Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas

Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz

Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un partner per la pace.

I due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.

Decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione terroristica.

Tutto questo avviene mentre Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA Donald Trump.

La pressione su Gaza non è casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali. Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo, l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Inoltre, a gennaio, il Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a finanziare i pagamenti per l’elettricità.

Allora Abbas ha annunciato che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare, perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome dell’ANP.

L’ANP ha giustificato tutti questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.

Il pretesto politico ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

Salah Al Bardawil, un alto dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende necessario il consiglio am0ministrativo.

Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.

Una spiegazione fornita da fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas, sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington. Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale processo diplomatico.

Se davvero Abbas sta punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi, scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.

Se Hamas rifiuta di cedere nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come la Turchia e il Qatar.

A quanto pare Meshal ha deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America, Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un compromesso diplomatico.

A differenza del vecchio statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana. Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto, che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.

Il secondo fondamentale cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4 giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale, che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”

Né Israele né gli Stati Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in diverse fasi.

Perciò neanche la creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina “da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.

Tuttavia, Hamas può sperare che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967 senza riconoscere Israele.

La grande domanda è come reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di ogni soluzione?

Finché Trump non deciderà, la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la bomba di Gaza è gradevole.

Potrebbe pagare lui stesso per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti. Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro ciclo di violenze.

In entrambi i casi, ancora una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Essere gay a Gaza: quattro testimonianze dalla Striscia

24 aprile 2017

In questi ultimi giorni di tensione politicamente satura di notizie sconvolgenti sulle persone LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) in paesi di maggioranza musulmana, e tra le mille preoccupazioni per i civili che si trovano tra l’incudine e il martello di potenze distruttive, uno dei pensieri sfugge verso chi nella sua diversità sessuale subisce tanto quanto il resto dei popoli più oppressi da anni a questa parte: i gay di Gaza.

Questa è la prima parte della traduzione di un articolo pubblicato a settembre dell’anno scorso su Dkhlak che racconta la quotidianità di molte persone, non soltanto a Gaza, attraverso testimonianze di uomini che non trovano modi per vivere liberamente il proprio orientamento sessuale. La seconda parte sarà pubblicata lunedì 1 maggio. L’autore dell’articolo ha deciso di non rivelarsi per paura delle conseguenze che possono minacciare la sua libertà, se non addirittura la sua vita.

L’omosessualità nella striscia di Gaza

L’obiettivo di questo articolo è fare luce sugli omosessuali palestinesi, una parte emarginata della comunità che vive nella Striscia di Gaza, raccontando le loro sofferenze, le loro esperienze e la loro battaglia in rapporto all’omofobia radicata in una società devota ipocritamente alla religione.

Sono centinaia quelli che vivono sotto un velo segreto che a malapena li protegge dalle minacce di morte, che li costringe a reprimere la loro vera identità e li obbliga a vivere nelle menzogne per garantirsi il diritto di sopravvivenza. Questo e tanto altro fa sì che chiunque, come me, voglia incontrarli e raccontarli, trovi la missione quasi impossibile da compiere. D’altronde, chi cerca di dar voce ai più deboli e supportarli non riconosce limiti al possibile e quindi raggiungerà i propri obiettivi.

Incontrarli e conoscerli

Un giorno, mentre sfogliavo alcuni siti arabi di cronaca e notizie internazionali, ho trovato un articolo che parlava di un forum online specializzato in incontri tra uomini omosessuali, creato da un ragazzo gay libanese. Questo nuovo social mi ha parecchio incuriosito, perché includeva utenti da tutto il mondo. Ho deciso di aprire un account per capire al meglio i suoi meccanismi.

Una delle opzioni era la ricerca degli utenti più vicini usando il GPS: mi ha sorpreso quante persone della mia città fossero iscritte, tutte da Gaza e di tutte le età. Ho chattato con molti cercando di capire come facevano a incontrarsi e dove, soprattutto perché se tu fossi eterosessuale e incontrassi una ragazza in segreto e venissi scoperto anche una sola volta basterebbe per rinchiuderti in prigione per anni.

Purtroppo per mancanza di testimonianze di sesso femminile non ho potuto scrivere l’articolo includendo anche le ragazze lesbiche di Gaza, anche perché su quel social ho trovato solo maschi.

L’incontro nel mondo virtuale

In questa parte dell’articolo vi riporterò alcune storie che mi sono state raccontate nelle chat private avute con dei ragazzi, vi illustrerò le loro vite, i loro rapporti familiari e le sfide che affrontano.

M.T. 29 anni

“Sono sposato e vivo con mia moglie e i miei 3 figlioli. Sono stato costretto a sposarmi a 20 anni perché fa parte delle nostre tradizioni e costumi in questa parte della Striscia. Non mi sono rifiutato semplicemente perché non volevo dichiararmi omosessuale in una famiglia molto religiosa… Penso che se avessi detto la verità sarei stato lapidato in una fossa di fronte alla moschea dai miei stessi fratelli.

“Ti racconto un episodio che non potrò mai dimenticare, uno tra i tanti dipinti di paure e minacce: quattro anni fa avevo una relazione con un uomo di cinquant’anni, di Gaza. Lo incontrai in Egitto durante un viaggio. Quando tornai nella Striscia, era difficile incontrarci e quindi passavamo molto tempo al telefono, ma dopo qualche tempo le spie di Hamas lo avevano scoperto e indotto a svelare il nostro rapporto.

“Mi convocarono per un interrogatorio, non mi chiamavano mai con il mio nome: ‘Vieni, pervertito!’, ‘Siediti, frocio!’, ‘Dio ti maledica, adultero, fai schifo’… Ammetto di aver subito violenze anche fisiche da parte delle forze dell’ordine, però l’unica mia preoccupazione era che non volevo che la mia famiglia e i miei amici sapessero di me: se mia moglie fosse venuta a saperlo? Avrei perso i miei figli, mi avrebbero allontanato da tutti i miei cari.

“Allora li pregai e mi inginocchiai chiedendo loro di non dire nulla a nessuno. L’interrogatorio finì con una multa di 1300 sicli [circa 330 euro; ndr] pagati alle autorità in cambio del silenzio. La somma era enorme rispetto a quello che guadagnavo, ma ero pronto a vendere parti del mio corpo pur di pagarli e pur di garantirmi il loro silenzio.

“Dopo quella volta e da quel giorno mi accontento delle amicizie virtuali tramite i social, principalmente per non sentirmi solo. Spero che un giorno le cose cambieranno, pur sapendo già che sono a metà della mia vita, ma non so se resisterò ancora nell’attesa di quel futuro”.

M.Q., 18 anni

La sua storia è stata per me la più difficile da digerire.

“Mio padre è un ingegnere informatico, mi controllava il computer attraverso programmi che installava di nascosto sul portatile. Due anni fa stavo scrivendo a un mio amico giordano non sapendo che mio padre leggesse tutti i messaggi, quando all’improvviso e senza dire una parola mio babbo mi ha picchiato, gridandomi ‘Mio figlio è gay? Non ti ho saputo educare!’. Ma non bastava. Mi portò da imam che praticavano l’esorcismo, sedute settimanali durante le quali venivo picchiato, frustato e torturato.

“Durò un anno e mezzo questa situazione. Credevo sempre di più che sarei morto presto, magari suicidandomi. Presi una manciata di pillole, le ingoiai, ma fui salvato da mia madre che mi sentì tossire mentre lottavo contro la morte.

“Il cuore di mio padre si addolcì e smise di portarmi alle sedute di esorcismo, però mi fece seguire da uno psichiatra per curarmi dall’omosessualità. Il medico mi dava varie medicine da assumere giornalmente, ma non fidandomi di lui ho cercato gli effetti dei medicinali prescritti: era un misto tra antidepressivi e alcune pillole per placare la libido fino a togliermela del tutto, o almeno questo è quello che credono i medici a Gaza.

“Mi viene da piangere. Non ho ancora raggiunto i vent’anni e già le mie sofferenze mi consumano la vita.

“Mi sono cancellato dai siti per un lungo periodo, fino a quando non ho comprato segretamente un tablet che ora mi permette di condividere i miei sentimenti con il mio amico giordano e di trovarmi nuovi amici come me senza rischiare di essere spiato da mio padre. Il mio sogno è di finire il liceo qui e continuare gli studi all’estero, dove potrò vivere la mia vera natura liberamente e senza paura”.

Aymen, 36 anni

“Cerco di proteggere la mia identità sessuale il più possibile, anche se quotidianamente i miei genitori cercano di convincermi a sposarmi con una donna qualsiasi per costruire un mio nucleo familiare, così loro potranno godersi i miei figli come già fanno con i nipoti dei miei parenti e fratelli. Non li biasimo, perché un nativo di Gaza non può rimanere single fino a quest’età: o è malato di mente o lo è fisicamente, e chi più ne ha più ne metta.

“Ma non posso… Non posso mentire a una ragazza e sposarla senza amarla. Il matrimonio non è un semplice contratto da firmare o una saltuaria relazione sessuale, come mi insegna la società e la religione: il matrimonio è serenità e scambio emotivo d’amore tra due persone e non riesco a trovare ciò se non con un uomo. Ogni giorno spero di poter abbandonare questo paese intellettualmente sterile, però non riesco a lasciare i miei genitori anziani e bisognosi di assistenza. A volte penso al suicidio, ma so che non è la soluzione.

“Sono musulmano e molto credente, tuttavia sprofondo nella depressione quando sento parlare gli imam di omosessualità e di come gli omosessuali dovrebbero essere lapidati e massacrati. Non credo che Allah sia come dicono: Egli è misericordioso, non giudica qualcuno per una caratteristica innata come l’orientamento sessuale. Sono stato creato così e continuo a sperare nella misericordia di Allah che ci ha fatti come siamo”.

S.H. 20 anni

Ho deciso di concludere questa prima serie di interviste con quest’ultima storia, raccontatami da un ragazzo che successivamente è diventato un caro amico.

“Ho scoperto la mia omosessualità da molto piccolo. Il mio modo effeminato di essere mi faceva riconoscere. Ho subito un forte bullismo dalla più tenera età, nonostante abbia cercato di cambiare.

“La mia vita a Gaza era letteralmente infernale, non potevo vestirmi come desideravo né incontrare persone gay come me. A scuola ero perseguitato dai bulli, che non erano soltanto studenti, ma anche alcuni insegnanti che facevano parte dell’organizzazione di Hamas: avevano la barba come segno di estremismo religioso ed erano duri nei loro trattamenti.

“Dopo che Hamas ha preso il controllo sulla Striscia, la maggior parte degli insegnanti ha lasciato il lavoro nelle scuole statali ed è stata sostituita da persone appartenenti all’organizzazione di stampo religioso. Infatti tra i primi cambiamenti adottati nelle scuole statali c’erano le lezioni di educazione fisica trasformate in addestramento militare. Mi ricordo ancora tutti i nomignoli dispregiativi che usava un poliziotto per chiamarmi al mio arrivo a scuola e durante l’addestramento…

“Ho resistito fino a che ho potuto e poi ho chiesto a mia madre di trasferirmi in una scuola privata, sapendo che il problema non sarebbe mai cessato di esistere, però almeno mi sarei allontanato dall’eccessivo bullismo.

“Finii il liceo con il massimo dei voti, guadagnandomi una borsa di studio negli Stati Uniti. Fin dal primo giorno che ho messo piede negli USA mi sento libero, mi vesto come voglio e non subisco più aggressioni e violenze. Sono fiero di essere omosessuale, sono out and proud. La cosa più importante che ho fatto qui finora è stata quella di dire la verità ai miei genitori: mio padre fa ancora molta fatica ad accettarmi, mentre mia madre mi ha espresso il suo supporto dicendomi che mi amerà comunque io sia”.

* * *

Concludendo, penso che la sofferenza dei gay palestinesi di Gaza sia la regola del giorno di tutti gli omosessuali nei paesi arabi, ma spero che l’alba della libertà sia vicina. Spero che cadano i nostri dittatori, così potremo finalmente vivere senza paura le nostre libertà. Se ciò non accadrà, continueremo ad abbandonare i nostri paesi, lasciandoli nelle mani sporche di questi governi che scelgono solamente guerre e isolamento, per dirigerci verso il mondo occidentale che sarà sicuramente più misericordioso di noi.

 

autore anonimo per Dkhlak
introduzione e traduzione di Lyas
©2017 Il Grande Colibrì




Rapporto OCHA 4-18 aprile 2017 (due settimane)

Un soldato israeliano e una donna britannica sono stati uccisi in due distinte aggressioni attuate da palestinesi.

Il 6 aprile, un palestinese di 22 anni ha guidato la sua auto contro soldati israeliani che stazionavano alla fermata del bus presso l’insediamento colonico di Ofra (Ramallah): un soldato è rimasto ucciso ed un secondo ferito. L’autore dell’aggressione è stato arrestato dalle forze israeliane. Questi episodi portano a cinque, dall’inizio del 2017, il numero di israeliani (tutti soldati) uccisi da palestinesi. Sempre il 14 aprile, vicino alla città vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 57 anni, a quanto riferito affetto da problemi psichiatrici, ha accoltellato e ucciso una studentessa britannica di 21 anni che viaggiava sulla metropolitana. L’uomo è stato arrestato.

Il 10 aprile, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 23 marzo presso il Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah), dove fu colpito dal fuoco delle forze israeliane, aperto a seguito del lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El. In quello stesso contesto un minore palestinese fu ucciso e altri due palestinesi furono feriti.

In Cisgiordania, in diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente 46 palestinesi, di cui undici minori. La maggior parte dei ferimenti sono avvenuti in Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante le manifestazioni settimanali contro il divieto, per i residenti, di utilizzare la strada principale che collega il villaggio alla città di Nablus; il divieto è dovuto al fatto che la strada attraversa l’insediamento colonico di Qedumim. Sono stati segnalati altri scontri avvenuti nel corso di cinque operazioni di ricerca-arresto e del funerale del ragazzo ferito nel Campo profughi di Al Jalazun e successivamente deceduto [vedi sopra].

Il 17 aprile, l’unica Centrale elettrica di Gaza, avendo esaurito le riserve di carburante, è stata costretta al fermo completo. Questo è avvenuto nel contesto di una controversia in corso tra le autorità palestinesi di Gaza e le autorità di Ramallah sulle questioni relative ai pagamenti e alla tassazione dei carburanti. Il fermo della Centrale elettrica ha aumentato, fino a 20 ore al giorno, le sospensioni giornaliere di energia elettrica in tutta la Striscia di Gaza. Ciò pregiudica ulteriormente la fornitura dei servizi di base, inclusa l’attività delle strutture sanitarie; infatti è ridotto al minimo il livello delle dotazioni di combustibile di emergenza, necessario a gestire i generatori di riserva.

Sempre nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 26 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non è stato segnalato alcun ferito, ma è stato riferito che il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In quattro occasioni le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo a ridosso della recinzione perimetrale. Inoltre, sei civili palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane e altri tre dalla polizia locale di Gaza; presumibilmente mentre tentavano di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione (per i palestinesi quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese. Dodici di queste strutture erano in Gerusalemme Est, le altre otto in due comunità dell’area C (Rantis e Furush Beit Dajan). Nel complesso, 56 palestinesi sono stati sfollati e altri 33 hanno subìto danni.

Due palestinesi sono stati feriti e oltre 200 alberi sono stati vandalizzati nel corso di diversi episodi che coinvolgono coloni israeliani. Nella città di Hebron, nella zona H2, controllata da Israele, una ragazza palestinese di 14 anni è stata fisicamente aggredita e ferita da coloni mentre si recava a scuola. Vicino a Salfit, una donna palestinese è stata ferita dalle pietre lanciate da coloni israeliani contro il suo veicolo. Gli agricoltori del villaggio Mikhmas (Gerusalemme) hanno riferito che 215 dei loro ulivi sono stati sradicati; essi attribuiscono l’azione vandalica a coloni israeliani del confinante insediamento avamposto di Migron.

Durante il periodo di riferimento, in varie circostanze, in concomitanza con le celebrazioni della Pasqua, coloni israeliani e altri gruppi israeliani sono entrati in vari luoghi religiosi provocando alterchi e scontri con palestinesi, senza tuttavia causare feriti. I siti interessati includevano il Complesso Al Haram Ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est, un santuario nel villaggio Kifl Haris (Salfit) e la Tomba di Giuseppe nella città di Nablus.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno causato il ferimento di tre coloni israeliani e danni ad almeno dieci veicoli. Sulla Strada n°1, vicino a Gerico, un altro veicolo israeliano ha subito danni da arma da fuoco.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni [a tutt’oggi].

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Ultimi sviluppi

Secondo quanto riportato da mezzi di informazione israeliani, il 19 aprile, al raccordo stradale Gush Etzion (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo. L’investitore è stato colpito con arma da fuoco e ucciso dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Gaza..100 mila ore di isolamento

Gennaio 2017

A cura del Euro-Mediterranean Human Rights Monitor

l seguente rapporto è stato redatto dall’ ”Euro-Mediterranean Human Rights Monitor”, un gruppo di esperti e di volontari che ha come obiettivo lavorare nella regione mediterranea per analizzare e denunciare la situazione di oppressione e le atrocità che vi si commettono e mobilitare l’opinione pubblica sui temi del rispetto del diritto umanitario internazionale. In questo documento, redatto nel gennaio 2017, vengono denunciate le terribili condizioni in cui si trova attualmente la Striscia di Gaza, indicando le responsabilità del governo israeliano in merito.

Oltre il danno la beffa

Una replica indiretta a questo rapporto è rappresentata da una lettera all’ONU resa pubblica l’8 aprile dal coordinatore dell’esercito israeliano per i territori palestinesi occupati, preceduta da alcuni post sulla sua pagina Facebook ufficiale, riportata in un articolo di Haaretz. In queste dichiarazioni il rappresentante militare dei principali responsabili dell’assedio e della distruzione a cui è sottoposta la Striscia, il governo israeliano ed il suo esercito, attribuisce la responsabilità della situazione ai palestinesi.

La redazione di Zeitun ritiene importante tradurre sia il rapporto che la posizione israeliana offrendo così al lettore la possibilità di misurare la differenza tra quanto risulta dall’analisi della situazione da parte di un’associazione terza e le affermazioni della propaganda israeliana.

Indice  del Rapporto 100.000 ore di isolamento…

Introduzione

Una Striscia isolata

Operazioni militari israeliane

Sfollati interni (IDP) e piano di ricostruzione di Gaza

Spostamenti attraverso il valico di Eretz

Collasso economico

Undici anni di blocco

Restrizioni alla navigazione minacciano la vita dei pescatori

La zona di sicurezza israeliana impedisce ai palestinesi l’accesso a terreni coltivabili

La crisi dei rifugiati: l’UNRWA non è in grado di garantire le necessità fondamentali

Un popolo imprigionato

Ingresso di combustibili e e crisi elettrica

Implicazioni giuridiche

AGIRE SUBITO

Introduzione

Dal 2008 Israele ha lanciato tre offensive militari contro la Striscia di Gaza, provocando danni irreversibili alle fragili infrastrutture e accentuando una crisi umanitaria già in atto. Oltre a queste distruzioni, la Striscia di Gaza resta sottoposta ad un blocco asfissiante che strangola i palestinesi da più di 11 anni.

Il blocco ha colpito la vita quotidiana di più di 2 milioni di abitanti, compreso 1 milione e 300 mila rifugiati, direttamente nei loro mezzi di sopravvivenza. Questo blocco, illegale in base alle leggi internazionali e frequentemente condannato da istituzioni internazionali, mantiene l’enclave costiera in uno stato di costante carenza di medicine, acqua, combustibile e cibo. Inoltre le restrizioni alla libertà di movimento di prodotti continua ad impedire la ricostruzione di migliaia di abitazioni, scuole, ospedali, impianti per la produzione di energia e reti idriche distrutti durante l’offensiva israeliana “Margine protettivo” del 2014. In più, lo stretto controllo da parte di Israele del traffico commerciale ha contribuito a ridurre ulteriormente le risorse di un’economia al collasso. Con un tasso di disoccupazione che ha superato il 43,2% della popolazione, un crescente numero di famiglie gazawi si sta ulteriormente impoverendo. La dipendenza dagli aiuti diventa più acuta mentre l’accesso agli aiuti internazionali resta bloccato.

Una Striscia isolata

Israele ha una lunga storia di isolamento della Striscia di Gaza, con vari blocchi dagli anni ’90. Tuttavia quello imposto nel 2006 è una forma di punizione collettiva senza precedenti per gravità e durata.

Nel settembre 2007 Israele ha dichiarato Gaza “entità ostile” ed ha stabilito che “sanzioni aggiuntive verranno applicate al regime di Hamas per limitare il passaggio di vari beni nella Striscia di Gaza e ridurre le forniture di combustibile ed elettricità. Verranno anche applicate restrizioni al movimento delle persone verso e dalla Striscia di Gaza.” In base alle leggi umanitarie internazionali Israele continua ad essere una potenza occupante nonostante lo spostamento di 8.000 “coloni” dalla Striscia di Gaza nel 2005.

Israele continua a controllare dal suo territorio l’entrata e l’uscita da Gaza, così come lo spazio aereo e marittimo della Striscia. Analogamente controlla l’anagrafe di Gaza, le reti delle telecomunicazioni e molti altri aspetti della vita quotidiana e delle infrastrutture, rendendo quasi impossibile ai residenti di provvedere al proprio sostentamento e di costruirsi un futuro prospero. Israele quindi sta violando l’assoluta proibizione di punizioni collettive da parte delle leggi umanitarie internazionali, penalizzando tutta la popolazione di Gaza per le azioni di pochi.

In più, dal 2008, lo Stato di Israele ha lanciato tre offensive militari contro la Striscia di Gaza, devastando le sue già precarie infrastrutture ed accentuando la crisi umanitaria determinata dal blocco asfissiante imposto da 11 anni.

Operazioni militari israeliane


* Operazione “Piombo fuso” (dicembre 2008-gennaio 2009): 1.436 palestinesi uccisi e più di 5.400 feriti.


*
Operazione “Pilastro di difesa” (14 – 21 novembre 2012): 162 palestinesi uccisi e più di 1.300 feriti.


* Operazione “Margine protettivo” (8 luglio – 26 agosto 2014): circa 2.147 palestinesi uccisi e più di 10.741 feriti.


* Durante le tre operazioni militari lanciate contro Gaza, densamente abitata, Israele ha utilizzato 24.000 tonnellate di esplosivo.

    1. 10.741 palestinesi sono stati feriti, di cui 3.303 bambini.

    2. Un terzo dei bambini feriti patiranno danni a lungo termine.

    3. Le forze israeliane hanno sistematicamente ignorato misure sufficienti per proteggere i non combattenti.

    4. Gli attacchi hanno provocato danni senza precedenti alle infrastrutture determinando una situazione economica disastrosa (circa 58.000 abitazioni sono state completamente o parzialmente distrutte).

La Striscia di Gaza è considerata una delle zone più densamente popolate del mondo ed è ermeticamente chiusa entro i suoi due confini. Le operazioni militari israeliane, condotte tra il 2008 e il 2014, sono costate la vita a 3.745 palestinesi e ne hanno feriti 17.441.

Israele non solo non ha preso le misure necessarie per risparmiare la popolazione civile, ma ha anche preso di mira luoghi densamente abitati, provocando un grande numero di vittime.

L’operazione “Margine protettivo”, la terza esplosione di ostilità tra Israele e le fazioni armate palestinesi nella Striscia di Gaza in meno di sei anni, ha provocato danni senza precedenti alle infrastrutture, con la conseguenza di una disperata situazione economica con quasi metà della popolazione disoccupata.

Sfollati interni (IDPs) e il piano di ricostruzione di Gaza

Fatti principali

* Le procedure internazionali non sono riuscite a far entrare materiali da costruzione (GRM), in quanto troppo lente nel processo di ricostruzione, per cui la quantità di cemento che è entrata nella zona rappresenta il 33% delle necessità per la ricostruzione.

  • Gli attacchi hanno privato circa 65.000 persone di una casa.

  • Solo il 46% dei fondi dei donatori (un miliardo e 596 milioni di dollari) sono stati destinati al settore della ricostruzione negli ultimi due anni.

Durante l’attacco del 2014 durato 50 giorni Israele ha condotto un numero stimato di 60.664 raid aerei, terrestri e navali, distruggendo o danneggiando gravemente in tal modo 18.000 unità abitative che richiedono materiali per la sistemazione e la costruzione irreperibili sul mercato locale.

Solo il 46% dei fondi dei donatori (un miliardo e 596 milioni di dollari) sono stati destinati al settore della ricostruzione negli ultimi due anni sull’ammontare totale stanziato durante la Conferenza per la Ricostruzione di Gaza, 3 miliardi e 507 milioni di dollari.

Con zone densamente abitate attaccate in modo indiscriminato, al culmine dell’offensiva più di 485.000 persone sono state spostate. Il numero è diminuito gradualmente durante e dopo l’attacco.

Per migliorare le condizioni delle persone sfollate che vivevano nei rifugi in seguito alle distruzioni provocate dall’attacco di 50 giorni, nell’ottobre 2014 si è tenuta al Cairo una conferenza di donatori sulla ricostruzione di Gaza, durante la quale la comunità internazionale ha promesso 5.4 miliardi di dollari (circa 300 milioni di dollari erano stati ricevuti fino a quel momento), metà dei quali era destinata alla ricostruzione dell’enclave costiera.

La conferenza si è tenuta in seguito all’istituzione del “Dispositivo per la Ricostruzione di Gaza (DRG [in inglese GRM, ndt])” nel settembre 2014, in quanto l’ONU aveva informato della necessità di costruire 89.000 nuove case e 26 nuove scuole, oltre a massicci interventi di riparazione delle infrastrutture. Il DRG era stato elaborato dall’inviato speciale ONU Robert Serry per consentire l’ingresso di materiali da costruzione nella Striscia, compreso il monitoraggio della distribuzione nella destinazione del cemento per garantire che la ricostruzione si facesse senza consentire alle fazioni armate palestinesi di utilizzare per scopi militari i materiali ricevuti.

Nel settembre 2016 il direttore dell’ufficio della Banca Mondiale in Cisgiordania e a Gaza, Marina Louis, ha affermato: “Più di 70.000 persone a Gaza hanno sofferto a causa di spostamenti interni per molto tempo. La situazione a Gaza è fonte di grande preoccupazione, e non sono ancora riscontrabili le condizioni necessarie per una crescita economica sostenibile.”

Due anni dopo l’adozione del “Dispositivo per la Ricostruzione di Gaza (DRG)” questo è stato un fallimento in loco, in quanto l’ammontare totale del cemento entrato a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom ai fini della ricostruzione è stato solo di 1.166.684 tonnellate. Una simile quantità è ovviamente indicativa del tasso molto lento al quale il DRG procede.

Finora solo il 33% delle necessità della Striscia di Gaza sono state soddisfatte. Sono necessari ancora quasi altri due milioni di tonnellate di cemento.

Quelle che sono state ricostruite finora sono solo 2.167 unità abitative delle 11.000 totalmente distrutte. Ciò rappresenta solo il 19,7% delle reali necessità. Inoltre il numero di unità abitative in via di costruzione è di 3.002. Solo 1.839 di queste hanno a disposizione fondi per essere completate. 3.992 altre abitazioni rimangono in attesa di fondi per l’inizio dei lavori di costruzione.

Spostamenti attraverso il valico di Erez

Fatti principali

* Le autorità israeliane hanno annullato 1.900 permessi commerciali su 3.700.

* Durante l’ottobre 2016, il 52% dei permessi richiesti da dipendenti dell’ONU a gaza sono stati respinti, rispetto al 3% nel gennaio dello stesso anno.

* Le autorità israeliane hanno annullato circa 280 dei 350 permessi concessi a uomini d’affari, compresa la cancellazione di due dei quattro permessi per donne.

* Alla fine del 2016 meno del 50% delle richieste per uscire passando da Erez per cure mediche all’estero è stato approvato. si è trattato di una percentuale bassa rispetto a quella del 2012, quando il 92,5% delle richieste era stato approvato.

La libertà di movimento nella Striscia di Gaza rimane un serio problema che deve affrontare ogni palestinese che desideri lasciare la Striscia o tornare a casa. Con l’Egitto che continua a chiudere il valico di Rafah per la maggior parte del tempo, Erez è diventato l’unica alternativa per la gente di Gaza.

Dopo l’operazione “Margine protettivo” nel 2014, la gente che entra o esce attraverso Erez è aumentata di numero. Tuttavia questo incremento è assolutamente insufficiente per rispondere alle necessità della popolazione della Striscia di Gaza. Infatti il numero delle persone che transitano è solo circa il 2% del totale nel 2000.

Le prassi delle autorità israeliane hanno peggiorato notevolmente le possibilità di movimento degli abitanti di Gaza. Nel 2016 migliaia di persone non hanno potuto viaggiare, una pratica frequente di cui Israele fornisce, quando le fornisce, giustificazioni poco chiare relative per lo più a questioni di sicurezza. Inoltre sempre più persone che riescono a passare sono sottoposte a interrogatori ed anche al rifiuto del permesso mentre cercano di attraversare Erez. Nel 2016 solo il 46% delle domande per un permesso di transito sono state approvate da Israele, segnando una diminuzione rispetto all’80% nel 2013.

I rifiuti del permesso per i palestinesi, soprattutto per gli uomini d’affari, in base a questioni di sicurezza hanno iniziato ad aumentare notevolmente alla fine del 2015. Questi rifiuti hanno impedito, tra molte altre categorie, a congiunti di fare visite a familiari, a professionisti di partecipare a opportunità di crescita professionale all’estero e a studenti di accedere a vari programmi educativi in tutto il mondo.

Le pratiche israeliane hanno implicato anche deliberate lunghe attese nel tentativo di attraversare Erez. Alcune delle poche ragioni fornite per questi ritardi sono interrogatori e ulteriori procedure per il permesso prima del rifiuto finale.

Gruppi colpiti dall’imposizione del rifiuto per ragioni di sicurezza

1. Commercianti e uomini d’affari

Nel 2016 molti commercianti e uomini d’affari palestinesi della Striscia di Gaza si sono visti negare il permesso per attraversare il valico di Erez, a volte in base a questioni di sicurezza. “Gisha”, il “Centro Giuridico Israeliano per la Libertà di Movimento”, riporta che 1.900 su 3.700 permessi commerciali rilasciati a operatori commerciali e uomini d’affari nella Striscia di Gaza sono stati annullati ed è stato messo in atto un bando sui loro spostamenti. La lista di uomini d’affari a cui è stato imposto il bando include persone che hanno da molto tempo rapporti d’affari in Israele e in Cisgiordania ed altri che stanno cercando di stabilire nuovi rapporti di affari all’esterno. Alcuni commercianti hanno riferito che il bando nei loro confronti è come minimo di un anno. In seguito a ciò la crescita del commercio e il suo contributo all’economia sono diminuiti per la continua cancellazione di permessi di transito, colpendo quindi le vite dei lavoratori di vari settori industriali.

2. Pazienti che cercano cure mediche

Il numero di pazienti che necessita di urgenti cure mediche irreperibili nella Striscia di Gaza è notevolmente aumentato. Tuttavia il numero di permessi di transito per questi pazienti è diminuito, provocando ulteriori sofferenze, che a volte provocano la morte.

Nel 2016 “Medici per i Diritti Umani” (MDU) ha registrato l’incremento del numero di pazienti affetti da tumore che si sono lamentati presso l’organizzazione per il rifiuto da parte di Israele delle loro richieste di viaggiare per cercare una cura all’estero in base a ragioni di sicurezza. In questo rapporto MDU documenta 43 di questi casi nella prima metà del 2016, e lo confronta con il numero di 48 da loro curati nello stesso periodo di tempo lo scorso anno.

Nel 2015, 242 pazienti hanno cercato l’aiuto di MDU e 150 di loro hanno ottenuto la rimozione del bando per la sicurezza da parte di Israele. Nel 2016 tuttavia c’è stata una netta riduzione delle risposte di Israele alle richieste di MDU: Israele ha concesso il permesso solo a circa il 25% delle domande presentate dai pazienti. Secondo un rapporto dell’OMS [Organizzazione Mondiale per la Sanità, ndt.] nel 2016 la percentuale di permessi approvati per consentire ai pazienti di ricevere trattamenti medici fuori dalla Striscia di Gaza è scesa dal 92,5% nel 2012 al 77,5% nel 2015. Nell’ottobre 2016 la percentuale dei permessi di uscita approvati ha rappresentato solo il 44%.

3. Personale locale di istituzioni ed enti internazionali

L’ufficio per il Coordinamento per gli Affari Umanitari dell’ONU ha informato che il tasso di permessi negati a dipendenti degli aiuti umanitari internazionale è recentemente salito al 49%. Nell’ottobre 2016 la percentuale è stata del 52%, rispetto al 3% nel gennaio dello stesso anno.

Nell’ottobre 2016 più di un centinaio di permessi richiesti per visite sono stati rifiutati. Questo dato include le richieste di 40 dipendenti dell’ONU e di altre agenzie internazionali, con alcune di queste che hanno ricevuto un divieto di un anno ed altre che hanno visto cancellare il proprio permesso quando erano ad Erez. Nel 2016 almeno 8 membri del personale dell’ONU e di altre istituzioni internazionali hanno segnalato la cancellazione dei loro permessi da parte delle autorità della sicurezza israeliana. Nel 2015 sono state registrate solo due di queste cancellazioni.

Collasso economico

Fatti principali

  • Quando il blocco è stato imposto per la prima volta, l’economia di Gaza è caduta in uno stato generale di recessione.

  • Alla fine del 2016 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 43,2%

* Il tasso di povertà è salito al 65% e quello dell’insicurezza alimentare al 72%

  • Il numero di palestinesi di gaza che vive sotto il livello di povertà è due volte e mezza di quello di chi vive in Cisgiordania

Mentre Israele sta soffocando l’economia di Gaza, i suoi tre attacchi in meno di un decennio hanno provocato una completa paralisi economica in seguito alla devastazione delle infrastrutture già precarie a causa di questi attacchi.

Le autorità israeliane continuano a bloccare l’ingresso di molte merci, macchinari industriali e sanitari e materiali per attrezzature, compresi quelli edili, entrati in quantità molto ridotte secondo IL DRG.

Ogni transito commerciale verso e dalla Striscia è completamente bloccato, tranne quello dal valico di Kerem Shalom, la cui percentuale di chiusura ha superato il 36% dei giorni durante il 2016.

Nel terzo quadrimestre del 2016 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 43,2%. In Cisgiordania la percentuale è solo del 18,7%, poco meno della metà di quello di Gaza. Il tasso di povertà arriva al 65% e quello di povertà estrema al 21%. Il numero di palestinesi di Gaza che vivono sotto il livello di povertà è due volte e mezza quello dei palestinesi della Cisgiordania. Da quando sono state imposte restrizioni alla Striscia di Gaza nel 2007, la percentuale di povertà è salita del 20%.

Un risultato del blocco è stato anche un vero e proprio collasso economico. L’80% della popolazione di Gaza è diventato estremamente dipendente dal sostegno e dall’aiuto internazionali forniti dall’UNRWA [l’agenzia dell’ONU per i rifugiati, ndt.] e da altre organizzazioni internazionali di solidarietà. Inoltre il 72% delle famiglie di Gaza è a rischio alimentare.

Imprese piccole e grandi sono state gravemente colpite durante l’operazione “Margine Protettivo” del 2014. Un numero totale di 5.153 stabilimenti industriali è stato preso di mira. Sono necessari 520 milioni di euro per la loro ricostruzione, mentre solo 23 milioni di euro sono stati attualmente stanziati per la ricostruzione, il 16,5% del costo totale stimato.

La continua e gravissima crisi di combustibili ed energia ha duramente colpito la fornitura di servizi fondamentali alla popolazione di Gaza: acqua e sanità, rete fognaria, servizi medici ed educativi. Anche le attività economiche sono state colpite da questa crisi. L’alto costo di funzionamento di un generatore ha obbligato molte piccole imprese, soprattutto le start-up, a chiudere in un breve lasso di tempo. In più anche le attività commerciali, a causa dell’estrema riduzione di importazioni, esportazioni e movimenti, hanno chiuso. Altri 142 milioni di euro sono necessari per compensare le attività economiche distrutte durante l’operazione israeliana “Margine Protettivo”. La mancanza di questi aiuti ha portato serie conseguenze economiche, compresa la chiusura di imprese.Quindi sono state segnalate sempre meno opportunità lavorative, mentre sempre più posti di lavoro sono stati persi.

Secondo l’Associazione Industriale Palestinese, i contributi del settore privato si sono ridotti dal 25% prima del 2006-07 a solo il 5% attualmente, come diretta conseguenza dell’assedio e delle tre offensive militari.

A causa delle restrizioni imposte da Israele, la maggior parte delle imprese non è in grado o non ha intenzione di investire in beni capitali, a rischio di distruzione in qualunque momento. Ciò porta ad una significativa riduzione della produttività del lavoro nella Striscia di Gaza, soprattutto se confrontata con la Cisgiordania.

La pesca e l’agricoltura sono altri due settori industriali significativamente colpiti dal blocco. I pescatori possono navigare solo a 3-6 miglia nautiche nel Mediterraneo e sono soggetti ad arresto o ad essere mitragliati se le oltrepassano.

Gli agricoltori devono affrontare problemi simili, con le loro fattorie agricole sotto costante minaccia di distruzione e le loro stesse vite in pericolo a causa dei soldati e dei cecchini israeliani.

Se questo blocco continuerà a limitare la vita economica dei palestinesi della Striscia di Gaza, essi rimarranno paralizzati economicamente e in misura ancora maggiore con il passar del tempo. La recessione economica, l’insicurezza alimentare, la disoccupazione, la povertà, la dipendenza dall’aiuto internazionale e la diminuzione della fiducia in investimenti economici continueranno a dominare la situazione di Gaza.

Esportazioni

Nel settembre 2005 Israele ha firmato un accordo con l’Autorità Nazionale Palestinese sui movimenti di beni attraverso i valichi controllati dagli israeliani. In base ai termini dell’accordo, 400 camion possono uscire giornalmente da Gaza. Tuttavia il numero di camion che hanno il permesso non supera i 100. Inoltre Israele esporta i prodotti di Gaza in altri Paesi e non consente di esportarli sui mercati della Cisgiordania. Al momento solo a poche quantità di frutta, ortaggi e mobili è consentita l’esportazione dalla Striscia di Gaza.

Nel 2016 il numero di camion per l’esportazione di prodotti ai mercati della Cisgiordania, di Israele e di altri Paesi è stato di 2.129, il che rappresenta il 42% del numero totale prima che venisse imposto il blocco.

Undici anni di blocco

Prima del blocco della Striscia di Gaza il movimento di persone e beni verso e dalla Striscia avveniva attraverso sei valichi: Erez, Karni, Nahal Oz, Kerem Shalom e Sufa, al confine con Israele, e dalla frontiera di Rafah con l’Egitto.

Prima del 2007, la media giornaliera di camion che uscivano dalla Striscia era di circa 70 e di quelli in entrata era di circa 583. La maggior parte dei prodotti entrava dal valico di Karni, nel nord-est di Gaza. Il combustibile per l’unico impianto per la produzione di energia entrava dal valico di Nahal Oz, a est di Gaza.

Il valico di Karni è stato chiuso nel 2007 e quello di Sofa nel settembre 2008. La maggior parte dei prodotti ora entra da Kerem Shalom, che funziona solo parzialmente.

Durante i due anni che hanno seguito il blocco totale imposto nel 2007, il numero medio di camion entrati nella Striscia è stato di circa 112, il che rappresenta circa un quinto del numero consentito prima del blocco. In seguito è stato vietato esportare prodotti dalla Striscia tranne che per pochi generi e in quantità limitate.

Le restrizioni alla navigazione minacciano le fonti di sussistenza dei pescatori

 

In base agli accordi di Oslo del 1994, firmati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e da Israele, ai palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza dovrebbe essere consentito l’accesso fino a 20 miglia nautiche, cioè 37 km nelle acque territoriali palestinesi nel mar Mediterraneo. Tuttavia i pescatori palestinesi sono sempre stati respinti a meno di 12 miglia nautiche.

 

Nel 2002 ai palestinesi è stato consentito l’accesso fino a 12 miglia nautiche prima che nel 2006, poco dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni politiche, il limite venisse ridotto a 10 miglia nautiche. Il limite è stato poi ulteriormente ridotto a 6 miglia nautiche nell’ottobre 2006 e a 3 miglia nautiche nel 2009, dopo l’operazione “Piombo Fuso”. In seguito all’accordo di cessate il fuoco alla fine dell’operazione “Pilastro di Difesa” nel novembre 2012, ai palestinesi è stato consentito l’accesso a 3-4 miglia nautiche e si è stabilito che questo limite sarebbe stato gradualmente esteso a 6 e alla fine a 12 miglia nautiche.

A causa delle restrizioni imposte ai pescatori, il pescato è sceso dalle 3.650 tonnellate nel 1999 alle 1.938 nel 2012, una perdita annuale di circa il 47%. Il numero di pescatori tra il 2000 ed il 2016 è sceso da circa 10.000 a 4.000, rendendone circa il 95% dipendente dagli aiuti internazionali, come documentato dall’UNOCHA.

La zona di sicurezza israeliana impedisce ai palestinesi l’accesso a terreni coltivabili

Circa il 35 %delle terre ad uso agricolo è stato fagocitato con il divieto di accesso alla terra imposto a Gaza da Israele, che ha creato una zona non accessibile profonda 3 km. per venire incontro alle sue preoccupazioni di sicurezza rendendo quasi impossibili gli investimenti in tali aree, dal momento che i contadini sono costantemente in una situazione di pericolo a causa dei metodi di controllo imposti da Israele, quali l’uso di munizioni vere, lo spianamento dei terreni agricoli e l’arresto dei contadini.

Nell’ultimo decennio i contadini hanno dovuto soffrire una perdita delle loro fonti di entrate e dei loro mezzi di sostentamento, compresi la distruzione di serre, i danni alle terre agricole, lo sradicamento di alberi e la morte del bestiame.

La sanità

Fatti principali

Alla fine del dicembre 2016 mancavano del tutto nella Striscia di Gaza

* Circa il 35% dei medicinali indispensabili, 481 prodotti; non e’ stato concesso il permesso di importazione a Gaza del 70% degli aiuti sanitari e del carburante destinato a far funzionare i generatori degli ospedali

Negli ospedali di Gaza 300 apparecchi medici non funzionanti necessitano di parti di ricambio, 18 di manutenzione e/o di essere sostituite a causa del blocco all’ingresso di nuove apparecchiature

Durante il 2016 è stato congelato il reclutamento di nuovo personale medico, nonostante che il settore abbia bisogno annualmente di 800 lavoratori

Il debole sistema sanitario di Gaza è stato profondamente danneggiato dalle restrizioni israeliane imposte sia all’accesso a prodotti sanitari fondamentali che alla possibilità di movimento dentro e fuori dalla Striscia di Gaza.

Il sistema sanitario pubblico di Gaza è stato gravemente danneggiato dal blocco israeliano e, ancor peggio, dalla divisione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Gravi carenze di medicine essenziali e di macchinari sanitari, la continua instabilità della fornitura di energia, la grave scarsità di carburante per i generatori e un’ inadeguata capacità di manutenzione hanno causato un aumento del deterioramento della qualità del servizio sanitario.

Il blocco pone altre serie difficoltà al sistema sanitario e cioè una mancanza di aggiornamento del personale medico specializzato e la quasi totale impossibilità di accedervi. Il ministero della Salute di norma ha la necessità di impiegare 800 lavoratori nel settore, molti dei quali non possono viaggiare per le restrizioni sui permessi di ingresso e di uscita da parte di Israele. I lavoratori del servizio sanitario assunti dopo il 2007 ricevono solo il 45% del loro salario base e di conseguenza quelli più qualificati cercano un’altro impiego, qualche volta perfino di andarsene.

Alla fine del dicembre 2016 quasi il 35% (481 prodotti) dei farmaci essenziali mancava del tutto nel magazzino sanitario centrale di Gaza e il 40-45% (50 specialità) era disponibile in piccole quantità. In seguito alla crisi energetica a Gaza, il settore sanitario necessita mensilmente di 420-450 mila litri di diesel per far funzionare 87 generatori nei presidi sanitari di Gaza. Quando l’importazione del carburante non viene concessa in quantità sufficienti, ne seguono conseguenze catastrofiche, specialmente tra i pazienti che hanno bisogno di ossigenazione.

Nel 2014, l’operazione “Margine Protettivo” ha prodotto effetti disastrosi sulla situazione sociale e psicologica dei bambini, di cui circa 551 sono stati uccisi e più di 3000 feriti. Inoltre un bambino su 4 ha bisogno di sostegno psicologico a causa del trauma e delle perdite subite nel corso dei violenti scontri, quali ferite fisiche, paura del rombo dei bombardamenti e morte di parenti o amici.

Più di 1000 pazienti al mese hanno bisogno di permessi per andare a curarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza, in particolare a Gerusalemme Est, in Cisgiordania, in Israele e in Giordania, ma a molti di questi viene negato da Israele il permesso di lasciare Gaza. Il 50% delle richieste di trasferimento dei pazienti è respinto da Israele. Il 25% delle richieste approvate riguarda pazienti affetti da cancro.

Nel 2016 nella Striscia si è notato un forte incremento nel numero dei pazienti malati di cancro. È stato calcolato che il numero [dei malati] è salito a 10.189, in altre parole, 476,4 per 100.000 abitanti – 80 al mese – soffrono di cancro, un aumento dovuto principalmente all’uso da parte di Israele di armi chimiche e altre proibite dal diritto internazionale. Il ministero della Salute di Gaza generalmente è solito indirizzare agli ospedali israeliani ed egiziani i pazienti per curarsi. I pazienti inviati in Israele, soprattutto gli uomini di età compresa tra i 18 e i 45 anni, vengono spesso ricattati e viene loro richiesto di fermarsi per interrogatori relativi alla sicurezza, durante i quali devono rispondere a domande riguardanti le fazioni armate palestinesi.

La crisi dei rifugiati: l’UNRWA non è in grado di provvedere alle necessità fondamentali

L’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Assistenza e il Lavoro ai rifugiati palestinesi (UNRWA) attua programmi di aiuto, offrendo aiuto alimentare e finanziario a più di 1.340.000 rifugiati a Gaza. Tuttavia, la maggioranza dei rifugiati soffre ancora di insicurezza alimentare.

Una ricerca condotta nel 2014 da parte dell’UNRWA mostra che il 46,7% dei gazawi, circa 900.000 persone, soffre di insicurezza alimentare. Quasi ogni rifugiato soffre per mancanza di cibo, acqua, elettricità, salute, educazione o di un rifugio. Sentimenti di insicurezza e ansietà continuano a interessare questi rifugiati in seguito ai ripetuti attacchi e al soffocante assedio durante l’ultimo decennio.

Il numero dei rifugiati sta aumentando considerevolmente ogni anno. Nel 2000, vi erano quasi 800.000 rifugiati distribuiti nei vari campi della Striscia di Gaza. Nel 2016 il numero dei rifugiati è salito a 1.340.000 e si stima che raggiungerà la cifra di1.600.000 nel 2020.

Dato il continuo aumento del numero e dei bisogni dei rifugiati nella Striscia di Gaza, tenuto conto della crisi finanziaria fronteggiata dall’UNRWA, l’accesso agli aiuti rimane ridotto per la maggior parte di loro. Il numero dei rifugiati bisognosi è salito a 900.000 nei pochi ultimi anni. Il 72% della popolazione di Gaza si trova al di sotto della linea della povertà. Nel 2014 prima dell’operazione “Margine Protettivo”, essi dipendevano principalmente dall’aiuto alimentare. Tuttavia tale aiuto presto è diminuito, lasciando la maggior parte dei rifugiati impossibilitati a provvedere ai loro bisogni fondamentali.

Il blocco continua ad avere un pesante impatto sulla situazione umanitaria dei rifugiati nella Striscia di Gaza, provocando un collasso nel settore privato e un enorme aumento della disoccupazione. Di conseguenza i bisogni dei rifugiati sono cresciuti molto al di là di quello che attualmente l’UNRWA è in grado di fornire.

A causa di un deficit finanziario del 65%, dopo l’operazione “Margine Protettivo”, l’UNRWA ha annunciato una riduzione del numero dei beneficiari dell’assistenza alimentare e di altri servizi e circa 43.000 famiglie di rifugiati sono state cancellate da quella lista. Inoltre l’UNRWA ha deciso di limitare la quota del suo programma di aiuto finanziario, che era solito fornire circa 40 dollari [38 euro a famiglia] per un totale di 21.000 famiglie di rifugiati.

Nel suo rapporto dell’agosto 2016, l’UNRWA ha studiato con cura [un piano] per l’emergenza a Gaza, affermando che era in grado di pagare 4.4 milioni di dollari[4.139.000 euro] per pagare per un certo periodo l’affitto ai rifugiati le cui case erano state distrutte durante gli attacchi del 2014.

Il rapporto ha documentato che fin dall’inizio del suo intervento d’emergenza riguardo alle necessità di offrire accoglienza nel 2014, l’UNRWA ha elargito, escludendo l’appoggio [già] programmato, aiuti finanziari superiori ai 2 miliardi e 39 milioni di dollari[1miliardo e 918 milioni euro] alle famiglie dei rifugiati palestinesi le cui case sono state distrutte durante l’operazione “Margine Protettivo”. 6.113 famiglie hanno ricevuto denaro in contanti per iniziare la ricostruzione delle loro case completamente distrutte, il cui costo totale tuttavia è stimato in 3.155 miliardi di dollari[2.968 miliardi di euro]

Più di 60.160 famiglie di rifugiati, le cui case sono state lievemente danneggiate, non hanno ricevuto nessun contributo per il lavoro di risistemazione, il cui costo totale è di 67.9 milioni di dollari[64 milioni di euro]. 3.694 famiglie le cui case sono state seriamente danneggiate, non hanno mai ricevuto un’assistenza finanziaria per cominciare le riparazioni, il cui costo totale è stimato in 33.2 milioni di dollari[31 milioni di euro].

Inoltre, altre 1.089 famiglie le cui case sono state completamente distrutte, non hanno ricevuto nessun aiuto mentre cercavano di ricostruire le loro case, il cui costo totale stimato si aggira sui 9.7 milioni di dollari[9.125.000euro]

Nel 2016, in un discorso sulla situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, il direttore operativo dell’UNRWA, Bo Shack ha detto: “ Rispetto agli ultimi 6 mesi, la situazione umanitaria è considerevolmente peggiorata. Gaza sta passando un momento veramente brutto, con un tasso di disoccupazione elevato, mancanza di acqua, danni alle infrastrutture, continue interruzioni di energia e le restrizioni imposte alla libertà di movimento degli individui da e verso Gaza”.

L’ultimo recente attacco del 2014 ha determinato un aggravamento dell’inquinamento idrico e della carenza d’acqua nella Striscia, dove circa 1.3 milioni di palestinesi hanno difficoltà di accesso all’acqua e ai servizi sanitari, specialmente in quanto l’80% dei pozzi non è utilizzabile.

Secondo l’Autorità palestinese per l’acqua, circa il 95% dell’acqua per uso potabile non risponde agli standard per la potabilità dell’acqua fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il blocco come anche lo scarso intervento, quando permesso da Israele, di programmi internazionali contribuisce all’aggravarsi del problema dell’acqua nella Striscia di Gaza.

Si prevede che, se l’attuale situazione non migliorerà entro il 2020, la critica mancanza di acqua . diventerà irreparabile.

Le conseguenze delle interruzioni di energia si aggiungono alla gravità dei problemi idrici nella Striscia di Gaza. Giacché i servizi idrici dipendono notevolmente dalla disponibilità di elettricità, il 30% della popolazione oggi non ha un facile accesso all’acqua, mentre l’80% deve acquistare acqua potabile per gli usi domestici al posto della mancanza d’acqua corrente.

Dall’altro lato, l’UNRWA non è in grado di stare al passo con i crescenti bisogni educativi dei rifugiati nella Striscia di Gaza. Con una capacità finanziaria ridotta, l’UNRWA non può più garantire un servizio educativo efficiente ai circa 240.000 studenti rifugiati iscritti nelle sue scuole, pari al 55% del totale delle scuole della Striscia di Gaza.

Date le sfide summenzionate che la popolazione di Gaza e l’UNRWA [si trovano ad affrontare], le scuole continuano a essere incapaci di migliorare la qualità del servizio educativo. Il blocco e i ripetuti attacchi israeliani contro la Striscia hanno prodotto un notevole declino della qualità dell’educazione fin dal 2007. Spesso durante gli attacchi insegnanti e studenti hanno smesso di andare a scuola per evitare di mettere in pericolo la loro vita, il che ha determinato frequenti interruzioni degli studi.

Dato che sempre più studenti sono iscritti nelle scuole UNRWA, la necessità di rinnovare quelle vecchie e danneggiate e di costruirne di nuove [ha raggiunto livelli] critici. Tuttavia, la continua chiusura dei valichi sta portando a una mancanza dei materiali materiali da costruzione necessari per far progredire le infrastrutture educative. Per affrontare ciò, in primo luogo, le scuole devono raggruppare gli studenti in numeri così grandi che una singola classe può avere 45 o perfino ancor più studenti.

Le conseguenze di queste classi sovraffollate sono facili da indicare: minore qualità. Secondo, il 90% dei 252 istituti scolastici dell’UNRWA a Gaza lavora con due e qualche volta tre turni per poter accogliere il gran numero di studenti. Tuttavia questo piano per affrontare la situazione ha degli inconvenienti. Con ogni turno che dura troppo poco, circa 4 ore al giorno, gli studenti e gli insegnanti hanno minori opportunità di produrre rispettivamente un apprendimento attivo e un insegnamento efficace.

Un popolo imprigionato

I palestinesi che vivono a Gaza sono ancora privati del loro diritto alla libertà di movimento. Sia che lo scopo del loro viaggio consista nel lavorare, studiare, visitare congiunti o ricevere cure mediche, e sia che intendano uscire da Gaza o farvi ritorno, ricevono il diniego del loro diritto da parte di Israele.

Le autorità israeliane vietano ai gazawi di andare a visitare i propri parenti che vivono al di fuori della Striscia, nonostante il fatto che circa il 35% della popolazione di Gaza abbia parenti in Israele, a Gerusalemme est e in Cisgiordania.

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) considera le restrizioni israeliane alla libertà di movimento di persone e merci tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania come “parte della politica di separazione”, la stessa politica che nega ai palestinesi l’accesso alle cure mediche, all’educazione o al lavoro in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Benché si fosse impegnato nel 2010 ad alleviare le restrizioni e a permettere alle persone di muoversi più liberamente, facilitando le procedure di ottenimento dei permessi di ingresso ed uscita dalla Striscia per motivi medici e umanitari, incluse attività di aiuto internazionale, Israele non ha mantenuto quelle promesse.

Al contrario, ha rafforzato le restrizioni e ridotto il numero di permessi rilasciati per ragioni umanitarie e per operatori umanitari dipendenti da organizzazioni locali ed internazionali. La maggior parte dei permessi di uscita continua ad essere respinta arbitrariamente o rinviata per lunghi periodi.

Ingresso di combustibili e crisi elettrica

Alla fine di luglio 2013 l’esercito egiziano ha distrutto la maggior parte dei tunnel tra l’Egitto e Gaza. Nel maggio 2015 l’Egitto ha annunciato di essere riuscito a distruggere l’80% dei tunnel della Striscia, il che ha portato alla totale interruzione dell’ingresso di combustibile attraverso i tunnel.

Il risultato è stato che i palestinesi hanno sofferto di gravi restrizioni all’ingresso di combustibile e della conseguente impennata del suo prezzo. Inoltre l’unica centrale elettrica di Gaza ha lavorato solo al 46% della sua capacità. Spesso, negli anni recenti, ha dovuto interrompere del tutto l’attività a causa della fuoruscita di combustibile e i palestinesi di Gaza hanno dovuto affrontare lunghi e ripetuti periodi di blackout per 12-16 ore al giorno.

Le vere ragioni della crisi energetica nella Striscia di Gaza sono la forte riduzione di elettricità, la rapida crescita della domanda di energia e l’accumulazione di mancati pagamenti all’azienda. Nel 2012 questi hanno raggiunto la cifra di 3.5 miliardi di NIS [Nuovo Shekel Israeliano. Importo pari a circa 900 milioni di euro. Ndt.]. La popolazione non può pagare questa grossa somma a causa della situazione finanziaria peggiorata per via del blocco e dei ridottissimi redditi della maggior parte delle famiglie.

Il già alto costo dell’energia è ulteriormente aggravato dal peso delle tasse, per esempio la “blue tax” [tassa sul gasolio per uso industriale. Ndt.] imposta dal governo palestinese in Cisgiordania, che ammonta a 30 milioni di NIS [quasi 8 milioni di euro. Ndt] al mese.

Implicazioni giuridiche

Le autorità israeliane hanno imposto una politica di chiusura ed assedio alla Striscia di Gaza ininterrottamente per dodici anni. Israele mantiene uno stretto controllo sui passaggi terrestri e navali sia commerciali che non, impedendo ai residenti di Gaza di spostarsi per vari scopi, ai pescatori di pescare entro le aree concordate, a diversi tipi di merci di entrare e a farmaci e attrezzature mediche vitali indisponibili di essere conferiti agli ospedali. Non solo questa politica contraddice le promesse di Israele, ma costituisce anche una flagrante violazione dei suoi obblighi in base al diritto internazionale ed alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, che lo considera responsabile della sicurezza e del benessere dei cittadini che vivono nei territori che continua ad occupare.

Anche se Israele sostiene che Gaza non è più un territorio occupato in quanto se ne è ritirato nel 2005, la sua pretesa contraddice palesemente la realtà sul terreno. Israele continua a controllare totalmente i confini di Gaza, il suo spazio aereo e le sue acque territoriali. Inoltre dispone di un registro della popolazione dei gazawi, riscuote, a nome dell’ANP, le imposte sulle merci che entrano a Gaza attraverso i confini sotto il suo controllo ed esercita il potere su Gaza. In più, i pescatori non possono pescare liberamente o in sicurezza nelle acque territoriali palestinesi del Mediterraneo, cosa che è loro garantita dal diritto internazionale umanitario e dalle Convenzioni di Ginevra.

Israele sistematicamente limita o vieta l’entrata di cibo e prodotti medici, in aperta violazione del diritto internazionale umanitario. In base agli articoli 55-56 della Quarta Convenzione di Ginevra, è dovere dell’occupante fornire cibo e materiale sanitario alla popolazione che occupa.

In base all’articolo 54 del Primo Protocollo Addizionale delle Convenzioni di Ginevra (1977), è proibito affamare i civili. Questo costituisce anche un crimine di guerra, come definito dallo Statuto della Corte Penale Internazionale: “uso intenzionale della privazione del cibo per i civili come strumento di guerra, privandoli degli elementi indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso il deliberato impedimento di ricevere aiuti di emergenza, come sancito dalle Convenzioni di Ginevra.”

Le conseguenze delle violazioni israeliane vanno oltre la privazione di cibo, giungendo fino alla devastazione delle infrastrutture civili. Nel corso dell’operazione “Margine Protettivo”, l’esercito israeliano ha distrutto deliberatamente un alto numero di strutture civili, in particolare installazioni industriali, reti elettriche e di comunicazione, impianti di trasporto e terreni agricoli. Nonostante gli sia legalmente vietato, continua ad impedire l’ingresso di materiali edili necessari a ricostruire ciò che è stato distrutto. Simili atti deliberati costituiscono gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e del loro Primo protocollo Addizionale, il cui articolo 54 vieta di attaccare, distruggere, rimuovere o rendere inutilizzabili beni indispensabili alla sopravvivenza dei civili.

Il blocco della Striscia di Gaza è una forma illegale di punizione collettiva dell’intera popolazione. In quanto tale, costituisce una violazione dell’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, che stabilisce che “nessuna persona protetta può essere punita per un’azione che lui o lei non abbia commesso personalmente. Sono proibite le punizioni collettive ed ugualmente tutte le misure di intimidazione o di terrorismo.”

La negazione da parte di Israele del diritto alla libertà di movimento per i palestinesi all’interno e all’esterno della Striscia di Gaza è collegato alla violazione di altri diritti di pari importanza, come quelli all’educazione e alla salute, per coloro che programmano di spostarsi per ricevere istruzione o cure mediche. Israele impedisce pervicacemente ai gazawi di lasciare la Striscia per qualunque motivo, ad eccezione di pochissimi casi di gravi situazioni umanitarie, sottostando ad una massacrante procedura di concertazione con le autorità competenti. Oltre a questa restrizione, Israele concede un periodo di tempo limitato di allontanamento da Gaza di un palestinese ed impedisce il rientro se tale periodo è scaduto. Ultimamente Israele ha iniziato a permettere ad alcuni commercianti di lasciare la Striscia per ragioni di affari, eppure ha arrestato parecchi di loro mentre attraversavano i posti di controllo.

Il diritto di viaggiare è un diritto umano fondamentale, non solo in base al diritto internazionale umanitario, ma anche in base all’articolo 12 del Protocollo Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966) sul diritto di tutti alla libertà di movimento e di scelta della residenza: “Ognuno è libero di lasciare un Paese, incluso il proprio” e “Nessuno può essere arbitrariamente privato del diritto ad entrare nel proprio Paese”.

AGIRE SUBITO

APPELLO ALLE AUTORITÀ ISRAELIANE PERCHE’ METTANO FINE ALL’ILLEGALE BLOCCO DI GAZA

La catastrofe umanitaria che si sta consumando nella Striscia di Gaza è una vergogna per l’umanità e per tutti coloro che assistono in silenzio alla povertà e alla mancanza di risorse.

In base al diritto internazionale umanitario Israele, in quanto potenza occupante, ha il dovere di garantire il benessere della popolazione di Gaza senza discriminazioni.

Israele non ha garantito i diritti umani della popolazione, compreso il diritto alla salute, all’educazione, al lavoro e ad un adeguato livello di vita, che include il diritto al cibo e ad una adeguata abitazione. Israele deve rispondere di fronte al diritto internazionale della punizione collettiva di un’intera popolazione.

Perciò l’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani chiede urgentemente alla comunità internazionale di contribuire a porre fine al blocco della Striscia di Gaza.

Primo, chiediamo che il governo israeliano ponga fine al blocco.

Secondo, facciamo appello al governo israeliano perché smetta di perseguitare cittadini innocenti, pratica che viola la Convenzione di Ginevra del 1949.

Terzo, facciamo appello al governo egiziano perché apra il valico di Rafah per persone e merci, senza restrizioni.

Quarto, facciamo appello alla comunità internazionale perché renda Israele responsabile per le sue continue violazioni dei diritti umani e imponga sanzioni economiche ad Israele finché non rispetterà i diritti umani dei palestinesi. La comunità internazionale deve essere in grado di distinguere tra la punizione collettiva dei palestinesi da parte di Israele ed il conflitto politico tra Palestina ed Israele.

Quinto, facciamo appello alla comunità internazionale, in particolare all’Unione Europea e agli Stati Uniti, perché promuovano e sostengano la necessità di un porto a Gaza, che garantisca la libera importazione ed esportazione di merci ed i viaggi all’estero di privati. Gli impegni per il porto a Gaza non solo rispondono ad una priorità e necessità dei palestinesi, ma costituiscono anche un sostegno al loro desiderio di rendersi indipendenti.

(Traduzione a cura della redazione di Zeitun.info)

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Israele mette in guardia l’ONU su un’imminente crisi umanitaria nella Striscia di Gaza.

Il coordinatore militare israeliano incolpa Hamas per le insufficienti infrastrutture di Gaza per acqua ed elettricità.

Gili Cohen – 9 aprile 2017,Haaretz

Israele ha messo in guardia le Nazioni Unite su un imminente crisi umanitaria nella Striscia di Gaza a causa di gravi problemi infrastrutturali. In una lettera inviata la settimana scorsa all’inviato speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, Nikolay Mladenov, il generale Yoav Mordechai, coordinatore dell’esercito israeliano per le attività di governo nei territori [occupati], sull’argomento ha affermato che l’Autorità Nazionale Palestinese è responsabile della situazione che si è determinata a Gaza e non è stato fatto nessuno sforzo concreto per risolvere i problemi.

 

Mordechai ha segnalato serie carenze nei servizi idrici ed elettrici di Gaza: circa il 96% dell’acqua è considerata non potabile e una cronica e continua scarsità di elettricità ha portato ad ore di interruzione d’energia nella Striscia.

Sabato Mladenov ha condannato l’esecuzione, la scorsa settimana, di tre palestinesi a Gaza accusati di collaborare con Israele. In una dichiarazione Mladenov ha sostenuto: “Nel decennio scorso i palestinesi di Gaza hanno vissuto quattro conflitti, l’assenza di libertà, restrizioni senza precedenti da parte di Israele, una grave crisi umanitaria, alti tassi di disoccupazione, una crescente crisi energetica e la mancanza di prospettive politiche.”

Negli ultimi giorni Mordechai ha scritto sulla sua pagina Facebook ufficiale dei post in arabo relativi alla grave situazione umanitaria a Gaza: “La crisi elettrica è molto vicina e la responsabilità è dell’organizzazione terroristica Hamas.”

Egli ha scritto: “Se la situazione non sarà risolta nei prossimi giorni, è possibile che la produzione di energia si interrompa e che gli abitanti di Gaza debbano affrontarne le serie conseguenze e pagarne il prezzo.”

In un altro post Mordechai ha preso in considerazione la crisi idrica di Gaza, affermando che Hamas sta ostacolando l’operatività dell’impianto di desalinizzazione dell’UNICEF presso Khan Younis. Hamas non fornisce l’elettricità al servizio, per cui esso funziona solo durante una parte del tempo utilizzando generatori e non è in grado di soddisfare la domanda,” ha affermato.

Invece di preoccuparsi del benessere degli abitanti, Hamas li sta danneggiando e sta rendendo difficile all’organizzazione internazionale, che ha lavorato duramente, fornire acqua potabile,” ha scritto Mordechai. “Hamas deve immediatamente garantire l’elettricità necessaria per il funzionamento dell’impianto di desalinizzazione per il bene degli abitanti, ma invece l’organizzazione terroristica ha scelto di inviare l’elettricità ai propri tunnel terroristici e alle case dei suoi dirigenti.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 21 marzo – 3 aprile 2017 ( due settimane)

Tre aggressioni con coltello hanno provocato l’uccisione di due palestinesi e il ferimento di quattro israeliani.

Il 29 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata colpita con arma da fuoco ed uccisa una donna palestinese di 49 anni che avrebbe tentato di accoltellare un poliziotto israeliano di frontiera: non sono stati segnalati feriti israeliani e sull’episodio le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Sempre nella Città Vecchia, il 1° aprile, un 17enne palestinese ha accoltellato e ferito un poliziotto israeliano e due giovani israeliani ed è stato successivamente colpito ed ucciso. Secondo fonti israeliane, il 27 marzo, nella città israeliana di Lod, un giovane palestinese della città di Halhul (Hebron) ha accoltellato e ferito una donna israeliana ed è stato successivamente arrestato. Questi episodi portano a 12, dall’inizio del 2017, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Altri due ragazzi palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due distinti episodi verificatisi vicino a Ramallah e ad est di Rafah (Gaza). Il primo si è verificato il 17 marzo, nei pressi di una torre di guardia militare vicina al Campo profughi di Al Jalazun; le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un 17enne palestinese e ferito altri tre ragazzi: secondo fonti militari israeliane, la sparatoria ha avuto luogo in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El, nel quale non erano stati segnalati danni né feriti. Nel secondo caso, il 21 marzo, le forze israeliane hanno sparato proiettili di carro armato in direzione di uno spazio aperto ad est della città di Rafah, a circa 300 metri dalla recinzione perimetrale: un civile palestinese di 16 anni è stato ucciso ed un secondo è stato ferito; le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, in numerosi scontri le forze israeliane hanno ferito complessivamente 124 palestinesi, 14 dei quali minori, con un incremento significativo rispetto ai dati registrati dall’inizio del 2017. La maggior parte dei ferimenti si sono avuti durante scontri contestuali alle manifestazioni che commemoravano il 41° anniversario della “Giornata della Terra” che, per i cittadini palestinesi di Israele, rievoca un esproprio di massa di terra palestinese. Altri scontri sono stati segnalati nel corso di molteplici operazioni di ricerca-arresto; al funerale del ragazzo ucciso nel Campo profughi di Al Jalazun [vedi sopra] e durante scontri in varie località dei governatorati di Gerusalemme e Ramallah. A quanto riferito, quattro soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

Dopo l’uccisione di un membro di Hamas avvenuta ad opera di ignoti il 24 marzo a Gaza City, le autorità palestinesi de facto di Gaza hanno imposto severe restrizioni di accesso, adducendo motivi di sicurezza. Le uscite attraverso il checkpoint ‘Arba-‘Arba – che controlla l’accesso al valico di Erez tra Gaza e Israele – è stato particolarmente colpito; in tal modo si è ridotto ulteriormente il numero di persone, già esiguo a causa di preesistenti restrizioni imposte da Israele, alle quali è consentita l’uscita. A partire dal 4 aprile, più di 100 pazienti che avevano prenotazioni per cure mediche da effettuare fuori Gaza hanno perso i loro appuntamenti e le relative prestazioni sanitarie e dovranno richiedere nuovamente un permesso di uscita, senza alcuna garanzia di accoglimento e con il possibile rischio di un peggioramento delle loro condizioni di salute. Alla maggior parte del personale delle Organizzazioni umanitarie è stata vietata l’uscita da Gaza attraverso Erez; tuttavia, dal 1° aprile, è stato consentito l’attraversamento al personale internazionale impiegato presso le Nazioni Unite e l’ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa].

Nello stesso contesto, dal 26 marzo, le autorità de facto impediscono l’accesso dei pescatori palestinesi al mare lungo la costa di Gaza. Il Sindacato dei Pescatori di Gaza ha stimato perdite di due o tre tonnellate di pesce al giorno, con conseguenti aumenti di prezzo del pesce importato. Queste restrizioni, giunte all’inizio della stagione della pesca delle sardine, compromettono ulteriormente i proventi della pesca, già precari per le restrizioni di accesso imposte da lunga data da Israele.

Prima dell’imposizione delle restrizioni da parte delle Autorità de facto, il valico di Erez sotto controllo israeliano era normalmente operativo, mentre il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, era chiuso. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

Sempre nella Striscia di Gaza, oltre all’episodio avvenuto ad est di Rafah [vedi sopra], nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 28 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. In due occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno arrestato un civile palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture di proprietà palestinese, sfollando 22 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di oltre 90 persone. Cinque di queste strutture si trovavano a Gerusalemme Est e le restanti in cinque comunità dell’Area C. Inoltre, nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, è stata sigillata punitivamente la casa di famiglia dell’aggressore che, nel mese di gennaio 2017, uccise quattro soldati israeliani: una donna ed i suoi quattro figli sono stati sfollati.

Nel governatorato di Nablus, per la creazione di un nuovo insediamento israeliano e la “legalizzazione” retroattiva di tre avamposti già esistenti, le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” vari appezzamenti di terreno non contigui, per un totale di quasi 100 ettari. Questa decisione può avere un impatto sull’accesso alla terra da parte degli agricoltori di quattro villaggi adiacenti (Sinjil, Qaryut, As Sawiya e Al Lubban Ash Sharqiya), compromettendo ulteriormente la loro capacità di sostentamento con il lavoro agricolo. Secondo la decisione del Governo israeliano, il nuovo insediamento servirà alla rilocalizzazione dei coloni recentemente evacuati dall’insediamento avamposto di Amona; la decisione prevede anche limitazioni alla futura espansione dell’insediamento.

In quattro distinti episodi, coloni israeliani armati hanno attaccato o minacciato contadini palestinesi, costringendoli ad uscire dai loro terreni posti in prossimità di insediamenti colonici. In uno di questi episodi, verificatosi vicino al villaggio di Beit Furik (Nablus), un contadino palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito. Gli altri tre episodi comprendono minacce e intimidazioni nei confronti di agricoltori palestinesi che, a Nablus e Qalqiliya, possono accedere alla propria terra previo coordinamento ed autorizzazione delle autorità israeliane. Questo meccanismo ha lo scopo di garantire agli agricoltori, due volte l’anno, durante la stagione dell’aratura e durante il raccolto, l’accesso sicuro a zone soggette alla violenza dei coloni. Inoltre, tre veicoli palestinesi sono stati danneggiati da lanci di pietre da parte di coloni.

Secondo i media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

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Ultimi sviluppi (dal 6 aprile)

Mezzi di informazione riferiscono che le autorità de facto della Striscia di Gaza hanno giustiziato tre uomini palestinesi accusati di “collaborazione con Israele”.

Il Ministero degli Interni della Striscia di Gaza ha annunciato la revoca di tutte le restrizioni di accesso in vigore dal 26 marzo.

Mezzi di informazione riferiscono che un uomo palestinese ha guidato il suo veicolo contro una fermata del bus nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), casando la morte di un soldato israeliano ed il ferimento di un altro; l’uomo è stato arrestato.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA 7 – 20 marzo 2017 (due settimane)

Il 13 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme Est, un 25enne palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani ed è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane.

Dopo l’accaduto, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia dell’attentatore, nel quartiere di Jabal al Mukabbir di Gerusalemme Est, hanno arrestato quattro membri della famiglia ed hanno distrutto la tenda eretta per il lutto. Il 15 marzo, una ragazza palestinese 16enne ha schiantato l’auto che stava guidando contro i pilastri metallici che, al raccordo di Gush Etzion (Hebron), proteggono la fermata dell’autobus dei coloni; la ragazza è stata gravemente ferita con arma da fuoco dai soldati israeliani; non sono stati segnalati altri feriti.

Il 17 marzo, durante scontri scoppiati nei pressi del Campo profughi Al ‘Arrub (Hebron), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un palestinese 16enne; secondo fonti militari israeliane, l’uso delle armi da fuoco è stato attuato in risposta al lancio di bottiglie incendiarie [da parte palestinese]. Inoltre, 43 palestinesi, 11 dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in diversi scontri verificatisi in Cisgiordania (41 feriti) e nella Striscia di Gaza (2 feriti). La maggior parte dei feriti si sono avuti nel corso di scontri scoppiati a Ni’lin (Ramallah), durante le proteste settimanali contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le limitazioni di accesso; nel corso di moltepici operazioni di ricerca-arresto; durante una manifestazione nei pressi del checkpoint di Beituniya; e al funerale del palestinese ucciso nel Campo profughi Al ‘Arrub [di cui sopra]. In quest’ultima località, secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito da una pietra.

Il 20 marzo, un’operazione di ricerca-arresto effettuata dalle forze di sicurezza palestinesi nel Campo profughi di Balata (Nablus) ha innescato violenti scontri con un gruppo di residenti armati: un membro delle forze di sicurezza è rimasto ucciso mentre altre quattro persone hanno riportato ferite. In questo Campo, negli ultimi mesi, nel contesto delle attività di polizia operate dalle Autorità palestinesi, si sono vissuti momenti di tensione e violenza fra palestinesi. Ad Al Bireh (Ramallah), il 12 marzo, durante scontri scoppiati nel corso di una protesta, 11 palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti dalle forze di sicurezza palestinesi.

Il 16 e il 18 marzo, nella Striscia di Gaza, le forze israeliane hanno attaccato e danneggiato una serie di presunte strutture militari ed aree aperte. Gli attacchi erano conseguenti al lancio di due razzi, operato da un gruppo armato palestinese: i razzi erano caduti in uno spazio aperto nel sud di Israele, senza causare vittime o danni. Secondo quanto riferito, un altro razzo lanciato verso Israele è ricaduto dentro la Striscia.

Sempre a Gaza, in almeno 34 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco – di avvertimento o diretto – in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare. Non sono stati segnalati feriti, tuttavia, a quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In altri due casi, le forze israeliane hanno arrestato quattro civili palestinesi, tra cui tre minori; presumibilmente dopo che questi avevano tentato di entrare illegalmente in Israele attraverso la recinzione (a controllo israeliano) che circonda la Striscia di Gaza. Inoltre, in due diverse occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale.

Per mancanza dei permessi di costruzione – per i palestinesi quasi impossibili da ottenere – le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Sette di queste (disabitate) si trovavano a Gerusalemme Est; le altre due, tra cui un’abitazione, si trovavano in una comunità dell’Area C (Furush Beit Dajan, in Nablus). Nel complesso, tre palestinesi sono stati sfollati ed altri 43 risultano coinvolti.

In Area C, sempre adducendo la mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno notificato ordini di demolizione e blocco lavori nei confronti di 11 strutture abitative di pertinenza di quattro villaggi (Kafr ad Dik, in Salfit; Al Baqa’a e Deir Samit, in Hebron; Al Khadr in Bethlehem). Inoltre, le autorità israeliane hanno rinnovato gli ordini di requisizione per più di 30 ettari di terreno, già requisito a suo tempo per la costruzione della Barriera nel governatorato di Tulkarem; hanno inoltre emesso ordine di sgombero nei confronti di un appezzamento di terra coltivata con oltre 50 giovani ulivi nel villaggio di Immatin (Qalqiliya), in quanto terra designata [da Israele] come “terra di stato”.

Due palestinesi sono stati feriti e danni materiali significativi sono stati registrati in vari episodi in cui risultano coinvolti coloni israeliani. Tali episodi includono l’aggressione fisica ed il ferimento di un ragazzo palestinese di 13 anni nell’insediamento colonico French Hill a Gerusalemme Est e di una donna palestinese di 29 anni vicino al villaggio di Beitin (Ramallah). Vandalizzazioni di proprietà palestinesi sono state riportate in sette episodi distinti: più di 240 alberi e alberelli di proprietà palestinese danneggiati nelle località di As Sawiya (Nablus), At-Tuwani (Hebron) e Al-Khader (Betlemme); due veicoli palestinese danneggiati per lancio di pietre in episodi verificatisi vicino al raccordo di Mikhmas e nella città di Hebron; una struttura agricola danneggiata nel villaggio di Qusra (Nablus).

Secondo quanto riferito dai media israeliani, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: nei pressi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per due giorni in entrambe le direzioni: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.473 persone e il rientro a 1.370. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Come Israele utilizza il gas per rafforzare la dipendenza palestinese e promuovere la normalizzazione

Di Tareq Baconi – 12 marzo 2017, Al-Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana dei territori palestinesi non esiste solo sul territorio. Dal 1967 Israele ha sistematicamente colonizzato le risorse naturali dei palestinesi e, nel campo degli idrocarburi, ha impedito ai palestinesi l’accesso alle loro riserve di petrolio e di gas.

Queste restrizioni hanno garantito la continua dipendenza dei palestinesi da Israele per le loro esigenze energetiche. I tentativi degli stessi palestinesi di sviluppare un proprio settore energetico non riescono a far fronte alla complessiva egemonia di Israele sulle risorse palestinesi. Al contrario, perseguono la crescita e la costruzione dello Stato all’interno della situazione dell’occupazione, rafforzando ulteriormente – anche se in modo involontario – l’equilibrio asimmetrico tra occupato ed occupante.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Tareq Baconi inizia prendendo in considerazione il contesto dei recenti accordi sul gas. Continua discutendo come i tentativi di sviluppare il settore dell’energia palestinese non riesca a far fronte a questa situazione e si basi principalmente su pratiche che cercano di eludere l’occupazione e che intendono migliorare la qualità della vita nel contesto dell’occupazione. Come sostiene Baconi, in ultima istanza questi tentativi rafforzano il ruolo dei territori palestinesi come mercato vincolato a favore delle esportazioni di energia israeliane e getta le basi per una normalizzazione a livello regionale sotto la definizione di “pace economica”. Egli sottolinea che una pace durevole e la stabilità si otterranno solo se i fattori fondamentali che tengono i palestinesi soggetti al dominio di Israele vengono affrontati e propone una serie di raccomandazioni politiche su come farlo.

L’impatto politico dell’abbondanza di gas israeliana

Fino a pochi anni fa sia Israele che la Giordania facevano notevole affidamento sulle importazioni di gas egiziano. Nel 2011-2012 e soprattutto dopo la caduta del regime del presidente Hosni Mubarak, le esportazioni di gas dall’Egitto sono diventate intermittenti. Ciò era dovuto sia a problemi interni nel settore energetico egiziano che alla crescente instabilità nella penisola del Sinai, che ospita il principale percorso del gasdotto che rifornisce Israele e Giordania. Con la caduta delle importazioni dall’Egitto, Israele e Giordania hanno iniziato a cercare fonti alternative di rifornimento. Nel 2009 un consorzio israelo-americano di imprese dell’energia ha scoperto “Tamar”, un giacimento a circa 80 km al largo della costa di Haifa, che contiene circa 300 miliardi di m3 di gas. Con la sicurezza energetica israeliana a rischio, il consorzio si è mosso rapidamente verso la produzione ed il gas ha iniziato a scorrere nel 2013. Un anno dopo la scoperta di “Tamar” lo stesso consorzio ha identificato il giacimento di gas “Leviatano”, molto più grande, stimato per circa 450 miliardi di m3 di gas.

Nel giro di qualche anno Israele è passato dall’essere un importatore di gas dalla regione ad aver acquisito le potenzialità per diventare un esportatore. Ha guardato sia ai mercati locali che a Paesi confinanti e ad altri più lontani per identificare potenziali destinatari delle esportazioni. Nelle sue immediate vicinanze le implicazioni per procedere verso la normalizzazione economica sono state evidenti: come ha recentemente dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu, produrre gas da “Leviatano” “fornirà gas a Israele e promuoverà la cooperazione con Paesi della regione.”

La Giordania è diventato il primo Paese che si è impegnato a comprare gas israeliano. Poco dopo la scoperta di “Leviatano” sono iniziati negoziati tra Giordania e Israele, e nel 2014 è stato firmato un Memorandum l’Intesa (MdI). Quello stesso anno accordi per la vendita di gas sono stati conclusi anche tra i gestori di “Tamar” e due operatori industriali giordani, la “Jordan Bromine” e le compagnie “Arab Potash”. Il MdI firmato con il governo giordano ha comportato l’impegno per la Giordania a comprare gas israeliano per un periodo di 15 anni. Questo è stato accolto con violente proteste in Giordania: molti militanti hanno rifiutato l’accordo con Israele, sopratutto a causa del massacro a Gaza di quell’anno, ed i parlamentari giordani hanno votato contro l’accordo. All’inizio del 2017 il gas ha iniziato a scorrere da Israele alla “Jordan Bromine” e alle “Arab Potash”, benché gli operatori abbiano mantenuto un basso profilo per evitare di riaccendere proteste.

La rabbia perché la Giordania stava finanziando il settore del gas israeliano è stata aggravata dal fatto che aveva altre prospettive per procurarsi il gas. In seguito alla riduzione del gas egiziano, la Giordania ha costruito un terminal per l’importazione di gas liquido ad Aqaba, sulle coste del Mar Rosso, che ha iniziato a funzionare nel 2015. Oltretutto la scoperta da parte dell’Egitto dell’enorme giacimento di gas “Zohr” nel 2016 ha ridato vita alla prospettiva del ritorno dell’Egitto al ruolo di fornitore regionale di gas. Ciononostante, ed indubbiamente in seguito a influenze esterne, la Giordania ha formalizzato il suo MdI con Israele nel settembre 2016, ignorando le obiezioni del parlamento e le proteste popolari.

Da quando Israele è diventato ricco di gas, la penosa situazione della Striscia di Gaza è divenuta più che mai dura. La Striscia di Gaza è stata sottoposta a blocco dal 2007. La “Gaza Power Generation Company” (GPGC), l’unica compagnia del suo genere in territorio palestinese, attualmente funziona con combustibile liquido comprato e trasportato nella Striscia di Gaza dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in Cisgiordania. Per integrare l’energia fornita dalla GPGC, Gaza acquista elettricità dalla compagnia elettrica israeliana, così come dalla rete elettrica egiziana (1). Anche così il combustibile acquistato per generatori di energia a Gaza è insufficiente per soddisfare la domanda locale e, da quando Israele ha imposto il blocco, la Striscia ha sofferto di una cronica carenza di elettricità.

All’inizio del 2017 sono scoppiate proteste a Gaza, in quanto i suoi abitanti sulla costa si sono lamentati di avere elettricità solo per tre o quattro ore al giorno. Oltre alle terribili restrizioni che queste carenze comportano per aspetti della vita quotidiana, le interruzioni di elettricità hanno un impatto devastante sulle attività economiche del settore privato, dei servizi sanitari, dell’educazione e su servizi vitali come gli impianti di depurazione delle acque. Attività intermittenti in questi settori hanno conseguenze che sono sia immediate che durature, colpendo le nuove generazioni.

Le lamentele per la crisi energetica a Gaza sono dirette in ogni direzione. I manifestanti che si sono riversati nelle strade quest’inverno hanno incolpato il governo di Hamas, l’ANP e Israele. La rabbia era rivolta contro il governo di Hamas perché si sostiene che sposta fondi dall’acquisto del combustibile necessario per far funzionare l’unico impianto di energia di Gaza verso altre attività, compresa la costruzione di tunnel. I manifestanti esasperati hanno accusato l’ANP di appoggiare il blocco, controllando le forniture di combustibile e i trasferimenti a Gaza. La stessa compagnia dell’energia, un operatore di proprietà di un privato, è ripetutamente criticata perché trarrebbe profitti a spese dei normali cittadini di Gaza che soffrono per queste carenze. Per mitigare i mesi invernali particolarmente duri di fine 2016 e inizio 2017, interventi nel settore dell’energia di Gaza sono arrivati dalla Turchia e dal Qatar nella forma di forniture di combustibile che hanno consentito la ripresa della produzione di energia da parte della GPGC. Queste misure rappresentano al massimo un palliativo a breve termine, che porterà i gazawi verso un altro capitolo di una crisi cronica.

In quest’ondata di rabbia e di recriminazioni della popolazione, l’impatto del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza e della più complessiva colonizzazione e del controllo delle risorse palestinesi da parte di Israele è poco presente, se non spinto in secondo piano.

Eppure i palestinesi hanno scoperto le riserve di gas circa un decennio prima dell’abbondanza di gas di Israele. Nel 1999 al largo delle coste di Gaza fu scoperto il giacimento “Gaza Marine” e la licenza di sfruttamento e produzione venne concessa al “BG Group”, la maggiore impresa britannica di petrolio e gas, finché non è stata acquisita dalla Shell. Nei primi giorni dalla scoperta questa ricchezza nazionale è stata salutata come un passo avanti che avrebbe potuto offrire ai palestinesi una ricchezza inaspettata. Quando gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, sembravano ancora credibili, la scoperta di questa risorsa fu vista come qualcosa che avrebbe potuto fornire ai palestinesi una fondamentale risorsa verso l’autodeterminazione.

Con una stima di 30 miliardi di m3 di gas, il “Gaza Marine” non è sufficientemente grande per permettere l’esportazione. Ma i volumi di gas che contiene sono sufficienti per rendere il settore palestinese dell’energia interamente autosufficiente. Non solo i palestinesi non avrebbero dovuto importare il gas o l’elettricità israeliani o egiziani, ma la Striscia di Gaza non avrebbe sofferto di nessuna carenza di elettricità. Oltretutto l’economia palestinese avrebbe goduto di una significativa fonte di entrate.

Questo passo verso la piena sovranità non doveva avvenire. Nonostante continui tentativi dei possessori del giacimento e degli investitori di sviluppare il “Gaza Marine”, Israele pose rigide restrizioni che impedirono la messa in pratica di qualunque intervento. Ciò nonostante il fatto che l’esplorazione e la produzione dal “Gaza Marine” sarebbero state relativamente semplici grazie alla scarsa profondità del giacimento e alla sua collocazione nei pressi delle coste palestinesi (2). Secondo documenti scoperti da Al-Shabaka, Israele all’inizio impedì lo sviluppo di questo giacimento in quanto cercava di ottenere condizioni commercialmente favorevoli per il gas prodotto. Dopo che Israele scoprì risorse energetiche proprie iniziò a far riferimento a “questioni di sicurezza” che furono accentuate quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Benché Netanyahu abbia preso in considerazione la concessione ai palestinesi per lo sviluppo del “Gaza Marine” nel 2012 come parte di una più complessiva strategia per stabilizzare la Striscia di Gaza, questi tentativi devono ancora concretizzarsi. In seguito alla recente acquisizione del BG Group da parte di Shell e al programma di cessione di investimenti globale di quest’ultima, è probabile che il “Gaza Marine” sarà svenduto.

Finché Israele non porrà fine al proprio dominio sull’economia palestinese, questa risorsa palestinese probabilmente rimarrà bloccata. In effetti, il modo in cui le scoperte di gas israeliano e palestinese hanno plasmato lo sviluppo economico in Israele e nei territori palestinesi illustra la disparità di potere tra le due parti. A differenza di Israele, che rapidamente si è garantito l’indipendenza energetica dopo la scoperta dei suoi giacimenti di gas, i palestinesi sono stati incapaci di accedere ad una risorsa che hanno scoperto quasi due decenni prima. Invece di affrontare le cause profonde del blocco e del regime di occupazione che ha impedito il loro controllo su risorse come il “Gaza Marine”, i palestinesi sono obbligati a cercare soluzioni immediate per ridurre la pressante penuria che devono affrontare. Benché ciò sia comprensibile nel contesto di una brutale occupazione, i tentativi di migliorare la qualità della vita sotto occupazione trascurano l’obiettivo strategico a lungo termine di garantire l’indipendenza energetica all’interno del più complessivo obiettivo di liberazione dall’occupazione e del raggiungimento dei diritti dei palestinesi.

Pace economica e normalizzazione

Le scoperte di gas di Israele sono spesso sbandierate come potenziali catalizzatori di una trasformazione regionale. Il posizionamento dello Stato di Israele come fornitore di energia ai vicini con scarse risorse è considerato un mezzo sicuro per facilitare l’integrazione economica tra Paesi come Giordania ed Egitto, così come con i palestinesi. I benefici economici che gasdotti a buon mercato possono offrire a questi Paesi sono visti come soluzione per ogni preoccupazione sociale e politica tra i loro cittadini riguardo alle relazioni con Israele. Questo modo di pensare parte dal presupposto che attraverso l’integrazione economica la stabilità che ne deriva diminuirebbe le prospettive di instabilità in una regione esplosiva, in quanto Israele ed i suoi vicini incominciano ad integrarsi in una interdipendenza.

La nozione di “pace economica” ha una lunga storia nella regione e si è manifestata in varie forme, comprese le recenti proposte di sviluppo economico del segretario di Stato John Kerry. Questa visione sembra favorita anche dall’ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, David Friedman. Invece di affrontare direttamente l’impasse politico provocato dalla prolungata occupazione e da altre violazioni israeliane, queste proposte affrontano questioni relative alla qualità della vita, al commercio o alla crescita economica, presumibilmente come un passo avanti verso la pace. Con un punto di vista di questo genere, dopo le scoperte di gas israeliane, l’amministrazione Obama ha iniziato a verificare modi per posizionare Israele come fulcro energetico regionale.

Sostenitori di questo approccio, che separa i diritti nazionali e politici dagli incentivi economici, affermeranno che c’è un ovvio vantaggio economico perché il gas israeliano sia usato all’interno del territorio palestinese e in Giordania. Ora Israele ha un’eccedenza di gas e queste regioni sono ancora dipendenti dalle importazioni di energia. Nel caso dei territori palestinesi, esiste già una dipendenza da Israele, e non solo a Gaza: quasi l’80% del consumo dei palestinesi è fornito da Israele, con la Cisgiordania che importa quasi tutta la sua energia elettrica da Israele. Chi propugna la pace economica crede che le prospettive di instabilità si riducano quando si rafforza questa dipendenza reciproca.

Il dipartimento di Stato USA, guidato da una tale convinzione, ha facilitato molti negoziati per il gas tra Israele, Giordania e i palestinesi. L’inviato e coordinatore speciale per le Questioni Energetiche Internazionali, recentemente nominato, un incarico attraverso il quale gli USA hanno rafforzato il proprio settore della diplomazia energetica in tutto il mondo sotto l’amministrazione Obama, ha incoraggiato discussioni per permettere l’esportazione di gas israeliano alla Giordania ed ai palestinesi, con evidente successo.

In prospettiva la Giordania non è l’unico destinatario del gas israeliano. Nel 2010, l’ANP ha approvato piani per la creazione della “Compagnia Palestinese per la Generazione di Energia” (PPGC), la prima impresa di questo genere in Cisgiordania e la seconda nei territori palestinesi dopo la GPGC a Gaza. Situato a Jenin, questo impianto della potenza di 200 megawatt è gestito da investitori privati (compresi PADICO e CCC [società palestinesi. Ndtr.]), che stanno lavorando per rafforzare il settore palestinese dell’energia, garantendo la produzione di energia elettrica in Cisgiordania e riducendo l’alto costo delle importazioni di elettricità da Israele. PPGC ha iniziato negoziati con Israele per comprare gas dal giacimento “Leviatano” per produrre elettricità. I palestinesi hanno protestato contro questa decisione, invocando sforzi per sviluppare il “Gaza Marine” invece di basarsi sul gas israeliano. I colloqui sono falliti nel 2015, ma non è chiaro se si sia trattato di una sospensione solo temporanea.

I pericoli di una sovranità monca

C’è una serie di pericoli nazionali e regionali derivanti dalla spinta a una più stretta integrazione attraverso accordi sul gas in mancanza di azioni concomitanti sul piano politico.

Il primo pericolo è che la sicurezza energetica palestinese sia legata alla buona volontà di Israele. Israele può, ed in passato l’ha fatto, utilizzare il proprio potere per interrompere di fatto le forniture ai consumatori palestinesi. La più evidente (e violenta) manifestazione della volontà israeliana di negare l’energia ai palestinesi è stata la sua decisione di distruggere senza esitazione l’unica impresa di produzione di energia nella Striscia di Gaza durante i bombardamenti dell’enclave costiera nel 2006 e di nuovo nel 2014.

In secondo luogo questo approccio legittima l’occupazione israeliana, che presto entrerà nel suo cinquantesimo anno. Non solo non ci sono costi per il fatto che Israele impedisce la costruzione di uno Stato palestinese, ma c’è piuttosto un profitto diretto sotto forma di ricavi dalla vendita di gas a territori mantenuti per un tempo indefinito sotto il controllo territoriale israeliano.

Terzo punto, e forse il più importante, questo scambio e commercio di energia nel perseguimento della pace economica in assenza di ogni prospettiva politica rafforza semplicemente lo squilibrio di potere tra le due parti – l’occupante e l’occupato. Una simile integrazione trasmette una finzione di relazioni giuridiche sovrane tra una potenza occupante e un’economia imprigionata in Cisgiordania e a Gaza.

Si deve ripensare a simili iniziative per il miglioramento delle condizioni di vita che sono state attuate negli anni ’80, con il diretto incoraggiamento della Casa Bianca di Reagan, come a un’alternativa mancata all’impegno politico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Gli sforzi costanti per eludere le richieste politiche dei palestinesi attraverso queste misure hanno consentito ad Israele di gestire, piuttosto che risolvere, il conflitto.

Il caso del gas dimostra nel modo più evidente come i tentativi di costruire lo Stato palestinese attraverso lo sviluppo di risorse nazionali siano stati tolti di mezzo in favore della riduzione delle crisi energetiche all’interno del quadro di una sovranità monca. Invece di affrontare l’incapacità palestinese di sfruttare le proprie risorse naturali, i diplomatici americani stanno attivamente lavorando con Israele per facilitare negoziati che migliorino la “qualità della vita” dei palestinesi, che alla fine li lasciano per sempre nelle mani di Israele.

Questo approccio porta con sé anche pericoli su scala regionale. La Giordania è attualmente dipendente da Israele per circa il 40% delle sue importazioni di energia. La volontà della Giordania di entrare in questo tipo di dipendenza, nonostante notevoli svantaggi geo-strategici, fa progredire la normalizzazione dei rapporti di Israele nella regione anche se mantiene la sua occupazione dei territori palestinesi. Questa disponibilità preannuncia parecchie minacce in un momento in cui l’amministrazione Trump sta proponendo il perseguimento di misure diplomatiche “dall’esterno all’interno” che potrebbero ignorare completamente i palestinesi.

Strategie di rifiuto

In condizioni normali la dipendenza mutua e lo sviluppo economico sono effettivamente garanzie contro l’instabilità e portano il vantaggio di migliorare la qualità della vita degli abitanti della regione. Tuttavia non devono essere visti come un fine in sé, e sicuramente non come un sostituto della realizzazione dei diritti dei palestinesi. Una simile de-politicizzazione può solo arrivare fino a un certo punto. Concentrarsi esclusivamente sulla pace economica ha conseguenze disastrose proprio perché ciò ignora il contesto storico più complessivo che ha portato alla dipendenza dei palestinesi, e forse della regione.

La crescita economica non eliminerà mai le richieste dei palestinesi per la sovranità e i diritti o la domanda di autodeterminazione. Questa è una lezione che è stata pienamente articolata con lo scoppio della prima Intifada quasi 30 anni fa, dopo decenni di relazioni economiche normalizzate tra Israele ed i territori sottoposti alla sua occupazione militare. Mentre la “pace economica” può fornire un diversivo a breve termine, ciò preparerà il terreno verso una maggiore stabilità solo se costruito sulle fondamenta dell’uguaglianza e della giustizia.

Il diritto dei palestinesi alle loro risorse è soggetto ai negoziati per lo status finale con gli israeliani. Gli attuali accordi condotti sul gas creeranno una infrastruttura di dipendenza che sarà difficile da districare nel caso di un accordo negoziato. Cosa più importante, dato che sono svanite le speranze di una soluzione negoziata per due Stati, questi accordi concretizzano semplicemente lo status quo.

Perciò, mentre le relazioni economiche devono essere perseguite per alleviare le sofferenze umane, come nel caso dell’incremento di forniture di combustibile e di elettricità a Gaza, l’OLP e l’ANP, come anche la società civile palestinese ed il movimento di solidarietà con la Palestina, devono continuare ad utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per operare a favore della giustizia e dei diritti per i palestinesi.

Nell’immediato futuro, se gli accordi per il gas continuano nonostante l’opposizione popolare, i negoziatori palestinesi coinvolti in una prospettiva di accordi per il gas con Israele devono quanto meno insistere su clausole che non escludano le prospettive di un futuro gas proveniente dal “Gaza Marine”. Ciò può essere fatto creando meccanismi legali che permettano l’introduzione dell’accesso di parti terze negli accordi di fornitura. Benché sia difficile negoziare simili condizioni, ciò è di vitale importanza, in quanto lascia spazio alla flessibilità riguardo a future forniture dal “Gaza Marine” e a una limitata dipendenza da Israele. I contratti per la fornitura di gas dovrebbero anche includere norme per la revisione dei termini dell’accordo nel caso di importanti sviluppi sul piano politico.

I negoziatori palestinesi dovrebbero anche guardare alla resistenza della società civile per rafforzare i suoi tentativi piuttosto che tentare di rifiutarli o schiacciarli. Ci sono modelli che possono essere emulati secondo cui negoziatori sono in grado di sfruttare il potere dei movimenti popolari contro alcuni di questi accordi. Quando si tratta di diritti all’acqua, per esempio, c’è un’unità operativa dedicata (EWASH [l’impresa palestinese delle acque. Ndtr.]) che coordina il lavoro di gruppi locali ed internazionali. EWASH ha portato avanti una campagna che ha messo in luce il furto di acqua da parte dei coloni israeliani a danno dei palestinesi ed ha sollevato la questione al Parlamento Europeo. Forse una coalizione simile potrebbe essere formata per mobilitarsi a favore della sovranità energetica.

Al contempo l’OLP/ANP deve usare questi negoziati economici come un mezzo per garantire che Israele sia chiamato a risponderne piuttosto che come un modo di accettare una dipendenza ancora maggiore. In particolare, lo status di Stato osservatore non membro che la Palestina si è garantito all’ONU deve essere utilizzato per fare pressione nelle sedi legali internazionali, come la Corte Penale Internazionale, per spingere Israele a rispettare le sue responsabilità come potenza occupante in base alle leggi internazionali. Ciò significa che gli compete la responsabilità di garantire il livello di vita degli abitanti sotto il suo controllo, compresa la fornitura di elettricità e combustibile, e che deve rendere conto delle decisioni di “chiudere i rubinetti”che potrebbe prendere.

Alcuni elementi di pace economica posso essere utili ai palestinesi nel breve termine a sostegno della crescita e dello sviluppo economico. Ma questi non possono arrivare al prezzo di uno stato di dipendenza indefinito e di sovranità monca. I palestinesi devono lavorare su due fronti: spingere per rendere l’occupazione israeliana responsabile nei consessi internazionali; devono assicurarsi che le prospettive di integrazione economica obbligata ed ogni tentativo da parte di Israele di imporre una realtà di Stato unico dell’apartheid siano accompagnati da un appello ai diritti ed all’uguaglianza. Qualunque sia la visione politica perseguita per Israele e per i palestinesi, la dirigenza palestinese deve formulare una strategia riguardo a questi accordi per il gas e contestualizzare la nozione di sviluppo economico all’interno della più complessiva lotta per la liberazione della Palestina.

Note

(1) Queste misure per la fornitura ed il trasporto di combustibile sono in linea con il Protocollo delle Relazioni Economiche, noto anche come “Protocollo di Parigi”, sancito tra Israele e l’OLP come parte degli accordi di Oslo.

(2) “Gaza Marine” non è l’unico giacimento che i palestinesi non sono stati in grado di sfruttare. Anche i campi di petrolio in Cisgiordania hanno affrontato problemi di accesso a causa di restrizioni da parte di Israele.

Tareq G. Baconi è esperto di politica di Al-Shabaka con sede negli USA. Il suo ultimo libro “Hamas: le politiche della resistenza, consolidamento a Gaza” è stato pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato di ricerca in Relazioni Internazionali presso il King College di Londra, che ha completato durante una carriera come consulente per l’energia. Ha anche titoli di studio dell’università di Cambridge (Relazioni Internazionali) e dell’Imperial College di Londra (ingegneria chimica). Tareq è un ricercatore associato presso il Progetto USA per il Medio Oriente. Suoi scritti sono stati pubblicati su “Foreing Affairs”, “Sada: Carnegie Endowment for International Peace”, sul “Guardian”, l’”Huffington Post”, il “Daily Star”, Al Ghad e “Open Democracy”.

(traduzione di Amedeo Rossi)