Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (oPt) [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in quattro diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso quattro civili palestinesi, tre dei quali minori.

Tre delle uccisioni (due minori di 15 e 17 anni e un uomo di 25) sono avvenute in tre distinti episodi di proteste e scontri, il 3, 11 e 15 gennaio, nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Bureij (Gaza) e nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya); proteste seguenti al riconoscimento, da parte dell’amministrazione statunitense, di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Un altro ragazzo di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco l’11 gennaio, in Iraq Burin (Nablus), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane.

Il 9 gennaio, sulla Strada 60, vicino all’incrocio di Sarra-Jit (Nablus), un colono israeliano di 35 anni è stato ucciso da palestinesi che hanno sparato da un’auto in corsa. A seguito dell’attacco, le forze israeliane hanno imposto restrizioni di accesso alla città di Nablus ed ai villaggi circostanti. Le operazioni di ricerca sono state intensificate, causando l’interruzione degli ingressi e delle uscite dalla città di Nablus.

Nei Territori palestinesi occupati, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente, 269 palestinesi, tra cui 83 minori. 67 di tali ferimenti si sono avuti nella Striscia di Gaza, in scontri verificatisi durante proteste vicino alla recinzione perimetrale. I rimanenti (202) sono stati registrati in Cisgiordania; la maggioranza durante proteste vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus); a seguire, le città di Al Bireh (Ramallah), Abu Dis e Al ‘Eizariya (Gerusalemme). Altri 28 feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). 61 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 62 da proiettili di gomma, 137 hanno inalato gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico, o sono stati colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 176 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 261 palestinesi, tra cui almeno 22 minori. Dieci di queste operazioni hanno provocato scontri con i residenti. Nella Striscia di Gaza, nei pressi di Khan Younis e Beit Hanoun, in due occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Gaza, in almeno 13 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa. Cinque pescatori sono stati feriti, altri otto, tra cui due minori, sono stati arrestati e tre barche sono state confiscate. È stato riferito che, in almeno quattro occasioni, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato razzi verso Israele, tre dei quali atterrati nel sud di Israele: non sono stati segnalati feriti. In risposta, le autorità israeliane hanno portato quattro attacchi aerei e lanciato missili contro siti di addestramento militare ed aree aperte: segnalati danni, ma non feriti.

Secondo agricoltori palestinesi di Gaza, in quattro diverse occasioni, il 7 e il 9 gennaio, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli situati lungo la recinzione perimetrale con Israele.

Il 13 gennaio, nei pressi della Striscia meridionale di Gaza, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una barca da pesca, uccidendo un pescatore palestinese di 33 anni; non sono chiare le circostanze dell’episodio.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito e/o sequestrato tre strutture, sfollando due palestinesi e colpendo le proprietà di altri 16. Due delle strutture prese di mira (una abitativa ed una agricola) erano a Beit Hanina e Silwan (Gerusalemme Est); la terza (una struttura agricola) nella parte del villaggio di Al Khadr (Betlemme) che si trova in Area C. Sempre in Area C, le autorità israeliane hanno emesso sei ordini di arresto lavori contro tredici strutture nel villaggio di Duma e nella comunità di Khirbet al Marajim (Nablus); tra queste, due strutture abitative in uso e dodici rifugi per animali.

In 14 diversi episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, cinque palestinesi sono rimasti feriti, 115 alberi e sette veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. Secondo quanto riferito, sette di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama, Burin, Yatma, Urif e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus): 100 alberi danneggiati, un uomo aggredito fisicamente e quattro veicoli palestinesi danneggiati da lancio di pietre. Su terreni appartenenti a palestinesi di Deir al Hatab (Nablus), altri 15 alberi sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni dell’insediamento di Elon Moreh. Dopo l’attacco in cui è stato ucciso un colono israeliano [vedi sopra], coloni hanno attaccato abitazioni nei villaggi di Sarra, Huwwara (Nablus), Far’ata (Qalqiliya) e in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus); sono stati segnalati danni alle abitazioni. In quest’ultima località, 42 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri che hanno coinvolto forze israeliane. Nella città di Nablus, in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane.

Secondo resoconti di media israeliani, ci sono stati almeno cinque casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danno a cinque veicoli privati: nei pressi di Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. Inoltre, a Gerusalemme Est, nell’area di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

In seguito alla scoperta di un tunnel (successivamente distrutto), le autorità israeliane hanno chiuso per due giorni (il 14 e il 15 gennaio) Kerem Shalom, l’unico valico per il transito delle merci di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte di mercoledì 17 gennaio 2018, le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca-arresto in una casa situata tra il villaggio di Birqin (Jenin) e il Campo profughi di Jenin. Secondo fonti giornalistiche, nel corso dell’operazione sarebbe stato ucciso un palestinese coinvolto, a quanto riferito, nell’uccisione del colono israeliano avvenuta il 9 gennaio (vedi sopra). Durante l’operazione sono rimasti feriti altri tre palestinesi e due membri delle forze israeliane; tre abitazioni sono state demolite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Tra i ritardi dell’ANP e le minacce di Israele, Gaza sta andando verso l’ignoto

Motasem A Dalloul

4 gennaio 2018, Middle East Monitor

Le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, sono responsabili delle divisioni interne ai palestinesi, ma il 12 ottobre dello scorso anno hanno firmato insieme un accordo di riconciliazione sponsorizzato dall’Egitto.

I palestinesi di Gaza hanno festeggiato l’accordo, che è stato presentato come la fine del decennale blocco da parte di Israele, dell’Autorità Palestinese e dell’Egitto.

Come gesto di buona volontà, Hamas ha sciolto il suo comitato amministrativo, che aveva sostituito il governo palestinese nella Striscia di Gaza guidato dal movimento. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah, dominata da Fatah, ha annunciato che avrebbe immediatamente assunto le proprie responsabilità a Gaza ed avrebbe tolto le misure punitive imposte contro l’enclave dal suo leader Mahmoud Abbas, che includevano tagli all’elettricità, congelamento dei salari nel settore pubblico e un’interruzione nell’invio di farmaci e nell’approvazione di richieste per cure mediche altrove.

Alcuni osservatori dubitavano che questo accordo avrebbe posto termine alla divisione tra palestinesi e all’assedio di Gaza; inoltre non si fidavano dell’Egitto come mediatore imparziale, in quanto la leadership del Cairo ha considerato per molto tempo Hamas come un nemico. Tuttavia, molti analisti politici hanno evitato di mettere in dubbio le intenzioni dell’ANP e dell’Egitto. Comunque, col passare del tempo quasi tutti gli esperti di questioni palestinesi si sono convinti che ciò che era avvenuto era parte di un gioco più grande. Alcuni si sono spinti ad affermare che ciò faceva parte dell’“accordo del secolo” di Trump.

Considerando la situazione nella Striscia di Gaza tre mesi dopo, l’unica cosa certa è che l’accordo è stato una bolla di sapone. Non è esagerato dire che il territorio è sull’orlo del collasso; anzi, ha iniziato a collassare. Il settore sanitario, quello del welfare, l’economia, l’educazione e gli altri ambiti del sistema di governo stanno per annunciare di non essere in grado di fornire quotidianamente i servizi alla popolazione di Gaza, mentre gli scioperi di protesta iniziano a farsi sentire.

Migliaia di dipendenti pubblici a Gaza non hanno ricevuto salari per mesi; migliaia di famiglie povere non hanno sussidi sociali a cui ricorrere; migliaia di famiglie di lavoratori non hanno denaro perché più dell’80% delle attività commerciali e del 90% delle fabbriche a Gaza hanno già bloccato la produzione. Secondo l’analista economico Mohamed Abu Jayyab, una causa della recessione economica è che l’ANP sta ancora riscuotendo le tasse, ma solo per trasferire il denaro fuori da Gaza.

Martedì il portavoce del ministero della salute palestinese a Gaza, Ashraf Al-Qiddra, ha comunicato il rinvio di migliaia di appuntamenti per interventi chirurgici, avvertendo che potrebbero essere cancellati se Israele non toglierà le sanzioni sui farmaci, le attrezzature mediche e i ricambi per macchinari indispensabili. L’ANP, ha aggiunto, deve inviare urgentemente materiale sanitario ed i farmaci necessari agli ospedali e ai centri sanitari di Gaza. “Nel magazzino centrale i livelli di scorte di molti articoli nell’elenco dei farmaci essenziali sono a zero”, ha avvertito.

Nel frattempo il dilazionamento da parte dell’ANP del pagamento dei salari dei dipendenti pubblici assunti da Hamas dopo la sua vittoria nelle elezioni del 2006, che in base all’accordo di riconciliazione avrebbero dovuto essere pagati da novembre, così come l’esitazione della stessa ANP nel togliere le sanzioni a Gaza, suggeriscono che Ramallah non pensa seriamente a porre fine alle sofferenze dei cittadini palestinesi nell’enclave. “Anche i dipendenti dell’ANP a Gaza, che sono pesantemente indebitati con le banche ed hanno perso un terzo dei loro salari, sono oggi classificati tra i poveri”, ha spiegato Abu Jayyab.

L’ANP ha deciso di aumentare il prezzo del carburante che entra nella Striscia di Gaza dall’Egitto, per incamerare più tasse per le sue casse in Cisgiordania. Intanto il primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah ha sostenuto che l’Autorità ha pagato 16 miliardi di dollari a Gaza mentre, in realtà, ha pagato la metà di tale cifra ed ha riscosso 9,6 miliardi di dollari in tasse nel periodo dell’assedio. Non sembra essere un governo ansioso di adempiere alle proprie responsabilità ed impegni nei confronti degli abitanti di Gaza.

L’ANP dovrebbe aver assunto la piena responsabilità della guida di tutti i ministeri a Gaza, il cui controllo è stato ceduto da Hamas al momento della firma dell’accordo, ma non è accaduto nient’altro se non che i ministri ed i capi di dipartimento hanno visitato gli uffici per un servizio fotografico e poi se ne sono andati. Non sono state pagate da Ramallah neanche le spese di amministrazione. La scusa accampata da Fatah e dall’ANP è che loro hanno il controllo solo del 5% degli uffici a Gaza. La verità è che semplicemente non prendono sul serio la riconciliazione.

Ramallah può fare promesse davanti alle telecamere – in particolare riguardo alle forniture di elettricità a Gaza – ma non fa seguire delle azioni. Vede Gaza solo come una potenziale fonte di entrate, rastrellando milioni di shekel ai posti di confine, dei quali pure ha il controllo.

Il mediatore dell’accordo di riconciliazione, l’Egitto, ha promesso di denunciare qualunque delle parti non rispetti i propri impegni sottoscritti nell’accordo. Non lo ha fatto, soprattutto, si suppone, perché è la sua alleata ANP, guidata da Fatah, ad essere venuta meno all’accordo.

Ma soprattutto, si è abbondantemente omesso di riferire che, dalla decisione di Trump su Gerusalemme del 6 dicembre, Gaza è stata sottoposta a bombardamenti israeliani quasi ogni giorno. Tre persone sono state uccise e dozzine ferite ed i palestinesi ora vivono nel costante timore che stia per scatenarsi un’altra offensiva militare israeliana.

“Prima di andare a dormire i palestinesi della Striscia di Gaza sentono un ufficiale israeliano che minaccia di scatenare una guerra contro di loro e poi quando si svegliano sentono un altro che dice che non ci sarà nessuna guerra contro Gaza nel prossimo futuro”, ha spiegato la scienziata sociale Adel N’ima. “Ciò ha un effetto disastroso sulla psiche, in quanto provoca un grave stress negli anziani e un trauma nei giovani.”

Tale terrore psicologico è ovviamente ciò che i bombardamenti e la propaganda intendono provocare. Che cosa è questo se non terrorismo di stato?

“L’ANP è interessata solamente a raccogliere denaro a Gaza, non a facilitare la vita dei palestinesi di Gaza”, ha ribadito Abu Jayyab. Lui ritiene che l’autorità di Ramallah guidata da Mahmoud Abbas stia portando Gaza in un profondo e oscuro tunnel. Tra i rinvii dell’ANP e le minacce di Israele, l’enclave sta certamente andando verso l’ignoto, per cui è difficile non concordare con lui.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 19 dicembre 2017 – 1 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (TPO), durante il periodo di riferimento del presente bollettino, l’ondata di proteste e scontri è continuata, seppur con intensità ridotta; era iniziata il 6 dicembre, dopo il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele da parte degli Stati Uniti.

Dall’inizio delle proteste, complessivamente, 14 palestinesi sono stati uccisi e 4.549 sono stati feriti dalle forze israeliane. Le persone ferite durante tale periodo rappresentano circa il 56% del totale dei feriti nel 2017.

Nella Striscia di Gaza, in scontri correlati alle summenzionate proteste, tre civili palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 280 sono rimasti feriti; altri due civili sono morti per le ferite riportate in episodi simili accaduti durante il precedente periodo di riferimento. Gli episodi si sono svolti vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele ed hanno comportato lanci di pietre contro le forze israeliane schierate dalla parte israeliana. Queste, a loro volta, hanno sparato contro i manifestanti con armi da fuoco, proiettili di gomma e bombolette lacrimogene. I tre morti, tutti uomini, si sono avuti in distinti episodi accaduti il 22 ed il 30 dicembre: ad est di Jabalia, nella città di Gaza e ad est di Deir al-Balah. Gli altri due, sempre uomini, sono morti per le ferite riportate l’8 e il 17 dicembre. Dei feriti registrati, almeno 27 erano minori; più di un terzo (103) sono stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti sono stati medicalizzati per inalazione di gas lacrimogeno o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

1.386 palestinesi, di cui almeno 226 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di scontri; la maggioranza (93%) nel contesto delle proteste sopra menzionate. Il numero più consistente di feriti durante proteste è stato registrato nella città di Nablus, seguita dalla città di Jericho, dalla città di Al Bireh (Ramallah) e dalla città di Abu Dis (Gerusalemme). Degli altri feriti, la maggior parte è stata registrata nel corso di operazioni di ricerca-arresto, le più vaste delle quali si sono svolte nella città di Qalqiliya e nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico). Così come era avvenuto nel precedente periodo di riferimento, la maggior parte delle lesioni (68%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeni con esigenza di trattamento medico, seguite da ferite causate da proiettili di gomma (21%).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 170 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 214 palestinesi, di cui almeno 18 minori. Più di un terzo di queste operazioni ha provocato scontri con i residenti. Altri tre palestinesi, tra cui una donna e un minore, sono stati arrestati, in tre diversi episodi mentre, secondo fonti israeliane, tentavano di aggredire con coltello forze israeliane (in due casi) e per possesso di esplosivi (un caso).

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato numerosi razzi in direzione del sud di Israele: due di questi sono caduti in Israele ed hanno danneggiato un edificio; la maggior parte sono stati intercettati in aria da missili israeliani o sono ricaduti nella Striscia di Gaza. I lanci di razzi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza, con danni a numerosi siti che, secondo quanto riferito, apparterrebbero a gruppi armati palestinesi.

In almeno 22 occasioni, le forze israeliane, allo scopo di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa di Gaza: quattro pescatori sono stati arrestati, uno dei quali ferito con arma da fuoco, e una barca è stata confiscata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato cinque strutture, sfollando cinque palestinesi e coinvolgendone altri 33. Tre delle strutture prese di mira, una delle quali demolita dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione, erano in Gerusalemme Est; le altre due nelle parti locate in Area C dei villaggi di Tarqumiya (Hebron) ed Al Walaja (Betlemme).

Sempre in Area C, nel villaggio di Bani Na’im (Hebron), le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione ed arresto lavori contro otto strutture finanziate da donatori; tra queste una scuola, una clinica sanitaria, una moschea e cinque strutture residenziali. Tre di queste strutture erano state finanziate dal Fondo Umanitario per i Territori occupati [Organismo delle Nazioni Unite].

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha costretto una famiglia palestinese a svuotare delle loro merci un magazzino-negozio e l’ha consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliana che ne rivendicava la proprietà. Lo sfratto conclude lunghi procedimenti presso tribunali israeliani, dove la famiglia aveva contestato, senza successo. lo sfratto, sostenendo di essere un “inquilino protetto”. A Gerusalemme Est, sono state presentate almeno 180 istanze di sfratto contro famiglie palestinesi. La maggior parte di queste istanze, avviate da organizzazioni di coloni israeliani, si basano sia su rivendicazioni di proprietà, sia su attestazioni che gli affittuari non sono più “inquilini protetti”.

L’esercito israeliano ha bloccato un certo numero di strade, sia di accesso che interne all’area di Massafer Yatta di Hebron, ed ha emesso un ordine militare che impone ai palestinesi l’acquisizione di permessi per superare i nuovi ostacoli. Per circa 1.400 persone, residenti in 12 comunità, le nuove restrizioni hanno interrotto l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Queste comunità si trovano in una zona designata da Israele “area chiusa per addestramento militare” (zona per esercitazioni a fuoco 918) e sono considerate ad alto rischio di trasferimento forzato. Nella Cisgiordania centrale, il 1° gennaio, dopo averlo bloccato per sette giorni consecutivi, l’esercito israeliano ha riaperto il checkpoint principale che controlla, da est, l’accesso a Ramallah (checkpoint DCO).

Il 29 dicembre, una ragazzina palestinese di 9 anni, malata e con bisogni speciali, è morta mentre si recava in un ospedale della città di Nablus: al checkpoint di Awarta (Nablus) i soldati israeliani le avevano negato l’accesso. Secondo la famiglia della ragazza, dopo aver discusso per circa mezz’ora con i soldati, hanno fatto una deviazione verso il checkpoint di Huwwara. A causa di scontri in corso, anche questo risultava bloccato; dopo un lungo ritardo sono riusciti comunque a superarlo. Circa 90 minuti dopo aver lasciato la loro casa nel villaggio di Awarta, sono arrivati all’ospedale dove la ragazza è stata dichiarata morta. La durata normale del viaggio tra il villaggio e l’ospedale è di 15 minuti.

Sono stati segnalati almeno otto attacchi da parte di coloni israeliani con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a proprietà. Secondo quanto riferito, quattro di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama e Burin (Nablus), ed hanno comportato danni a 62 alberi, l’aggressione fisica a due uomini palestinesi e l’incursione in una scuola. In conseguenza di quest’ultimo episodio, le forze israeliane sono intervenute, scontrandosi con gli studenti e ferendone 11. Altri 22 palestinesi sono rimasti feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. A Ya’bad (Jenin) e Beit Safafa (Gerusalemme Est), in due distinti episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di coloni israeliani, tre veicoli palestinesi e una casa hanno subito danni.

Sono stati segnalati almeno undici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nelle zone di Hebron, Ramallah e Gerusalemme. Secondo rapporti di media israeliani, sono stati provocati danni a cinque veicoli privati e alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat di Gerusalemme Est.

Il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto un giorno, il 19 dicembre, in entrambe le direzioni, consentendo a 569 persone di lasciare Gaza e a 92 di tornarvi. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, compresi casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 gennaio, in scontri scoppiati durante una manifestazione nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), un ragazzo palestinese di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Come lo Stato Islamico tiene in ostaggio Gaza

Hamza Abu Eltarabesh

21 dicembre 2017,The Electronic Intifada

Quando Rami Fawda ha sentito che era prevista finalmente l’apertura del valico di Rafah, la sua reazione è stata di sollievo misto a preoccupazione.

Il sollievo era dovuto al fatto che il quarantaquattrenne ingegnere vive ad Ankara, in Turchia, dove lavora da 13 anni e vi doveva tornare. Era arrivato a Gaza durante l’estate per visitare la sua famiglia, solo per la seconda volta da quando era andato via, ma era rimasto bloccato, cercando inutilmente per tre volte di ottenere il passaggio attraverso Rafah – il confine tra Gaza e l’Egitto.

Allora Fawda ha cercato di andarsene in ottobre, quando le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura prevista di Rafah in seguito ai tanto sbandierati negoziati preliminari di unità da poco conclusi tra i partiti palestinesi Fatah ed Hamas al Cairo. Ma anche questa possibilità è naufragata, questa volta a causa di un attacco ad un posto di controllo dell’esercito egiziano nel Sinai che ha causato 30 vittime, compresi sei soldati, attribuito al gruppo dello Stato Islamico.

Quell’attacco del 15 ottobre era la ragione della preoccupazione di Fawda. Negli ultimi mesi le rarissime aperture – il valico di Rafah è rimasto in funzione per soli 30 giorni circa in tutto il 2017 – sono state temporanee e di nuovo annullate in seguito ad attacchi di miliziani nel Sinai.

L’effetto concreto significa che i militanti del Sinai, molti dei quali hanno dichiarato la propria adesione allo Stato Islamico, con le loro azioni possono tenere in ostaggio due milioni di palestinesi di Gaza.

Non è più un problema egiziano

Fawda ha avuto maggiore fortuna a novembre, ma per un pelo. Il valico è stato aperto il 18 novembre per tre giorni, ed ha cercato di ottenere un permesso per andarsene. Se avesse tardato una settimana, quando il Cairo ha annunciato altri tre giorni di apertura, sarebbe di nuovo rimasto deluso. Il 24 novembre uomini armati hanno attaccato una moschea nel Sinai, uccidendo più di 300 persone. Il valico di Rafah è rimasto chiuso fino alla scorsa settimana.

Fawda ha parlato di controlli di sicurezza e di una ingente presenza militare al confine sul lato egiziano. Quando è stato raggiunto per telefono, ha detto ad Electronic Intifada che l’Egitto ha “la stessa paura che abbiamo noi.” Fawda ha affermato che i miliziani salafiti del Sinai, in precedenza di “Ansar Beit al-Maqdis”, che nel 2014 è diventato Stato Islamico – Provincia del Sinai, hanno di fatto unito le loro forze a Israele nell’ “assediare Gaza”.

Hanno sicuramente trovato un modo per fare pressione sia sull’Egitto che su Hamas. Hamas, spinto dalla necessità di aprire Gaza al mondo esterno, ha stipulato una serie di accordi con il Cairo per aiutare l’Egitto a combattere quella che è diventata una vera e propria insurrezione nel Sinai.

Questi includono la costituzione di una zona di sicurezza lungo il confine tra Gaza e il Sinai e l’arresto di miliziani del Sinai a Gaza e hanno già provocato la rottura dei rapporti da tempo difficili tra Hamas e i salafiti nella stessa Gaza che si è riacutizzata negli ultimi 10 anni.

Secondo Mukhaimer Abu Saada, un analista politico e docente all’università Al-Azhar di Gaza, Hamas ha pagato un prezzo per aver migliorato i suoi rapporti con l’Egitto. “Quando Hamas si è scagliata contro i militanti salafiti, lo Stato Islamico nel Sinai ha iniziato delle ritorsioni, minacciando le operazioni di Hamas lì, compresi i suoi interessi commerciali e il contrabbando di armi,” dice Abu Saada.

Il conflitto nel Sinai è quindi diventato una lotta più vasta, che ha un impatto diretto su Gaza. A Gaza Israele è universalmente visto come il principale beneficiario dell’ostilità tra lo Stato Islamico e Hamas.

E le tensioni generano altre tensioni. Le forze di sicurezza di Hamas hanno arrestato sospetti membri dello Stato Islamico nella zona di Tal al-Sultan a Rafah in risposta al primo attacco suicida rivendicato dallo Stato Islamico a Gaza in agosto. Che a sua volta è arrivato dopo che Hamas si è scagliato contro le infiltrazioni dentro e fuori Gaza.

Da allora il numero di arresti ha iniziato ad aumentare. Ashraf Issa, un ufficiale dei servizi di sicurezza interni di Gaza diretti da Hamas, ha detto a Electronic Intifada che ora ci sono 550 sospetti combattenti dello Stato Islamico in carcere a Gaza.

Ma in cambio ciò minaccia alcuni degli interessi vitali di Hamas, non ultimo il sistema di rifornimento attraverso il Sinai, da lungo tempo utilizzato come rotta di contrabbando per ogni genere di beni ed esigenze, così come di armi e munizioni.

Prendere di mira Hamas

Sicuramente questa è la minaccia che lo Stato Islamico vorrebbe rappresentare. Secondo uno dei dirigenti dello Stato Islamico del Sinai che opera con il nome di battaglia di Muhammad al-Yamani e che è stato raggiunto grazie al telefono di un parente, ogni operazione dello Stato Islamico “è una risposta alle azioni di Hamas e dell’Egitto contro i nostri membri.”

Al-Yamani ha giurato di continuare a colpire le posizioni militari egiziane nel Sinai e ha messo in guardia Hamas che, se continua ad arrestare membri dello Stato Islamico, “distruggeremo il loro sistema di approvvigionamento militare.”

Ha aggiunto: “Stiamo controllando tutti i convogli che attraversano il Sinai.”

Ha riattaccato prima che il giornalista potesse fargli altre domande.

I principali bersagli dello Stato Islamico nel Sinai sono gli egiziani. Significativamente, il 24 novembre uomini armati hanno aperto il fuoco in una moschea nei pressi di El Arish nel Sinai durante le preghiere del venerdì, il peggiore attacco di questo tipo nella storia contemporanea dell’Egitto.

Ma lo Stato Islamico è stato molto attivo anche nella zona di confine tra Gaza e l’Egitto. Lo scorso ottobre tre palestinesi che lavoravano nei pressi del confine sono stati rapiti con un’operazione attribuita allo Stato Islamico. Secondo Abd al-Rahman Odeh, un responsabile della sicurezza di Hamas, sono stati picchiati ed interrogati per circa 12 ore in territorio egiziano e poi rilasciati quando è risultato evidente che nessuno di loro era membro di Hamas.

Odeh insinua che l’operazione sia stato un tentativo di fare pressione su Hamas per uno scambio di prigionieri.

Poi, più tardi in ottobre, Tawfiq Abu Naim, il capo dei servizi di sicurezza interna di Hamas, è rimasto ferito da un’autobomba che Hamas ha definito un tentativo di assassinio fallito. Due membri del gruppo salafita di Gaza sono stati arrestati dopo l’attentato. Una fonte vicina agli investigatori, che ha parlato in condizione di anonimato, ha confermato che Hamas accusa lo Stato Islamico dell’operazione.

Sabotatori ovunque

Importanti esponenti di Hamas inizialmente hanno ipotizzato che dietro all’operazione ci fosse Israele, ma probabilmente più che altro per l’opinione pubblica. Sicuramente i miliziani salafiti hanno i loro motivi. Dalla nomina di Abu Naim, centinaia di salafiti a Gaza sono stati arrestati. Abu Naim è anche responsabile della sicurezza al confine tra Gaza e l’Egitto, dove negli ultimi mesi sono state piazzate alcune decine di posti di blocco.

Ciononostante c’è chiaramente una coincidenza di interessi tra la branca dello Stato Islamico nel Sinai e Israele nella loro lotta contro Hamas. Alcuni dirigenti di Hamas ed analisti hanno suggerito una collaborazione diretta che coinvolge Israele e lo Stato Islamico. Secondo Hussam al-Dajani, un docente di politica dell’università Uammah di Gaza, entrambi hanno interesse nell’uccisione di Abu Naim.

Israele voleva eliminare qualcuno che sia attivo nella resistenza; lo Stato Islamico voleva vendicarsi degli ostacoli che stanno affrontando a Gaza,” dice al-Dajani.

Anche le operazioni dello Stato Islamico nel Sinai hanno contribuito, se non sono state la ragione principale, ai ritardi nell’apertura a lungo promessa del valico di Rafah. Si parla persino di spostare l’attuale valico più vicino alla costa per fare in modo che sia più difficile da attaccare.

Secondo Ashraf Juma, un parlamentare di Fatah, non c’è ancora una decisione a questo proposito. “Abbiamo presentato la richiesta all’Egitto e se ne è discusso, ma non abbiamo ancora ricevuto una conferma,” dice.

L’apertura del valico di Rafah è fondamentale e rimane il tallone d’Achille di Hamas. È l’unico valico per entrare ed uscire da Gaza che ha la possibilità di rimanere a breve termine sempre aperto e per ogni uso ragionevole.

Israele ha imposto un blocco di Gaza da più di 10 anni che il Cairo ha per lo più assecondato.

Questa chiusura ha avuto drammatici effetti economici e sociali su questa striscia di terra costiera stretta e sovrappopolata che è stata a lungo sull’orlo di un disastro umanitario e che le Nazioni Unite ritengono sarà inabitabile entro il 2020.

Come Hamas ha già dimostrato, sta cercando di prendere decisioni difficili, tranne consegnare le sue armi, per garantire che Gaza si apra di nuovo al mondo. Ciò include la fine formale del governo esclusivo su Gaza così come combattere i miliziani salafiti a Gaza e nel Sinai.

L’Egitto – oltre alla cooperazione per reprimere l’insurrezione nel Sinai – è interessata anche a questo. Se fatto in modo corretto, consentire l’attraversamento di Rafah potrebbe stimolare la poco soddisfacente economia aprendo un nuovo mercato per i prodotti egiziani e fornendo al contempo un centro per l’economia del Sinai, oltre al contrabbando ed al turismo.

Ma i sabotatori sono ovunque, non ultimo lo Stato Islamico- Provincia del Sinai.

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista e scrittore freelance di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 5 – 18 dicembre 2017

Nei Territori palestinesi occupati [vengono indicati come tali: Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est], il periodo cui si riferisce il presente rapporto è stato contrassegnato da un’ondata di proteste, scontri, lanci di razzi e attacchi aerei che hanno provocato la morte di 8 palestinesi e il ferimento di altri 2.900 circa, tra cui almeno 345 minori; anche 7 israeliani sono stati feriti.

La sollevazione palestinese, seguita all’annuncio del 6 dicembre con il quale gli Stati Uniti riconoscevano Gerusalemme come capitale di Israele, desta preoccupazione per la possibilità che possa innescare un nuovo periodo di ostilità.

Nella Striscia di Gaza, nel corso di proteste e scontri, tre civili palestinesi (tutti uomini) sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane, mentre altri 658 civili, tra cui 79 minori, sono stati feriti. Gli eventi, quotidiani, hanno avuto luogo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno comportato lanci di pietre contro le forze israeliane schierate sul lato israeliano. Queste, a loro volta, hanno sparato contro i manifestanti con armi da fuoco, proiettili di gomma e bombolette lacrimogene. Le tre uccisioni sono avvenute in due distinti episodi: l’8 dicembre ad est di Khan Younis e il 15 dicembre ad est della città di Gaza. In questo secondo caso, uno degli uccisi era un uomo di 29 anni che, nel 2008, ferito durante un attacco aereo israeliano, aveva subìto l’amputazione di entrambe le gambe. Oltre un terzo dei feriti negli scontri (223) sono stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti sono stati colpiti da proiettili di gomma o bombolette lacrimogene o hanno inalato gas lacrimogeno con esigenza di trattamento medico.

In risposta al lancio quasi quotidiano di razzi da Gaza verso il sud di Israele, l’aviazione israeliana ha lanciato una serie di attacchi aerei contro siti militari di Gaza, uccidendo tre palestinesi: un civile e due membri di un gruppo armato. Altri 25 civili sono rimasti feriti, compresi nove minori. Il civile ucciso era un 54enne, ferito l’8 dicembre durante un attacco aereo su un sito di Beit Lahia e morto poco dopo per infarto. Oltre ai siti-obiettivo, diversi edifici residenziali e due scuole hanno subìto danni (da moderati a lievi). La maggior parte dei razzi lanciati dai palestinesi sono ricaduti all’interno della Striscia di Gaza, ferendo una donna ed un minore e danneggiando una scuola. Uno dei razzi è caduto nella città di Sderot, in Israele, causando danni ad un asilo infantile.

In Cisgiordania, nello stesso contesto di proteste e scontri quotidiani, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi e ferito altri 2.222, tra cui 254 minori. Entrambi gli uomini uccisi (di 19 e 29 anni), sono stati colpiti il 15 dicembre, rispettivamente durante gli scontri al checkpoint DCO (Ramallah) e nella città di Anata (Gerusalemme). Nel primo caso (al checkpoint), un giovane palestinese ha accoltellato e ferito un ufficiale della polizia di frontiera israeliana ed è stato successivamente colpito e ucciso. La maggior parte delle lesioni (70%, 1.556 persone) sono state causate da inalazione di gas lacrimogeni con esigenza di trattamento medico, seguite da ferimenti da proiettili di gomma (20%, 447) e armi da fuoco (4%, 82). La città di Gerico conta il maggior numero di feriti, seguita da Tulkarm, Al Bireh (vicino al checkpoint DCO, Ramallah) e vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus). A Gerusalemme Est, le proteste si sono svolte quasi quotidianamente, per lo più alla porta di Damasco, l’ingresso principale della Città Vecchia, dove c’era un grosso dispiegamento di polizia israeliana; gli scontri hanno provocato il ferimento di 90 palestinesi.

Il 10 dicembre, a Gerusalemme Ovest, presso la Stazione Centrale degli Autobus, un palestinese di 24 anni ha accoltellato e ferito una guardia della Sicurezza israeliana ed è stato successivamente arrestato.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 162 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 364 palestinesi, tra cui 63 minori. Almeno 50 delle operazioni hanno provocato scontri ed il ferimento di sei palestinesi. Il 12 dicembre, nel villaggio di Az Zubeidat (Gerico), durante un’operazione di ricerca-arresto, una donna palestinese di 60 anni è morta per infarto, per l’esplosione di una granata assordante sparata dalle forze israeliane nei pressi della sua casa.

In un’area del villaggio di Anata situata all’interno del confine municipale di Gerusalemme, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito due strutture abitative in costruzione. Sono state colpite tre famiglie di 17 persone, di cui 11 minori. Nella zona di Ras Al Amud a Gerusalemme Est, un’altra struttura disabitata è stata demolita dal proprietario per evitare multe: colpita una famiglia palestinese.

In Area C, durante il periodo di riferimento, non sono state registrate demolizioni. Tuttavia, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione e arresto-lavori contro almeno 17 strutture di proprietà palestinese. Le strutture prese di mira includevano due aule scolastiche nella Comunità beduina palestinese di Abu Nuwar (Gerusalemme) i cui residenti, sottoposti ad un contesto coercitivo, sono a rischio di trasferimento forzato.

In due distinti episodi, coloni israeliani, secondo quanto riferito provenienti da Yitzhar (Nablus), hanno vandalizzato proprietà agricole e una casa in due villaggi palestinesi. Uno degli episodi si è verificato in un’area agricola del villaggio di Qusra, con danni a 45 alberi di ulivo e ad un serbatoio d’acqua. Per i palestinesi l’accesso a tale area richiede la concessione di un’autorizzazione speciale da parte delle autorità israeliane. Nell’altro caso, coloni israeliani hanno attaccato una casa nel villaggio di Burin, causando il danneggiamento di pannelli solari. Nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani; un altro è stato ferito da pietre lanciate contro il suo veicolo in transito sulla strada 60, nei pressi dell’abitato di Yitzhar (Nablus).

Nelle zone di Hebron, Ramallah e Gerusalemme, i media israeliani hanno segnalato sette episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, da parte di palestinesi, contro veicoli israeliani, con danni a cinque veicoli privati ed a due autobus, nonché alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat a Gerusalemme Est.

Il 19 dicembre, nella striscia di Gaza, per ragioni di sicurezza collegate allo svolgimento di operazioni militari, le autorità israeliane hanno chiuso, per un giorno, i valichi di Erez e Kerem Shalom. L’attraversamento di Erez è stato comunque consentito agli operatori umanitari, al personale delle organizzazioni internazionali e ai titolari di permessi di ricongiungimento familiare; è stato altresì consentito l’attraversamento di Kerem Shalom ai rifornimenti di gas da cucina e carburante.

Il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato eccezionalmente aperto tre giorni durante il periodo di riferimento (16-18 dicembre) in entrambe le direzioni, consentendo a 1.827 persone di lasciare Gaza e a 630 di tornarvi. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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L’ONU è indulgente sull’uccisione da parte di Israele di un disabile palestinese

Ali Abunimah

19 Dicembre 2017, Electronic Intifada

L’alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti si è unito alla condanna di Israele per l’uccisione di un disabile palestinese nella Striscia di Gaza occupata.

Ma mentre Zeid Ra’ad Al Hussein [alto commissario ONU per i diritti umani, ndt.] definisce l’uccisione di Ibrahim Abu Thurayya “incomprensibile” a un “atto davvero scioccante e immotivato,” il suo ufficio non procede ad imputare alcuna responsabilità reale a Israele.

Si dimostra così il doppio standard secondo cui Israele è trattato più indulgentemente dall’ONU rispetto ad altri responsabili di crimini umanitari.

Abu Thurayya, 29 anni, ha perso entrambe le gambe in un attacco aereo israeliano nel 2008. Lo scorso venerdì ha partecipato a manifestazioni a Gaza vicino alla recinzione di confine con Israele per protestare contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale israeliana.

Abu Thurayya “protestava a circa 15 metri dalla recinzione est di Gaza quando è stato colpito da una pallottola, seduto sulla sua sedia a rotelle”, ha dichiarato il gruppo per i diritti umani Al-Haq.

Colpito a morte sulla sedia a rotelle, con in mano una bandiera

Secondo la documentazione di Al-Haq e il filmato dell’incidente, Abu Thurayya “aveva solo in mano una bandiera palestinese e non rappresentava affatto una minaccia [per le forze di occupazione israeliane]) quando gli hanno sparato alla fronte in quello che sembra essere stato un deliberato assassinio.”

Una dichiarazione rilasciata martedì dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein riconosce i fatti e afferma che “non c’è assolutamente nulla che suggerisca che Ibrahim Abu Thurayya rappresentasse una minaccia imminente di morte o di gravi ingiurie quando è stato ucciso.”

La dichiarazione aggiunge: “Data la sua grave disabilità, che deve essere stata chiaramente visibile a chi gli ha sparato, la sua uccisione è incomprensibile – un atto davvero scioccante e immotivato.”

Tuttavia, la dichiarazione è molto lontana da ciò che ci si aspetterebbe in una situazione così grave.

Linguaggio blando

L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha anche dichiarato che le altre uccisioni e ferite inferte da Israele a centinaia di palestinesi nello stesso giorno sollevano “serie preoccupazioni riguardo al fatto che la forza usata dalle forze israeliane fosse adeguatamente calibrata alla minaccia.”

Questo linguaggio mite sembra giustificare e a spiegare razionalmente l’uso della forza da parte dell’esercito di occupazione contro i dimostranti civili, mentre fa cortesemente appello all’occupante ad essere un po’ meno brutale.

La cosa più preoccupante, tuttavia, è l’appello a Israele dell’ufficio ONU per i diritti umani “ad aprire immediatamente un’indagine indipendente e imparziale su questo incidente e su tutti gli altri che hanno provocato lesioni o morti, al fine di individuare i responsabili di eventuali crimini commessi.”

L’ONU sa perfettamente che Israele è assolutamente incapace di fare indagini su di sé in modo serio. La dichiarazione prende anche atto che sull’uccisione di Abu Thurayya “si è svolta un’inchiesta preliminare interna all’esercito israeliano”.

Quella “inchiesta” è già giunta alla conclusione che le forze israeliane non hanno fatto nulla di male e non hanno mostrato “alcuna mancanza morale o professionale” nello sparare a morte a un disabile.

L’ufficio di Zeid certamente sa che questo genere di impunità è sistematico.

I gruppi per i diritti umani hanno consegnato alla Corte penale Internazionale dell’Aia montagne di prove sulle violazioni israeliane, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Sono crimini su cui Israele ha rifiutato di indagare.

Sembra che la Corte Penale Internazionale stia tergiversando nei casi che riguardano Israele.

Secondo Al-Haq, le uccisioni israeliane di manifestanti palestinesi venerdì “potrebbero rappresentare degli omicidi volontari, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e un crimine di guerra che rientra nella giurisdizione della Corte Penale Internazionale”.

Tuttavia, nella sua dichiarazione su Abu Thurayya, l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite omette di richiamare la Corte Penale Internazionale affinché si opponga vigorosamente alla sistematica impunità di Israele.

Richieste di intervento

Tutto ciò è in aperto contrasto con le richieste dell’ufficio per i diritti umani al Tribunale Internazionale di occuparsi di Paesi come la Siria, il Burundi, la Corea del Nord e il Myanmar.

Zeid ha anche chiesto “un’indagine internazionale sulle violazioni dei diritti umani in Venezuela per individuare i responsabili.

La richiesta di intervento in Venezuela si basava sulla sua valutazione che “l’attuale sistema è inadeguato” e dovesse essere “riconfigurato con il sostegno e il coinvolgimento della comunità internazionale”.

La dichiarazione su Abu Thurayya non è purtroppo l’unico segno della faziosità per cui l’ONU tratta Israele con i guanti di velluto.

Su mandato del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, l’ufficio di Zeid sta stilando un database delle imprese che operano negli insediamenti israeliani sulla terra palestinese occupata.

All’inizio il database avrebbe dovuto essere pubblicato questo mese, ma l’ufficio di Zeid ha riferito di averlo accantonato in seguito a pesanti pressioni da parte di Israele e Stati Uniti, suscitando preoccupazione nei gruppi per i diritti umani.

E nel 2016, pur dicendo di essere “estremamente preoccupato” per l’uccisione senza verdetto da parte di un medico militare israeliano di un palestinese ferito, l’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani è parso esigere che i palestinesi sotto occupazione militare debbano garantire la sicurezza dei loro occupanti.

(traduzione di Luciana Galliano)




L’uccisione di un uomo senza gambe

Amira Hass

17 dicembre 2017,Haaretz

Ibrahim Abu Thuraya, con entrambe le gambe amputate e su una sedia a rotelle, si distingueva tra la folla di manifestanti sul confine di Gaza. È stato il suo coraggio che ha innervosito un soldato che si trovava sul lato israeliano?

I fanali della macchina illuminano due soldati nel buio, con fucili ed altro equipaggiamento all’ingresso della città cisgiordana di A-Ram, sovrappopolata e ammassata. I nostri occhi si sono incrociati per un attimo, come si suol dire. I loro volti esprimevano quel familiare misto di arroganza, ignoranza e paura. Come sembrano giovani, ho pensato. Ho anche riflettuto su quello che pensa in questi giorni chiunque guidi davanti a soldati: una lieve deviazione dell’auto e loro supporranno che questa signora sia decisa ad investirli. Una successiva inchiesta della polizia militare stabilirà che avevano avuto l’impressione che la loro vita fosse in pericolo e quindi che avevano agito correttamente. Concéntrati sulla guida, mi sono detta, pensando di nuovo a quanto fossero giovani.

Non credo che venerdì si sia vista alcuna paura negli occhi dei soldati israeliani che hanno sparato a Ibrahim Abu Thuraya, 29 anni, uccidendolo. Erano dall’altra parte della barriera di confine, a est del quartiere di Shujaiyeh a Gaza. Forse erano su una torre di guardia, forse su una collina o in una jeep blindata, che ha sparato a raffica sui manifestanti palestinesi.

Quale pericolo rappresentava Abu Thuraya? Certo si distingueva tra gli altri manifestanti: amputato delle due gambe, è avanzato sulla sua carrozzella, sceso da questa si è mosso rapidamente con l’aiuto delle braccia, andando verso est attraverso una collinetta sabbiosa. Il suo coraggio e la sua mancanza di paura hanno turbato un soldato sul lato israeliano della barriera?

Abu Thuraya era stato gravemente ferito durante l’offensiva israeliana del 2008-09 contro Gaza, quando perse entrambe le gambe. Nel 2015 una storia sul sito web palestinese di notizie Al Watan raccontava che lui e i suoi amici erano stati presi di mira da un bombardamento israeliano nel campo di rifugiati di Bureij. In seguito si era ripreso dalle gravi ferite e si guadagnava da vivere pulendo i finestrini delle auto nelle strade di Gaza, muovendosi tra le macchine sulla sua sedia a rotelle. Una ripresa video senza data lo mostra mentre si arrampica su un palo della luce nei pressi del confine di Gaza e sventola una bandiera. In un altro video, probabilmente registrato venerdì, lo si vede sulla sua carrozzella allo scoperto di fronte alla recinzione, mentre sventola di nuovo una bandiera palestinese.

Venerdì a mezzogiorno davanti a una telecamera diceva che la manifestazione era un messaggio all’esercito sionista di occupazione che “questa è la nostra terra e non ci vogliamo arrendere.” Poi un montaggio video lo mostra sulla sua sedia a rotelle, circondato da decine di giovani sconvolti. La sua testa è reclinata, viene messo in un’ambulanza e portato in ospedale. È stato dichiarato morto quel pomeriggio, ucciso da un proiettile alla testa.

Il montaggio video omette qualche scena che lo potrebbe accusare? Per esempio, Abu Thuraya ha puntato un razzo contro i soldati? Se questa è stata la ragione per cui un soldato ha sparato ad un uomo senza gambe su una sedia a rotelle, si è trattato di un errore dell’esercito e dei portavoce del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori [COGAT, l’amministrazione israeliana dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Perché non hanno emesso un comunicato ai mezzi di informazione riguardo ad un attacco con i razzi da parte dei manifestanti, evitando in questo modo qualunque danno che possa colpire i nostri soldati?

Di nuovo in Cisgiordania, un prurito al naso mi ha avvisato della presenza di soldati sulla strada che porta al campo di rifugiati di Jalazun –il che significa che c’erano anche quelli che lanciano sassi. Ma non era possibile tornare indietro. Il diffuso fumo di lacrimogeni aumentava di intensità e la strada procedeva a curve. Da una parte, tra alcune case, si erano accovacciati alcuni giovani – ed erano molto giovani. Avevano pietre in mano ma per il momento non le stavano tirando. Dall’altra parte, nei pressi di un muro che protegge la colonia di Beit El, stava uno spaventoso furgone passeggeri blindato, con di fianco qualche soldato. Forse erano della polizia di frontiera (il mio senso di panico mi ha fatto dimenticare qualche dettaglio). Sotto i loro elmetti e da lontano era difficile stabilire quanto fossero giovani. Ma nel loro atteggiamento arroganza e ignoranza erano evidenti.

Il mio tentativo di andare da Ramallah a Betlemme venerdì (per un concerto e l’esibizione di un coro di bambini) era fallito. Ad un incrocio verso il checkpoint di Beit El, alcuni giovani – quanto erano giovani! – hanno tirato fuori da un’auto dei copertoni con l’intenzione di incendiarli. Ho capito quello che stava succedendo e sono tornata indietro verso Qalandiyah. Il traffico era lento.

A un certo punto dei fedeli stavano uscendo da una moschea e in un altro della gente camminava in mezzo alla strada portando ceste dal mercato. Altrove c’erano macchine parcheggiate in doppia fila o uomini che uscivano da un salone per le feste portando tazze di caffè usa e getta e pezzi di torta. Un’ambulanza, a sirene spiegate, stava arrivando dalla direzione del checkpoint, segnalando quello che mi aspettava. Qualche decina di metri più in là si poteva chiaramente vedere una nuvola di lacrimogeni. Ogni desiderio che avevo di andare a vedere la situazione in ognuna delle altre uscite dalla prigione 5 stelle che è Ramallah mi era passato. In seguito si è saputo che una persona era morta al checkpoint di Beit El e un’altra era stata gravemente ferita a Qalandiyah.

Venerdì, durante una gita con amici, lui ha detto: “Per un verso, so che dovrei essere là con quei coraggiosi ragazzi al checkpoint. Per l’altro, so che solo se centinaia di migliaia di persone andassero lì, con le mani in tasca, qualcosa cambierebbe.”

Lei ha aggiunto: “Una volta quando sentivamo di una persona ferita a Gaza tutta la Cisgiordania era in fiamme. Ora sentiamo di qualcuno che è morto a Ramallah o un giovane che ha perso un occhio per un candelotto lacrimogeno e tutto quello che facciamo è scuotere la testa in segno di solidarietà e continuiamo con le nostre vite.”

Una persona che vive in una strada nei pressi del checkpoint di Beit El ha aperto la porta di casa a quelli che scappavano dal fumo dei lacrimogeni. Il fazzoletto impregnato di alcool fatto giare da un paramedico aiutava, ma solo in casa le lacrime e la sensazione di bruciore sono cessate.

I nostri dirigenti sono isolati,” ha dichiarato l’ospite. “Non gli importa della gente, ma solo dei soldi e degli affari. Non posso dire ai giovani di non andare ai checkpoint, ma so che il loro coraggio è inutile.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’assedio israeliano a Gaza sta impedendo la consegna di 50 romanzi inviati a una biblioteca pubblica

Nada Elia

Mondoweiss 18 Dicembre 2017

Dovrebbe essere obbligatorio per i giornalisti occidentali leggere esempi della banalità del male israeliano, le indignazioni quotidiane che i palestinesi sopportano durante i periodi descritti dai media tradizionali come di “relativa calma”.

“Relativa calma”, per i giornalisti occidentali mainstream, è quando gli ebrei-israeliani non sono disturbati dalla resistenza palestinese alle violazioni dei diritti umani da parte di Israele. È in questi periodi di cosiddetta “calma” che Israele espande le sue colonie illegali, continua la pulizia etnica iniziata nel 1948 e concepisce nuove leggi che privano di diritti la popolazione indigena, favorendo così il sistema di apartheid che ora Israele abbraccia apertamente, niente che faccia ufficialmente notizia.

Per i quasi due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, dove il blocco imposto da Israele è giunto al decimo anno, questo articolo vorrebbe ricordare come i bambini continuano a studiare a lume di candela, i giovani a fare la doccia fredda perché non c’è acqua calda, le acque reflue non trattate a invadere le strade, le medicine salva-vita a mancare e i generatori a funzionare ventidue ore al giorno negli ospedali, mentre medici e personale medico sopraffatti cercano di salvare la vita di bambini nati pre-termine a causa dell’anemia della madre, un risultato della “dieta di sussistenza” imposta da Israele.

Questo articolo vorrebbe parlare dei soldati israeliani che sparano ai pescatori che cercano di guadagnarsi da vivere nelle proprie acque costiere e nominare le decine di migliaia di persone a cui viene negato il permesso di lasciare la prigione di Gaza, perché Israele ha posto un limite severo ai casi “umanitari” a cui è concesso di fuggire. Questo articolo non vorrebbe includere l’assassinio extragiudiziale di un doppio amputato in sedia a rotelle, o la demolizione dei tunnel attraverso i quali sono fatti passare di contrabbando elementi essenziali salvavita – tunnel non dissimili da quelli che consentivano agli ebrei europei di sopravvivere all’assedio del ghetto di Varsavia.

Una recente manifestazione della banalità del male è lo svuotamento delle biblioteche pubbliche nella Striscia di Gaza, qualcosa a cui Mosab Abu Toha si è dato come impegno di rimediare. Alla giovane età di 25 anni, l’insegnante di lingua inglese ha fondato la “Biblioteca pubblica Edward Said” a Gaza, una piccola e modesta biblioteca che spera fornirà agli abitanti della Striscia una finestra sul mondo attraverso la letteratura, principalmente in inglese. Ha detto che l’idea gli è venuta nel 2014, quando il dipartimento inglese della sua università, l’Università Islamica di Gaza, è stato colpito da un missile israeliano durante l’operazione Cast Lead. Ha lanciato una raccolta di fondi e ha ricevuto $15.000 in donazioni in un mese, cosa che gli ha permesso di affittare un piccolo spazio, costruire alcuni scaffali e inizialmente rifornirli con i suoi libri. Con il leggerissimo calo delle restrizioni su ciò che può entrare nella striscia di Gaza continuamente bloccata, alcune persone (tra cui Noam Chomsky e Katha Pollitt) hanno inviato libri ad Abu Toha, ma la consegna dei pacchi è ancora inaffidabile.

Più di recente, un donatore del Canada ha inviato una cassa di 50 romanzi alla biblioteca, per la quale hanno pagato $ 1200 a FedEx come spese di consegna. L’indirizzo a cui FedEx ha chiaramente accettato di consegnare, come evidente sull’etichetta di supporto, specifica Gaza come destinazione finale. FedEx subappalta a una compagnia palestinese, Wassel, ma quando Abu Toha ha chiesto informazioni sullo stato dei libri, Wassel lo ha informato che non effettua consegne a Gaza. Inoltre, a causa delle dimensioni della donazione, i libri sono considerati beni tassabili e ora sono trattenuti nella dogana israeliana. “Il mio amico ha pagato $1200 USD per spedire i libri al mio indirizzo e ora [vogliono] addebitarmi circa $700 USD come tasse sulle merci. I libri erano una donazione. Li ha comprati per $600 USD.”

Nel frattempo, FedEx Canada ha informato Abu Toha che, a meno che non paghi i $700 in tasse, i libri saranno distrutti. Ma anche se pagasse la tassa di $700, Abu Toha avrebbe comunque bisogno di andare in Cisgiordania e riportare i libri a Gaza di persona, cosa che ovviamente non può fare, a causa del blocco. Un’altra opzione sarebbe che il donatore canadese paghi per farli rispedire indietro. “Se il mio amico non coprirà il costo della restituzione dei libri, distruggeranno il pacco”, mi ha scritto Abu Toha. (FedEx Canada può essere contattato qui, e spinto a non distruggere i libri, avendo il donatore pagato oltre $1200 per consegnarli).

Abu Toha ha un sogno, una visione ed è determinato ad andare avanti. Il suo caso è uno tra milioni, letteralmente, di palestinesi che trovano ogni aspetto della loro vita quotidiana avvelenato da Israele. A livello più ampio, dobbiamo fare pressioni sul governo israeliano per porre fine alla sua occupazione e al regime di apartheid. Il modo migliore per farlo è attraverso il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che ha cambiato la narrazione sul sionismo, mostrandolo per l’ideologia violenta e razzista che è. Questo cambiamento del discorso sta finalmente cominciando ad avere un impatto sulla politica, dato che ora abbiamo politici statunitensi che sostengono un disegno di legge che protegge i diritti dei bambini palestinesi – una svolta nell’impenetrabile scudo sionista. Nel frattempo, a livello più piccolo, possiamo sostenere la Biblioteca Edward Said facendo pressione su FedEx, o donando alla biblioteca (il sito web ha una lista dei desideri). Alcuni dei titoli che Abu Toha spera di ricevere includono “Go Tell It on the Mountain” di James Baldwin e l’opera di Toni Morrison, ma la biblioteca ha bisogno anche di più scaffali, più computer e vorrebbe potersi permettere uno spazio più ampio.

Ma per ora, il messaggio di Abu Toha è “per favore salvate i 50 libri”.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Rapporto OCHA del periodo 21 novembre- 4 dicembre 2017 ( due settimane)

Il 30 novembre, un agricoltore palestinese 48enne è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso da un colono israeliano che accompagnava un gruppo di giovani coloni in escursione in un’area agricola prossima al villaggio di Qusra (Nablus).

Mentre testimoni oculari palestinesi hanno riferito che lo sparo è stato preceduto da un alterco tra i coloni e l’agricoltore, i media israeliani hanno riferito che lo sparatore ha aperto il fuoco in risposta al lancio di pietre da parte del palestinese. Per due giorni il corpo dell’agricoltore è stato trattenuto dalle autorità israeliane per autopsia. Immediatamente dopo l’omicidio, abitanti di Qusra sono arrivati sul posto ed hanno lanciato pietre ai coloni, che si erano nascosti in una grotta; questi ultimi hanno risposto sparando e ferendo un palestinese; due coloni sono stati feriti da pietre. La polizia israeliana ha aperto un’indagine sul caso.

Più tardi, nello stesso giorno, in due episodi separati, nei villaggi di Qusra ed ‘Asira al Qibliya (Nablus), altri 34 palestinesi sono stati feriti durante scontri con coloni israeliani armati e soldati. Uno dei feriti è stato colpito con arma da fuoco, 15 da pallottole di gomma, 15 hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, tutti da parte dei soldati israeliani, mentre tre palestinesi sono stati feriti da pietre lanciate da coloni. Altri tre palestinesi sono stati aggrediti e feriti da coloni in due distinti episodi in Gerusalemme Est e nel villaggio di Susiya (Hebron).

Inoltre, 36 palestinesi, sette dei quali minori, sono stati feriti da forze israeliane durante scontri avvenuti in Cisgiordania: 19 di questi ferimenti sono stati registrati nel villaggio di Qusra il 2 dicembre, in occasione del funerale dell’agricoltore di cui sopra, e due nella città di Nablus, in seguito all’entrata di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. La maggior parte degli altri ferimenti sono avvenuti in questi contesti: operazioni di ricerca-arresto che hanno innescato scontri, i più ampi dei quali nel governatorato di Hebron; durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione dell’insediamento colonico israeliano e contro le restrizioni di accesso in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Nabi Saleh (Ramallah); e prima di una demolizione punitiva nel villaggio di Qabatiya (Jenin).

Il 30 novembre, tre civili palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti nel corso di attacchi israeliani a postazioni militari nella città di Gaza e nella parte nord della Striscia: i siti presi di mira hanno subìto danni. A quanto riferito, gli attacchi sono stati condotti in risposta al lancio di 12 granate di mortaio effettuato nello stesso giorno da un gruppo armato palestinese. Le granate erano cadute in Israele, senza causare feriti o danni.

Ancora in Gaza, durante scontri scoppiati nel corso di due proteste svolte vicino alla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno ferito con arma da fuoco due minori palestinesi. Inoltre, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra ed in mare, senza causare feriti, ma interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. Nella zona settentrionale della Striscia di Gaza un minore palestinese è stato arrestato ed un altro è stato ferito e arrestato mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per punizione, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Qabatiya (Jenin), sfollando cinque persone, tra cui tre minori. La casa demolita apparteneva ad uno dei due palestinesi, attualmente in carcere, che uccisero un colono israeliano il 4 ottobre 2017. Dall’inizio del 2017, nove case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando 49 palestinesi.

Citando la mancanza delle licenze edilizie israeliane, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture in Area C e Gerusalemme Est, sfollando 24 palestinesi, tra cui 12 minori; altre 78 persone sono state diversamente toccate dalle demolizioni. Otto delle strutture demolite erano in Area C, e tre di esse appartenevano a comunità di pastori: in Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj e in Al Jiftlik-ash-Shuneh (entrambe in Jericho) e nella comunità di Halaweh, situata nel sud di Hebron, nella “zona 918 per esercitazioni a fuoco”. Le restanti quattro strutture erano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Shu’fat, Beit Hanina, Al ‘Isawiya ed Umm Tuba.

Il 4 dicembre, le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema Israeliana della loro intenzione di demolire 46 strutture nel villaggio di Susiya (Hebron). Come conseguenza quaranta persone, tra cui 14 minori, saranno sfollate, mentre tutti i suoi 160 residenti in Area C si troveranno ad alto rischio di trasferimento forzato. L’intera Comunità (327 abitanti) sarà colpita dalla demolizione delle 46 strutture, che includono otto abitazioni, due strutture sanitarie, 12 locali usati per la scuola, altre due strutture di sussistenza ed un impianto di pannelli solari. Secondo le autorità, queste strutture furono realizzate senza i permessi necessari, a partire dal 2014, in violazione di un’ingiunzione del tribunale.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno due di tali episodi sono stati danneggiati veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto in una direzione per un solo giorno, permettendo a 174 persone di entrare in Gaza. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, più di 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa per attraversare il valico. Nonostante la chiusura al transito di viaggiatori, il valico di Rafah è stato aperto per nove giorni per il transito di combustibile importato dall’Egitto e destinato alla Centrale Elettrica Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Per alcuni abitanti di Gaza che necessitano di cure mediche, l’attesa per un permesso di uscita porta alla morte

Amira Hass

4 dicembre 2017 Haaretz

Yara Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo

A gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.

Le venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove, così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.

Gli esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin Bet.

La madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento, modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.

Questa volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le due persone partirono per Gerusalemme.

La bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere, rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.

Yara tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.

Una settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20 luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì all’ospedale europeo il 13 luglio.

Yara è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.

I pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.

E’ difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.

Peggioramento negli ultimi quattro anni.

A giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951 richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone ultrasessantenni.

A settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre 60 anni.

E’ stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9 novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.

La percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre 2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un totale di quasi 20.000 richieste.

“Ragioni di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Lo Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas, sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.

“Lo scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico, all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente destinato ad un attacco di Hamas in Israele.

“Dato il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza. Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”

Circa il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.

Una di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24 ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento, questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.

Un altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata, oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?

Nella sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.

Huwaida, di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre, dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24 settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in ansia per il timore di un’altra delusione.

Lo Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua richiesta.”

Delusione il giorno prima

Aya Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.

La condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il 27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché lei morì.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.

Un attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di permesso erano “in fase di valutazione”.

Ma, secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure mediche.”

Il 29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità (israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche disponibili a Gaza non sono adeguate.

Negli ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.

Nella loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”, hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo per la sofferenza dei pazienti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)