Gaza. Qualcosa si muove. Ma in che verso?

Patrizia Cecconi

20 maggio 2018, Pressenza

Forse le fucilazioni in diretta di dimostranti disarmati da parte degli snipers israeliani hanno mosso la coscienza giuridica del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHCR) perché, nonostante le manipolazioni mediatiche basate su veline israeliane, le testimonianze documentate in diretta non lasciavano dubbi.

Infatti alcuni giorni fa i 47 membri del Consiglio si sono espressi a larga maggioranza condannando i crimini israeliani e chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta per indagare sulle violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste di massa in Cisgiordania e lungo i confini della Striscia di Gaza.

La Risoluzione ha visto 2 voti contrari, tra cui quello degli USA, come ovvio visto che con le sue dichiarazioni e con le sue azioni il presidente USA si è posto non più come ipotetico arbitro ma come rivendicato “goodfather” di Israele.

Sebbene la sentenza di questa Commissione non avrà alcun potere dirimente sull’operato futuro di Israele, così come mostrano le esperienze passate, lo Stato imputato di crimini ha respinto la Risoluzione con sdegno e il ministro Lieberman, uno dei falchi ancor più a destra del premier Netanyahu, nella sua indignazione ha addirittura toccato il ridicolo chiedendo che il suo Stato esca dal Consiglio dei diritti umani, dimenticando che non ne fa parte e quindi non può uscirne!

Un breve ripasso sulla struttura del Consiglio è d’obbligo per comprendere, al di là del contingente, il senso di questo rifiuto. Dunque, il Consiglio per i diritti umani, è stato costituito nel 2006 in sostituzione della Commissione per i diritti umani istituita nel 1946 e più debole in quanto ad efficacia per garantire, o tentare di garantire, il rispetto dei diritti umani nel mondo. I membri che lo compongono sono 47, estratti a sorte nel rispetto del peso numerico dei vari continenti. Alla sua costituzione, nel 2006, non tutti i paesi membri dell’ONU votarono a favore, infatti USA ed Israele si dichiararono contro.

Il loro voto contrario all’istituzione di un organismo basato sui criteri fondamentali della Dichiarazione universale dei Diritti Umani, emanata nel 1948 – pochi mesi dopo la proclamazione della nascita dello Stato di Israele – non è certo un buon segnale, pur tuttavia è un dato storico che viene regolarmente sottaciuto, ma che noi riteniamo sia bene tener presente. E’ pure bene tener presente che aver votato contro non pone uno schermo contro la supervisione delle eventuali violazioni in quanto questa riguarda tutti gli stati facenti parte delle Nazioni Unite.  Va pure precisato che la Risoluzione che deriva dalla Commissione d’inchiesta autorizzata ad indagare sulle violazioni osservate, per quanto significativa, non è vincolante in quanto non prevede sanzioni per i paesi accusati di violazioni dei diritti umani. In realtà si limita ad una funzione informativa dell’opinione pubblica mondiale così come successo per la Birmania, il Congo, la Corea del Nord ed altri paesi tra cui lo stesso Israele, più volte ma inutilmente condannato per violazione dei diritti umani, producendo come unica risposta quella di fornire un ulteriore attacco difensivo da parte degli Usa e dello stesso Israele con la dichiarazione pubblica che il Consiglio dei diritti umani ha “un’ossessione patologica contro Israele”.

Il passaggio da oppressore ad oppresso (rispetto ai palestinesi) da parte di Israele è ormai una costante e lo si è visto anche nei giorni scorsi a Ginevra dove la dura accusa pronunciata dall’Alto commissario per i diritti umani ha avuto la replica scontata della rappresentante israeliana Aviva Raz Shechter la quale – buttandosi dietro le spalle i circa 110 morti palestinesi fucilati a freddo al momento della sua dichiarazione, nonché gli oltre 6000 feriti compresi ben 110 giornalisti e 200 paramedici con unica funzione di osservatori i primi e di soccorritori i secondi – ha accusato l’organismo delle Nazioni Unite di “voler sostenere Hamas e la sua strategia terroristica”. Negando sia l’evidenza, sia le dichiarazioni del portavoce dell’IDF (le forze armate israeliane), la signora Shechter ha persino dichiarato che Israele ha fatto di tutto per evitare vittime tra i civili palestinesi, il che in fondo è in linea con le dichiarazioni del “falchi” israeliani i quali avevano dichiarato che non ci sono civili tra i palestinesi. La conclusione quindi, nella narrazione israeliana, risulta persino logica.

Ma mentre il Consiglio dei diritti umani si esprimeva chiedendo una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni dei palestinesi lungo i confini della Striscia di Gaza, indagine che già nella sua definizione ha una involontaria e macabra ironia, anche paesi non certo ascrivibili alla categoria democratica si esprimevano contro Israele, sia per l’uso delle armi sia, soprattutto, per il tentativo di espropriazione di Gerusalemme al di fuori di ogni legittimità e di ogni legalità internazionale.

Il presidente Erdogan da Istanbul, non certo paladino dei diritti umani nel suo Paese, esprimeva una forte condanna verso Usa e Israele, in sintonia con l’OCI, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica i cui 57 stati membri si sono riuniti in assemblea a Istanbul per condannare verbalmente in modo durissimo (più di quanto fatto dalla Lega araba al Cairo) il tentativo di appropriazione di Gerusalemme e il massacro di Gaza.

Nonostante queste dure condanne, molti palestinesi temono che restino parole in quanto la richiesta di ritirare tutti gli ambasciatori arabi da Washington non ha avuto adeguata risposta.

Intanto la diplomazia sta lavorando. Forse la marcia, che è stata prolungata fino al 5 giugno, si spegnerà gradualmente grazie al raggiungimento di alcuni compromessi tra il governo della Striscia e il Cairo con la forte impronta anche del Qatar. Non si parla solo di apertura del valico di Rafah, cosa che comunque toglierebbe forza alle richieste palestinesi, lasciando intatto l’assedio israeliano. Si parla anche di miglioramenti delle condizioni di vita dei gazawi, quali la fornitura di acqua e di elettricità e la presa in carico da parte del Qatar degli stipendi che l’Anp ha smesso di pagare. Tutto questo sarebbe di sicuro un miglioramento a breve della vita all’interno della Striscia, ma sarebbe la vittoria di chi, fin dal primo momento e in totale negazione della verità, ha attribuito ad Hamas la paternità di quest’immensa manifestazione popolare, distorcendone il significato e, in ultima analisi, rischiando di farne fallire l’obiettivo primario, cioè l’applicazione della Risoluzione Onu 194 per il ritorno dei profughi e la fine dell’assedio.

Ma Gaza riserva sempre sorprese e poi, in chiusura è bene ricordarlo, Gaza non è soltanto Hamas. Hamas è la forza politica che governa la Striscia ma non è l’unica forza politica della Striscia. Questo la grande marcia del ritorno l’ha abbondantemente dimostrato, nonostante i media mainstream abbiano fatto di tutto per nasconderlo, finendo per regalare ad Hamas la paternità di questa grande iniziativa che il partito al governo, consapevole o meno della trappola mediatica, ha fatto propria provando a gestirla sia all’interno sia negli accordi diplomatici che si stanno concretizzando.




Le accuse contro il termine “scontri”: disinformare sul massacro di Israele a Gaza

Belen Fernandez

Mercoledì 16 maggio 2018, Middle East Eye

La volontà dei principali media di veicolare la propaganda israeliana come informazione credibile evidenzia magnificamente la natura degenere dell’industria delle “notizie”.

Tutti hanno sentito il detto: “È come sparare ad un pesce in un barile” [che equivale all’italiano “Sfondare una porta aperta”, ndt.].

In questi giorni sembra che il modo di dire sia stato forse appositamente concepito per descrivere gli avvenimenti nella Striscia di Gaza, dove il 14 maggio l’esercito israeliano ha massacrato non meno di 60 palestinesi, tra cui infermieri, persone disabili e una neonata. L’occasione: le proteste palestinesi contro i 70 anni di enorme ingiustizia e di un costante contesto di brutale oppressione e blocco da parte di Israele, coronati dalla recente inaugurazione dell’ambasciata degli USA di Trump a Gerusalemme.

Attacco contro la logica

Ovviamente Israele ha attribuito la colpa agli stessi palestinesi – in quanto nessun buon attacco contro Gaza è completo senza un conseguente attacco contro la logica. Secondo l’account twitter del portavoce dell’esercito israeliano, l’episodio è avvenuto come segue: “Durante il giorno l’organizzazione terroristica Hamas ha guidato massicci e violenti attacchi, che le truppe dell’IDF hanno sventato.”

Non importa che non ci siano tracce di violenza nella foto che accompagna il tweet, che invece sembra rappresentare palestinesi giovani e vecchi in piedi e che camminano nell’incantevole paesaggio carcerario in cui Israele ha ridotto la Striscia di Gaza.

Il giornalista Sharif Abdel Kouddous, che ha informato delle proteste a Gaza per “Democracy Now” [programma statunitense di un’ora trasmesso via radio, tv e internet, ndt.], ha verificato il terribile armamento a disposizione dei palestinesi, comprese pietre, aquiloni e palloncini e qualche bottiglia molotov – nessuno dei quali, ha specificato, poteva raggiungere i soldati israeliani, “che stanno seduti dietro queste protezioni ed eliminano la gente con fucili di precisione.”

Oltre a “proiettili ad alta velocità per cecchini”, Abdel Kouddous ha notato che i medici di Gaza hanno anche rilevato l’uso da parte di Israele di pallottole a frammentazione, ed hanno “visto ferite con buchi delle dimensioni di un pugno nei fori d’uscita.” Nell’ assediata enclave costiera palestinese, che in precedenza ha ricevuto munizioni al fosforo bianco, missili e numerosi altri proiettili israeliani, sono entrati in scena anche nuovi ed entusiasmanti droni che lanciano gas lacrimogeni.

Indipendentemente dai fatti sul terreno, i principali media occidentali hanno sempre avuto la capacità di trasformare lo scenario da pesce nel barile in uno completamente diverso. Pensate a titoli come: “Pesce in barile si scontra con sparatore”, oppure “Pesce muore in un barile mentre uno sparatore reagisce contro un’aggressione.”

Oppure “Pesce attratto dalla superficie dell’acqua e nel centro di un tumulto sulla terra” – un possibile corrispettivo del titolo del New York Times sul mortale attacco aereo israeliano contro quattro ragazzini che giocavano a pallone nel 2014: “Ragazzi attratti sulla spiaggia di Gaza e nel bel mezzo del conflitto mediorientale.”

Propaganda israeliana

L’informazione sul massacro più recente è stata molto simile. Per esempio, la BBC ha prodotto il titolo d’apertura “Decine di morti mentre si profila l’apertura dell’ambasciata USA”, che di fatto trasforma la morte di molte persone in un misterioso fenomeno che casualmente è avvenuto in concomitanza con un avvenimento diplomatico.

La responsabilità è eliminata dall’equazione, e il lettore medio del titolo è in difficoltà nel dedurre il rapporto causale in questione – così come si trova in difficoltà a decifrare, per esempio, “Pesci muoiono in massa in vista di un essere più grande.” Il titolo della BBC è stato più tardi modificato con “Scontri a Gaza: 52 palestinesi uccisi nella giornata più letale dal 2014”, il cui testo sottolinea che “l’esercito israeliano afferma che 40.000 palestinesi hanno partecipato a “violenti disordini” in 13 luoghi lungo la barriera di sicurezza della Striscia di Gaza.”

Va bene, violenti disordini di massa sarebbero stati quanto meno comprensibili alla luce degli ultimi 70 anni di tentativi israeliani di distruggere la Palestina. Ma la volontà dei principali media di trasmettere la propaganda israeliana come un’informazione credibile evidenzia magnificamente la natura degenere dell’industria delle “notizie”, che, invece di dire la verità, dice falsità a favore del potere.

Da parte sua la NPR [National Public Radio, rete radiofonica nazionale USA, ndt.] ha titolato: “55 manifestanti palestinesi uccisi, secondo fonti ufficiali di Gaza, quando gli USA aprono l’ambasciata a Gerusalemme”, mentre i titoli del New York Times sono passati da “Almeno 16 palestinesi morti nelle proteste mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme”, a “Almeno 28 palestinesi morti nelle proteste mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme”, fino, finalmente, a “Israele uccide decine di persone sul confine di Gaza mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme.”

L’ultimo titolo è insolitamente chiaro per una pubblicazione che ci ha regalato “Ragazzi attratti sulla spiaggia di Gaza”, benché l’articolo in sé conservi tutto il tema degli “scontri”. Un altro articolo del Times è ancora in preparazione: “Mentre l’ambasciata USA si sposta, decine di morti a Gaza”, che evoca l’immagine di una missione diplomatica con magici poteri sismici.

Una fonte di ispirazione

Nel contempo il “Washington Times” si presenta con il più chiaramente sociopatico: “Le più mortali proteste palestinesi da anni rovinano la storica apertura dell’ambasciata a Gerusalemme”. Com’era altrettanto prevedibile, Fox News sceglie la seguente introduzione alla sua notizia del massacro: “Almeno tre dei 52 palestinesi che sarebbero stati uccisi…in scontri prima dell’apertura dell’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme secondo l’esercito israeliano erano “terroristi armati” colti mentre cercavano di piazzare una bomba nei pressi della barriera sul confine di Gaza.”

Nessuno dei soliti media sospetti si è preoccupato di spiegare come sia possibile che il termine “scontri” possa mai essere utilizzato per una situazione in cui uomini, donne, bambini e anziani palestinesi – tutti intrappolati in un pezzetto di terra senza via d’uscita – sono attaccati da un esercito israeliano che possiede il monopolio della violenza e la tendenza a utilizzare la Striscia di Gaza come il proprio poligono di tiro privato.

Di certo i media servili hanno scelto molto tempo fa da che parte stare. Ma, mentre Israele continua le sue iniziative da pesce in un barile con il pretesto dell’“autodifesa”, una scomoda realtà è diventata sempre più chiara: gli esseri umani sono scomparsi con minor facilità.

E mentre i palestinesi commemorano ora settant’anni di resistenza alla pulizia etnica da parte di Israele, la loro resilienza di fronte alla depravazione totale è una rara fonte di ispirazione in un mondo impazzito.

– Belen Fernandez  è autrice di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro] edito da Verso. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cos’ha da nascondere l’IDF sulle uccisioni a Gaza?

Haggai Matar

16 maggio 2018, +972

L’esercito israeliano sostiene che almeno 12 dei 60 palestinesi che ha ucciso a Gaza lunedì stavano attaccando soldati quando sono stati colpiti, ma rifiuta di rispondere alla ragione per cui ha ucciso gli altri 48. (aggiornamento in fondo all’articolo)

Lunedì i soldati israeliani hanno ucciso 60 manifestanti palestinesi durante il giorno più sanguinoso per Gaza dalla guerra del 2014. Nel corso dell’ultimo mese e mezzo l’IDF [l’esercito israeliano] ha ucciso altri 49 manifestanti palestinesi a Gaza e ne ha feriti a migliaia con pallottole vere.

Nell’ultima marcia, poche ore dopo che i cecchini israeliani avevano ucciso 17 dimostranti nel primo giorno della “Marcia del Ritorno” di Gaza, il portavoce dell’esercito israeliano ha twittato: “Niente è stato fatto in modo incontrollato; tutto è stato accurato e misurato e sappiamo dov’è finito ogni proiettile.”

In seguito il tweet è stato rimosso, forse a causa delle domande da parte di giornalisti affinché l’esercito spiegasse [dove sono finite] alcune specifiche pallottole – per esempio quella che ha colpito ed ucciso un uomo disarmato che stava scappando dalla barriera di confine, o l’uccisione dei giornalisti Yaser Murtaja e Ahmed Abu Hussein — che l’esercito non avrebbe potuto, o voluto, spiegare.

Passiamo a questa settimana. Dopo i 60 uccisi lunedì, l’esercito ha emesso una serie di messaggi drammatici sul fatto di aver bloccato “terroristi”.

Lunedì il portavoce dell’esercito ha sostenuto che esso ha ucciso 12 persone che avrebbero sparato contro soldati israeliani da Gaza o tentato di piazzare ordigni esplosivi lungo la linea di confine – ma non ha detto niente riguardo la ragione per cui ha ucciso gli altri 48 palestinesi e ha ferito altre migliaia di persone.

Martedì l’esercito ha inviato il seguente messaggio ai giornalisti (traduzione mia [dall’ebraico, ndt.]):

Dopo la più recente indagine dell’esercito e del Servizio Generale di Sicurezza (lo Shin Bet), il 14 maggio almeno 25 terroristi con un passato in attività terroristiche organizzate sono stati uccisi durante violenti disordini. La maggioranza delle vittime era di Hamas o del gruppo terroristico Jihad islamica.”

Questo messaggio nasconde più di quanto chiarisce. Solleva due grandi domande.

Primo, l’esercito sostiene che le persone uccise rappresentavano una minaccia immediata nel momento in cui sono state colpite o che erano solo iscritte a un’organizzazione terroristica, che l’IDF non avrebbe potuto riconoscere nel momento in cui i soldati hanno aperto il fuoco, e che questo solo fatto non avrebbe giustificato la loro uccisione?

Secondo, se l’esercito sa che 25 palestinesi che ha ucciso erano terroristi, cosa dice delle altre 35 persone che ha ucciso? Come giustifica queste morti?

Ho fatto queste due domande ai portavoce dell’IDF. Hanno risposto semplicemente che non hanno intenzione di rispondere a queste domande. Anche “Seventh Eye” [“Il Settimo Occhio”, ndt.], un sito giornalistico [israeliano] d’inchiesta, ha chiesto al portavoce dell’IDF in merito all’uccisione e al ferimento di giornalisti a Gaza: non ha ancora ricevuto una risposta.

La zona di confine di Gaza è massicciamente controllata da telecamere israeliane. Droni militari inviano altre foto aeree dell’area. Sessanta palestinesi sono morti. Dove sono le immagini che mostrano la minaccia che ognuno di loro costituiva? Dove sono le foto dei terroristi armati e pericolosi a cui i soldati israeliani non avevano altra scelta che sparare? In genere, quando l’IDF ha delle immagini che evidenziano le loro [dei “terroristi”, ndt.] responsabilità, non esita a pubblicarle.

Queste domande esigono risposte, ma l’esercito non sente la necessità di darle. La ragione, almeno parziale, potrebbe essere il fatto che non c’è una richiesta abbastanza pressante da parte dell’opinione pubblica. Molti media israeliani non mettono mai in discussione la necessità delle uccisioni e accettano come un dato di fatto la necessità di sparare – e uccidere – manifestanti disarmati. Sembra che l’opinione pubblica sia dello stesso avviso. Ed è proprio questo il problema.

Aggiornamento (16 maggio 2018)

Martedì un funzionario di Hamas ha sostenuto che 50 delle persone uccise lunedì dall’esercito israeliano a Gaza erano membri dell’organizzazione islamista. Ciò non cambia nulla. La rivelazione a posteriori che una grande maggioranza dei morti erano membri di Hamas – informazione di cui i soldati che hanno premuto il grilletto non erano al corrente e neppure il resto dell’esercito né lo Shin Bet – non cambia la questione su se avrebbero dovuto essere uccisi. Se un membro di Hamas si è avvicinato alla barriera e non era armato e non rappresentava una minaccia per nessuno, allora non è giustificato ucciderlo. La scoperta successiva che era un membro di Hamas non cambia le cose di una virgola.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Storie della catastrofe: Palestina

Rami Almeghari, Mohammed Asad e Anne Paq

16 maggio 2018,  Electronic Intifada

Settant’anni fa i palestinesi hanno subito la Nakba, o catastrofe, quanto la maggioranza di loro lasciò o fu obbligata dalle milizie sioniste a lasciare la Palestina per far posto alla creazione dello Stato di Israele e garantire una maggioranza ebraica. Circa 750.000 persone finirono per diventare profughi registrati dalle Nazioni Unite. Molti altri se la cavarono da soli. Non gli venne mai consentito di tornare alle loro terre o case, che vennero confiscate dal nascente Stato, e molti dei loro villaggi vennero successivamente distrutti. Qui alcuni sopravvissuti raccontano le loro storie.

Khoury Bolous, 84 anni, di Haifa. Originariamente di Iqrit, nei pressi del confine con il Libano.

Iqrit era un piccolo villaggio cristiano di circa 500 abitanti molto vicino alla frontiera della Palestina con il Libano. Il villaggio subì la pulizia etnica nel 1948 e venne distrutto nel 1951, tranne la chiesa. I suoi abitanti divennero sfollati interni – quello che Israele definì “presenti assenti”

Eravamo contenti. Avevamo fichi, hummus e ulivi. Seminavamo di tutto, tranne zucchero e riso. Mio padre aveva molta terra, circa 100 dunum [10 ettari, ndt.]. Facevamo la farina, coltivavamo lenticchie e fagioli, ogni tipo di verdure e olive. L’unica cosa che mio padre comprava era il tabacco. Morì quando ero molto giovane, e mio fratello maggiore prese il suo posto. La nostra casa era fatta di grandi pietre ed era stata costruita da mio nonno.

Nel 1948 non ci fu resistenza nel villaggio. Le forze sioniste entrarono nel villaggio e alzammo bandiera bianca. Non avevamo armi. Ci dissero di andarcene ad al-Rama, che sarebbe stato solo per due settimane e che era solo per la nostra sicurezza. Venimmo trasportati da camion militari. Ma io non andai insieme agli altri. Mio fratello mi disse di andare in Libano a Qouzah, da nostra zia, per salvare gli animali. Camminai verso il Libano con 5 mucche, un cammello, un asino e un cavallo. Attesi il messaggio che mio fratello avrebbe dovuto mandarmi quando fossero tornati a Iqrit, ma il messaggio non arrivò mai.

Dopo un mese sentii dire che alcune persone stavano andando a Iqrit per raccogliere frutta e così decisi di andare. Avevo paura di attraversare la frontiera ma lo feci. Non era rimasto niente nella nostra casa, tutto era stato rubato. Persone che incontrai mi dissero che non sarei riuscito ad arrivare ad al-Rama, così tornai in Libano e vi rimasi per due anni. Poi incontrai un passeur, Alì, e con un gruppo partimmo di notte per la Palestina. Avevamo paura, era pericoloso. Alla fine all’alba, vicino ad al-Rama, continuai da solo attraverso i campi. Quando raggiunsi il villaggio, vidi qualcuno di Iqrit che mi portò dalla mia famiglia. Non potevano credere che fossi riuscito a fare una cosa simile. Non ci potevo credere neppure io.

Un Natale sentimmo che Iqrit era stato totalmente distrutto. Il mukhtar [capo villaggio, ndt.] ed altri erano andati su una collina di fronte al villaggio e confermarono la notizia. Era un disastro sentire questa notizia. Volevano uccidere ogni nostra speranza di tornare. Ma non ci riuscirono.

Alla fine ebbi un permesso ed iniziai a lavorare come macellaio ad Haifa. Mi sposai nel 1960 ed andai ad Haifa. Tornavamo spesso a Iqrit, dormendo nella chiesa. Fui arrestato alcune volte per essere stato lì. Ci portavamo i bambini per le vacanze.

Siamo come i rifugiati. Quello che abbiamo in comune è la speranza del ritorno. Vogliamo solo andare a casa, questo è un nostro diritto fondamentale. Voglio tornare e costruire una piccola casa.

Reportage di Anne Paq

Saed Hussein Ahmad al-Haj, 85 anni, campo di rifugiati di Balata, nella città di Nablus della Cisgiordania occupata. Originario di al-Tira, nei pressi di Ramla.

Sono stato fortunato rispetto ad altri profughi. Ho avuto successo nel lavoro ed ho tre macellerie. Ho dei figli. Ma è sempre mancato qualcosa. Mi sono sempre dato da fare, ma non c’è una vera allegria perché non vivo nella casa in cui sono nato.

Il mio villaggio era noto soprattutto per le sue greggi e per i suoi prodotti. Era un piccolo villaggio, circa 2.000 abitanti. All’epoca la nostra vita era semplice. La scuola era così precaria che ci sedevamo sul pavimento. Ho passato la mia vita giocando all’aperto con i vicini.

Mio padre commerciava pecore e mucche. Vendeva anche il latte. Avevamo una piccola casa fatta di pietre e 2 dunum [0,2 ettari] di terra coltivata a grano, sesamo, fichi e ulivi. All’epoca tutto aveva un sapore migliore. Ci nutrivamo direttamente con i prodotti della terra. Potevamo anche andare facilmente al mare e grazie al commercio ci incontravamo con ogni genere di persone.

Nel 1948 avevo circa 15 anni. Una notte vedemmo arrivare verso di noi dei soldati. In un primo momento pensammo che fossero arabi. Ma poi iniziarono a sparare. Le pallottole volavano sopra la mia testa e pensai che sarei morto. Corsi da mio padre, che mi disse di andare verso est con le pecore. Allora ne avevamo sei. Me ne andai da solo, ma sentii sparare, così lasciai le pecore e corsi a casa.

Ce ne andammo con gli altri abitanti del villaggio. Prima arrivammo ad al-Abbassiyya, dove c’erano alcuni gruppi della resistenza palestinese. Poi ci incamminammo verso Deir Ammar, vicino a Ramallah.

Non ci portammo niente. Tutti parlavano di Deir Yassin (dove le forze sioniste avevano commesso un massacro). Eravamo spaventati già prima che arrivassero i sionisti. Avremmo dovuto rimanere e morire là. Avremmo dovuto lottare. Per lo meno non abbiamo mai venduto le nostre case. Siamo stati buttati fuori contro la nostra volontà.

Pochi giorni dopo che ce ne eravamo andati, entrai di soppiatto nel villaggio di notte. Ma quando entrai nella nostra casa, tutto – la farina, l’olio d’oliva, i mobili – era distrutto e sparso per la casa.

Tornammo al nostro villaggio, una volta, con mio padre. Fu dopo il 1967 [anno della guerra dei Sei giorni e della conquista israeliana della Cisgiordania, ndt.]. Bussò alla porta, e rispose uno [ebreo, ndt.] yemenita. Mio padre gli disse: “Questa è la mia casa.” Ma lo yemenita rispose solo: “Era casa tua, Ora è la mia.”

Reportage di Anne Paq

Wafta Hussein Khleif, 82 anni, campo di rifugiati di Dheisheh nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originaria di Deir Aban, nei pressi di Gerusalemme.

Tutti i figli maschi di Wafta sono stati arrestati da Israele in un momento o nell’altro, e uno sta scontando più di 20 anni di prigione. Uno dei suoi nipoti è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano a Betlemme nel 2008. Aveva 17 anni.

Mangiavamo quello che coltivavamo. Tutto veniva dalla terra. Non compravamo niente. Vivevamo in una fattoria che aveva un cortile interno. Avevamo più di 1 dunum di terra con 200 ulivi, galline e pecore. C’erano ebrei che vivevano vicino a noi. Erano amici e venivano al villaggio a comprare latte. Non avevano neanche un mulino, per cui usavano quello del villaggio.

Nel 1948 ci furono molti scontri. Ci furono spari e bombardamenti aerei. Non avevamo armi, solo coltelli e falci. Scavammo una trincea attorno al villaggio. Durante quei giorni ci furono tre morti. Quando venimmo a sapere del massacro di Deir Yassin, come misero in fila gli uomini e gli spararono, fu troppo. Prendevano anche le ragazze. Fu allora che scappammo. Se fossi stata al nostro posto, che cosa avresti fatto?

Non c’era tempo. Prendemmo quello che potevamo portarci dietro. Mio nonno Hussein dovette essere trasportato su un cammello. Ci fermammo sotto un carrubo appena fuori dal villaggio. Pensavamo che saremmo tornati presto. Gli uomini tornarono per raccogliere le olive ma vennero attaccati dai sionisti.

Andammo a Jabba e rimanemmo con i loro amici, e da lì a Betlemme. Affittammo una spelonca da una famiglia cristiana che mio padre trasformò in una stanza con un tetto di zinco. Poi mi sposai con mio marito Muhammad al-Afandi e andai al campo di Dheisheh. Vivemmo in una tenda per tre o quattro anni. Lì nacquero i nostri primi tre figli.

Se Dio vuole, torneremo. Se non io, i miei figli, o i loro figli, o i figli dei figli, o i figli dei figli dei figli. Lasceremo tutto in un attimo e andremo, anche se questo significasse vivere di nuovo in una tenda.

Reportage di Anne Paq

Muhammad Khalil Leghrouz, 93 anni, campo di rifugiati di Aida nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originario di Beit Natif, a ovest di Betlemme.

Muhammad piange ancora quando parla di suo fratello Thaer, che venne ucciso dai miliziani sionisti nel 1948 all’età di 15 anni.

Beit Natif era tutto frutti e verdure. Coltivavamo di tutto. C’erano molti contadini. E c’erano molte mucche e pecore. Sono cresciuto con le pecore. Giocavo con loro dalla mattina alla sera. Non sono andato a scuola. La mia famiglia aveva una grande fattoria, costruita con vecchie pietre.

Nel 1948 venimmo attaccati. Ci furono sparatorie. Dovemmo scappare, passando su corpi lungo il tragitto per uscire dal villaggio. Mio fratello Thaer venne colpito a morte e lo seppellimmo subito. Lasciammo ogni cosa – le pecore e i gioielli di mia madre. Mio padre dovette essere trasportato su un cammello, perché non poteva camminare. Non voleva andarsene, ma lo presi sulle mie spalle, lo obbligai a salire sul cammello. Voleva morire là.

Prima andammo a Beit Ommar, poi a Hebron, a Betlemme e a Husan, dove incontrai mia moglie Fatima. Insieme venimmo a vivere nel campo profughi di “Aida” e ci fermammo lì. Non sono mai tornato al mio villaggio.

Mio padre non ha mai potuto dimenticare. “Torneremo”, continuava a dire.

Reportage di Anne Paq

Hakma Attallah Mousa, 108 anni, campo profughi “Spiaggia”, Gaza City. Originaria di al-Sawafir al-Shamaliya, a circa 30 km oltre il confine di Gaza.

Hakma ha più di 80 nipoti e pronipoti, ma persino i suoi familiari sono incerti sul numero esatto.

Mio padre Attallah Mousa era il mukhtar della nostra famiglia. Ricordo ancora il diwan (sala di ricevimento) di mio padre, dove accoglieva gli ospiti e aiutava a risolvere i problemi del villaggio.

Andavo a mungere le nostre mucche per fare il formaggio e lo yogurt. Avevamo pecore e galline. La mia famiglia possedeva più di 100 dunam [10 ettari] di terra su cui i miei fratelli seminavano grano, lenticchie e orzo. La nostra vita si basava sull’agricoltura. Grazie a Dio, abbiamo avuto dei momenti bellissimi.

Mia madre venne ferita quando stavamo scappando. Venne colpita dopo che avevamo preso alcune delle nostre cose e stavamo uscendo dal villaggio. L’abbiamo trasportata fino ad un ospedale a Gaza City. Morì poche settimane dopo.

Figlio mio, vogliamo tornare al nostro villaggio, e lo faremo. Vogliamo tornare alla nostra patria.

Reportage di Rami Almeghari

Hassan Quffa, 88 anni, campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale della Striscia di Gaza occupata. Originario di Isdud, nei pressi di Ashdod.

Eravamo contadini, coltivavamo la nostra terra generazione dopo generazione. All’epoca l’agricoltura era molto diffusa e i cedri erano rigogliosi. La mia famiglia da sola possedeva circa 90 dunum [9 ettari]. Ero solito accompagnare mio zio Abdelfattah al nostro diwan dove incontrava la gente del posto e a volte gli inglesi. All’epoca le autorità britanniche andavano da mio zio, facendo affidamento su di lui come intermediario tra le autorità e gli abitanti del posto.

Giocavo a baseball. Eravamo sette per una partita. Dopo aver giocato, andavamo al bar “Ghabaeen” a bere caffé e a chiacchierare.

Le feste di matrimonio duravano da tre a sette giorni. Alla fine dei festeggiamenti gli zii di una sposa l’accompagnavano a casa del marito, di solito su un cavallo.

Quando i miliziani dell’ Haganah [il principale gruppo armato sionista, ndt.] iniziarono a sistemare posti di blocco nella zona di Ashdod, bloccando il passaggio, cominciammo ad prendere le armi. Un giovane su quattro aveva un fucile, nel tentativo di difenderci contro gli attacchi dell’Haganah. Eravamo solo contadini. Le bande sioniste erano ben addestrate ed equipaggiate, con l’aiuto degli inglesi. In effetti quando gli eserciti arabi arrivarono a combattere, ci sentimmo sollevati.

Ma l’unità dell’esercito arabo vicino a noi venne sconfitta. Le loro armi erano vecchie. Ovunque c’erano soldati arabi morti. Comprendemmo che non potevamo far altro che scappare.

Voglio tornare. Voglio che tutti noi torniamo. Quella è la mia casa. Ho il diritto di tornare. Spero di farlo prima di morire.

Reportage di Rami Almeghari

Amna Shaheen, 87 anni, attualmente vive a Gaza City, originaria del villaggio di Ni’ilya, nei pressi di Ashkelon.

Mio nonno Ibrahim era l’imam del villaggio e insegnava ai bambini il Corano e qualche argomento islamico. Ovviamente alle ragazze, compresa me, non era consentito imparare.

Mio padre aveva un gregge e io solevo aiutarlo. Avevo solo un fratello, che era malato.

Cacciavo via le volpi che cercavano sempre di prendere le nostre anatre. Per nutrire il gregge portavo qualche foglia verde, alcune dal nostro sicomoro. Mio padre commerciava in angurie e noi conservavamo quelle angurie sotto l’albero.

Fu quando venimmo a sapere di Deir Yassin che gli abitanti del villaggio iniziarono a fuggire. Durante il giorno i miliziani [sionisti] arrivarono per mandarci via, ricordo che mio cugino ed io stavamo pelando patate.

Due mesi dopo che eravamo scappati, mio padre è stato ucciso. All’epoca stavamo vivendo nel campo profughi di Jabaliya, a Gaza. Aveva comprato due mucche e stava andando a comprare paglia e fieno per le mucche. Ma in quel momento le jeep dell’esercito israeliano erano di pattuglia e i soldati iniziarono a sparare. Venne colpito quattro volte.

Anche se mi offrissero centinaia di milioni di dollari, non rinuncerei al mio diritto di tornare alla mia casa in Palestina. Cosa me ne farei di quei soldi?

Reportage di Rami Almeghari

Ismail Hussein Abu Shehadeh, 92 anni, originario ed attualmente abitante di Jaffa, nei pressi di Tel Aviv.

Adesso Jaffa non vale niente. Prima la città era stupenda. Era chiamata la “sposa del Medio Oriente.” Esportavamo arance in tutto il mondo. Arrivava gente da tutte le parti per lavorare qui.

Mio padre era un soldato dell’impero ottomano. Se ne andò nel 1914 per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Tornò indietro a piedi. Questa probabilmente è la ragione per cui decise di rimanere quando i sionisti attaccarono Jaffa. Non voleva scappare di nuovo, e ci impedì di farlo. “O morite qui oppure scappate e vi sentirete umiliati per tutta la vostra vita,” ci disse. Pregava la gente di non andarsene. Solo 35 famiglie rimasero dopo la resa, appena 2.000 abitanti sui 120.000 che stavano qui.

Nel 1948 gli attacchi furono molto violenti. Il capo della città, il dottor Youssef Aked, ci riunì per dire che Jaffa stava per essere assediata e che la gente doveva scegliere tra andarsene e rimanere. Qualcuno chiese al dottore cosa egli avrebbe fatto, ed egli rispose che sarebbe fuggito con la sua famiglia. In seguito a ciò, molti lo fecero, anche perché si parlava molto di quello che era successo a Deir Yassin.

Solo poche persone con una certa autorità rimasero. Ci fu un altro incontro in cui si decise di arrenderci a condizione che non ci fossero distruzioni o saccheggi. Dei rappresentanti andarono a Tel Aviv con una bandiera bianca. I sionisti arrivarono con un megafono e dichiararono che ora Jaffa era sottoposta all’autorità sionista. Poi entrarono e si comportarono in modo avido. Rubarono proprietà. Ci nascondemmo nei frutteti per un mese. Poi la gente venne spinta nel quartiere di Ajami, dietro una recinzione elettrificata. Alcuni morirono di stenti. Ma noi riuscimmo a stare fuori dalla recinzione.

Nonostante le promesse sioniste metà di Jaffa venne demolita. Abu Laban, che aveva negoziato la resa, andò a lamentarsi me venne picchiato. Gli ruppero le costole e venne messo a sedere su un asino. Poi iniziarono a prendere di mira la gente. Una persona che si rifiutò di lasciare i frutteti venne uccisa.

Dopo il 1948 mi sposai e iniziai a lavorare nella regione di Tiberiade per circa sei anni. Venni assunto da israeliani per aggiustare motori o per portare l’acqua a nuove comunità ebraiche. Ero l’unico palestinese lì. Abbiamo mantenuto rapporti professionali. Mia moglie e i figli neonati stavano lottando per avere da mangiare e per un certo periodo tornai a Jaffa solo una volta al mese.

Il mio lavoro terminò quando arrivò l’elettricità. Lavorai in una fabbrica di Jaffa, aggiustando motori, ma nel 1956 alcuni operai ebrei mi aggredirono a causa della sconfitta israeliana a Suez [si riferisce alla guerra per il controllo del canale di Suez tra Egitto e Francia e Gran Bretagna, a cui Israele si alleò, ndt.], per cui me ne andai. Poi ebbi un’officina meccanica nel porto, e cercai di fare il pescatore, ma senza successo. Nel 1982 lo Stato di Israele iniziò a chiedere tasse e più documenti. Dovetti vendere tutto. Alla fine aprii una drogheria ma poi dovetti smettere per ragioni di salute.

Rami Almeghari è giornalista e docente universitario a Gaza.

Anne Paq è una fotografa freelance francese e fa parte del collettivo di fotografi ActiveStills [collettivo di fotografi israeliani, palestinesi e internazionali che lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni, in particolare in Israele/Palestina, ndt.].

Mohammed Asad è un fotogiornalista che vive a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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GAZA: dolore, orrore, indignazione, memoria

Richard Falk

16 Maggio 2018, Global Justice in the 21st Century

DOLORE

Come si può non provare profondo dolore per i giovani palestinesi che, per rabbia e disperazione, si sono uniti alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ e spesso hanno trovato la morte e gravi ferite ad attenderli appena si sono avvicinati al confine disarmati!!?

Non si è trattato di un evento immotivato, o di qualcosa che si è verificato spontaneamente da entrambe le parti. Dopo 70 anni di sofferenze da parte dei palestinesi, senza poter vedere la fine di questo incubo, mostrare al mondo e a loro stessi la propria passione è stato ciò che dovrebbe essere considerata una dimostrazione normale, persino ammirevole, di uno spirito di resistenza che permane dopo decenni di repressione, violenza, umiliazioni e negazione dei più fondamentali diritti. Dopo 70 di esistenza dello Stato di Israele, questa violenta conferma delle nostre peggiori paure e sensazioni segna un destino negativo per Israele, per quanto può vedere uno sguardo etico.

ORRORE

Quando si è messi di fronte a simili immagini di resistenza e alla violenza dei cecchini, lo scenario esprime l’orrore dell’acciaio che brucia la carne viva. Non c’è altro modo di cogliere questa particolare cartografia del rischio, della vulnerabilità e della sicurezza se non facendo ricorso al lessico e all’immaginario dell’orrore. Questa atroce narrazione di orrore perdurerà su entrambe le parti tormentando la memoria collettiva e individuale, ma da una parte con tragico orgoglio, dall’altra con repressa vergogna.

L’orrore è stato esaltato dalla coincidenza con gli osceni festeggiamenti a Gerusalemme, dove gli americani in rappresentanza della presidenza Trump, compresi Ivanka Trump, Jared Kushner e l’ambasciatore americano David Friedman, hanno coperto d’infamia gli Stati Uniti con questa indecente esibizione di indifferenza rispetto ai crimini contro l’umanità che venivano commessi sfrontatamente mentre loro parlavano. Una tale insensibilità morale e politica non sarà e non dovrà essere dimenticata.

INDIGNAZIONE

Tutto ciò che abbiamo sono le parole, ma funzioneranno. Come ci ha insegnato Thomas Merton [scrittore e monaco trappista statunitense, ndtr.], certi crimini appartengono alla sfera dell’indescrivibile.

Le occasioni per indignarsi riguardo al trattamento del popolo palestinese sono tante, ma la reazione israeliana a questa marcia dei palestinesi tocca un nuovo livello di meschinità morale, politica e giuridica. Richiama alla memoria il grido dei leaders morali religiosi nell’ultima fase della guerra del Vietnam, espresso nell’accurato elenco di atti di violenza criminale perpetrati in un Vietnam relativamente indifeso, che ha l’eloquente titolo – NON IN MIO NOME.

Come ebrei, come americani, come esseri umani, non è forse giunto il momento di assumere un atteggiamento analogo e almeno segnare una distanza simbolica tra noi e chi perpetra questi crimini?

Le patetiche affermazioni israeliane riguardo al proprio diritto all’autodifesa o l’attribuzione del martirio palestinese ad Hamas sono così insulse e prive di credibilità da screditare ulteriormente, piuttosto che giustificare, questa esibizione di violenza omicida su larga scala, non come incidente isolato ma come una serie di arroganti ricostruzioni.

RICORDARE

Non con parole o argomentazioni, ma con le lacrime, e le lacrime non lo faranno.

Sicuramente come il martirio di Gaza, molto probabilmente visto dal popolo palestinese come una sorta di tacito legame con le vittime africane del massacro di Sharperville (1960)! [massacro avvenuto in Sudafrica durante le proteste contro l’apartheid, ndtr.].

Da queste tenebre scaturirà un’ispirazione per il momento nascosta.

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale alla Università di Princeton. E’ stato Speciale Rapporteur delle Nazioni Unite per i Territori Occupati dal 2008 per un periodo di 6 anni. Insieme a Virginia Tilley ha scritto il report “Le prassi israeliane nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’apartheid” per la Commissione ONU economica e sociale per l’Asia Occidentale (ESCWA) immediatamente disconosciuto dal Segretario generale dell’ONU Gutierrez su pressione di Israele e degli Stati Uniti

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




A Gaza non è una “Marcia di Hamas”. Sono decine di migliaia di persone disposte a morire

Amira Hass

15 maggio 2018, Haaretz

La definizione delle manifestazioni da parte dell’esercito israeliano ne riduce la gravità, ma involontariamente assegna anche ad Hamas la parte di un’organizzazione politica responsabile e articolata

Di recente in una serie di occasioni rappresentanti di Fatah hanno detto, riguardo alla “Marcia per il Ritorno” di Gaza: “Siamo lieti che i nostri confratelli di Hamas abbiano compreso che il modo corretto sia una lotta popolare disarmata.” La scorsa settimana il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato qualcosa del genere durante il suo discorso al Consiglio Nazionale Palestinese.

Ciò ha indicato sia cinismo che invidia. Cinismo perché la posizione ufficiale di Fatah è che la lotta armata guidata da Hamas ha danneggiato la causa palestinese in generale e la Striscia di Gaza in particolare. E invidia perché ciò implica che, come ha ribadito la dichiarazione dell’esercito israeliano, un appello di Hamas è sufficiente a portare decine di migliaia di manifestanti disarmati ad affrontare i cecchini israeliani sul confine.

Invece appelli di Fatah e dell’OLP in Cisgiordania, compresa Gerusalemme, non portano più di poche migliaia di persone nelle strade e scaramucce con la polizia e l’esercito. È successo di nuovo lunedì, quando l’ambasciata degli USA è stata spostata a Gerusalemme. Il numero di manifestanti palestinesi a Gaza è stato molto maggiore di quello in Cisgiordania.

La decisione delle manifestazioni della “Marcia per il Ritorno” è stata presa insieme da tutti i gruppi politici di Gaza, compreso Fatah. Ma il gruppo più organizzato – quello che ha fornito la logistica necessaria, equipaggiato i “campi del ritorno” (punti di incontro e di attività che sono stati sistemati a poche centinaia di metri dal confine con Gaza), controllato le informazioni, mantenuto i contatti con i manifestanti e dichiarato uno sciopero generale per protestare contro lo spostamento dell’ambasciata – è Hamas. Persino un membro di Fatah lo ha tristemente ammesso ad Haaretz.

Ciò non vuol dire che tutti i manifestanti siano dei sostenitori di Hamas o simpatizzanti del movimento che hanno obbedito ai suoi ordini. Per niente. I dimostranti vengono da ogni settore della popolazione, gente che ha un’affiliazione politica e quelli che non ce l’hanno.

Chiunque ha paura rimane a casa, perché l’esercito [israeliano] spara a tutti. I pazzi sono quelli che si avvicinano al confine, e sono di tutte le organizzazioni o di nessuna di loro,” ha detto un partecipante alla manifestazione.

Le affermazioni dell’esercito ai giornalisti secondo cui è una “marcia di Hamas” stanno riducendo il peso di questi avvenimenti e l’importanza di decine di migliaia di gazawi che sono disposti ad essere feriti, rafforzando al contempo ironicamente lo status di Hamas come organizzazione politica responsabile che sa come cambiare la tattica della sua lotta, che inoltre sa giocare il proprio ruolo.

Lunedì, con l’uccisione alle 19 di non meno di 53 abitanti di Gaza, non c’era posto per il cinismo o l’invidia. Abbas ha dichiarato un periodo di lutto ed ha ordinato le bandiere a mezz’asta per tre giorni, insieme ad uno sciopero generale martedì. È lo stesso Abbas che stava pianificando una serie di sanzioni economiche contro la Striscia nell’ennesimo tentativo di reprimere Hamas.

Che ne siano consapevoli o meno, volontariamente o meno, gli abitanti della Striscia di Gaza, con i loro morti e feriti, stanno influendo sulla politica interna palestinese. Nessuno oserebbe ora imporre queste sanzioni. Il tempo dirà se qualcuno arriverà alla conclusione che, se Israele sta uccidendo così tante persone durante manifestazioni disarmate, essi possano tornare ad attacchi armati da parte di singoli – come vendetta o come una strategia che porterà a minori vittime palestinesi.

Secondo gli operatori sul campo del centro per i diritti umani “Al Mezan” nelle prime ore di lunedì mattina bulldozer dell’esercito sono entrati nella Striscia di Gaza ed hanno spianato i banchi di sabbia costruiti dai palestinesi per proteggersi dai cecchini.

Circa alle 6,30 del mattino l’esercito ha sparato anche contro le tende dei “campi del ritorno”, e molte di queste sono andate in fiamme. Secondo “Al Mezan”, alcune delle tende bruciato erano utilizzate per il pronto soccorso.

Il sito web “Samaa” ha informato che cani della polizia sono stati mandati nei “campi del ritorno” e che l’esercito ha spruzzato acqua puzzolente nelle zone di confine. Le frenetiche convocazioni di importanti personaggi di Hamas nella Striscia di Gaza perché si incontrassero con l’intelligence egiziana al Cairo sono stati comprese anche prima che si sapesse che gli egiziani hanno trasmesso minacciosi messaggi israeliani a Ismail Haniyeh e Khalil al-Hayya, vice del leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar.

Tutti nella Striscia di Gaza sanno che gli ospedali sono oltre il limite della capienza e che le equipe mediche sono impossibilitate a curare tutti i feriti. “Al Mezan” ha fatto sapere di una delegazione di medici che avrebbe dovuto arrivare dalla Cisgiordania ma a cui è stato impedito di entrare da parte di Israele.

Tutti sanno che le persone ferite che sono state operate sono state dimesse troppo presto e che c’è carenza di medicine indispensabili per i feriti, compresi gli antibiotici. Anche quando ci sono medicine, molti dei feriti non possono pagare neppure il minimo richiesto per ottenerle, e quindi tornano pochi giorni dopo dal dottore con un’infezione. Tutto ciò si basa su informazioni di fonti mediche internazionali.

Tutti i segnali, gli avvertimenti, le molte vittime nelle ultime settimane e le informazioni inquietanti dagli ospedali non hanno tenuto lontano le decine di migliaia di manifestanti di lunedì. Il diritto al ritorno e l’opposizione allo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme sono obiettivi e ragioni validi, accettabili da tutti.

Ma non fino al punto che masse di abitanti della Cisgiordania e Gerusalemme est si unissero ai loro fratelli della Striscia di Gaza. Là l’obiettivo più auspicabile per cui manifestare è l’ovvia richiesta e quella più facile da mettere subito in atto – restituire ai gazawi la loro libertà di movimento e il loro diritto di mettersi in contatto con il mondo esterno, soprattutto con i membri del loro stesso popolo al di là del filo spinato che li circonda. Questa è la richiesta della gente qualunque e non una questione privata di Hamas, dato che i suoi dirigenti e militanti sanno molto bene che una volta entrati nel valico di Erez tra Israele e la Striscia verrebbero arrestati.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele ripropone i miti sulla Nakba per giustificare gli odierni massacri a Gaza

Jonathan Cook – Nazareth

14 maggio 2018, The Palestine Chronicle

Lunedì e martedì i palestinesi commemorano l’anniversario della Nakba, o Catastrofe, l’espulsione di massa e l’espropriazione di 70 anni fa, quando il nuovo Stato di Israele si è formato sulle rovine della loro patria.

Come risultato, la maggioranza dei palestinesi è stata trasformata in rifugiati, cui Israele nega il diritto di tornare nelle proprie case.

Lunedì in decine di migliaia sono hanno manifestato nei territori occupati per protestare contro settant’anni di rifiuto da parte di Israele di chiedere perdono o porre fine al suo dominio oppressivo.

L’iniziativa di lunedì di trasferire l’ambasciata USA a Gerusalemme, città sotto occupazione militare, ha solamente aumentato il risentimento palestinese, e la percezione che l’Occidente stia ancora coinvolto nella loro espropriazione.

Il centro della protesta è Gaza, dove dalla fine di marzo ogni venerdì palestinesi inermi si dirigono in massa alla barriera di confine che tiene intrappolati due milioni di loro. In cambio hanno affrontato una pioggia di munizioni letali, proiettili rivestiti di gomma e nuvole di gas lacrimogeni. Decine sono stati uccisi e molte centinaia mutilati, compresi minori.

Ma da più di un mese Israele sta lavorando per condizionare la percezione occidentale delle proteste, e la sua risposta ad esse, in modo da screditare l’esplosione di rabbia dei palestinesi. In un comunicato troppo facilmente accolto da dall’opinione pubblica di alcuni Paesi occidentali, Israele ha presentato le proteste come una “minaccia alla sicurezza”.

Funzionari del governo israeliano hanno persino sostenuto davanti alla Corte Suprema del Paese che i manifestanti non hanno alcun diritto, che i cecchini dell’esercito sono legittimati a sparare, anche se non si trovano in pericolo- perché Israele sarebbe in “stato di guerra” con Gaza per difendersi.

Domenica notte l’aviazione israeliana ha sganciato volantini su Gaza avvertendo i palestinesi di non avvicinarsi alla barriera. “L’esercito israeliano è determinato a difendere i cittadini d’Israele e la sua sovranità contro i tentativi terroristici di Hamas sotto la copertura di violenti scontri,” diceva il volantino. “Non vi avvicinate alla barriera e non prendete parte alla manifestazione di Hamas, che vi danneggia.”

Molti americani ed europei, preoccupati del flusso di “migranti economici” che si riversa nei loro Paesi, simpatizzano immediatamente con le preoccupazioni di Israele e con le sue azioni.

Finora la stragrande maggioranza dei manifestanti di Gaza sono stati pacifici e non hanno provato ad attraversare la barriera.

Ma Israele afferma che Hamas ha sfruttato le proteste di queste settimane a Gaza per incoraggiare i palestinesi ad assaltare la barriera. Indirettamente si afferma che i dimostranti hanno provato a passare “un confine” ed a “entrare” illegalmente in Israele.

La realtà è piuttosto diversa. Non c’è nessun confine perché non c’è nessuno Stato palestinese. Israele ha ha fatto in modo che fosse così. I palestinesi vivono sotto occupazione, con Israele che controlla ogni aspetto della loro vita. A Gaza, anche l’aria e il mare sono sotto il controllo di Israele.

Invece il diritto dei profughi palestinesi a ritornare a quelle che erano le proprie terre, ora in Israele, è riconosciuto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Ciononostante, fin dalla Nakba Israele ha costruito una contro-narrazione scorretta, miti che gli storici, facendo ricerche negli archivi, hanno progressivamente fatto a pezzi.

La prima affermazione, che i dirigenti arabi dissero ai 750.000 rifugiati palestinesi di fuggire nel 1948, venne in realtà inventata dal padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. Egli sperava che avrebbe sviato la pressione statunitense affinché Israele rispettasse il suo dovere di consentire ai rifugiati di tornare.

Anche se i rifugiati avessero scelto di andarsene mentre infuriava la battaglia, invece di aspettare di essere espulsi, non sarebbe stato giustificabile negargli il diritto al ritorno a guerra finita. È stato questo rifiuto che ha trasformato la fuga in pulizia etnica.

In un altro mito non supportato da documenti, Ben Gurion avrebbe detto ai rifugiati di tornare.

In realtà Israele ha definito i palestinesi che cercavano di ritornare alle loro terre come “ infiltrati”. Ciò ha autorizzato gli ufficiali della sicurezza israeliana di sparare a vista contro di loro, in quelle che furono di fatto delle esecuzioni come politica di deterrenza.

In settant’anni non è cambiato un granché. La maggioranza della popolazione di Gaza oggi discende dai rifugiati portati nel 1948 all’interno dell’enclave. Da allora sono rimasti chiusi in gabbia come bestiame. Questa è la ragione per cui le proteste odierne dei palestinesi si svolgono sotto le insegne della “Marcia del Ritorno”.

Per decenni Israele non solo ha negato ai palestinesi la prospettiva di uno Stato ridotto al minimo. Ha organizzato i territori palestinesi in una serie di ghetti – e, nel caso di Gaza, l’ha assediata per 12 anni, soffocandola in quella che è una catastrofe umanitaria.

Ciononostante, Israele vuole che il mondo consideri Gaza come uno Stato palestinese in embrione, teoricamente liberato dall’occupazione nel 2005 quando ha evacuato alcune migliaia di coloni ebrei.

Di nuovo, questa narrazione è stata creata solamente per ingannare. Hamas non ha mai avuto il permesso di governare Gaza, tanto quanto l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas governa la Cisgiordania.

Ma, facendo eco agli eventi della Nakba, Israele ha definito i manifestanti come “infiltrati”, una narrazione che ha lasciato molti osservatori stranamente indifferenti al destino dei giovani dimostranti per la libertà palestinesi.

Ancora una volta, le esecuzioni delle recenti settimane, che sarebbero state perpetrate dall’esercito israeliano a scopo di legittima difesa, sono intese [in realtà] a scoraggiare i palestinesi dal chiedere i propri diritti.

Israele non sta difendendo i suoi confini ma i muri delle gabbie che ha costruito per salvaguardare il continuo furto di terra palestinese e preservare i privilegi degli ebrei.

In Cisgiordania la prigione si riduce di dimensione ogni giorno in quanto i coloni ebrei e l’esercito israeliano rubano altra terra. Nel caso di Gaza, la prigione non può essere ulteriormente ridotta.

Per molti anni, i capi di governo del mondo hanno punito i palestinesi per l’uso della violenza e biasimato Hamas per il lancio dei missili fuori da Gaza.

Ma ora che i giovani palestinesi preferiscono praticare una disobbedienza civile di massa, la loro tragedia a malapena riceve attenzione, tanto meno simpatia. Invece sono criticati perché “vogliono violare il confine” e minacciare la sicurezza di Israele.

Sembra che l’unica lotta legittima dei palestinesi sia quella di stare tranquilli, permettendo che le loro terre vengano saccheggiate e che i loro figli muoiano di fame.

I leader occidentali e l’opinione pubblica hanno tradito i palestinesi nel 1948. Dopo 70 anni non c’è alcun segnale che l’Occidente stia per cambiare linea.

Jonathan Cook ha vinto il “Premio Speciale per il Giornalismo Martha Gellhorn”. I suoi libri comprendono“Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rimodellare il Medio Oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair”[“Palestina in dissolvenza: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Il suo sito è www.jonathan-cook.net. Una versione di questo articolo è apparsa precedentemente in “The National”, Abu Dhabi. Ha offerto quest’ articolo a “The Palestine Chronicle”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




‘Bruciateli, sparategli, uccideteli’: gli israeliani esultano a Gerusalemme mentre i palestinesi vengono uccisi a Gaza

Hind Khoudary, Lubna Masarwa, Chloé Benoist

Lunedì 14 maggio 2018, Middle East Eye

Mentre gli Stati Uniti trasferivano ufficialmente la loro ambasciata a Gerusalemme, le forze israeliane uccidevano decine di manifestanti a Gaza

Lunedì il contrasto tra Gerusalemme e Gaza non poteva essere più stridente, anche se le separano solo 75 chilometri.

Mentre i dirigenti americani ed israeliani inauguravano il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme – una vittoria di Israele rispetto al rifiuto della comunità internazionale della sua pretesa di avere Gerusalemme come propria capitale – le forze armate israeliane sparavano sui manifestanti a Gaza, con un bilancio di morti che è cresciuto inesorabilmente nel corso della giornata.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato con entusiasmo il trasferimento dell’ambasciata come un momento “storico”.

“Amici, che giorno di gloria, ricordatevi questo giorno”, ha detto il leader israeliano lunedì in un discorso trionfante. “Questa è storia. Signor Trump, riconoscendo la storia, voi avete fatto la storia. Tutti noi siamo profondamente commossi e grati. L’ambasciata della Nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti d’America, è stata aperta qui.”

Il genero e principale consigliere di Trump, Jared Kushner, ha tenuto anch’egli un discorso durante la cerimonia, nel corso della quale ha ribadito il sostegno degli USA ad Israele, mettendo a quanto pare da parte le preoccupazioni riguardo alle azioni dell’esercito israeliano a Gaza che avvenivano in concomitanza con il suo discorso.

“Noi stiamo dalla parte di Israele perché entrambi noi crediamo nei diritti umani, nel fatto che la democrazia vada difesa e siamo convinti che questa sia la cosa giusta da fare”, ha detto Kushner.

Nel frattempo, proprio fuori dalla nuova ambasciata, i manifestanti palestinesi a Gerusalemme venivano brutalmente repressi dalle forze israeliane.

MEE è stato testimone di decine di palestinesi disarmati picchiati ed arrestati dalle forze di sicurezza israeliane fuori dalla ambasciata, suscitando gli applausi dei manifestanti israeliani venuti ad appoggiare l’apertura dell’ambasciata.

“Bruciateli”, “sparategli”, “uccideteli”, scandivano gli israeliani.

Intanto l’ex portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner si è lamentato sui social media, sottintendendo che le morti di palestinesi a Gaza erano un tentativo di rovinare la festa a Israele.

Ma a Gaza i palestinesi hanno manifestato la propria profonda rabbia e incredulità per i festeggiamenti che si tenevano a Gerusalemme mentre a centinaia venivano indiscriminatamente colpiti dalle forze israeliane.

Alle 19,30 ora locale erano stati uccisi dalle forze israeliane 52 palestinesi e feriti 2.410, l’epilogo sanguinoso delle 6 settimane della “Grande Marcia per il Ritorno” a Gaza, che era già costata 49 vite prima di lunedì.

Dal 30 marzo durante le manifestazioni a Gaza sono stati uccisi in totale 101 palestinesi.

Lo scenario a Gaza nella zona vicina alla barriera di separazione tra la piccola enclave palestinese ed Israele è stato di caos e sangue fin dal mattino, con numerosi dimostranti colpiti alla testa, al collo o al petto.

Molti corpi sono rimasti bloccati nei pressi della barriera, poiché il fuoco dell’esercito era troppo intenso perché le ambulanze potessero raggiungerli.

“Moltissimi palestinesi sono morti oggi in nome della protesta pacifica dei palestinesi e noi non rinunceremo a lottare per il sangue che hanno versato”, ha detto a Middle East Eye il cinquantaduenne Wadee Masri. “Sono venuto qui per partecipare alla marcia, per dimostrare che sono una persona che ha diritto a ritornare nella sua terra.

Gli odierni festeggiamenti a Gerusalemme mi rattristano per ciò che gli USA hanno fatto contro i palestinesi”, ha aggiunto. “Non c’è pace senza Gerusalemme. Noi vivremo e moriremo lottando per Gerusalemme.”

Associazioni internazionali hanno descritto la situazione a Gaza come un “bagno di sangue”.

Human Rights Watch ha dichiarato: “La politica delle autorità israeliane di aprire il fuoco contro i manifestanti palestinesi a Gaza, imprigionati da dieci anni e sotto occupazione da mezzo secolo, prescindendo dal fatto che vi sia una minaccia immediata alla vita, ha condotto ad un bagno di sangue che chiunque avrebbe potuto prevedere.”

Jamal Zahalka [deputato del parlamento israeliano del partito arabo israeliano di sinistra Balad, ndt.], un leader politico dei palestinesi cittadini di Israele, ha detto a MEE che Israele e gli USA sono i responsabili della violenza a Gaza.

“È una violazione del diritto internazionale. Trump e gli USA sono responsabili di tutto il sangue che è stato versato a partire dalla decisione degli Stati Uniti”, ha detto Zahalka.

“Quelli che oggi stanno festeggiando (l’inaugurazione dell’ambasciata USA) hanno le mani sporche di sangue.”

Ma nonostante il trauma della giornata più sanguinosa a Gaza dalla guerra del 2014, Samira Mohsen, una manifestante ventisettenne della zona est di Gaza, nonostante il pesante bilancio delle manifestazioni della giornata continua ad avere un atteggiamento di sfida.

“Un giorno festeggeremo a Gerusalemme, pregheremo là, nessuno ce lo impedirà”, ha detto a MEE. “Il mio sogno è di vedere Gerusalemme. Gerusalemme è la capitale della Palestina e Trump e gli USA non possono decidere di consegnare la nostra terra ai sionisti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 24 aprile – 7 maggio (due settimane)

La serie di manifestazioni di massa lungo la recinzione perimetrale che separa Gaza da Israele, iniziata il 30 marzo, è proseguita per la settima settimana consecutiva.

Le dimostrazioni si svolgono all’interno della Striscia di Gaza, a partire da cinque tendopoli situate a 600-700 metri dal confine con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia di persone, hanno tentato di aprire un varco nella recinzione, hanno bruciato pneumatici e lanciato pietre contro le forze israeliane ed hanno fatto volare aquiloni incendiari verso il territorio israeliano. I soldati israeliani hanno sparato proiettili gommati, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco, impiegando anche cecchini schierati lungo la recinzione. Il 27 aprile l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha invitato Israele a garantire che le sue forze di sicurezza non ricorrano all’uso eccessivo della forza ed ha anche chiesto che [coloro che ne sono stati] responsabili siano chiamati a renderne conto: nelle proteste svoltesi il 4 maggio è stata rilevata una significativa diminuzione dell’uso di armi da fuoco. Il 30 aprile, l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha tenuto un’audizione in risposta ad una petizione, presentata da due gruppi di Organizzazioni Non Governative, contro le “regole di autorizzazione ad aprire il fuoco” applicate dalle autorità israeliane nel contesto delle attuali manifestazioni palestinesi. Il caso è in corso.

Durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], nel contesto delle manifestazioni sopra menzionate, sei palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.216, tra cui 201 minori, sono stati feriti. Le vittime includono un giornalista morto per le ferite riportate durante il precedente periodo di riferimento [10-23 aprile]. Altri sei palestinesi, incluso un minore, sono stati uccisi, a quanto riportato, dopo essere penetrati in Israele attraverso la recinzione; quattro dei corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane.

Dall’inizio delle manifestazioni nella Striscia di Gaza, 40 palestinesi, tra cui cinque minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane durante le proteste. Altri 13 palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi in circostanze diverse all’interno di Gaza e vicino al recinto perimetrale tra Gaza e Israele. A quanto riferito, sei di loro sono stati uccisi mentre tentavano di attraversare la recinzione con Israele, o dopo averla attraversata. I loro corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane. In Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, 8.536 palestinesi, tra cui almeno 793 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 54% dei feriti (4.589 persone) sono stati ricoverati in ospedale; di questi, 2.064 erano stati colpiti con armi da fuoco. Non ci sono invece notizie di feriti israeliani.

Il 5 maggio, in una casa a nord di Deir Al Balah, un ordigno è esploso in circostanze non chiare: sei membri di un gruppo armato palestinese sono rimasti uccisi e altri tre sono rimasti feriti. Diverse altre case hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate, sia di terra lungo la recinzione, sia di pesca lungo la costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 31 occasioni. In due dei casi (a Beit Lahiya e Khan Yunis, lungo la recinzione), due palestinesi sono stati feriti. In diversi episodi, le forze israeliane hanno arrestato 10 persone, di cui cinque minori; a quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale: cinque di loro sono stati rilasciati. In diverse occasioni, il 27 aprile e il 5 maggio, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di cannone sulla Striscia di Gaza, a quanto riferito contro siti militari, provocando danni, ma non feriti.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, 230 palestinesi, tra cui 26 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 91% di questi ferimenti si sono verificati durante scontri collegati a manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza per la “Grande Marcia del Ritorno”. Il maggior numero di feriti si è avuto negli scontri di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguiti da scontri vicino a Qusra e vicino al DCO di Al Bireh (Ramallah). La metà dei ferimenti sono stati causati da proiettili gommati, seguiti da lesioni derivanti da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (42%) e da armi da fuoco (4%). In un’altra circostanza, il 26 aprile, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni e bombe assordanti nel cortile della scuola di Burin (Nablus), durante la pausa pranzo degli studenti, provocando una sospensione delle lezioni per il resto della giornata. Almeno 250 minori sono stati coinvolti. Secondo fonti israeliane, questo episodio ha fatto seguito al lancio di pietre contro veicoli di coloni israeliani.

In due episodi, per consentire esercitazioni militari israeliane, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore ogni volta, cinque famiglie (29 persone, tra cui 17 minori) della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a nella Valle del Giordano settentrionale. Questa comunità è, inoltre, costretta ad affrontare periodiche demolizioni e restrizioni di accesso; fatti che destano preoccupazione in merito al rischio del loro trasferimento forzato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto complessivamente 127 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 151 palestinesi. Nel governatorato di Gerusalemme è stata compiuto il numero più alto di ricerche (31) e di arresti (39). Inoltre, a Gerusalemme, la polizia israeliana ha emesso ordini che, per sei mesi, vietano a tre impiegati palestinesi del Waqf islamico [fondazione pia] di entrare nel Complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio. Nella Striscia di Gaza, in due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

Per mancanza dei permessi di costruzione, in nove comunità palestinesi dell’Area C, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 30 strutture, provocando lo sfollamento di 41 persone, tra cui 17 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 90 circa. Quattordici delle strutture prese di mira si trovavano nelle comunità di pastori palestinesi di Massafer Yatta (Hebron), all’interno di un’area chiusa dall’esercito israeliano e da questi riservata all’addestramento militare (“zona 918 per esercitazioni a fuoco”). In questa zona, il contesto coercitivo viene inasprito, creando pressione sui residenti per indurli a partire. Trentacinque persone di queste Comunità, tra cui 14 minori, sono state sfollate: il numero più alto di sfollati registrato in un solo giorno dall’inizio del 2018. Quattro delle strutture erano rifugi residenziali, forniti come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni. Sale così a 19, dall’inizio del 2018, il numero di strutture finanziate da donatori e successivamente distrutte o sequestrate. In un altro caso, nella città di Ya’bad (Jenin), in Area B, citando la violazione delle normative ambientali, le forze israeliane hanno demolito anche una fabbrica di carbone di legna appartenente a tre famiglie palestinesi, colpendo il mezzo di sostentamento di 15 persone.

Ancora sulle demolizioni: a Gerusalemme Est, presso cinque comunità palestinesi, sono state demolite undici strutture; quattro di queste, a Silwan e Qalandiya, sono state autodemolite dai proprietari stessi. Le sette strutture demolite dalle autorità israeliane includevano un edificio di tre piani in Al Isawiya e sei strutture di sussistenza a Beit Safafa e Shu’fat. In totale, otto persone, tra cui due minori, sono state sfollate ed altre 91 sono state economicamente colpite. Dall’inizio del 2018, quasi un quarto delle strutture demolite (ed anche delle persone sfollate o comunque toccate dalle demolizioni) in Gerusalemme Est, si trovavano nel quartiere di Al Isawiya.

In Cisgiordania, in otto episodi di violenza da parte di coloni, due palestinesi, tra cui una giornalista, sono stati feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate. Il 29 aprile, a Kafr ad Dik (Salfit), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito una giornalista palestinese mentre stava documentando un caso di confisca di un terreno. Inoltre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un 23enne palestinese. In tre diversi episodi, presunti coloni israeliani hanno forato le gomme di 17 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di sei case palestinesi dei villaggi di Jalud (Nablus), di Turmus’aaya e di Deir Ammar (entrambi in Ramallah). Nella zona H2 di Hebron, controllata dagli israeliani, coloni hanno attaccato, con lancio di pietre, tre case palestinesi, scatenando scontri con i residenti. In un altro episodio, verificatosi nel villaggio di Qusra e riportato da fonti della Comunità locale, coloni, a quanto riferito dell’insediamento di Yitzhar, hanno danneggiato 14 alberi e hanno forato le gomme di un trattore agricolo. In quest’area, l’accesso ai terreni da parte dei proprietari palestinesi richiede un’autorizzazione speciale rilasciata dalle autorità israeliane. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è pari a cinque; nel 2017 era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque casi di lancio di pietre e due casi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: secondo media israeliani sono stati causati danni a cinque veicoli privati vicino a Hebron, Ramallah, Betlemme e Gerusalemme.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 28 al 30 aprile) in entrambe le direzioni e un giorno in una direzione, consentendo un totale di 357 ingressi e 1.511 uscite da Gaza. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 17 giorni; 11 giorni in entrambe le direzioni e 6 giorni in una sola direzione. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, oltre 23.000 persone, compresi casi umanitari prioritari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Un altro morto mentre Gaza arriva all’ultimo venerdì di protesta prima del “Giorno della Nakba”*

Redazione di MEE

venerdì 11 maggio 2018, Middle East Eye

* Un altro giovane di 15 anni è morto sabato per le ferite riportate [ndr]

I palestinesi hanno manifestato per un mese e mezzo, per denunciare la disastrosa situazione di Gaza assediata

GAZA CITY – Venerdì un palestinese è stato ucciso a Gaza mentre la “Grande Marcia del Ritorno” di sei settimane è arrivata al suo ultimo giorno prima del “Giorno della Nakba”, il 15 maggio.

Nella Striscia di Gaza, territorio sotto blocco, i palestinesi si uniscono nelle manifestazioni per chiedere il diritto al ritorno di 1.300.000 rifugiati.

Il ministero della Salute di Gaza ha identificato il palestinese ucciso in Jaber Salem Abu Mustafa, 40 anni, aggiungendo che è stato colpito al petto dalle forze israeliane a est di Khan Younis.

Dal 30 marzo i manifestanti si sono riuniti ad alcune centinaia di metri dalla barriera che separa Israele da Gaza per chiedere il diritto al ritorno nelle loro case di prima del 1948, evidenziando diversi problemi che riguardano la Striscia assediata – come la disoccupazione e le pesanti difficoltà dei giovani palestinesi.

Venerdì i notiziari riferivano che in alcune zone le forze israeliane hanno sparato massicciamente gas lacrimogeni verso la folla, mentre almeno cinque manifestati sono stati colpiti con proiettili veri a est di Gaza City.

E’ stato riferito che un’altra persona sarebbe stata colpita a est di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza, dove una troupe di giornalisti della televisione “Al-Aqsa” [rete televisiva di Hamas, ndt.] sarebbe stata presa di mira con gas lacrimogeni.

Numerosi giornalisti sarebbero stati feriti da proiettili veri e da gas lacrimogeni in tutta la Striscia di Gaza.

Il ministero della Salute ha informato che alle 5 del pomeriggio ora locale 448 persone sono rimaste ferite, compresi almeno 25 minorenni e un infermiere.

Il ministero ha diffuso la foto di un ragazzo sedicenne in condizioni critiche con la guancia trapassata da un proiettile non identificato a est del campo di rifugiati di al-Bureij, nella zona centrale della Striscia di Gaza. [presubilmente si tratta del quindicenne Jamal Abu Arahman Afaneh colpito da proiettile e deceduto sabato, ndr].

All’inizio della giornata dei dimostranti hanno parzialmente rimosso il filo spinato sistemato dalle forze israeliane nei pressi della barriera per evitare che i palestinesi si potessero avvicinare.

La manifestazione di venerdì è stata denominata “Venerdì di Preparazione e Presagio”, anticipando la marcia finale della protesta all’inizio della prossima settimana.

Inizialmente era previsto che la Marcia terminasse il 15 maggio – settantesimo anniversario della Nakba (catastrofe) palestinese, in cui più di 750.000 palestinesi vennero obbligati ad andarsene dalle forze israeliane nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948.

Tuttavia l’ultima manifestazione è prevista per lunedì 14 maggio, a causa dell’imminente inizio del mese sacro musulmano del Ramadan.

Il 14 e 15 maggio faremo volare aquiloni con slogan pacifici per il nostro diritto al ritorno, bruceremo pneumatici e taglieremo filo spinato, perché non riconosciamo questa barriera né i confini israeliani, “ ha detto a MEE Ayman, un membro del gruppo dei manifestanti che guida le attività nei pressi della barriera, tenendo in mano delle grandi tenaglie per tagliare il filo spinato.

Lunedì è anche il giorno in cui gli Stati Uniti hanno fissato lo spostamento della loro ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, un’iniziativa che ha provocato molta rabbia tra i palestinesi.

Mentre le proteste si avvicinano al culmine, il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha detto che il gruppo – uno dei molti partiti politici palestinesi di Gaza che si sono pronunciati a favore della “Grande Marcia del Ritorno” – non impedirà ai manifestanti di superare la barriera di sicurezza israeliana lungo il perimetro di Gaza.

Cos’è che non va se centinaia di migliaia di persone attraversano una barriera che non è un confine?” ha detto giovedì, parlando a giornalisti stranieri per la prima volta da quando ha assunto l’incarico nel 2017.

Il profumo del mio villaggio”

Alcuni vecchi rifugiati hanno preso parte alla protesta di venerdì, lasciandosi andare ai ricordi d’infanzia prima e durante la Nakba.

Oggi è la prima volta nella mia vita che mi sono avvicinata al confine. Sto accanto alle tende della protesta per il ritorno e rivolgo lo sguardo a nordest, in direzione di Bir Saba,” ha detto venerdì a Middle East Eye Umm Usama, rifugiata di 73 anni, riferendosi al suo villaggio d’origine dove ora sorge la città israeliana di Beersheba.

Conservo nel mio cuore tutte le storie che mio padre era solito raccontarmi sul villaggio. Posso ancora sentire il profumo del mio villaggio.

Sono contenta di vedere come questa generazione sia cosciente del proprio diritto al ritorno, senza paura delle armi israeliane,” ha aggiunto. “Gli israeliani non dovrebbero uccidere il nostro diritto a tornare così come uccidono i nostri figli.”

Sappiamo che gli israeliani sono più forti di noi, poiché hanno le armi” ha detto Umm Raed, che aveva solo due settimane quando la sua famiglia è stata obbligata a scappare dal villaggio di Barbara, a soli 20 km dalla Striscia di Gaza.

Ma i nostri diritti ci rendono più forti. Sarò la prima a partecipare alla protesta nel giorno della Nakba, verrò con i miei familiari e i vicini in modo che tutto il mondo sia testimone della nostra compatta presa di posizione per il diritto al ritorno.”

Secondo l’ultimo bilancio di mercoledì del ministero della Salute di Gaza, durante le manifestazioni le forze israeliane schierate dietro la barriera hanno ucciso 47 palestinesi e ne hanno feriti 8.536. L’AFP [agenzia di notizie francese, ndt.] ha contato dal 30 marzo altri cinque morti palestinesi, fuori dall’ambito delle proteste.

Wael, 29 anni, è stato colpito a una gamba durante la manifestazione del 4 maggio, ma ciononostante è tornato a manifestare una settimana dopo, nonostante debba ancora usare le stampelle.

Sono disoccupato, non ho speranze in questa vita. Protesto sperando che possiamo cambiare le nostre vite, sostenere i nostri diritti e far togliere l’assedio imposto a Gaza. Vogliamo che tutto il mondo sappia che la crisi umanitaria a Gaza deve finire,” ha detto a MEE. “Il nostro diritto al ritorno è la nostra ultima speranza.”

Nonostante una serie di sparatorie siano scoppiate lungo il confine dopo che alcuni aquiloni dotati di ordigni incendiari artigianali sono entrati in Israele, non si è registrata nessuna vittima israeliana.

Venerdì la polizia israeliana ha dato notizia sui social media che tre israeliani sono stati arrestati per aver tentato di mandare aquiloni incendiari a Gaza e appiccarvi un incendio.

La violenta risposta dell’esercito israeliano alle manifestazioni ha suscitato indignazione in tutto il mondo: più di 2.000 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri e 24 feriti hanno subito amputazioni dopo che Israele gli ha negato i permessi per uscire da Gaza e ricevere cure nella Cisgiordania occupata.

Venerdì l’Ong internazionale “Save the Children” ha denunciato che l’esercito ha preso di mira dei minori palestinesi a Gaza, sottolineando che su oltre 700 ragazzini feriti, almeno 250 sono stati colpiti da proiettili veri.

Siamo profondamente preoccupati per l’alto numero di minori colpiti da proiettili veri e siamo d’accordo con l’Alto Commissario per i Diritti Umani che questo potrebbe segnalare un uso eccessivo della forza causando uccisioni e mutilazioni illegali,” ha affermato in un comunicato Jennifer Moorehead, direttice locale di “Save the Children” per i territori palestinesi occupati.

Il risultato è stato devastante per i minori di Gaza – fisicamente e psicologicamente. Molti sono rimasti feriti e molti altri hanno visto i propri genitori o i propri cari feriti durante le proteste o patire crescenti difficoltà nella vita quotidiana.”

 L’esercito israeliano ha respinto i ripetuti appelli della comunità internazionale – comprese le Nazioni Unite – ad usare moderazione e ad aprire un’inchiesta indipendente sulle morti, sostenendo la necessità della propria politica di fare fuoco, che, sostiene, prende di mira “terroristi”.

Nel contempo Amnesty International ha chiesto un embargo totale degli armamenti contro Israele, accusando le sue forze di “perpetrare attacchi mortali” contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Resoconto da Gaza di Amjad Ayman.

(traduzione di Amedeo Rossi)