La mossa con cui Israele e USA immobilizzano la Palestina.

Rashid Khalidi

The Nation, 5 giugno 2017

L’occupazione israeliana è possibile solo grazie al sostegno incondizionato degli USA, ma il giorno del giudizio si avvicina.

In questo 50° anniversario della più lunga occupazione militare della storia moderna, c’è chi festeggia. È del tutto appropriato che questi festeggiamenti includano una sessione congiunta del Congresso americano con la Knesset israeliana, mediante una connessione video. È appropriato perché il controllo israeliano su Gerusalemme Est, sulla Cisgiordania, sulla Striscia di Gaza e sulle alture del Golan è possibile soltanto grazie al continuo sostegno ricevuto dagli USA a partire dal giugno 1967 e proseguito fino ad oggi. Questa quindi non è solo un’occupazione israeliana. In effetti, fin dall’inizio è stata un’impresa congiunta, un condominio israelo-americano, per così dire. Anche se le varie forme di violenza necessarie per mantenere un controllo straniero su quasi 5 milioni di persone sono state gestite interamente da Israele, il peso dell’operazione in termini di soldi, armi e diplomazia è stato sostenuto soprattutto dall’America.

Fino a che punto il sostegno americano sia la condizione sine qua non di questa cinquantennale occupazione si può vedere dalla differenza tra il modo in cui le conquiste di Israele del 1967 sono state trattate dall’amministrazione Johnson e successive, e il modo in cui il presidente Eisenhower reagì alle conquiste della guerra del 1956. In quest’ultimo caso, la reazione USA fu inequivocabile ed energica: pochi giorni dopo l’attacco israelo-anglo-francese all’Egitto, Washington fece approvare una risoluzione ONU che chiedeva l’incondizionato e immediato ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza e dal Sinai che aveva occupato. Sotto la forte pressione americana, Israele ubbidì a denti stretti nel giro di sei mesi.

Io stesso, quando avevo 18 anni, il 9 giugno 1967 fui testimone di un episodio che indicava quanto erano cambiate le cose dal 1956. Nel quarto giorno della guerra, ero seduto nella tribuna del pubblico al Consiglio di Sicurezza (mio padre lavorava per il Segretariato ONU e io ero a casa dopo il college). Vidi l’ambasciatore americano Arthur Goldberg fare ostruzionismo per ore, per impedire che il Consiglio obbligasse Israele a interrompere quella che sembrava un’avanzata inesorabile verso Damasco. Malgrado successive risoluzioni per una tregua del Consiglio di Sicurezza, e grazie al tacito sostegno degli USA, quell’avanzata non si fermò fino al giorno successivo.

Ma il peggio doveva ancora venire. Mentre nel 1956 passarono solo alcuni giorni prima che l’ONU intervenisse, ci vollero ben cinque mesi perché fosse approvata una risoluzione sulla guerra del 1967. E quando ciò avvenne, il 22 novembre 1967, la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza si ispirava essenzialmente ai desiderata di Israele, con l’indispensabile appoggio degli Stati Uniti. La risoluzione 242 non era affatto categorica, anzi: il ritiro di Israele dalle zone appena conquistate era subordinato al raggiungimento di confini “sicuri,” termine che si è dimostrato infinitamente flessibile nel vocabolario israeliano. Questa flessibilità ha permesso 50 anni di ritardo per quanto riguarda i territori occupati di Palestina e Siria. In aggiunta, nella sua versione inglese, la 242 non chiedeva il ritiro da tutta la terra presa nella guerra di giugno, ma solo “da territori occupati” durante il conflitto. Col largo sostegno americano, Israele è riuscita a far passare carrozza e cavalli attraverso quello che sembrava un piccolo varco.

Altre frasi della 242, come il passaggio che sottolinea “l’inammissibilità di acquisire territori con la guerra,” sembrano messe lì per bilanciare quelle importanti concessioni fatte alla posizione di Israele. Tuttavia, quali siano le parti veramente importanti della 242 è indicato da quella sessione congiunta del Congresso e della Knesset a cui accennavo, al culmine di 50 anni di accondiscendenza americana rispetto a un’occupazione che in pratica è coperta dai soldi, dalle armi e dall’appoggio diplomatico americano. Tra l’altro, questa è un’occupazione di cui il governo israeliano nega l’esistenza, e che il presidente americano non ha ritenuto degna di essere ricordata neanche una volta col suo nome durante la sua recente visita in Palestina e Israele.

Val la pena ricordare un altro punto cruciale della 242. All’inizio, il conflitto in Palestina era di tipo coloniale, tra la maggioranza palestinese indigena e il movimento sionista che cercava di ottenere la sovranità nel paese alle spese –e, alla fine, al posto– di quella maggioranza. La natura di questo conflitto era stata in parte riconosciuta dalla risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina in uno stato ebraico e uno arabo. Il primo avrebbe dovuto essere più grande del secondo, anche se a quel momento la proprietà ebraica di terra era meno del 7% del totale e gli arabi costituivano il 65% della popolazione e, in via di principio, avevano pieno diritto all’autodeterminazione in tutto il territorio di quello che giustamente consideravano ancora il loro paese.

La risoluzione 242 rappresentò un regresso anche rispetto al livello di bassa marea in cui si trovavano i palestinesi. Nel testo della risoluzione del 1967 non sono nominati né i palestinesi né il loro diritto a uno stato e al ritorno nelle loro case e nelle loro terre, cose che invece erano state confermate in precedenti risoluzioni, tutte appoggiate dagli Stati Uniti. C’è solo un blando riferimento a “una giusta soluzione del problema dei rifugiati.”

Ignorare arrogantemente la popolazione indigena, i suoi diritti e i suoi interessi è in effetti una tipica mossa coloniale, ed è quella che ha aperto la strada all’impresa israeliana d’insediamento coloniale che ha prosperato per 50 anni nei territori occupati. Va da sé che questo è avvenuto col pieno appoggio degli USA, anche se accompagnato da tiepide critiche. Il ministro degli esteri britannico Lord Balfour si era cimentato nella stessa manovra un secolo fa, non menzionando mai le parole ‘palestinese’ o ‘arabo’ nella sua famosa dichiarazione del 2 novembre 1917 in cui prometteva l’appoggio britannico per una “casa nazione” in una Palestina che all’epoca aveva una maggioranza araba del 94%.

Ignorando allo stesso modo i palestinesi e concedendo a Israele quello che voleva, la risoluzione 242 rappresentava così una rivoluzione diplomatica che era totalmente favorevole alla superpotenza regionale che si era appena ingrandita. Questa risoluzione, stilata dall’ambasciatore britannico Lord Carandon –che ripeteva il copione britannico di non prendere in considerazione i palestinesi– e fatta approvare dagli Stati Uniti, è diventata il banco di prova per la pace arabo-israeliana. Vista la sua origine perversa, non sorprende che questa mal concepita risoluzione non ha prodotto pace, ma è stata invece la foglia di fico per una interminabile occupazione militare delle terre di Siria e Palestina.

La scena a cui ho assistito il 9 giugno 1967 al Consiglio di Sicurezza era solo un indizio della grande svolta promossa dal presidente Johnson e dai suoi consiglieri entusiasti di Israele, tra cui Clark Clifford (che era stato determinante nel consigliare al presidente Truman di sostenere Israele nel 1947 e 1948), Arthur Goldberg, McGeorge Bundy, Abe Fortas, e i fratelli Walt ed Eugene Rostow. Costoro, insieme ad altri, avevano fatto in modo che, prima della guerra di giugno 1967, Israele ricevesse il preliminare via libera americano per sferrare il primo colpo contro gli eserciti arabi, cosa che non era stata fatta al tempo dell’avventura israeliana di Suez messa in atto nel 1956 insieme a Francia e Gran Bretagna. Alcuni di questi consiglieri ebbero un ruolo nella trattativa di quella che divenne la risoluzione 242.

Nel 1967 Israele aveva già cominciato a ricevere alcune consegne di armi americane, anche se vinse la guerra di quell’anno soprattutto con armi francesi e britanniche, così come aveva fatto nel 1956. All’indomani della sua schiacciante vittoria del 1967, Israele divenne un importante alleato nella Guerra Fredda, iniziando un rapporto molto più stretto con gli Stati Uniti e contro gli stati arabi che erano allineati con l’Unione Sovietica. Col passare del tempo, questa alleanza con Israele è diventata più stretta di quella con qualunque altra nazione; infatti l’aiuto militare è salito a più di 1 miliardo di dollari all’anno dopo il 1973, e a più di 4 miliardi annui oggi (e questo aiuto va a un paese relativamente ricco, con un reddito annuo pro capite di quasi 35.000 dollari). Dal 1967 Israele è stato coccolato dagli Stati Uniti, sia che le sue azioni aiutassero gli interessi USA sia che li danneggiassero. Questa intimità è arrivata al punto che esponenti politici di ambedue le parti competono uno con l’altro nel proclamare che non lasceranno “nemmeno uno spiraglio” tra le posizioni dei due paesi.

Nonostante le esaltazioni di questa unità di vedute tra dirigenti americani e israeliani per quanto riguarda il sostegno all’ininterrotto processo di occupazione e colonizzazione della Palestina, il giorno del giudizio si avvicina. Ce ne sono avvisaglie da tutte le parti. Intanto, il partito democratico è spaccato tra i dirigenti della vecchia guardia che sono ciecamente pro-israeliani e una base più giovane e più aperta che è in grado di vedere cosa sta veramente accadendo in Palestina. La risoluzione approvata il 21 maggio dal partito democratico della California è un segno dei tempi. Questa risoluzione condanna l’incapacità degli ultimi governi di ”fare passi concreti per cambiare lo status quo e dar luogo a un vero processo di pace”, al di là di qualche blanda critica all’occupazione. E continua disapprovando “gli insediamenti illegali nei territori occupati” e chiedendo una “giusta pace basata sulla piena eguaglianza e sicurezza sia per gli ebrei che per i palestinesi,” oltre ad “autodeterminazione, diritti civili, e benessere economico per il popolo palestinese.”

Cinquanta anni dopo l’euforia che in Israele e a Washington accompagnò l’inizio dell’occupazione, la nascita di un nuovo stato d’animo si può avvertire nei campus universitari, tra i più giovani –tra cui molti ebrei americani– le minoranze, alcune chiese, sinagoghe, associazioni accademiche, sindacati e la base del partito democratico. C’è naturalmente una potente e ben finanziata controffensiva verso questo risveglio, che ha connessioni con l’amministrazione Trump e con la dirigenza del partito democratico ed è riecheggiata dalla gran parte dei principali media. La si riconosce al colmo dell’isteria nei suoi tentativi di soffocare in molti stati il dibattito con mozioni anti-BDS (19 delle quali già convertite in legge), così come nel bando israeliano all’ingresso nel paese di sostenitori del BDS e alle leggi contro gli israeliani che appoggiano il BDS.

Ma anche se queste misure possono avere qualche effetto, non possono alla lunga sopprimere il disgusto che le politiche di Israele hanno prodotto in tanti americani e tanti cittadini di altri paesi. Il sostegno dall’esterno è stato sempre un elemento cruciale nella contesa sulla Palestina. Nei primi decenni dopo la dichiarazione Balfour, l’impresa sionista non avrebbe potuto imporsi senza l’aiuto determinante della Gran Bretagna. Allo stesso modo, Israele non avrebbe potuto mantenere per 50 anni la sua occupazione senza il supporto americano. La reazione quasi isterica alla crescita nel mondo di critiche all’occupazione militare israeliana di terre arabe e alla sua impresa coloniale, mostra che i leader israeliani e i loro sostenitori americani sono perfettamente consapevoli di queste nuove realtà. La tragedia è che ci son voluti quasi 70 anni dalla guerra del 1948 e 50 anni dal 1967 per arrivare a questo punto, che è solo l’inizio del cammino verso la piena uguaglianza, l’autodeterminazione, i diritti civili, la sicurezza e il benessere economico sia per gli ebrei israeliani che per i palestinesi.

Rashid Khalidi, “Edward Said Professor” di Studi Arabi alla Columbia University, è autore del recente Brokers of Deceit: How the U.S. Has Undermined Peace in the Middle East.

https://www.thenation.com/article/israeli-american-hammer-lock-palestine/

www.assopacepalestina.org

Traduzione di Donato Cioli




Seguire il percorso della causa palestinese a partire dal 1967

Nadia Hijab, Mouin Rabbani, 5 giugno 2017 Al-Shabaka

Guardando al passato

Alla vigilia del 5 giugno 1967 i palestinesi erano dispersi tra Israele, la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est) governata dalla Giordania, la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto e le comunità di rifugiati in Giordania, Siria, Libano e altri Paesi più lontani.

Le loro aspirazioni di salvezza ed autodeterminazione poggiavano sugli impegni dei leader arabi a “liberare la Palestina” – che all’epoca si riferiva a quelle parti della Palestina mandataria che erano diventate Israele nel 1948 – e soprattutto sul carismatico leader egiziano Gamal Abdel-Nasser.

La Guerra dei Sei Giorni, che portò all’occupazione israeliana dei territori palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, delle alture del Golan siriane e della penisola del Sinai egiziana, apportò drastiche modifiche alla geografia del conflitto. Produsse anche un profondo cambiamento nella politica palestinese. Con una netta rottura rispetto ai decenni precedenti, i palestinesi divennero padroni del proprio destino invece che spettatori di decisioni regionali ed internazionali che influivano sulle loro vite e determinavano la loro sorte.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che era stata fondata nel 1964 sotto l’egida della Lega Araba nel suo primo incontro al vertice, nel 1968-69 fu surclassata dai gruppi guerriglieri palestinesi che si erano sviluppati clandestinamente dagli anni ’50, con a capo Fatah (il movimento nazionale di liberazione palestinese). La sconfitta araba del 1967 determinò un vuoto in cui i palestinesi riuscirono a ristabilire l’egemonia sulla questione della Palestina, a trasformare le componenti disperse della popolazione palestinese in un popolo unito e in un soggetto politico ed a porre la causa palestinese al centro del conflitto arabo-israeliano.

Questo, che è stato forse il più importante risultato dell’OLP, ha tenuto alto lo spirito della richiesta palestinese di autodeterminazione, nonostante la miriade di ferite inferte da Israele e da alcuni Stati arabi – e nonostante quelle autoinflitte. Le sconfitte subite dall’OLP sono state molte, anche se è riuscita a porre la questione palestinese ai primi posti dell’agenda internazionale. Vale la pena ripercorrere i successi e le sconfitte dell’OLP per comprendere in che modo il movimento nazionale palestinese è arrivato alla situazione attuale.

La prima vittoria dell’OLP ha anche gettato i semi di una sconfitta. La battaglia di Karameh del 1968 nella Valle del Giordano, in cui i guerriglieri e l’esercito giordano respinsero un corpo di spedizione israeliano molto più potente, guadagnò al movimento molti aderenti palestinesi ed arabi, sia rifugiati, sia guerriglieri, sia uomini d’affari di tutto lo spettro politico. Al tempo stesso, l’implicita minaccia alla monarchia hashemita era evidente e le relazioni palestinesi con la Giordania peggiorarono fino a che l’OLP venne espulso dalla Giordania durante il ‘settembre nero’ del 1970. Questo in pratica ha significato che l’OLP non ebbe più una potenzialità militare credibile contro Israele, ammesso che l’abbia mai avuta. Anche se i palestinesi avrebbero mantenuto un’estesa presenza militare in Libano fino al 1982, si trattava di una misera alternativa alla più lunga frontiera araba con la Palestina storica.

Durante la guerra dell’ottobre 1973, l’Egitto e la Siria ottennero parziali vittorie contro Israele, ma subirono anche gravi sconfitte, dimostrando che anche gli Stati arabi avevano solo limitate possibilità contro Israele. Al tempo stesso, il movimento nazionale palestinese raggiunse il suo culmine a livello internazionale con il discorso del defunto leader palestinese Yasser Arafat all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974, con il riconoscimento da quel momento dell’OLP come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. In quello stesso anno l’OLP iniziò anche a porre le basi per una soluzione di due Stati quando il suo parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, adottò un piano in 10 punti per istituire una “autorità nazionale” in ogni parte della Palestina che era stata liberata.

Il processo fu necessariamente dolorosamente lento, in quanto condusse la maggioranza dei palestinesi a riconoscere che un eventuale Stato palestinese non sarebbe stato stabilito sulla totalità dei territori del precedente mandato britannico. Dal 1974, l’accettazione del dato di fatto di Israele come Stato e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sarebbe progressivamente diventato l’obiettivo del movimento nazionale palestinese.

La visita a Gerusalemme dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat nel 1977, che condusse agli Accordi di Camp David del 1979 e al ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, completato nell’aprile del 1982, aprì la strada all’invasione israeliana del Libano nello stesso anno. Il principale obiettivo di Israele era estromettere l’OLP dal Paese e consolidare l’occupazione permanente dei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Con l’uscita dal conflitto del più potente degli Stati arabi, la capacità dell’OLP di ottenere una soluzione di due Stati fu gravemente compromessa ed il conflitto arabo-israeliano si trasformò gradualmente in un conflitto iasraelo-palestinese, molto più conveniente per Israele.

Mentre l’OLP cercava di riunificarsi in Tunisia ed in altri Paesi arabi, nei TPO ebbe luogo una delle più grandi sfide ad Israele, con lo scoppio della prima Intifada nel dicembre 1987, in gran parte guidata da una leadership cresciuta all’interno [della Palestina]. Ciò riportò in auge l’opzione di contrastare in modo vincente Israele sulla base di una mobilitazione di massa non violenta in dimensioni che non si vedevano più dalla fine degli anni ’30.

Tuttavia l’OLP si dimostrò incapace di capitalizzare il successo locale e globale della prima Intifada. Alla fine, la dirigenza dell’OLP in esilio mise i propri interessi, soprattutto l’ambizione di ottenere l’ appoggio dell’Occidente, ed in particolare dell’America, al di sopra dei diritti nazionali del popolo palestinese, espressi nella Dichiarazione di Indipendenza adottata nel 1988 ad Algeri.

Queste contraddizioni divennero palesi nel 1992-93, quando la dirigenza palestinese dovette scegliere se appoggiare la posizione negoziale della delegazione palestinese a Washington, che insisteva su una moratoria totale delle attività di colonizzazione israeliane [in Cisgiordania] come precondizione per accordi transitori di autogoverno, oppure condurre negoziati segreti con Israele che concessero molto meno, ma la riportarono ad una posizione di rilievo internazionale sulla scia del conflitto del Kuwait del 1990-91. In seguito agli accordi di Oslo del 1993, l’OLP riconobbe Israele e il suo “diritto ad esistere in pace e sicurezza”, nel contesto di un documento che non menzionava né l’occupazione, né l’autodeterminazione, né l’esistenza di uno Stato, o il diritto al ritorno. Prevedibilmente, i decenni seguenti hanno visto un’accelerazione esponenziale del colonialismo di insediamento israeliano e l’effettiva vanificazione delle intese per l’autonomia previste in vari accordi israelo-palestinesi.

Guardando avanti

Sotto alcuni aspetti, oggi la situazione è tornata al punto di partenza del 1967. Il movimento nazionale palestinese complessivamente unitario che è stato egemone dagli anni ’60 agli anni ’90 si è disintegrato, forse in modo definitivo. Oggi è diviso tra Fatah e Hamas, con quest’ultimo, insieme alla Jihad islamica, escluso dall’OLP, mentre dilagano le divisioni all’interno di Fatah e dell’OLP. I palestinesi a Gaza soffrono tremendamente sotto un assedio israeliano decennale, che sta peggiorando a causa delle pressioni su Hamas da parte dell’ANP e di Israele. I palestinesi nei campi profughi in Siria e in Libano stanno patendo terribilmente per la guerra civile in Siria e la precedente frammentazione dell’Iraq, ed anche per i conflitti tra differenti gruppi all’interno dei campi.

Quanto ad Israele, il 1967 lo ha trasformato da Stato della regione a potenza regionale. E’ impaziente di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo arabo, usando l’Iran come spauracchio per alimentare questa relazione. A sua volta, vuole usare tale alleanza per imporre un accordo ai palestinesi che di fatto perpetuerebbe il dominio israeliano, ottenendo un trattato di pace finale in cui manterrebbe il controllo della sicurezza nei TPO, conserverebbe le sue colonie e continuerebbe la colonizzazione.

Ma sul percorso di Israele verso la legittimazione dell’occupazione continuano a sussistere ostacoli, che mantengono aperta la porta ad un movimento e ad una strategia palestinesi per ottenere diritti e giustizia. Non è cosa da poco il fatto che, in un lasso di tempo di mezzo secolo, nessuno Stato abbia formalmente approvato l’occupazione israeliana del territorio palestinese – o siriano. Se da un lato i governi europei, ad esempio, hanno temuto che facendolo avrebbero compromesso i loro rapporti con altri Paesi della regione, dall’altro sono anche tra i più impegnati a sostenere un ordine internazionale basato sulle leggi; il ricordo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale non è stato cancellato. Essi quindi non possono riconoscere l’occupazione israeliana, anche se non sono stati in grado di sfidare Israele negli stessi termini con cui hanno affrontato l’occupazione russa della Crimea.

Inoltre l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, poco dopo che lo scorso anno il Regno Unito ha votato per abbandonare l’Unione Europea, rafforza la determinazione dell’Unione Europea a consolidare il proprio potere economico e politico e a ridurre la dipendenza dagli USA per la difesa. Questo offre ai palestinesi un’opportunità per appoggiare le modeste misure europee, come il divieto di finanziare la ricerca delle imprese delle colonie israeliane e l’etichettatura dei prodotti delle colonie, e per promuovere la distinzione tra Israele e la sua impresa coloniale, per usare le parole della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di dicembre 2016.

Israele sta incontrando resistenza anche in situazioni inaspettate. Mentre il movimento nazionale palestinese si è indebolito, il movimento globale di solidarietà con la Palestina, compreso il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), lanciato nel 2005, è cresciuto rapidamente, soprattutto in seguito ai ripetuti attacchi israeliani alla Striscia di Gaza. Questo contrasta con la situazione negli anni ’70 e ’80, quando l’opinione pubblica occidentale tendenzialmente dava un ampio sostegno ad Israele. Israele sta reagendo ferocemente contro questo movimento, assimilando le critiche ad Israele con l’antisemitismo e istigando i legislatori negli USA ed in Europa a vietare le iniziative di boicottaggio. Tuttavia finora non è riuscito a soffocare il dibattito o a impedire alle chiese e ai gruppi studenteschi in tutti gli USA di sostenere attività di solidarietà con il popolo palestinese.

L’opposizione di Israele è anche indebolita in conseguenza di una terza tendenza che è interamente autoprodotta. Il fatto che sia riuscito a violare impunemente il diritto internazionale con la sua occupazione dei territori palestinesi, così come con i propri cittadini palestinesi, lo sta portando a strafare. Persino la determinazione di Trump a “fare un accordo” che consegnerebbe sicuramente ad Israele vaste porzioni della terra palestinese ed il controllo permanente sulla sicurezza, probabilmente si scontrerà con il sempre più potente movimento di destra [israeliano], che respinge per principio ogni concessione ai palestinesi.

Certo, la crescente ondata di quella che può solo essere definita come legislazione razzista sta palesando non solo le sue azioni attuali, ma anche quelle del periodo precedente e immediatamente successivo al 1948. Per esempio, per citarne solo alcune, la legge sulla cittadinanza e sulla famiglia, prorogata ogni anno dal 2003, nega ai cittadini palestinesi di Israele il diritto a sposare palestinesi dei territori occupati e di parecchi altri Paesi; la continua distruzione di villaggi palestinesi all’interno di Israele, come anche in Cisgiordania; la legge che legalizza retroattivamente il furto di terre private palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò rende impossibile immaginare che Israele accetti valori sia universali che “occidentali”, quali lo stato di diritto e l’uguaglianza.

Un utile indicatore di questo disvelamento è il rapido aumento di ebrei non israeliani che si allontanano sempre più da Israele, comprese associazioni come ‘Jewish Voice for Peace’. Quando prendono la parola, le rituali accuse di antisemitismo sono facilmente confutate ed essi legittimano altri a prendere posizioni simili.

Un altro ambito in cui Israele ha esagerato è stato fare del sostegno ad esso una questione di parte. Dal momento che il partito repubblicano [americano] assicura che non ci sono problemi tra sé ed Israele, l’opinione tra le fila del partito democratico si sposta stabilmente a favore dei diritti dei palestinesi ed i rappresentanti democratici sono lentamente sempre più incoraggiati ad alzare la voce.

Queste tendenze di lungo termine contrarie alle violazioni israeliane delle leggi internazionali non possono di per sé salvaguardare i diritti dei palestinesi. Il passaggio dall’egemonia araba sulla questione della Palestina all’egemonia palestinese alla fin fine ha prodotto il disastro di Oslo. Ciò che è necessario è una formula che unisca la mobilitazione palestinese in patria e all’estero con una strategia araba per conseguire l’autodeterminazione. E, benché gli sforzi per trasformare l’OLP in un reale rappresentante nazionale [del popolo palestinese] siano finora falliti, esistono modi per fare pressione su componenti dell’OLP che ancora funzionano – per esempio, in Paesi dove dei settori di rappresentanza diplomatica palestinese sono tuttora efficienti – allo scopo di rilanciare il programma e la strategia nazionali.

Oggi i palestinesi si trovano senza dubbio nella peggiore situazione che abbiano vissuto a partire dal 1948. Eppure, se mobilitano le risorse che hanno a disposizione – anzitutto e soprattutto il proprio popolo ed il crescente bacino di consenso mondiale nei confronti dei loro diritti e della loro libertà – possono ancora elaborare e mettere in atto con successo una strategia per garantirsi il loro posto al sole.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di ‘Al-Shabaka: the Palestinian policy network’, che ha co-fondato nel 2009. E’ spesso relatrice di conferenze e commentatrice sui media ed è ricercatrice presso l’Istituto di Studi sulla Palestina. Il suo primo libro, Womanpower: the arab debate on women at work [Manodopera femminile: il dibattito arabo sul lavoro delle donne] , è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è inoltre co-autrice di Citizens apart: a portrait of the palestinian citizens of Israel [Cittadini messi da parte: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

Mouin Rabbani

Il consulente politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato nella questione palestinese e nel conflitto arabo-israeliano. E’ ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina ed è tra i redattori del Middle East Report. I suoi articoli sono usciti anche su The National ed ha scritto articoli di commento per il New York Times.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente, neutrale e non-profit, il cui obiettivo è educare e favorire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Oltre il binomio: due Stati, uno Stato, Stato fallito, nessuno Stato

Al Shabaka

 Amal Ahmad – 30 maggio 2017

Benché la comunità internazionale abbia accolto la soluzione dei due Stati fin dall’inizio degli anni ’90, è diventato evidente che la frammentazione del popolo e del territorio palestinesi da parte di Israele durante gli scorsi 50 anni è intesa a rendere impossibile uno Stato palestinese sovrano.

Mentre i politici spiegano questo fatto come il risultato di incomprensioni o opportunità non colte dalle due parti, la spiegazione corretta è che, nei fatti, Israele non vuole i due Stati. Questa conclusione comprometterebbe il suo obiettivo di mantenere diritti privilegiati per gli ebrei israeliani nel territorio sotto il suo controllo. Molti progressisti ora sostengono che uno Stato con pari diritti per tutti sia la logica alternativa. Mentre un simile Stato binazionale potrebbe essere giusto, è altamente improbabile, soprattutto a breve e medio termine.

E’ più probabile un certo numero di alternative più ciniche:

  • Come ha sottolineato l’analista di Al-Shabaka Asem Khalil, un prolungato e intensificato status quo vedrebbe la costante gestione da parte di Israele di un’entità palestinese non sovrana e dipendente in Cisgiordania. Una soluzione provvisoria per Gaza potrebbe essere raggiunta con l’Egitto, con una limitata possibilità di movimento di beni e persone. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rimarrebbe un’élite di intermediari per la popolazione palestinese, e la mancanza di possibilità finanziarie e per lo sviluppo dell’entità palestinese contribuirebbe a renderla uno Stato fallito.

  • Come mostra la mia analisi, con il tempo questo scenario potrebbe diventare più radicato istituzionalmente attraverso una soluzione permanente del non-Stato, in base alla quale Israele controllerebbe per sempre i palestinesi assegnando qualche settore di governo a un’autorità locale non sovrana.

  • Un risultato simile coinvolgerebbe tre Stati, che comprendono Israele, un mini-Stato demilitarizzato nella Striscia di Gaza tenuto sotto controllo dall’Egitto e uno “Stato della Cisgiordania” (dei coloni).

Il caos potenziale del periodo successivo ad Abbas amplifica la plausibilità di questi scenari. Ogni lotta violenta per il potere all’interno di Fatah porterebbe ad un’ulteriore frammentazione e potenzierebbe la capacità di Israele di promuovere la costituzione di uno Stato a Gaza per i palestinesi, rafforzando al contempo la sua presenza in Cisgiordania. Se l’ANP dovesse collassare, un’ondata di emigrazione verso la costa est [del Giordano, cioè in Giordania, ndtr.] potrebbe ulteriormente incentivare la possibilità di questo esito.

Raccomandazioni di politica

1. Chi si occupa seriamente di una soluzione del conflitto israelo-palestinese deve superare il binomio uno o due Stati e discutere le implicazioni di una soluzione del non-Stato per l’autodeterminazione dei palestinesi.

2. I palestinesi devono comprendere la possibilità che lo status quo diventi un’erosione permanente dei loro diritti in assenza di strategie di resistenza che abbiano successo.

3. La comunità internazionale deve abbandonare l’assunto che lo status quo è un periodo di transizione successivo ad Oslo, oltre che l’approccio “aspettiamo e vediamo”. Deve ammettere il fallimento della sua politica e fissare meccanismi di controllo, anche riguardanti le violazioni delle leggi internazionali che minacciano di fossilizzare la situazione di apartheid.

Amal Ahmad, che fa parte di Al-Shabaka, è un economista e ricercatrice palestinese. Amal è stata stagista presso l’Istituto Palestinese di Ricerche Economiche a Ramallah prima di terminare un master in economia dello sviluppo presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra. Il suo lavoro si concentra sui rapporti fiscali e monetari tra Israele e Palestina. E’ anche interessata all’economia politica dello sviluppo in Medio Oriente in generale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 16 – 29 maggio 2017 (due settimane)

A quanto riferito, la crisi elettrica di Gaza si è aggravata in seguito all’annuncio, da parte delle Autorità palestinesi di Ramallah, di una riduzione dei finanziamenti per l’acquisto di energia elettrica da Israele[e destinata alla Striscia di Gaza].

Se l’annuncio verrà confermato, aumenterebbero ulteriormente i tagli di corrente programmati, portandoli dalle attuali 18-20 ore/giorno ad oltre 22 ore/giorno. Nel frattempo la Centrale elettrica di Gaza, chiusa il 16 aprile dopo aver esaurito le proprie riserve di carburante, è rimasta ferma. Il Ministero della Salute di Gaza ha annunciato che attualmente, a causa del peggioramento della crisi elettrica e della crescente carenza di forniture mediche, almeno un terzo degli interventi chirurgici viene rinviato. Inoltre, durante la prossima estate, a causa della mancanza di energia elettrica e/o di combustibile per l’irrigazione, si prevede che Gaza soffrirà la carenza di prodotti alimentari di prima necessità, con conseguente forte aumento dei prezzi di alcuni prodotti. Questa situazione continua a compromettere la fornitura di servizi essenziali, già ora operanti a livelli minimi ed affidati al funzionamento di generatori elettrici di emergenza.

Il 25 maggio, nella Striscia di Gaza, le autorità di Hamas hanno giustiziato tre uomini condannati da uno speciale “tribunale militare di campo” per il coinvolgimento nell’omicidio, avvenuto il 24 marzo 2017, di un autorevole membro di Hamas, ed accusati inoltre di “collaborazione con un partito nemico”. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha fermamente condannato le esecuzioni capitali ed ha dichiarato che esse costituiscono una “privazione arbitraria della vita”.

Due aggressioni e presunte aggressioni palestinesi hanno provocato l’uccisione di due sospetti aggressori, uno dei quali minorenne, e il ferimento di un poliziotto israeliano. Il 22 maggio, ad un checkpoint a sud-est di Gerusalemme (“il Container”), le forze israeliane hanno colpito e ucciso un ragazzo palestinese di 15 anni, presumibilmente dopo che questi aveva tentato di aggredire con un coltello un poliziotto di frontiera che non ha riportato ferite. Il 23 maggio, nella città di Netanya (Israele), un 45enne palestinese ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano ed è stato successivamente colpito e ferito: è morto due giorni dopo per le ferite riportate. Inoltre, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una ragazza 14enne è stata arrestata per la presunta detenzione di un coltello.

Una ragazza palestinese di 16 anni è morta per le ferite da arma da fuoco riportate il 15 marzo, quando guidò l’auto contro una fermata dell’autobus dei coloni, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron). Questo porta a 18, otto dei quali minorenni, il numero di palestinesi uccisi nel 2017 in Cisgiordania dalle forze israeliane nel contesto di scontri e di aggressioni e presunte aggressioni.

Il 18 maggio, un palestinese di 21 anni è stato colpito con arma da fuoco e ucciso da un colono israeliano che ha anche ferito un altro palestinese. L’episodio si è verificato in un tratto della strada 60 che attraversa l’abitato del villaggio di Huwwara (Nablus), durante una manifestazione in solidarietà con i detenuti palestinesi. Una ripresa video mostra il colono che investe i dimostranti che bloccavano il suo veicolo, dopo di che i palestinesi lanciano pietre contro il veicolo e il colono apre il fuoco. La polizia israeliana ha annunciato che su questo caso non sarà aperta alcuna inchiesta. Un giorno prima, sulla strada 60 nei pressi del villaggio di Silwad (Ramallah), in circostanze simili, un altro giovane palestinese era stato colpito e ferito da un colono israeliano.

Dopo l’episodio verificatosi a Huwwara [vedi sopra], coloni dell’insediamento di Yitzhar hanno incendiato 250 ulivi e un bulldozer, hanno fisicamente aggredito un pastore palestinese e hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi, danneggiandone almeno quattro. Negli ultimi anni, le fonti di sostentamento e la sicurezza di circa 20.000 palestinesi che vivono in sei villaggi circostanti l’insediamento di Yitzhar (Burin, Urif, Huwwara, Madama, Asira al Qibliye e Ein Abus) sono stati resi precari a causa della violenza e delle intimidazioni dei coloni.

Secondo i resoconti dei media israeliani, sei coloni israeliani sono stati feriti e almeno 16 veicoli sono stati danneggiati in diversi casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

293 palestinesi, di cui 54 minori, sono stati feriti nei territori palestinesi occupati durante scontri con le forze israeliane, in prevalenza durante le dimostrazioni in solidarietà con i detenuti palestinesi in sciopero della fame. Lo sciopero, condotto per richiedere migliorie delle condizioni di carcerazione e delle modalità delle visite dei familiari, è terminato il 27 maggio, dopo 40 giorni. Almeno 33 delle lesioni (11%) sono state causate da arma da fuoco, mentre la maggior parte delle rimanenti è stata causata da inalazione di gas lacrimogeno (quasi il 50%) e da proiettili di gomma (quasi il 30%).

Nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, palestinesi e forze israeliane si sono scontrati con conseguente ferimento di 16 palestinesi. Altri due palestinesi, presenti nell’Area ad Accesso Riservato (ARA) che costeggia la recinzione, sono stati colpiti e feriti. Durante il periodo di riferimento, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in 27 casi.

In occasione del mese musulmano del Ramadan, iniziato il 27 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Il provvedimento prevede il rilascio, per i palestinesi, di circa 200.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est ed in Israele, senza limiti di età e senza bisogno di una carta magnetica. Nei venerdì e nel Laylat al-Qadr [la “Notte del Destino”, una notte fra le ultime dieci del Ramadan, nella quale Allah decide il destino di tutti per l’anno nuovo] uomini di età superiore a 40 anni, bambini di età inferiore a 12 anni e donne di ogni età saranno autorizzati ad entrare in Gerusalemme Est senza permesso. Ai principali checkpoint che controllano l’accesso a Gerusalemme Est verranno adottati orari di apertura più ampi e restrizioni attenuate; ai titolari di documenti di identificazione della Cisgiordania saranno rilasciati 500 permessi per l’aeroporto “Ben Gurion”. Per quanto riguarda i residenti di Gaza, durante il Ramadan, per le preghiere del venerdì, saranno rilasciati fino a 100 permessi di ingresso in Gerusalemme Est a persone di età superiore a 55 anni, e fino a 300 permessi a “gruppi speciali”.

Continua il calo delle demolizioni e delle confische nell’Area C ed in Gerusalemme Est. Registrato un solo caso nella zona di Beit Hanina, a Gerusalemme Est: per mancanza del permesso di costruzione rilasciato da Israele, una famiglia palestinese è stata costretta a demolire un ampliamento della propria casa; sono stati sfollati tre minori e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di altre tre.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni durante l’intero periodo di riferimento. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato ultimamente aperto eccezionalmente il 9 maggio, portando a 16 il numero di giorni di apertura nel 2017.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una nuova realtà sotterranea sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza e Israele

Amos Harel, 15 maggio 2017, Haaretz

L’aumentata pressione da parte di Abbas potrebbe spingere Hamas a cercare di compiere un’incursione oltre frontiera. La massiccia barriera israeliana anti-tunnel provoca il fatto che Hamas abbia aumentato i posti di vedetta – cosa non necessariamente negativa.

Nelle ultime settimane il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha progressivamente incrementato la pressione sul governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Le misure punitive si sono susseguite: interruzione del pagamento della tassa sul combustibile importato, taglio di un terzo dei salari di 45.000 impiegati statali a Gaza che sono ancora pagati dall’ANP, interruzione dei pagamenti per l’elettricità di Gaza proveniente da Israele.

I funzionari israeliani della Difesa hanno ancora difficoltà a spiegare il cambiamento di approccio da parte di Abbas, visto che nell’ultimo decennio, fin da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, non ha mai affrontato direttamente l’organizzazione. L’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon nel 2003 disse di Abbas: “Il pulcino non ha ancora messo le piume”. Ma adesso che il pulcino ha compiuto 82 anni, qualcosa evidentemente è cambiato.

Una possibile spiegazione è che Abbas pensi che Hamas alla fine si troverà di fronte a una rivolta interna – una speranza condivisa da alcuni israeliani. L’ipotesi è che i gazawi scenderanno in piazza, proprio come gli egiziani che hanno riempito piazza Tahrir al Cairo sei anni fa, e deporranno il governo islamico di Gaza.

A tutt’oggi comunque non vi sono segnali di un tale evento. Lo scorso inverno, quando si sono verificati problemi simili con la fornitura di energia, è scoppiata una breve ondata di proteste, ma Hamas è stata in grado di reprimerle.

L’aggravamento dei problemi degli abitanti di Gaza

Questa primavera il panorama è un po’ diverso. Le gravi riduzioni di energia colpiscono principalmente le istituzioni pubbliche, come ospedali e scuole. Molti gazawi, abituati alle interruzioni della fornitura di energia, hanno comprato dei generatori in proprio. Far funzionare un generatore costa molti soldi, ma potrebbe non essere ancora sufficiente perché i gazawi giungano al punto di rottura.

Anche se la popolazione perdesse la pazienza, è difficile che i capi di Hamas rinuncino al loro progetto più importante, il governo islamista che hanno imposto a Gaza dal maggio del 2007. Piuttosto, se la pressione aumentasse, probabilmente cercheranno un’altra via per uscire dalla trappola.

Un’opzione potrebbe essere quella di incoraggiare la popolazione a fare manifestazioni “spontanee” lungo il confine con Israele, nel tentativo di dirottare la rabbia verso Israele (ogni dura reazione da parte dei soldati israeliani inasprirebbe ulteriormente la situazione). Un’altra alternativa è l’azione militare – un raid oltre frontiera attraverso un tunnel o in altro modo, che svierebbe l’attenzione della gente dalla responsabilità di Hamas per le sofferenze del suo popolo.

Le sofferenze si stanno aggravando in quanto Hamas, che raccoglie le tasse su ogni minimo prodotto che entra nella Striscia, sta ancora destinando la maggior parte del denaro disponibile per rafforzare le proprie potenzialità militari. Questa settimana, il numero di camion che trasportano merci da Israele e Cisgiordania a Gaza è stato in media di 1000 al giorno – cinque volte la media giornaliera prima dell’ultimo conflitto tra Hamas e Israele nell’estate del 2014.

Dichiarazioni di Hamas

Una nuova realtà sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza ed Israele. Con discrezione, Israele ha iniziato a costruire una nuova barriera contro i tunnel che attraversano il confine. La barriera comprende un muro sotterraneo, una recinzione sul terreno ed un complesso sistema di sensori e dispositivi di monitoraggio. I lavori sono iniziati in alcuni brevi tratti vicino alla zona nord di Gaza e si prevede che nei prossimi mesi verranno notevolmente incrementati.

Hamas sorveglia da vicino. All’interno di Gaza, a circa 300 metri dal confine, l’organizzazione ha aumentato in modo significativo il numero dei suoi posti di vedetta. Quasi sempre, quando dal lato israeliano compaiono gru ed escavatori, spuntano le vedette dal lato palestinese.

Questo non è necessariamente negativo dal punto di vista israeliano. La “pattuglia di confine” di Hamas si adopera per impedire agli infiltrati di entrare in Israele. Arresta la maggior parte di loro ed in un caso recente ha persino aperto il fuoco contro un palestinese che cercava di entrare in Israele. Alti ufficiali israeliani dicono che Hamas si sta anche impegnando ad impedire il lancio di razzi.

Gli avamposti di Hamas aiutano anche l’esercito [israeliano] a reagire immediatamente se un razzo o un’arma fa fuoco comunque su Israele. Cioè gli avamposti diventano obbiettivi che Israele attacca sulla base del fatto che Hamas è responsabile per qualunque cosa avvenga nel territorio sotto il suo controllo.

Evidentemente anche Hamas comprende le regole del gioco. Altrimenti è difficile spiegare perché quasi nessuno è stato ferito in questi attacchi punitivi israeliani.

E’ chiaro che lungo il confine di Gaza è stato intrapreso un impegnativo progetto costruttivo. La barriera sarà lunga solo circa 65 chilometri, più o meno un quarto della lunghezza della barriera lungo il confine israelo-egiziano, ma il lavoro sul confine di Gaza è incomparabilmente più complesso.

Quando gli storici e i geografi studieranno i confini israeliani nel corso degli ultimi due decenni, scopriranno che un personaggio poco conosciuto ha influenzato la topografia più di tutti i leader e i generali messi insieme. Quest’uomo è il generale di brigata Eran Ophir, capo dell’amministrazione militare per la costruzione della barriera. Dopo la barriera di separazione in Cisgiordania, quella lungo il confine egiziano e quella sulle alture del Golan, adesso Ophir si sta occupando della barriera lungo il confine di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Human Rights Watch: La FIFA decide di continuare a ‘sponsorizzare i giochi nelle terre rubate (palestinesi)’

11 maggio 2017 Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

Era previsto che il congresso tenesse una votazione finale sulla risoluzione palestinese che proibiva di giocare le gare della FIFA nelle colonie israeliane – costruite nei territori palestinesi occupati, in violazione del diritto internazionale.

HRW, insieme ad altre organizzazioni, ha chiesto alla FIFA di impedire all’Associazione di Football Israeliana (IFA) di “organizzare attività calcistiche” nei territori palestinesi ed ha ribadito l’illegalità delle colonie israeliane disseminate nei territori, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nel territorio da essa occupato, configurando così tali azioni come crimine di guerra.

La questione ha costituito una preoccupazione cruciale per l’Associazione di Football Palestinese (PFA) e nel maggio 2015 è stato creato il Comitato di monitoraggio della FIFA per Israele-Palestina, guidato da Tokyo Sexwale. Il comitato era responsabile di mettere sotto osservazione le restrizioni da parte di Israele alla libertà di movimento dei giocatori palestinesi e la legalità delle squadre israeliane con sede nelle colonie illegali in Cisgiordania.

Secondo Al Jazeera il mandato del comitato doveva scadere a maggio. Tuttavia il presidente della FIFA Gianni Infantino è intervenuto nella conferenza di giovedì e , prima della votazione, ha presentato una proposta per estendere il mandato del comitato fino a marzo 2018, a quanto sembra per permettere a IFA e PFA di raggiungere un accordo. Secondo HRW, la proposta è passata con la maggioranza del 70%.

Tuttavia la PFA e parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno insistentemente chiesto alla FIFA di agire riguardo al problema, vietando alle squadre israeliane di giocare nei territori palestinesi o sospendendo l’adesione di Israele all’associazione se le autorità israeliane rifiutassero di rispettare le leggi internazionali.

Le sei squadre provengono dalle colonie israeliane illegali di Kiryat Arba, Givat Ze’ev, Maaleh Adumim, Ariel, Oranit e Tomer.

HRW ha affermato che alle sei squadre non dovrebbe essere permesso di svolgere attività calcistiche su terre “illegalmente sottratte e interdette ai palestinesi della Cisgiordania.”

Dopo quattro anni non è chiaro perché la FIFA necessiti ancora di un altro anno per decidere se rispettare o no le proprie stesse regole”, ha aggiunto HRW, riferendosi alle accuse palestinesi in base alle quali la FIFA sta violando le sue stesse norme interne non attivandosi sulla questione in quanto i membri della FIFA non potrebbero giocare partite sul territorio di un altro membro senza aver ottenuto un permesso ufficiale.

HRW ha affermato in un rapporto del 2016: “Permettendo alla IFA di giocare partite all’interno delle colonie, la FIFA si sta impegnando in un’attività commerciale che sostiene le colonie israeliane.”

Nel contempo le squadre palestinesi hanno subito pesanti restrizioni di movimento, tra cui subire gravi problemi con le autorità israeliane ai checkpoint all’interno della Cisgiordania, che a volte impediscono ai calciatori di gareggiare con altre squadre della Cisgiordania.

L’anno scorso la PFA è stata anche costretta a rinviare la finale [del campionato], quando le autorità israeliane hanno impedito ai giocatori palestinesi della Striscia di Gaza di oltrepassare il valico di Erez controllato da Israele per partecipare ad un incontro di calcio che si teneva nel distretto di Hebron, nel sud della Cisgiordania.

I calciatori palestinesi devono anche subire retate e la violenza che caratterizza la presenza dei soldati israeliani nei territori palestinesi, in quanto lo scorso anno decine di calciatori e di tifosi palestinesi hanno sofferto delle conseguenze del fatto di aver respirato gas lacrimogeni, quando le forze israeliane hanno sparato candelotti su una folla di 1200 palestinesi che si erano radunati nel villaggio di al-Ram, nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania, per vedere una partita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I media USA su Israele: la libertà di stampa che non c’è mai stata

Belen Fernandez

Martedì 2 maggio 2017 Middle East Eye

L’America è il bastione della libertà di stampa? Nel Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo, questo concetto crolla quando si tratta di Israele.

Mercoledì 3 maggio segna il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”.

Qualcuno vedrà sicuramente la ricorrenza come uno scherzo, dato che l’attuale capo del cosiddetto “mondo libero” è un presidente degli USA impegnato a fare la guerra ai media.

Ma, benché possa sembrare che Donald Trump costituisca un allontanamento dalla normalità in una Nazione che si è così accuratamente presentata come un bastione della libertà di stampa, di pensiero, di espressione e di tutte quelle belle cose, i media USA non sono mai stati propriamente liberi.

In fondo, oltre a svolgere regolarmente un ruolo da ragazze pon pon a favore delle conquiste militari e imprenditoriali, i mezzi di informazione americani hanno anche rispettato una persistente linea rossa: criticare Israele, l’adorabile democrazia-che-non-lo-è del Medio Oriente.

Prendiamo in considerazione un aneddoto raccontato da Thomas Friedman, del “New York Times”, egli stesso un convinto sionista, a cui tuttavia è capitato di parlare di bombardamenti israeliani “indiscriminati” su Beirut ovest in un articolo del 1982 – quando l’invasione israeliana del Libano uccise circa 20.000 libanesi e palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili.

Come racconta lo stesso Friedman, la sua redazione eliminò il termine “indiscriminati”, dopodiché egli scrisse una nota accusandola di vigliaccheria. A.M. Rosenthal, ex-direttore esecutivo del “Times”, allora “esplose contro l’insubordinazione (di Friedman)” e lo convocò in termini minacciosi ad un incontro, che finì per essere un “pranzo lungo ed emotivo, con lacrime da entrambe le parti” e un aumento di stipendio di 5.000 dollari per Friedman.

Il pranzo culminò con un “caldo abbraccio” di Rosenthal e l’avvertenza: “Ora ascoltami, tu, piccolo astuto: non rifarlo mai più.”

Lezione imparata. Alla faccia dei 20.000 morti.

Non è mai stato pubblicato”

Per inciso, il 1982 ha rappresentato un raro picco nella libertà di stampa riguardo ad Israele – si potrebbe dire una momentanea mini-glasnost.

In un recente messaggio mail, l’ex capo corrispondente per il Medio oriente di “ABC News” [rete televisiva statunitense, ndtr.] Charles Glass mi ha spiegato che “non ci fu nessun inviato americano che sia stato in Libano negli anni ’70 e ’80 che non abbia dovuto lottare con i suoi editori e direttori negli USA ”sui reportage a proposito del comportamento di Israele nella regione.

Una finestra (di informazione critica) fu aperta subito dopo Sabra e Shatila nel settembre 1982 – i tre giorni di massacri appoggiati da Israele di alcune migliaia di rifugiati palestinesi a Beirut – ma si richiuse subito dopo.”

Un esempio emblematico: nel 1984, Glass inviò un reportage per “ABC News” sugli squadroni della morte israeliani nel sud del Libano – un argomento senza dubbio degno di nota, in particolare alla luce dei considerevoli flussi finanziari USA verso Israele.

Quell’articolo non è mai stato pubblicato, anche se nessuno mi ha detto perché,” ricorda Glass. “L’articolo era attendibile, (con) molti testimoni oculari, anche dell’ONU, e con prove scientifiche.”

Dopo essere stato continuamente rimandato da un editore a New York con la scusa di notizie più urgenti, il reportage venne alla fine scartato del tutto perché “non più attuale”.

Nel frattempo, l’effimera mini-glasnost del 1982 aveva prodotto negli USA una massa di censure ancora più aggressive. Il sito web del “Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America” [Comitato per l’Accuratezza nell’informazione sul Medio Oriente in America] (CAMERA), un gruppo islamofobo fondato quell’anno a Washington, sottolineò di essere nato in risposta “a come il “Washington Post” aveva informato dell’incursione israeliana in Libano e alla complessiva parzialità anti israeliana del giornale.”

Naturalmente, questa è gente che – se ci si impegnasse — riuscirebbe a trovare “pregiudizi contro Israele” persino in Benjamin Netanyahu.

Asserviti alla propaganda

Attualmente un esame accurato del sito web “CAMERA” fornisce una valanga di prevedibili titoli come “CAMERA induce la redazione del ‘New York Times’ a una correzione”, “CAMERA suggerisce alla NPR [radio pubblica nazionale USA, ndtr.] una rettifica sulla richiesta di annessione”, “La versione di Vogue per giovani promuove la narrazione palestinese per i lettori adolescenti”, “CAMERA suggerisce al ‘Washington Post’ una correzione su ‘Gaza occupata’”, “ Il “Christian Science Monitor [quotidiano statunitense con una rubrica religiosa quotidiana, ndtr.] mente in merito ad Israele”, e così di seguito.

E CAMERA, vale la pena ripeterlo, è solo uno del miscuglio di organizzazioni ed individui che spendono denaro ed influenza in giro per associare la minima critica delle atrocità israeliane con l’antisemitismo e per impedire comunque una discussione ragionata.

Ricordiamo una delle principali atrocità attuali: l’assassinio nel 2014 da parte di un raid aereo israeliano di quattro giovani palestinesi che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza – una controprova dell’attacco di 50 giorni da parte di Israele che alla fine ha eliminato 2.251 vite palestinesi, 551 delle quali di bambini.

Il relativo titolo del “New York Times” ha affermato: “Ragazzi ritratti sulla spiaggia a Gaza e nel centro del conflitto mediorientale”. E’ più o meno l’equivalente di “Uomo va a sbattere contro una pallottola, e con le sue domande esistenziali,” oppure “Maiale si materializza sotto il coltello del macellaio, sollevando problemi epocali sulla gerarchia nella catena alimentare.”

Lo concediamo, il titolo del “Times” avrebbe potuto essere anche peggiore se il giornale avesse ripreso più letteralmente le tradizioni del portavoce israeliano – ad esempio: “Maiale lancia efferato attacco contro coltello da macellaio e viene ucciso per auto-difesa.”

Durante una comparsa su “Democracy Now!” [programma statunitense di notizie in tv, radio e internet di un’ora e di orientamento progressista, ndtr.] nel bel mezzo della guerra del 2014, Noam Chomsky ha criticato duramente i media americani per la loro diligente riproduzione della linea israeliana: “Non abbiamo bisogno di ascoltare la CBS, perché possiamo ascoltare direttamente le agenzie di propaganda israeliane…è un momento vergognoso per i media USA, dato che continuano ad essere asserviti ai grotteschi servizi della propaganda di uno Stato violento e aggressivo.”

Questa vergogna naturalmente riguarda anche l’establishment governativo degli USA , che ha accuratamente coltivato la propria predilezione per la grottesca violenza e che trova una notevole quantità di vantaggi politici ed economici nelle politiche israeliane di saccheggio omicida.

E il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo” è il momento più adeguato per riflettere su ciò.

  • Belen Fernandez è l’autrice de “Il messaggero imperiale: Thomas Friedman al lavoro”, edito da Verso. E’ autrice e scrittrice della rivista “Jacobin” [quadrimestrale statunitense di sinistra, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi]




Testo integrale della risoluzione dell’Unesco del 1 maggio 2017 sui “Territori occupati”.

testo inglese:

1 maggio 2017

Nota redazionale: il primo maggio 2017 il comitato esecutivo dell’UNESCO ha approvato una risoluzione, di cui riportiamo di seguito la traduzione, in cui si condannano le politiche israeliane riguardo al patrimonio culturale e religioso nei territori palestinesi occupati, comprese Gerusalemme est e Gaza.

In questo caso il testo acquista una particolare rilevanza perché, nonostante sia stato modificato e moderato rispetto a quello votato nel 2016, il rappresentante dell’Italia, interrompendo la tradizionale astensione su questi argomenti, ha votato contro il testo. Il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Angelino Alfano ha motivato così questa decisione: “La nostra opinione e’ molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi. Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall’Unesco”. Ad ottobre infatti l’Italia si era astenuta. Il testo della risoluzione evidenzia quanto le affermazioni di Alfano siano pretestuose ed ignorino la funzione eminentemente politica che Israele attribuisce ai beni artistici e culturali, ed in particolare all’archeologia, nei territori palestinesi occupati. Come più volte affermato prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni, il nostro Paese si dimostra sempre più prono alle posizioni politiche del governo israeliano.

Oltre all’Italia, hanno votato “no” altri nove Paesi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Lituania, Grecia, Paraguay, Ucraina, Togo e Germania.

Ventidue Paesi hanno votato a favore: Russia, Cina, Brasile, Svezia, Sud Africa, Iran, Malaysia, Mauritius, Nigeria, Senegal, Bangladesh, Pakistan, Vietnam, Nicaragua, Chad e sette Paesi arabi.

Ventitré Paesi si sono astenuti: Francia, Spagna, Slovenia, Estonia, India, Argentina, Messico, Giappone, Haiti, Repubblica Dominicana, Saint Kitts, Kenya, Trinidad, Albania, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Mozambico, Uganda, El Salvador, Corea del sud e Sri Lanka.

Tre Paesi non hanno partecipato al voto: Nepal, Serbia e Turkmenistan.

***********

Presentata da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

Il comitato esecutivo

,1. Avendo esaminato il documento 201 EX/30

2. Richiamandosi alle disposizioni della Quarta Convenzione di Ginevra (1949) ed ai suoi protocolli aggiuntivi (1977), alle Convenzioni dell’Aja del 1907 su leggi ed usi della guerra terrestre e per la protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato (1954) ed i suoi protocolli addizionali, alla Convenzione sui mezzi per proibire e impedire l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni del patrimonio culturale (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio mondiale culturale e naturale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità su richiesta della Giordania (1981) e nella lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo (1982) e alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo alla protezione del patrimonio culturale, così come a risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo a Gerusalemme, richiamando anche precedenti decisioni dell’UNESCO riguardo alla ricostruzione ed allo sviluppo di Gaza come anche a decisioni dell’UNESCO sui due siti palestinesi ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme,

3. Affermando che niente nella presente decisione, che intende, tra l’altro, salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e il carattere particolare di Gerusalemme est, può in alcun modo incidere sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite e su decisioni riguardo allo status legale della Palestina e di Gerusalemme in materia, compresa la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,

30.I Gerusalemme

4. Riaffermando l’importanza della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura per le tre religioni monoteiste,

5. Ricordando che ogni misura ed azione legislativa ed amministrativa presa da Israele, la potenza occupante, che abbia alterato o abbia la pretesa di alterare il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e in particolare la “legge fondamentale” su Gerusalemme, non ha alcuna validità e deve essere immediatamente revocata,

6. Ricordando ancora una volta le 11 decisioni del comitato esecutivo: 185 EX/Decision 14, 187 EX/Decision 11, 189 EX/Decision 8, 190 EX/Decision 13, 192 EX/Decision 11, 194 EX/Decision 5.D, 195 EX/Decision 9, 196 EX/Decision 26, 197 EX/Decision 32, 199 EX/Dec.19.1, 200 EX/Decision 25 e le sette decisioni del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità: 34 COM/7A.20, 35 COM/7A.22, 36 COM/7A.23, 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4, 39 COM/7A.27, 40 COM/7A.13,

7. Lamenta che le autorità israeliane occupanti non abbiano interrotto i lavori ed i progetti di scavo, anche di tunnel, a Gerusalemme est, soprattutto all’interno ed attorno alla Città Vecchia di Gerusalemme, che sono illegali dal punto di vista delle leggi internazionali, e rinnova la propria richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutte le violazioni che non sono conformi a quanto previsto dalle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

8. Lamenta inoltre il rifiuto israeliano di mettere in pratica la richiesta dell’UNESCO al Direttore generale perché nomini un rappresentante permanente che risieda stabilmente a Gerusalemme est per informare regolarmente su ogni aspetto riguardante il campo di pertinenza dell’UNESCO a Gerusalemme est, e rinnova la propria richiesta al Direttore generale perché nomini il prima possibile il summenzionato rappresentante;

9. Sottolinea di nuovo la necessità urgente di realizzare la missione di monitoraggio reattivo dell’UNESCO della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura, e invita il Direttore generale ed il Centro per il Patrimonio dell’Umanità ad esercitare ogni possibile azione, in linea con il loro mandato e in conformità con le indicazioni delle convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito, per garantire l’immediata realizzazione della missione e, nel caso di una sua mancata attuazione, per proporre possibili misure efficaci per garantirla;

30.II Ricostruzione di Gaza

10. Deplora gli scontri militari all’interno ed attorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili provocate, così come il costante impatto negativo nei campi di competenza dell’UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altre strutture educative e culturali, comprese le violazioni dell’intangibilità delle scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e gli interventi per i profughi palestinesi in Medio Oriente (UNRWA);

11. Deplora inoltre il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che danneggia il libero e sostenibile movimento di personale, studenti e beni per il soccorso umanitario e chiede ad Israele di attenuare immediatamente questo blocco;

12. Ringrazia il Direttore generale per le iniziative già messe in atto a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura e della gioventù e per l’incolumità degli operatori dell’informazione, gli chiede di proseguire nel suo attivo coinvolgimento nella ricostruzione delle strutture educative e culturali di Gaza danneggiate e ripete, a questo proposito, la sua richiesta di rafforzare l’Antenna UNESCO a Gaza e di organizzare al più presto un incontro informativo sull’attuale situazione a Gaza nei settori di competenza dell’UNESCO e sui risultati dei progetti svolti dall’UNESCO;

30.III I due siti palestinesi di Al-Haram Al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi ad Al-Khalil/Hebron e della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme

13. Riafferma che i due siti in questione, che si trovano ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme, sono parte integrante dei Territori Palestinesi Occupati e condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale che i due siti sono di importanza religiosa per l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam;

14. Deplora i continui scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni e di un muro all’interno della città vecchia di Al-Khalil/Hebron da parte israeliana, che sono illegali in base alle leggi internazionali e danneggiano l’autenticità e l’integrità del sito, e la conseguente negazione della libertà di accesso ai luoghi di preghiera, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tutte le violazioni che non sono in conformità con le disposizioni delle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

15. Lamenta l’impatto visivo del muro sul sito della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme, così come il rigido divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede che le autorità israeliane ristabiliscano le caratteristiche originali del paesaggio attorno al sito e tolgano il divieto di accesso ad esso;

30. IV

16. Decide di includere questi argomenti sotto la voce denominata “Palestina Occupata” nell’ordine del giorno della sua 202esima sessione, e invita il Direttore generale a sottoporle un rapporto sui progressi compiuti in merito.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA 18 aprile – 1 Maggio 2017 (due settimane)

Alla data di chiusura del presente rapporto [1° maggio], la Centrale elettrica di Gaza non era ancora operativa; era ferma dal 17 aprile per esaurimento delle scorte di carburante.

Inoltre, dal 24 aprile, è stato sospeso l’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, a causa di un guasto (ancora da riparare) alle linee. Con l’energia elettrica che arriva solo da Israele, i tagli di elettricità continuano ad essere di 20-22 ore al giorno; tali da sconvolgere gravemente le già precarie condizioni di vita della popolazione. Il 27 aprile, per evitare ulteriori peggioramenti, il Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati ha stanziato 500.000 dollari per l’acquisto di combustibile d’emergenza, in modo da garantire l’erogazione dei servizi essenziali negli ospedali ed in altri presìdi medici di emergenza.

Un aggressore palestinese è stato ucciso, mentre sei israeliani e tre sospetti aggressori palestinesi sono stati feriti durante uno speronamento con auto e quattro aggressioni e presunte aggressioni con coltello. Il 19 aprile, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 21 anni ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo; è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane. Il 23 aprile, un giovane palestinese di Nablus, che aveva raggiunto la città di Tel Aviv con un regolare permesso di visita, ha pugnalato e ferito quattro israeliani; successivamente anch’egli è stato colpito e ferito con armi da fuoco. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dopo l’episodio le autorità israeliane hanno bloccato un certo numero di permessi dello stesso tipo. Il 24 aprile, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una donna palestinese ha pugnalato e ferito una soldatessa israeliana ed è stata successivamente arrestata. In due episodi distinti, verificatisi il 25 e il 26 aprile nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus), due cugini palestinesi, uno dei quali 17enne, hanno tentato di accoltellare soldati israeliani e sono stati colpiti e feriti; non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania 191 palestinesi, di cui 45 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; la stragrande maggioranza degli scontri si sono avuti durante le manifestazioni in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame (vedi più avanti). Dall’inizio del 2017, questo è il numero più elevato di feriti registrati nell’arco di due settimane. Almeno il dieci per cento di questi feriti sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti palestinesi è stato segnalato durante le manifestazioni a Sabastiya, Beita (entrambi a Nablus) e presso il checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah). Nel corso di nove operazioni di ricerca-arresto sono stati registrati venticinque feriti.

Il 17 aprile, più di 1.000 prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Alla data di chiusura di questo rapporto lo sciopero era ancora in corso. Le loro richieste includono la fine delle pratiche di isolamento e di detenzione amministrativa (detenzione senza imputazione o processo), l’incremento della frequenza e della durata delle visite dei familiari, un miglioramento delle cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 23 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti, ma, secondo quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Nel contesto dell’applicazione delle restrizioni di accesso al mare imposte da Israele, due pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane e la loro barca è stata sequestrata.

È stato riferito che il 27 aprile, ad est di Deir al Balah, un gruppo armato palestinese ha aperto il fuoco contro forze israeliane in pattugliamento lungo la recinzione; non sono stati segnalati feriti. Dopo di ciò, le forze israeliane hanno lanciato una serie di granate verso un sito militare di Hamas; sono stati riferiti danni al sito, ma non feriti.

Nove palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti e oltre 100 alberi sono stati dati alle fiamme in separati episodi che coinvolgono coloni israeliani. Otto dei suddetti palestinesi sono stati feriti in quattro diversi episodi di lancio di pietre vicino ai villaggi di Huwwara e Urif (Nablus). Sempre a Nablus, un contadino palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi del villaggio di Deir Sharaf. Coloni israeliani hanno inoltre incendiato più di 100 alberi in Al Fureidis (Betlemme) e un ricovero per animali a Deir Dibwan (Ramallah).

Secondo i resoconti di media israeliani, nei pressi di Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, tre coloni israeliani sono stati feriti e almeno otto veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Otto di queste strutture, tra cui una abitazione, erano a Gerusalemme Est (Al Isawiya e Jabal al Mukabbir), la rimanente struttura si trovava presso la Comunità di Jabal al Baba, nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; si trattava di un rifugio fornito come aiuto umanitario conseguente ad una precedente demolizione. Nel complesso, 14 palestinesi sono stati sfollati ed altri 19 hanno subito danni.

In due occasioni, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per diverse ore ciascuna volta, 12 famiglie della Comunità pastorale di Khirbet ar Ras al Ahmar, nella Valle del Giordano settentrionale. Tuttavia, secondo i rappresentanti della Comunità, in realtà non si è tenuta alcuna esercitazione. Le autorità israeliane hanno inoltre sequestrato un trattore, con la motivazione che lo stesso era stato utilizzato per una costruzione non autorizzata. Negli ultimi anni, la Comunità ha dovuto far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni negli spostamenti; fatti che hanno dato origine a preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Le autorità israeliane, contestando la violazione di norme ambientali, hanno sequestrato 45 tonnellate di legname presso due laboratori che producono carbone, localizzati in una zona dell’Area B di pertinenza del villaggio di Ya’bad (Jenin) [Area B è la parte della Cisgiordania (circa il 23%) nella quale, in base agli Accordi di Oslo (1993), la gestione degli affari civili spetta all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la gestione della sicurezza spetta ad Israele]. Di conseguenza, è stata colpita la fonte di sostentamento di tre famiglie e di sei lavoratori. Inoltre, accanto al villaggio di Bardala, nella valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno chiuso e danneggiato otto distinti allacciamenti alla rete idrica, motivando il provvedimento con il fatto che gli stessi non erano stati autorizzati. Di conseguenza, è stata impedita l’irrigazione di oltre 250 ettari di terreno agricolo.

Dal 30 aprile al 2 maggio, durante le festività israeliane, le autorità israeliane hanno rafforzato la chiusura della Cisgiordania e di Gaza, impedendo anche ai possessori di permessi l’entrata in Israele ed in Gerusalemme Est; fanno eccezione i lavoratori umanitari, gli organismi internazionali e i titolari di permessi di ricongiungimenti familiari. È stato chiuso anche il valico per le merci di Kerem Shalom tra Israele e Gaza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni; l’ultima volta il 9 marzo.

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Ultimi sviluppi

Il 3 maggio Israele ha ampliato, da sei a nove miglia marine, la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza; provvedimento valido fino al 7 giugno.

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La rivolta dei prigionieri: le vere ragioni che stanno dietro allo sciopero della fame dei palestinesi

2 maggio 2017 Ma’an News

 Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.’

Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Anche la Cisgiordania è una prigione, divisa in varie zone, note come area A, B e C. Di fatto tutti i palestinesi sono soggetti a restrizioni militari di diverso grado. In una certa misura sono tutti prigionieri.

Gerusalemme est è separata dalla Cisgiordania e coloro che vivono in Cisgiordania sono separati l’uno dall’altro.

I palestinesi in Israele sono trattati leggermente meglio dei loro fratelli nei territori occupati, ma versano in condizioni umilianti, se paragonate allo status di prima classe attribuito agli ebrei israeliani, solo in virtù della loro origine etnica.

I palestinesi abbastanza “fortunati” da evitare le manette e le catene, sono comunque imprigionati in altri modi. I rifugiati palestinesi del campo profughi libanese di Ain el-Hilweh, come milioni di rifugiati palestinesi nella “shattat” (diaspora), sono prigionieri nei campi profughi, con un riconoscimento precario e insignificante, non possono spostarsi e non possono accedere al lavoro. Languiscono nei campi, aspettando che la vita migliori, anche di poco – come hanno fatto prima di loro i loro padri e nonni per circa settant’anni.

Ecco perché la questione dei prigionieri è molto sentita tra i palestinesi. E’ una rappresentazione reale e metaforica di tutto ciò che essi hanno in comune.

Le proteste scoppiate in tutti i territori occupati a sostegno dei 1500 in sciopero della fame non sono solamente un gesto di ‘solidarietà’ con gli uomini e le donne incarcerati e maltrattati, che chiedono un miglioramento delle proprie condizioni.

Purtroppo il carcere è il fatto più normale nella vita dei palestinesi; è lo status quo; la realtà quotidiana. I prigionieri detenuti nelle carceri israeliane sono l’immagine della vita di ogni palestinese, imprigionato dietro muri e checkpoint, in campi profughi, a Gaza, nelle aree della Cisgiordania, nella Gerusalemme segregata, nelle attese per essere lasciati entrare o lasciati uscire. Semplicemente in attesa.

Ci sono 6.500 prigionieri nelle carceri israeliane. Questa cifra comprende centinaia di minori, donne, rappresentanti eletti, giornalisti e detenuti amministrativi, che sono imprigionati senza accuse e senza processo. Ma questi numeri esprimono a malapena la realtà trascorsa sotto l’occupazione israeliana fin dal 1967.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, oltre 800.000 palestinesi sono stati incarcerati sotto il regime militare da quando Israele ha iniziato l’occupazione dei territori palestinesi nel giugno 1967.

Cioè il 40% dell’intera popolazione maschile dei territori occupati.

Le carceri israeliane sono prigioni all’interno di prigioni più grandi. Nei periodi delle proteste e delle sommosse, soprattutto durante le rivolte del 1987-1993 e 2000-2005, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati soggetti a prolungati coprifuoco militari, che a volte duravano settimane, addirittura mesi.

Sotto il coprifuoco militare alle persone è vietato lasciare le proprie case, con brevi o nulle interruzioni persino per comprare il cibo.

Non un solo palestinese che abbia vissuto (o stia ancora vivendo) in simili condizioni è alieno all’esperienza dell’imprigionamento.

Ma ad alcuni palestinesi in quella grande prigione sono stati concessi dei privilegi. Sono considerati ‘palestinesi moderati’, quindi vengono loro concessi permessi speciali dall’esercito israeliano per lasciare la prigione palestinese e ritornarvi a loro piacimento.

Mentre il precedente leader palestinese Yasser Arafat è stato rinchiuso per anni nel suo ufficio a Ramallah, fino alla sua morte nel novembre 2004, l’attuale presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas è libero di viaggiare.

Anche se Israele può, di tanto in tanto, criticare Abbas, lui raramente si discosta dai limiti imposti dal governo israeliano.

Questa è la ragione per cui Abbas è libero ed il capo di Fatah Marwan Barghouti (insieme a migliaia di altri) è in prigione.

L’attuale sciopero della fame dei prigionieri è iniziato il 17 aprile, in commemorazione della ‘Giornata dei Prigionieri’ in Palestina

Nell’ottavo giorno di sciopero, mentre le condizioni di salute di Marwan Barghouthi peggioravano, Abbas si trovava in Kuwait per incontrare un gruppo di cantanti arabi in abiti di lusso.

I resoconti, pubblicati dall’agenzia di stampa Safa e altrove, hanno destato molta attenzione sui media. La tragedia della doppia realtà palestinese è un fatto inequivocabile.

Barghouthi è molto più popolare tra i sostenitori di Fatah, uno dei due maggiori movimenti politici palestinesi. Di fatto, è il più popolare leader tra i palestinesi, a prescindere dalle loro posizioni ideologiche o politiche.

Se l’ANP si preoccupasse davvero dei prigionieri e del benessere del più popolare leader di Fatah, Abbas avrebbe dovuto impegnarsi a concepire una strategia per galvanizzare l’energia dei prigionieri in sciopero della fame e dei milioni tra il suo popolo che hanno manifestato in loro appoggio.

Ma la mobilitazione di massa ha sempre spaventato Abbas e la sua Autorità. E’ troppo pericolosa per lui, perché l’azione popolare spesso minaccia lo status quo esistente e potrebbe intralciare il suo governo, autorizzato da Israele, sui palestinesi occupati.

Mentre i media palestinesi ignorano la spaccatura all’interno di Fatah, quelli israeliani la sfruttano, inserendola nel più ampio contesto politico.

E’ previsto un incontro tra Abbas e il presidente USA Donald Trump per il 3 maggio.

Abbas vuole fare buona impressione sull’impulsivo presidente, soprattutto poiché Trump sta riducendo gli aiuti esteri in tutto il mondo, mentre aumenta l’assistenza USA all’ANP. Basterebbe questo per capire l’opinione dell’Amministrazione USA su Abbas ed il suo apprezzamento del ruolo dell’ANP nel garantire la sicurezza di Israele e nel conservare lo status quo.

Ma non tutti i sostenitori di Fatah gradiscono il servilismo di Abbas. I giovani del movimento vogliono ribadire una forte posizione palestinese attraverso la mobilitazione del popolo; Abbas vuole mantenere la situazione tranquilla.

Amos Harel ha sostenuto su Haaretz che lo sciopero della fame, indetto dallo stesso Barghouthi, era l’ultimo tentativo di sfidare Abbas e “ rovinare il piano di pace di Trump”.

Ma Trump non ha un piano. Sta dando carta bianca al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché faccia quel che vuole. La sua soluzione è: uno Stato, due Stati, qualunque cosa “vogliano entrambe le parti”. Ma le due parti sono ben lungi dall’essere potenze uguali. Israele possiede ordigni nucleari ed un potente esercito, mentre Abbas ha bisogno di un permesso per uscire dalla Cisgiordania occupata.

In questo contesto di disuguaglianza, solo Israele decide il destino dei palestinesi.

Durante la sua recente visita negli Stati Uniti, Netanyahu ha delineato la sua visione del futuro.

“Israele deve mantenere il controllo prevalente della sicurezza sull’intera area ad ovest del fiume Giordano”, ha detto.

In un articolo su ‘The Nation’ [rivista politica statunitense di sinistra, ndt.], il professor Rashid Khalidi ha spiegato il vero significato dell’affermazione di Netanyahu. Ha scritto che con queste parole “Netanyahu ha proclamato un regime permanente di occupazione e colonizzazione, escludendo uno Stato palestinese sovrano e indipendente, qualunque sia la parvenza di ‘Stato’ o ‘autonomia’ escogitata per nascondere questa brutale realtà”.

“Il successivo silenzio di Trump equivale all’approvazione del governo USA di questa grottesca visione di permanente asservimento e spossessamento dei palestinesi.”

Perché dunque i palestinesi dovrebbero stare tranquilli?

Il loro silenzio può solo contribuire a questa grave realtà, alle dolorose circostanze attuali, in cui i palestinesi sono perpetuamente imprigionati sotto un’occupazione permanente, mentre la loro ‘leadership’ riceve sia un cenno d’approvazione da Israele che elogi ed ulteriori finanziamenti da Washington.

E’ in questo contesto che lo sciopero della fame diventa molto più pregnante del bisogno di migliorare le condizioni dei prigionieri palestinesi.

E’ una rivolta all’interno di Fatah contro la sua dirigenza indifferente e un disperato tentativo da parte di tutti i palestinesi di dimostrare la propria capacità di destabilizzare la matrice di controllo di Israele, America e ANP che è durata per tanti anni.

“I diritti non vengono regalati da un oppressore”, ha scritto Marwan Barghouthi dalla sua cella nel primo giorno dello sciopero della fame.

In realtà, il suo messaggio era diretto ad Abbas e ai suoi amici, tanto quanto era diretto ad Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)