forze israeliane e civili armati hanno ucciso 15 palestinesi responsabili, o presunti tali, di attacchi contro israeliani in Cisgiordania.

Incursioni a Ramallah

Questa settimana per cinque giorni consecutivi le forze israeliane hanno fatto incursioni a Ramallah, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, e nella vicina città di al-Bireh.

Gli attacchi hanno avuto luogo nel contesto di una caccia all’uomo alla ricerca di un palestinese che la scorsa settimana ha aperto il fuoco contro un autobus che trasportava coloni israeliani, ferendone uno.

Le forze di occupazione hanno fatto irruzione in negozi ed hanno sequestrato riprese di telecamere di sicurezza.

Un’abitante di Ramallah si è servita di Twitter per descrivere come le incursioni hanno colpito la sua vita familiare.

Durante gli attacchi giovani palestinesi si sono scontrati con le forze di occupazione israeliane.

All’inizio della settimana le forze israeliane hanno arrestato Assem Barghouti, che Israele accusa di aver perpetrato l’aggressione armata in cui il mese scorso sono rimasti feriti a morte due soldati in Cisgiordania.

È anche accusato da Israele di essere coinvolto in un’altra sparatoria in Cisgiordania a dicembre, in cui una donna israeliana incinta è stata gravemente ferita. Il suo bambino, nato prematuro, è morto pochi giorni dopo il parto indotto.

Israele ha incolpato Saleh Barghouti, fratello di Assem, di essere l’uomo armato che ha perpetrato l’attacco.

Lo scorso mese il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq ha fatto un pressante appello riguardo al caso di Saleh Barghouti al Gruppo di Lavoro dell’ONU per le Persone Forzatamente o Involontariamente Scomparse.

Secondo la documentazione di Al-Haq, compresi testimoni oculari, Barghouti è stato catturato vivo il 12 dicembre. Qualche ora dopo la sua scomparsa, i media israeliani hanno informato che Barghouti era stato ucciso da Yamam, un’unità speciale della polizia di frontiera di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)