Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Alleviare la malvagità dell’occupazione israeliana

di A.B. Yehoshua | 31 dicembre, 2016 |Haaretz

Dobbiamo dare [il permesso di] residenza israeliano ai centomila palestinesi che vivono nella parte della Cisgiordania controllata da Israele, al fine di ridurre la sofferenza di coloro che vivono sulla prima linea dell’occupazione

Le osservazioni che ho fatto alla conferenza dell'”Istituto per la Ricerca Politica di Gerusalemme” agli inizi di questo mese hanno creato molto scalpore. Alla conferenza i relatori hanno presentato le attività nelle aree comuni a favore di differenti comunità dell’area della grande Gerusalemme, in particolare degli ebrei e dei palestinesi. Io ho parlato dell’importanza di questi territori anche come una sorta di laboratorio per una convivenza binazionale nell’intero territorio della Terra di Israele- considerando la deprimente e difficile eventualità che la soluzione dei due Stati non si possa realizzare e che israeliani e palestinesi verranno lentamente trascinati, lo vogliano o no, verso una qualche forma di Stato binazionale o federale.

Sono passati quasi 50 anni dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967. Durante questo periodo sono rimasto attaccato con entusiasmo e determinazione all’idea della soluzione dei due Stati – Israele e Palestina, che vivano l’uno accanto all’altro in pace e riconoscendosi a vicenda – e ho agito coerentemente con tale convincimento.

Ritengo ancora che questa sia la soluzione giusta ed etica al conflitto. E benché alcuni in entrambi gli schieramenti, israeliani e palestinesi, hanno rifiutato per anni di riconoscere la legittimità di questa soluzione, lentamente è diventata la soluzione accettabile all’intera comunità internazionale, compresa larga parte del mondo arabo, fino a essere finalmente codificata negli accordi di Oslo del 1993.

Perfino l’attuale governo di estrema destra in Israele ha adottato ufficialmente la soluzione a due Stati; tuttavia sul terreno nell’ultimo decennio non si è visto alcun serio tentativo israeliano di fare un passo per la sua realizzazione. Parallelamente è chiaro che l’Autorità palestinese, che a sua volta ha ufficialmente adottato la soluzione a due Stati, sta sta evitando seri negoziati con il governo israeliano per realizzare concretamente questa soluzione.

La stessa Gerusalemme la cui parte orientale, secondo quanto prevede la soluzione a due Stati, avrebbe dovuto essere la capitale dello Stato palestinese, è diventata fisicamente sempre di più una città unica. La possibilità di istituire un confine internazionale che la attraversi sembra piuttosto irrealistica.

Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno fallito nell’imporre ad entrambi i contendenti la soluzione a due Stati non solo a parole ma anche di fatto. Questo è particolarmente vero per la parte israeliana, che continua a espropriare terra palestinese per la crescita e l’espansione delle colonie nella Cisgiordania.

I trattati di pace con la Giordania e l’Egitto possono ancora essere conservati, ma quei due Paesi sono costretti a fare i conti con i loro seri problemi, e le loro preoccupazioni a favore dei palestinesi sono solo belle parole. Il mondo arabo sta andando a pezzi e si sta disintegrando in guerre civili sanguinose e ha perso ogni influenza e interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Di conseguenza, l’idea dei due Stati sta diventando sempre più problematica.

E cosa sta succedendo nei territori palestinesi? La Striscia di Gaza è ora del tutto separata da Israele senza la presenza di israeliani, siano civili o militari. Per Israele Gaza è una sorta di piccolo Stato nemico, un posto dove scoppiano occasionalmente brevi guerre con Israele. Ma la Striscia di Gaza non è sotto totale assedio, dal momento che ha un confine indipendente con l’Egitto e vi è anche un varco per il cibo e le merci tra Gaza e Israele.

La Cisgiordania in base agli accordi di Oslo è divisa in tre aree: l’area A, B e C. Le aree A e B comprendono il 40% circa della Cisgiordania, mentre l’area C costituisce il rimanente 60% del territorio. Le aree A e B, dove si trovano le maggiori città e paesi palestinesi, sono sotto il governo dell’Autorità palestinese.

L’area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese. L’area B è soggetta solamente dall’amministrazione civile palestinese, mentre quella militare è sotto il controllo di Israele. Questo significa che la maggior parte dei palestinesi in queste aree vivono sotto una forma di parziale e limitata autonomia e hanno una polizia semi-militarizzata al loro servizio che, in qualche misura, collabora con le forze di sicurezza israeliane per prevenire il terrorismo.

Tutte le colonie si trovano nell’area C. Secondo stime prudenti, il numero dei coloni [si aggira attorno ai] 450.000, circa la metà dei quali vive nelle città. Il numero dei palestinesi che abitano

nell’area C è solamente di circa 100.000 e sono persone che sono in continuo conflitto con i coloni, specialmente quelli estremisti, riguardo all’esproprio delle terre, alle minacce sulle strade, allo sradicamento degli olivi e al vergognoso sfruttamento come lavoratori sottopagati. Questi palestinesi sono sotto la continua sorveglianza dell’esercito israeliano, della polizia e dei servizi di sicurezza.

Data la situazione generale del mondo, che tende verso nazionalismi di destra estrema, data la deplorevole situazione del mondo arabo, lo scarso interesse nei confronti del conflitto israelo-palestinese in atto per più di 140 anni, e dati il governo di estrema destra d’Israele e la passività dell’Autorità palestinese- sembra chiaro che la soluzione dei due Stati per due popoli sta divenendo sempre più impossibile. Così dobbiamo cominciare a pensare ad altre soluzioni parziali, di natura federale , che aggirino l’attuale impossibilità di stabilire un confine internazionale definito tra i due popoli nella terra di Israele.

Nella prima fase, per alleggerire il peso dell’occupazione ( le cui propaggini avvelenano la democrazia anche all’interno dei confini israeliani), è necessario concedere il permesso di residenza ai 100.000 palestinesi che vivono nell’area C e che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.

Questi permessi di residenza ai palestinesi prima di tutto gli garantiranno i diritti fondamentali che hanno i coloni che abitano intorno e vicino a loro. In altre parole, i benefici del sistema di sicurezza sociale, l’accesso alle cure sanitarie, i sussidi di disoccupazione, il minimo salariale, la libertà di movimento e un migliore status legale nei confronti delle autorità giudiziarie e della legge israeliane. Tale permesso di residenza potrebbe prevenire l’esproprio delle loro terre ( o renderlo molto più difficile) per mezzo delle varie ignobili proposte di legge per legalizzare la costruzione su terra privata palestinese, oppure per mezzo di ordinanze militari arbitrarie, abusando di loro in quanto soggetti senza diritti.

Contrariamente a quello che è stato insinuato nelle reazioni al mio discorso, concedere il permesso di residenza non significherà l’annessione dell’area C ad Israele. Lo status di questo territorio rimarrebbe lo stesso di oggi: un territorio conteso il cui status sarà deciso in un futuro negoziato tra palestinesi e israeliani, analogamente a quello di Gerusalemme est. Se nel contesto di una soluzione a due Stati Gerusalemme sarà parte dello Stato palestinese, allora il permesso di residenza israeliano, che i 250.000 palestinesi che vivono lì già posseggono, non sarà di ostacolo ad un accordo.

Ho più volte detto che continuerò a sostenere la soluzione a due Stati, proprio come l’ho sostenuta nei 50 anni precedenti. Ma è impossibile non provare a migliorare , anche di poco, la situazione delle migliaia di palestinesi che vivono nell’area C, dove un’occupazione perniciosa avvelena la loro esistenza giorno e notte.

Il nostro urgente dovere umanitario di ridurre la sofferenza umana– nella misura in cui non confligga con il raggiungimento di un giusto accordo nel futuro – viene prima di principi semplicistici. Un palestinese cinquantenne che è nato durante l’occupazione e la affronta di continuo in prima linea, merita di ricevere da subito diritti sostanziali e immediati, anche se solo parziali, al fine di migliorare la sua situazione.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La Banca Mondiale avverte: la crisi idrica di Gaza ha causato danni irreversibili

di Amira Hass, 18 dicembre 2016, Haaretz

In un’intervista ad Haaretz l’esperto locale della banca avverte che, senza un maggior flusso di acqua da Israele, Gaza diventerà invivibile entro il 2020.

 

Secondo un importante esperto di risanamento idrico della Banca Mondiale un danno irreversibile è già stato arrecato a parti dell’acquifero costiero della Striscia di Gaza, in seguito all’eccessivo pompaggio e all’infiltrazione di acqua marina.

L’istituto finanziario è una tra le tante organizzazioni locali ed internazionali che negli ultimi 20 anni hanno dato l’allarme e tentato di impedire che questo accadesse.

In termini ecologici il danno all’acquifero sta peggiorando e studi hanno dimostrato un costante aumento della salinità dell’acqua”, ha detto Adnan Ghosheh. Questo avvicina la Striscia di Gaza alla situazione che le Nazioni Unite avevano previsto nel 2014: sarà inabitabile entro il 2020.

Per esprimere ancora una volta l’urgenza di rimediare alla situazione, la Banca Mondiale all’inizio del mese ha emesso un comunicato stampa in seguito al quale Haaretz ha intervistato Ghosheh.

Gran parte delle informazioni contenute nel comunicato stampa non sono nuove. Si segnala che, mentre il 90% degli abitanti della Cisgiordania e l’85% di quelli del Medio Oriente e del Nord Africa hanno accesso all’acqua potabile, solo il 10% dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza possono bere in sicurezza l’acqua corrente nelle loro case. Il restante 90% non mette nemmeno in relazione il bere acqua con il semplice atto del girare un rubinetto: la loro acqua è troppo salata a causa dell’infiltrazione di acqua marina e troppo pericolosa a causa dei liquami o delle acque nere che penetrano nelle falde acquifere.

Nel comunicato stampa Ghosheh ha detto: “La popolazione di Gaza non può utilizzare l’acqua che arriva nelle case per bere; la usano per uso domestico, ma per bere devono contare su autobotti. Ci sono circa 150 operatori che forniscono una sorta di acqua desalinizzata, che è stata filtrata per renderla potabile e adatta a cuocere cibi. E’ più cara dell’acqua del rubinetto”, ha aggiunto, e dal punto di vista igienico non è sicura e non soddisfa gli standard relativi all’acqua potabile.

I problemi collegati all’inquinamento ed alla carenza d’acqua comprendono disturbi intestinali, gastroenterite, alti tassi di malattia tra i bambini, malattie della pelle ed altri disturbi. Pochi abitanti di Gaza hanno la possibilità di avere in casa un impianto di trattamento delle acque, mentre altri comprano acqua purificata almeno per lavare i bambini – ma non sono molti a poter sostenere questa spesa nell’impoverita Striscia di Gaza.

La Banca Mondiale afferma che la ragione della caduta del livello dell’acqua dell’acquifero è dovuta all’eccessivo pompaggio a causa della crescita della popolazione. Il comunicato stampa non cita il fatto fondamentale che Israele ha il controllo dell’acqua sia sul proprio territorio sia nei territori occupati e non riconosce il principio dell’equa distribuzione dell’acqua tra i due popoli.

Le disposizioni sull’acqua imposte ai palestinesi dagli Accordi di Oslo trattano Gaza in termini di economia idrica autarchica. Il che significa che i 2 milioni di abitanti di Gaza si devono accontentare di quella parte dell’acquifero costiero che aveva la stessa portata idrica per circa 270.000 persone nel 1949 (200.000 rifugiati e gli altri abitanti autoctoni).

La quantità di acqua annuale fornita dalla parte di acquifero della Striscia di Gaza è di circa 57 milioni di metri cubi. Gli accordi di Oslo non hanno considerato la possibilità che grandi quantità di acqua venissero fornite a Gaza da altre parti, così come vengono fornite nelle zone più aride all’interno di Israele. Invece vi è stato un pompaggio eccessivo per molti anni, per una quantità di 100 milioni di metri cubi all’anno.

Secondo un rapporto annuale dell’Autorità per l’Acqua palestinese relativo alla situazione di Gaza, nel 2015 il livello delle falde acquifere andava dai 12 metri sopra il livello del mare nella parte sud est della Striscia ai 19 metri sotto il livello del mare nella zona di Rafah – che è considerato il livello più basso.

Ghosheh ha detto ad Haaretz che secondo lui la soluzione provvisoria più veloce e sicura è portare più acqua a Gaza da Israele – anche se ha aggiunto che si tratterebbe solo di una soluzione temporanea.

Non capisco perché le due parti non procedano verso questa soluzione. Oggi Israele fornisce” – cioè vende – “circa 7.5 milioni di metri cubi d’acqua all’anno a Gaza. Stanno parlando di aumentare questa quantità fino a 20 milioni di metri cubi, ma non si vedono ancora passi concreti in questa direzione – e neanche 20 milioni di metri cubi sono sufficienti. Si deve discutere di quantità molto più grandi” che Israele venderà a Gaza, ha detto.

Ma la Banca Mondiale – insieme alla Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo e alla Banca Islamica di Sviluppo – sta lavorando soprattutto ad una soluzione che l’Autorità Nazionale Palestinese ha adottato come parte della propria strategia: un grande impianto di desalinizzazione che, secondo il piano, fornirà circa 55 milioni di metri cubi all’anno; il costo di costruzione previsto si aggira intorno ai 500 milioni di dollari. Tre impianti di desalinizzazione più piccoli sono già operativi e forniscono circa 4 milioni di metri cubi all’anno – oltre a dozzine di piccole aziende di purificazione (dell’acqua).

Ci sono opinioni differenti tra gli esperti idrici palestinesi circa la soluzione della desalinizzazione. I favorevoli sono convinti che diminuirebbe la dipendenza di Gaza da Israele. I contrari sono preoccupati dei danni ambientali; sostengono che la dipendenza ci sarà sempre per quanto riguarda l’ingresso di materiali da costruzione e parti di ricambio; e avvertono che, da un punto di vista pratico, gli abitanti di Gaza non saranno in grado di sostenere i costi da soli (l’acqua desalinizzata costa di più). Inoltre il fatto è che un impianto di questo genere richiede un impiego costante di circa 25 megawatts di elettricità – che non è chiaro da dove possano arrivare.

C’è anche chi sostiene che i palestinesi non devono rinunciare alla richiesta di un’equa allocazione delle risorse idriche del paese e quindi a richiedere ad Israele di compensare la quantità d’acqua che estrae dalla Cisgiordania per il consumo dei cittadini israeliani e per i coloni – fornendo grandi quantità d’acqua alla Striscia di Gaza.

Nel 2009 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto dal titolo “Valutazione delle restrizioni allo sviluppo del settore idrico palestinese”, che descriveva in dettaglio l’iniqua distribuzione delle risorse idriche in Cisgiordania. Rispondendo alla domanda se l’ultimo comunicato stampa sia la prova che il rapporto del 2009 non è riuscito ad esercitare pressioni su Israele perché cambiasse la sua politica, Ghosheh ha sorriso. “ Lei fa domande difficili”, ha detto, aggiungendo: “Quando uno va a Gaza e vede la situazione, parla con la gente e vede quanto soffre e poi va ad un incontro nell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei Territori Occupati. Ndtr.], o dei paesi donatori o dell’Autorità Nazionale Palestinese e cerca di spiegare, capisce che non c’è relazione tra quello che vi si dice e la gravità della situazione.”

Adesso, dice Ghosheh, la Banca Mondiale sta preparando un nuovo rapporto che sarà incentrato sulla possibilità di opzioni di manutenzione e di maggiore efficienza nella gestione idrica palestinese. Secondo lui “ci sono cose che l’ANP può fare – come, ad esempio, l’efficienza. Prima che Israele iniziasse a desalinizzare l’acqua, ha cercato di ridurre la perdita d’acqua nelle tubature. Circa il 38% dell’acqua a Gaza viene perduto.”

Si è detto d’accordo sul fatto che Gaza deve negoziare per lunghi mesi con l’apparato di sicurezza israeliano per ogni grammo di materie prime o pezzi di ricambio introdotti nella Striscia, ma ha spiegato: “Lo studio viene fatto per fornire raccomandazioni non solo ai paesi donatori, ma anche agli utilizzatori,” riferendosi all’Autorità per l’Acqua palestinese ed agli enti locali. “Se vogliamo parlare di sicurezza dell’acqua dobbiamo parlare anche del contesto palestinese”, ha aggiunto.

Alla domanda se mettere l’accento sull’Autorità Nazionale Palestinese può essere visto come prendere di mira un facile bersaglio dopo che la pressione su Israele non ha ottenuto risultati, Ghosheh ha risposto: “Certo, i palestinesi sono il fattore debole dell’equazione ed è più facile ottenere un cambiamento con loro. Noi siamo un’istituzione per lo sviluppo, non un’istituzione politica. Loro possono fare dei miglioramenti al loro interno. Lo capiscono e stanno già facendo dei cambiamenti.”

La Banca Mondiale ha rinunciato a fare pressione su Israele perché modifichi la sua politica discriminatoria?

Il nostro scopo non è mai stato fare da mediatori, ma piuttosto supportare il popolo palestinese. Il nostro cliente è l’Autorità Nazionale Palestinese e noi le diamo consigli su che cosa è possibile e che cosa è impossibile.”

In altri termini, la sua conclusione è che è impossibile cambiare la politica israeliana relativamente all’ingiusta ed ineguale distribuzione dell’acqua?

Lei sta parlando di politica e questo non è il mio campo.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il consulente di Trump su Israele sostiene (di nuovo) l’annessione della Cisgiordania con calcoli sbagliati

di Allison Deger 28 settembre 2016, Mondoweiss

nota redazionale: questo articolo è di fine settembre e già allora si mettevano in luce le pessime credenziali del Signor Friedman  recentemente nominato ambasciatore USA in Israele.

Secondo un reportage del Canale 2 di Israele, che ha ottenuto un video dell’incontro, durante una cena con i rappresentanti di un’organizzazione dei coloni a New York il consulente di Donald Trump per Israele ha di nuovo evocato la possibilità che il suo candidato sostenga l’annessione della Cisgiordania occupata da parte di Israele.

Un video della discussione mostra David Friedman, assistente di Trump, mentre parla, presumibilmente due settimane fa, con il dirigente dei coloni Yossi Dagan.

Le riprese colgono Friedman mentre sostiene un’argomentazione matematica per l’espansione territoriale israeliana in tutta la Cisgiordania. Il nocciolo di questa posizione è che l’annessione può essere “ebraica e democratica”, perché ci sarebbe una maggioranza di ebrei se la popolazione dei territori fosse unita a Israele.

“Il concetto che abbiamo, secondo cui ci si debba disfare della Giudea e della Samaria (la Cisgiordania) per conservare il carattere ebraico di Israele, è sbagliato,” ha detto Friedman. “Secondo la maggior parte dei calcoli, se prendi tutto lo Stato di Israele dal Giordano al Mediterraneo, nel senso di annettere tutta la Giudea e Samaria a Israele, la popolazione ebraica sarebbe ancora attorno al 65%. Questa è la più…l’opinione diffusa attualmente.”

“Nessuno si è preoccupato di fare il calcolo,” ha aggiunto Friedman tra un boccone e l’altro, prima di sfoderare le sue statistiche.

“Ci sono 400.000 ebrei che vivono in Giudea e Samaria, altri 400.000 che vivono a Gerusalemme est. Si stanno moltiplicando proprio adesso,” ha detto.

I calcoli di Friedman sono basati su cifre confutabili. Colloca 800.000 coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme est, un forte aumento rispetto ai 500-650.000 coloni secondo i dati del governo e delle Nazioni unite. Anche la maggioranza ebraica del 65% è smentita. La maggioranza dei demografi sostiene che il numero è all’incirca di 50% ebrei e 50% palestinesi tra il Giordano e il Mediterraneo.

Friedman ha anche affermato che la popolazione ebraica sta aumentando con un tasso superiore a quello dei palestinesi. “Per cui la verità è che se tu chiedi a dieci esperti di statistica quanti arabi stanno vivendo in Cisgiordania non ti potrebbero dare una risposta perché nessuno lo sa davvero,” ha sostenuto.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è costantemente aumentata dal 1967, l’anno del primo censimento israeliano del territorio, secondo i dati sia dell’Amministrazione Civile israeliana [l’autorità militare che governa nei territori occupati. Ndtr.] che dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese. Entrambi concordano sul fatto che circa 2.5 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania.

Su Gaza, Friedman ha lasciato intendere che i palestinesi di lì sarebbero esclusi dal piano di pace per il Medio Oriente del presidente Trump. Ha detto: “L’evacuazione [israeliana] da Gaza (nel 2005) ha avuto un effetto positivo, ha escluso due milioni di arabi dal calcolo.”

Prima di schierarsi con Trump in aprile, Friedman era relativamente sconosciuto, un avvocato della zona di New York apparentemente senza nessuna competenza in Medio Oriente se non la direzione di un settore per la raccolta di finanziamenti per una colonia della Cisgiordania, Beit El. (Il gruppo si chiama “Amici Americani della Yeshiva di Beit El” ed invia circa 2 milioni di dollari all’anno per finanziare una scuola religiosa fuori Ramallah).

Fiedman una volta ha lavorato anche come curatore fallimentare di un casinò del candidato presidenziale ad Atlantic City.

Dagan è un portavoce del Consiglio Regionale della Samaria, un gruppo noto per accompagnare delegazioni ufficiali USA nella Cisgiordania occupata.

I dati demografici a cui ha fatto riferimento Friedman, che superano di più di un milione i calcoli ufficiali, sono stati forniti dal “Gruppo di Ricerca Demografica Israelo-Americano”, una congrega di studiosi israeliani e americani che hanno pubblicato i loro risultati su due blog invocando “un unico Stato ebraico” sotto controllo israeliano.

Il gruppo non ha un sito web indipendente, i risultati della loro ricerca sono postati su portali in rete poco frequentati, con titoli come il “Progetto per uno Stato unico: uno Stato democratico ebraico” e “Demografia israeliana”.

I loro dati statistici sono rifiutati dai demografi ufficiali come uno strumento lobbistico molto poco attendibile e con lo scopo di indebolire l’appoggio ad uno Stato palestinese.

Il demografo Della Pergola dell’Università Ebraica ha detto a “Times of Israel” [giornale online israeliano. Ndtr.] che il ricercatore che sta dietro questo studio, l’ex-diplomatico israeliano Yoram Ettinger, è “delirante”.

“Sta spacciando un qualche futuro immaginario in un modo assolutamente non professionale, perché non ha mai studiato demografia. Non è altro che un ciarlatano,” ha affermato Della Pergola.

La registrazione video non è la prima occasione in cui Friedman ha sollevato la questione dell’annessione israeliana. In un’ intervista ad “Haaretz” in giugno ha detto al giornale israeliano che Trump potrebbe abbandonare il piano per i due Stati in favore dell’annessione. Facendo questa ipotesi, ha anche citato i dati forniti dal gruppo di Ettinger.

Negli scorsi mesi le considerazioni di Friedman hanno agitato le acque tra le istituzioni degli ebrei americani. Dopo che in luglio ha parlato alla CNN contro i colloqui di pace a favore di un unico Stato ebraico, il presidente dell’Unione per l’Ebraismo Riformato, il rabbino Rick Jacobs, ha scritto in una lettera aperta a Friedman che il progetto di Trump per uno Stato unico “sarebbe uno Stato ebraico che smetterebbe di essere una democrazia e priverebbe del diritto di voto milioni di palestinesi, oppure sarebbe una democrazia e smetterebbe di essere ebraico.”

Friedman ha risposto: “Devo rifiutare categoricamente la sua affermazione secondo cui Israele deve essere o uno Stato democratico o uno Stato ebraico.” In questo scambio epistolare ha fatto di nuovo riferimento agli stessi calcoli errati che si ritrovano nel video del suo pranzo a New York.

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto Ocha del periodo 29 novembre- 12 dicembre ( due settimane)

L’8 dicembre, al checkpoint di Za’tara (Salfit), le forze israeliane hanno ucciso un 18enne   palestinese;secondo quanto riferito, avrebbe tentato un’aggressione con il coltello.

Dall’inizio del 2016, questo è il secondo episodio del genere accaduto presso questo checkpoint, collocato in un nodo strategico che consente il controllo della principale arteria di traffico verso il nord della Cisgiordania (Road 60) e verso la Valle del Giordano. Un episodio simile, accaduto il 10 dicembre al posto di blocco di Qalqiliya Nord, si è concluso con l’arresto di una ragazza palestinese di 15 anni, sospettata di aver tentato di accoltellare un soldato israeliano; non sono stati segnalati feriti israeliani.

Le autorità israeliane hanno trattenuto il cadavere del giovane palestinese ucciso nell’episodio di cui sopra. Al momento risultano trattenuti 27 cadaveri di palestinesi, alcuni dei quali da più di otto mesi.

Il 4 dicembre la Protezione Civile Palestinese di Gaza ha recuperato i corpi di quattro persone da un tunnel utilizzato per il contrabbando nel tratto lungo il confine con l’Egitto; il tunnel era crollato il 27 novembre scorso. In quest’area l’attività di contrabbando è in gran parte ferma dalla metà del 2013, dopo la distruzione o il blocco della stragrande maggioranza delle gallerie ad opera delle autorità egiziane. Inoltre, in seguito al crollo di un tunnel militare ad est di Gaza City, il 7 dicembre due membri palestinesi di un gruppo armato sono morti ed un altro è rimasto ferito.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 39 palestinesi, tra cui 11 minori. Cinque dei feriti si sono avuti nella Striscia di Gaza, vicino al valico di Nahal Oz (chiuso da tempo), durante scontri scoppiati nel corso di proteste in prossimità della recinzione perimetrale. I restanti ferimenti (34) si sono verificati in Cisgiordania: nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e durante scontri con le forze israeliane presenti all’ingresso del Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est). Inoltre, secondo i media israeliani, in due distinti episodi verificatisi vicino all’incrocio di Jaba’ (Gerusalemme) e nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), quattro soldati israeliani sono stati feriti dal lancio di pietre ad opera di palestinesi.

A Gaza, in almeno 24 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. In un’altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato un’operazione di spianatura del terreno. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno condotto quasi 100 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato circa 120 palestinesi, tra cui 29 minori; tre di questi sono sospettati di aver partecipato al lancio di pietre contro le forze israeliane presenti all’ingresso della Scuola Maschile di As Sawiya (Nablus). Una delle operazioni di ricerca, per la quarta volta nel corso del 2016, ha avuto come obiettivo l’Università Al Quds di Gerusalemme. A Gaza, sei palestinesi, tra cui quattro pescatori, un uomo che tentava di entrare illegalmente in Israele ed un mercante che rientrava in Gaza, sono stati arrestati dalle forze israeliane. Inoltre, una barca da pesca è stata sequestrata.

In zona C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture, sfollando 17 persone e diversamente coinvolgendone altre 356. La metà delle strutture colpite si trovavano in Area C, presso quattro comunità beduine e pastorali palestinesi; tra esse quella di Susiya (Hebron), dove sono state sequestrate parti di un impianto fotovoltaico utilizzato dalla Comunità. Sulla maggior parte delle strutture di Susiya incombono ordini di demolizione e la Comunità è esposta ad un elevato rischio di trasferimento forzato.

In quattro occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno temporaneamente sfollato, per diverse ore ogni volta, 85 persone appartenenti a due comunità di pastori nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Humsa al Bqai’a). Nella prima Comunità, le autorità israeliane hanno anche sequestrato un trattore e consegnato un ordine di arresto lavori per una rete elettrica. Entrambe le comunità si trovano in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”; tali zone costituiscono quasi il 30% dell’Area C. Finora, nel 2016, ci sono stati 27 episodi di sfollamento temporaneo per consentire esercitazioni militari; tali episodi sono parte del contesto coercitivo che spinge i residenti ad andarsene.

Sempre in Area C, nel governatorato di Hebron, le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione e di stop-lavori contro due abitazioni in costruzione ed un muro di contenimento ad Al Baqa’a e Beit Ummar, e contro quattro strutture abitative e di sussistenza nella zona di Masafer Yatta. Inoltre, le autorità israeliane hanno sequestrato quattro veicoli di proprietà palestinese: un bulldozer utilizzato per un progetto di ristrutturazione/risanamento (finanziato da un donatore), nel villaggio di As Sawiya (Nablus); una autocisterna per le acque reflue in Einun (Tubas); due veicoli privati nel villaggio di Azzun Atma (Qalqiliya). Per questi ultimi c’era il sospetto che fossero coinvolti nel trasporto di lavoratori illegali in Israele.

A Gerusalemme Est, per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, il Comune ha consegnato ordini di demolizione contro 13 edifici in Al Bustan, zona di Silwan, minacciando di sfollare circa 100 palestinesi. Negli ultimi anni, Silwan è stato soggetto ad intense attività di insediamento, incluso un progetto per la realizzazione di un complesso turistico in Al Bustan che, se fosse realizzato, comporterebbe lo sfollamento di più di 1.000 residenti palestinesi; altre centinaia di residenti sono a rischio di sfollamento a motivo delle procedure di sfratto avviate da organizzazioni di coloni.

Nel periodo di riferimento sono stati registrati cinque attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; tra questi la vandalizzazione di almeno 200 alberelli di ulivo di proprietà palestinese nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah). Altri due episodi si sono verificati nella zona di Nablus: l’aggressione fisica di un anziano palestinese vicino al villaggio di As Sawiya e il danneggiamento del raccolto dovuto a bestiame lasciato pascolare su un terreno coltivato presso il villaggio di Salim. Altri due episodi collegati a coloni si riferiscono a lancio di pietre contro veicoli palestinesi, presso il villaggio di Nahhalin (Betlemme) e il villaggio di Deir Istiya (Salfit), con relativo danneggiamento di due veicoli.

Coloni israeliani hanno collegato una rete idrica alla sorgente naturale di “Ein al Sha’ra” nel villaggio di Madama (Nablus), per pompare l’acqua verso l’insediamento colonico Yitzhar. Una indagine effettuata da OCHA nel 2011* aveva rilevato che, in Cisgiordania, trenta sorgenti erano sotto il pieno controllo di coloni ed inaccessibili ai palestinesi, mentre altre 26 sorgenti erano a rischio di acquisizione / impossessamento da parte di coloni.

* nota: in calce al presente report sono riportate le prime righe di tale indagine

I media israeliani hanno riferito che, durante il periodo di due settimane, si sono verificati quattro episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: non sono state provocate vittime, ma sono stati segnalati danni a parecchi veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (10, 11 e 12 dicembre) per i casi umanitari: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 2.021 persone ed il rientro a 1.510. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

þ

* Quanto segue è tratto dall’indagine OCHAoPt: “Come avviene l’espropriazione – impatto umanitario dell’impossessamento delle sorgenti da parte dei coloni”

“Negli ultimi anni, in Cisgiordania, un numero crescente di sorgenti d’acqua locate nei dintorni di insediamenti israeliani sono diventate bersaglio di azioni di coloni che hanno eliminato, o mettono a rischio, l’accesso a queste sorgenti ed il loro utilizzo da parte dei palestinesi. Un’indagine effettuata da OCHA nel corso del 2011 ha individuato un totale di 56 di tali sorgenti che, in grande maggioranza, si trovano in Area C (93%), su appezzamenti di terreno registrati dall’Amministrazione Civile Israeliana (ICA) come proprietà privata di palestinesi (almeno 84%).

Trenta (30) di queste sorgenti sono risultate essere sotto il pieno controllo dei coloni ed i palestinesi non hanno possibilità di accedere ad esse. In tre quarti di questi casi (22 sorgenti), i palestinesi sono stati dissuasi dall’accesso alle sorgenti tramite atti di intimidazione, minacce e violenze perpetrate da coloni israeliani. Nei restanti 8 casi di sorgenti sotto il pieno controllo dei coloni, l’accesso dei palestinesi è stato impedito da ostacoli fisici, tra cui la recinzione delle aree in cui si trovano le sorgenti e la loro annessione de facto agli insediamenti colonici (quattro casi) o l’isolamento, causato dalla Barriera, delle aree sorgive dal resto della Cisgiordania e la loro successiva designazione come “zona militare chiusa” (quattro casi).

Le altre 26 sorgenti sono a rischio di impossessamento da parte di coloni. Questa categoria comprende le sorgenti che sono diventate l’obiettivo di sistematici “tour” da parte di coloni, e/o di pattugliamento da parte degli incaricati della sicurezza degli insediamenti colonici. Mentre, al momento del sondaggio, i palestinesi potevano comunque accedere ed utilizzare queste sorgenti, agricoltori e residenti palestinesi hanno riferito che la presenza costante di gruppi di coloni armati nella zona ha un effetto intimidatorio che ne scoraggia l’accesso e l’uso.

Contemporaneamente all’eliminazione o alla riduzione degli accessi dei palestinesi, in 40 delle 56 sorgenti individuate nell’indagine, coloni israeliani hanno cominciato a modificare le aree circostanti come “aree di attrazione turistica”. Lavori realizzati per questo scopo comprendono, tra gli altri, la costruzione o la ristrutturazione di piscine; la messa in opera di tavoli da picnic e di ripari per l’ombreggiatura; la pavimentazione di strade che conducono alla sorgente; l’installazione di cartelli che riportano il nome ebraico della sorgente … ”

Indagine completa (in lingua inglese):

https://www.ochaopt.org/documents/ocha_opt_springs_report_march_2012_english.pdf

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La Palestina dopo Abbas: possibili scenari e strategie per affrontarli

22 novembre 2016

Al-Shabaka

di  Hani al-Masri, Noura Erakat, Jamil Hilal, Sam Bahour, Jaber Suleiman, Diana Buttu, Wajjeh Abu Zarifa, Alaa Tartir 

Sintesi

Nei mesi che hanno preceduto le elezioni americane, le dispute tra le fazioni palestinesi sono andare infiammandosi in previsione del dopo-Abbas.

Si spera che il settimo congresso di Fatah, a lungo rimandato, previsto per il 29 novembre 2016, dia qualche indicazione su quale sarà la transizione dei poteri, rispondendo alla domanda su come e quando Mahmoud Abbas darà le dimissioni da uno o tutti gli incarichi che ricopre: presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di Fatah, la più grande fazione politica palestinese.

Con l’elezione di Donald Trump Israele crede di avere le mani libere per fare tutto quello che vuole nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e altrove, rendendo una transizione della dirigenza palestinese ancora più difficile. In questa tavola rotonda gli analisti politici di Al-Shabaka prendono in esame i diversi scenari di una Palestina del dopo-Abbas. Mentre alcuni, come Hani Masri, ritengono che i palestinesi abbiano molto da temere da un vuoto di potere in termini di ulteriore frammentazione e interferenze esterne, altri, come Noura Erakat sostengono che i palestinesi hanno molto da guadagnare, data l’opportunità per un cambiamento. Jamil Hilal mette in guardia contro i pericoli di uno scontro violento per il potere e invita ad un cambiamento in direzione di una lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che sul destino di un singolo o del suo gruppo d’elite. Sam Bahour prende in esame i diversi precedenti ed attori e nota che le altre fazioni dell’OLP hanno perso ogni influenza che avrebbero potuto avere una volta perché la loro esistenza politica è garantita dall’autorità che essi potrebbero cercare di sfidare.

Jaber Suleiman, che scrive dal Libano, avverte che un collasso dell’ANP potrebbe provocare un’ondata di migrazioni o spostamenti verso la Giordania [ East Bank nell’originale] e una ripresa dei progetti israeliani che prevedono di governare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza insieme alla Giordania e all’Egitto, con conseguenze per le comunità palestinesi in Libano e altrove. Diana Buttu spera che nuovi dirigenti annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, chiedano conto ad Israele delle sue azioni e costruiscano strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP. Riconsiderando i vari esiti possibili Wajjeh Abu Zarifa invita i palestinesi a consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente. Il direttore del programma di Al-Shabaka ha fatto da moderatore alla tavola rotonda.

Hani Al-Masri

Non è scontato che Abbas lasci presto il suo incarico. Ci sono indizi che suggeriscono che egli probabilmente cercherà di prolungare il suo mandato spingendo per convocare il settimo congresso generale di Fatah. Ciò bloccherebbe anche il ritorno di Mohammed Dahlan [dirigente di Fatah espulso dal partito ed attualmente residente negli Emirati Arabi Uniti. Ndtr.] nel Comitato Centrale di Fatah come successore di Abbas o come un attore che potrebbe decidere in merito e controllare il suo successore. Il fatto che non esistano alternative nazionali, poiché la maggior parte di coloro che sono citati come possibili successori sono della stessa scuola di pensiero, conferma questo scenario.

Lo scenario del post-Abbas dipende dai tempi della sua uscita di scena, cioè se in seguito al congresso generale di Fatah, o della riunione del Consiglio Nazionale Palestinese, o della fine delle divisioni tra Fatah e Hamas o del ritorno di Dahlan in Fatah. Se Abbas dovesse andarsene prima che si tenga il congresso e si ripristini l’unità, la lotta per la successione sarà durissima e porterà probabilmente al caos ed a lotte intestine. Ciò potrebbe provocare il collasso dell’ANP, la frammentazione in molte autorità diverse, o diventare subordinata a Israele sulla falsariga dell’Armata del Sud del Libano [corpo militare cristiano a cui Israele ha affidato il controllo del Sud del Libano dal 1979 al 2000. Ndtr.]. Se Abbas abbandona i suoi incarichi dopo aver raggiunto un accordo su un vice presidente di Fatah, un vice presidente dell’OLP e un vice presidente dell’ANP – invece di assegnare i tre incarichi a una sola persona, come è avvenuto da quando è stata fondata l’ANP – allora è probabile che ciò ridurrà il caos.

Gli scenari del dopo-Abbas dipendono anche dal modo in cui se ne andrà, se dando le dimissioni, per malattia o perché assassinato. Quest’ultima ipotesi scatenerebbe la prospettiva peggiore, alla luce della minaccia di Dahlan secondo cui non permetterà ad Abbas di impadronirsi di Fatah impossessandosi del suo settimo congresso. Un altro scenario prevede un’alleanza tra Dahlan e Hamas, benché quest’ultima non dovrebbe concretizzarsi, in quanto Hamas potrebbe capire che la sua ostilità contro Dahlan e l’alleanza di Paesi arabi che lo appoggia (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrain) è maggiore di quella contro Abbas.

I palestinesi hanno molto da temere dal vuoto di potere, che potrebbe dare ad Israele, al Quartetto Arabo [composto dai 4 Stati arabi succitati. Ndtr.], ai takfiri1 e a gruppi estremisti, o ad Hamas e ad altre fazioni palestinesi di sinistra o islamiste, l’opportunità per impadronirsi del potere. I due scenari più probabili sarebbero il controllo da parte di Israele o il ritorno della tutela araba sui palestinesi. Nessuno di questi scenari è auspicabile, soprattutto da quando i Paesi arabi, come l’Arabia Saudita, che cercherebbero di esercitare il proprio controllo, hanno stretti rapporti con Israele ed hanno intensificato la collaborazione con esso per lottare contro il terrorismo, i movimenti takfiri, l’Iran e la Fratellanza Musulmana.

Per scongiurare questi scenari sfavorevoli, i gruppi di sinistra ed altre forze politiche palestinesi, così come la società civile e i gruppi nazionali del settore privato, devono recuperare il discorso sulla liberazione e sui diritti, ridefinire il progetto nazionale e ricostituire il movimento nazionale in modo che si basi su una vera partecipazione politica democratica, con l’obiettivo di tenere elezioni a tutti i livelli. Queste elezioni non dovrebbero essere intese come un mezzo per vincere il conflitto interno, ma piuttosto come una competizione in un contesto unitario.

Il dibattito su questi problemi dovrebbe trascendere quello dei circoli elitari in modo che diventi più accessibile all’opinione pubblica nel suo complesso. Può essere fatto attraverso i media tradizionali e sociali, conferenze popolari e nazionali a livello regionale e nazionale, e possibilmente con petizioni, sit-in e manifestazioni.

Noura Erakat

Mahmoud Abbas controlla un’istituzione – l’ANP – che si riproduce in ognuna delle sue varie parti a prescindere dal capo dello Stato. La sua funzione dipende da finanziatori e controllori esterni, compresi gli Stati Uniti ed Israele, che hanno interesse a lasciarla intatta, soprattutto per la sua funzione amministrativa che riduce il peso quotidiano dell’occupazione mentre contribuisce a contenere il conflitto. In più, il 40% della popolazione palestinese lavora nel settore pubblico e quindi ha interesse nella prosecuzione dello status quo che, benché dannoso per i suoi interessi fondamentali, è al contempo indispensabile per il suo livello di vita e la sua sopravvivenza.

Lo scenario più probabile del dopo-Abbas vedrà un leader ad interim in carica finché potranno essere fissate le elezioni. La maggior parte delle previsioni su un successivo capo di Stato comprende attori ben noti, come Mohammed Dahlan e Jibril Rajoub. Basata sull’appoggio esterno ed interno come sull’ampiezza della minaccia che ha portato contro Abbas e la vecchia guardia di Fatah, la candidatura di Dahlan è realistica quanto terrificante. I passati tentativi di escludere dalle votazioni la Striscia di Gaza e di emarginare le prospettive elettorali di Hamas indicano che una simile scelta si dimostrerebbe estremamente conflittuale.

Gli scenari peggiori riguardano un collasso dell’ANP e la presa del potere da parte di Israele o delle forze rivali di Hamas. Tuttavia é improbabile che Hamas rischi uno scontro diretto con Israele in Cisgiordania, a meno che sia preparata anche ad un’altra escalation nella Striscia di Gaza e una contemporanea offensiva israeliana in Cisgiordania. Ciò è improbabile, a meno che il risultato ridefinisca lo status quo in suo favore, il che è poco plausibile dato il minor appoggio dal basso ad Hamas in Cisgiordania ed il costo di un impegno su due fronti. I dirigenti di Hamas probabilmente insceneranno proteste durante le elezioni e le utilizzeranno per legittimare ulteriormente il loro controllo sulla Striscia di Gaza, piuttosto che fare uso della forza.

Il popolo palestinese ha più da guadagnare che da perdere dal vuoto di potere, in quanto crea l’opportunità per un cambiamento, e un cambiamento strutturale è necessario per ottenere la liberazione dei palestinesi. Una nuova leadership dovrebbe sconfessare le deleterie strutture dell’ANP, dichiarare nullo e vuoto il contesto di Oslo, cessare la cooperazione economica e nel campo della sicurezza con Israele e insistere nel proseguire una lotta di liberazione.

Una simile ridefinizione radicale dipende dalla mobilitazione popolare da parte di un movimento di massa critico. La meticolosa frammentazione legale, politica e sociale della popolazione palestinese operata da Israele ha ostacolato ha formazione di un simile movimento. E’ necessaria una concomitanza imponderabile e imprevedibile di fattori per superare questa frammentazione. La rinuncia di Abbas potrebbe essere uno tra questo insieme di fattori, ma non è sufficiente.

Il cambiamento più probabilmente verrà in ultima analisi da un gruppo di giovani della base che non sia legato all’attuale contesto istituzionale e sia più creativo e meno timoroso riguardo alle prospettive future. Questo gruppo attualmente non esiste, se non in nuce nel panorama palestinese a Iqrit, Haifa, Ramallah, Gerusalemme, Gaza City e Nablus.

Jamil Hilal

Istituzioni nazionali aperte e legittime non si otterranno grazie alle elezioni di un successore di Abbas perché queste istituzioni non stanno funzionando. Il Congresso Nazionale Palestinese (CNP) non è stato operativo dagli accordi di Oslo, e le istituzioni legislative, giudiziarie ed esecutive dell’ANP sono state spaccate politicamente, territorialmente e istituzionalmente dal giugno 2007, quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Fatah, in quanto partito politico di governo, sta sperimentando i propri conflitti interni, con la fazione di Mohammed Dahlan opposta alla dirigenza di Abbas.

Di conseguenza, una piccola elite politica all’interno della dirigenza di Fatah, e non il popolo palestinese nel suo complesso, deciderà chi comanderà dopo Abbas. Senza istituzioni nazionali esistenti che rappresentino le varie comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora, la questione della dirigenza non può essere risolta in modo soddisfacente. Continueranno ad esserci conflitti finché non saranno costituite istituzioni nazionali rappresentative, ma, data la divisione tra Fatah e Hamas, la probabilità di una simile costituzione è remota.

Ogni lotta di potere violenta per la leadership all’interno di Fatah comporterà una maggiore frammentazione politica e geografica e una maggiore intromissione israeliana, regionale e internazionale nelle questioni politiche, economiche e sociali palestinesi.

Il gioco a indovinare chi probabilmente succederà ad Abbas non è giustificato da una preoccupazione per gli interessi nazionali palestinesi, ma dagli interessi israeliani e di quei poteri regionali ed internazionali che sono preoccupati per la propria posizione di potere.

L’attenzione dei palestinesi dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione della loro rappresentanza nazionale su basi democratiche ed inclusive, per includere tutte le comunità palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina storica. La loro preoccupazione dovrebbe essere la lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che il destino di un individuo o del suo gruppo dirigente. I palestinesi devono ricostituire l’influenza e la posizione palestinese sotto forma di istituzioni, associazioni, visioni e strategie che non scelgano solo i dirigenti politici ma anche quelli delle comunità. Questi dirigenti dovrebbero cercare di unificare tutti i palestinesi nella lotta per la libertà, la dignità, il diritto al ritorno e l’autodeterminazione. Qualunque altro sforzo è semplicemente un diversivo o un miraggio.

Sam Bahour

Quando nel 2004 è morto Arafat, la Legge Fondamentale Emendata della Palestina – l’equivalente di una costituzione – è stata rispettata: il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP) e il suo presidente hanno assunto il potere per 60 giorni finché si sono tenute le elezioni. Oggi, dato che non c’è un CLP in funzione e il suo presunto presidente è di Hamas, è probabile che questa legge non verrà rispettata. Semmai verranno invocate “misure straordinarie” per mantenere il controllo. Ciò potrebbe significare che il Comitato Centrale di Fatah deciderà e ricorrerà al Comitato Esecutivo dell’OLP, controllato da Fatah, per mettere in atto la decisione. Le altre fazioni dell’OLP, avendo perso ogni influenza di secondo livello che una volta avevano, potrebbero opporsi a questa decisone, ma ciò determinerebbe uno scontro con i burocrati, che oggi ne certificano l’esistenza politica. Dato che Fatah è molto divisa, non è chiaro se sarà in grado di accordarsi su una singola personalità o su un meccanismo per svolgere il ruolo di comando. Per soddisfare progetti personali in conflitto, potrebbe verificarsi una divisione dei compiti tra i capi dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’OLP.

I timori per il futuro sono molti. Il principale è il timore di ingerenze regionali o internazionali nelle decisioni nazionali. I palestinesi ne hanno già fatto esperienza negli anni scorsi e queste ingerenze potrebbero avere effetti devastanti se verrà loro permesso di aggravarsi o incrementarsi. Un altro timore è che la dirigenza dell’ANP possa tentare di impossessarsi del potere, date le sue risorse, il riconoscimento internazionale e le forze di sicurezza. Un’altra preoccupazione è che uno dei capi delle forze di sicurezza possa tentare di prendere il controllo politico; tuttavia ciò non è probabile poiché nessuna delle forze di sicurezza è autosufficiente. Per ultimo c’è il rischio che Israele piazzi uno dei suoi agenti nel ruolo di comando. Un’altra e più probabile azione di Israele potrebbe essere dichiarare Gaza come Stato palestinese e rafforzare ulteriormente la presenza israeliana in Cisgiordania, forse con una totale annessione. Se Israele scegliesse questo approccio e Hamas a Gaza fosse disponibile a questa iniziativa, l’attuale divisione sarebbe irrimediabile.

Per garantire quel poco di rappresentatività che rimane nel sistema politico palestinese e per contrastare le minacce succitate, i palestinesi devono chiedere due azioni immediate: 1) che Abbas convochi elezioni per reinsediare il CLP, con la consapevolezza che, pur solo i palestinesi della Cisgiordania, potrebbe rapidamente essere operativo ed avere una qualche legittimazione popolare2; 2) che il Comitato Direttivo provvisorio dell’OLP, che comprende tutta l’OLP come anche le fazioni nazionali, sia convocato con il mandato di consentire la formazione e il riconoscimento di nuovi partiti politici. Ciò potrebbe fissare un percorso per ridefinire il sistema politico palestinese attraverso una rappresentanza proporzionale per mezzo dell’organo più importante dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP).

Jaber Suleiman

Avremo probabilmente a che fare con due principali scenari del dopo-Abbas. Il primo è il caos. L’uscita di scena di un presidente che ha monopolizzato il processo decisionale, così come l’incapacità del sistema politico palestinese di rinnovare la propria legittimità scaduta, minaccia di rendere questa lotta per il potere non un disaccordo politico, ma uno scontro interno e un’ulteriore divisione. Tale situazione probabilmente provocherà una completa separazione delle due autorità a Gaza e a Ramallah, e divisioni ancora maggiori in Cisgiordania, con Hamas che controlla la sua parte meridionale. Le ingerenze arabe e regionali, soprattutto da parte del Quartetto Arabo, aggiungerebbero altra confusione. Anche Israele, che è interessato a confermare le sue asserzioni secondo cui i palestinesi sono incapaci di governarsi da soli e indegni di un’autorità autonoma, per non parlare di uno Stato, potrebbe avere un ruolo.

Questo scenario potrebbe culminare nel collasso dell’ANP e provocherebbe un’ondata di migrazioni o di spostamenti verso la Giordania [Easta Bank nel testo originale]. Questo spostamento di popolazione con ogni probabilità rilancerebbe progetti come lo schema di Shimon Peres di condivisione del governo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con Giordania ed Egitto, ma in una nuova forma in cui l’ANP/OLP sostituirebbe Giordania ed Egitto. Una simile prospettiva avrebbe un impatto disastroso sull’unità della collettività palestinese in Libano, soprattutto a causa del fatto che i palestinesi in quel Paese a stento sono riusciti a evitare le conseguenze della divisione tra palestinesi e ad appoggiare un progetto nazionale unitario che riguardi i diritti inalienabili dei palestinesi, oltre alla loro lotta per i diritti umani fondamentali in Libano.

Il secondo scenario sarebbe una transizione pacifica del potere attraverso una dirigenza nazionale ad interim, accettata in seguito ad un accordo di riconciliazione come quello del Cairo. Questa dirigenza dovrebbe modificare i rapporti tra l’OLP e l’ANP, dato che l’ANP è uno strumento dell’OLP e non viceversa. E avrebbe la necessità di realizzare una riforma realmente democratica delle strutture dell’OLP, soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese, così come riguardo ai rapporti dell’ANP con lo Stato e i meccanismi del processo decisionale dell’ANP.

Israele ed alcuni partiti arabi avverserebbero questa prospettiva perché vorrebbero piuttosto controllare la “carta” palestinese. Quindi ciò non solo richiede la volontà politica di tutte le fazioni nazionali, soprattutto Fatah e Hamas, ma anche la mobilitazione della “maggioranza silenziosa” palestinese, cioè di tutti gli ambiti nazionali popolari in Palestina e nella diaspora. L’obiettivo sarebbe di riunire un blocco sociale di questa maggioranza in grado di esercitare pressione sulle fazioni in modo che scelgano una transizione pacifica e ricostruiscano il sistema politico e le sue istituzioni nazionali su basi democratiche.

Diana Buttu

Dopo Abbas, sono possibili vari scenari: una transizione pacifica del potere attraverso il presidente del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP); una lotta di potere tra singole personalità all’interno di Fatah o nell’OLP, che culmini in una molteplicità di “leader”; un vuoto di potere finché si organizzino e si tengano elezioni. Dato il caos che Abbas ha determinato, e la concomitante confusione nei partiti politici palestinesi, è improbabile che vengano organizzate elezioni in breve tempo.

I leader palestinesi dovrebbero attivarsi per una riconciliazione con Hamas e fare accordi per una ANP/OLP del dopo-Abbas che porti avanti una strategia per la liberazione della Palestina e inizi a rappresentare i palestinesi che vivono in Israele. Questa strategia vedrebbe nuovi dirigenti che annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, rendendo Israele responsabile delle sue azioni e costruendo strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP.

Lo spettro politico e la società civile palestinese potrebbero anche utilizzare il cambiamento di leadership per ricostruire l’OLP in modo che sia rappresentativa della società palestinese ed anche del suo cambiamento generazionale. Tale strategia significherebbe anche capitalizzare la forza del popolo palestinese nel suo complesso e dei suoi movimenti e porre fine a inutili negoziati bilaterali. Come primo passo la Palestina deve rompere il giogo del ricatto finanziario che attualmente lega l’ANP/OLP a questi negoziati bilaterali. Oltre a ciò, coinvolgendo i palestinesi di Israele, l’OLP potrebbe finalmente iniziare a diventare rappresentativa di tutti i palestinesi, piuttosto che aderire solo formalmente a questa inclusione, mentre in realtà marginalizza i palestinesi che non vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un vuoto di potere sarebbe un grave diversivo dal concentrarsi su questa strategia ed è certamente il sogno di Israele, permettendogli di dividere, conquistare ed usare il periodo di caos per costruire altre colonie.

Wajjeh Abu Zarifa

Se Abbas rimane al potere a breve termine, il primo scenario possibile è tenere elezioni presidenziali e legislative in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme come deciso nell’accordo del Cairo. Tuttavia questa eventualità è improbabile alla luce delle profonde divisioni e della diffidenza tra Fatah e Hamas. Il secondo scenario è tenere le elezioni presidenziali e legislative quando possibile, e se Gaza dovesse boicottarle, le elezioni sarebbero organizzate in Cisgiordania. Anche questa è un’ipotesi improbabile, in quanto approfondirebbe le divisioni e accentuerebbe le probabilità di una secessione. Oltretutto Israele non acconsentirebbe a tenere le elezioni a Gerusalemme, il che favorirebbe la separazione di Gerusalemme.

Se Abbas si dimettesse, ci sarebbe una serie di possibili scenari, compreso che il presidente della Corte Costituzionale diventi il presidente dell’ANP fino alle elezioni, o che la presidenza dell’ANP venga assegnata al Comitato Esecutivo dell’OLP, con il segretario dell’OLP come presidente interinale. C’è anche un’ipotesi che è più pratica e logica, benché non sia costituzionale o legale: il primo ministro, nelle sue funzioni di capo del potere esecutivo, assume i poteri del presidente dell’ANP. Le elezioni presidenziali e legislative si tengono entro 60 giorni e necessitano del consenso nazionale. Tuttavia, una simile prospettiva, benché sia la più logica, è praticamente impossibile date le attuali divisioni.

Quindi tutte le forze politiche devono essere invitate a un dialogo serio per mettere a punto i meccanismi necessari per superare le attuali divisioni, attuare l’accordo del Cairo e tenere elezioni presidenziali e legislative prima che Abbas dia le dimissioni. I palestinesi hanno anche bisogno di convocare la struttura della dirigenza provvisoria dell’OLP e il comitato incaricato di riformare l’OLP per ripristinare il Consiglio Nazionale Palestinese e tenere una seduta, riunendo tutti i partiti, comprese Hamas e la Jihad Islamica. Devono essere formati il Comitato Centrale dell’OLP e il Comitato Esecutivo e nominato un nuovo presidente. A più lungo termine i palestinesi devono consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente composta da membri del Comitato Centrale, del Consiglio Legislativo, del governo e del Comitato esecutivo per stilare una costituzione palestinese ed eleggere un presidente.

Note:

  1. Takfir è accusare una persona di essere un infedele ed è diventata un’ideologia fondamentale dei gruppi militanti (vedi ad esempio Oxford Islamic Studies e Le Monde Diplomatique)

  2. Haytham Al-Zubi ha proposto quest’ipotesi di accordo in un editoriale del 2013. Vedi “Calm Constitutional Advice to the Palestinian President,” Al-Quds, 20 luglio 2013.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I crescenti attacchi israeliani contro civili a Gaza mettono a rischio il cessate il fuoco in vigore da due anni.

Ben White, 8 settembre 2016 Middle East Monitor

Esprimendo preoccupazione che tale violenza possa mettere a rischio l’attuazione del cessate il fuoco che ha posto fine all’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, un’informativa delle Nazioni Unite ha rivelato che nel secondo trimestre del 2016 l’esercito israeliano ha significativamente incrementato gli attacchi contro civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

Nel periodo da aprile a giugno vi sono state in media più di 90 sparatorie al mese da parte delle forze armate israeliane nelle cosiddette zone ad accesso limitato (ARA) – circa 60 a terra e 30 in mare. Si tratta di oltre il doppio della media corrispondente a gli ultimi 6 mesi del 2015.

Le forze israeliane hanno attaccato da molto tempo agricoltori, pescatori ed altri civili nelle ARA di Gaza. Come ha riportato l’ONU a luglio, le limitazioni all’accesso imposte unilateralmente da Israele sono “applicate facendo fuoco con proiettili letali direttamente o con spari di avvertimento, con la distruzione di proprietà, arresti e confisca di attrezzature.”

Presentando gli ultimi dati in un aggiornamento trimestrale pubblicato il mese scorso, l’Ufficio per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie dell’ONU (OCHA) nei territori palestinesi occupati (OPT) ha definito “l’uso della forza da parte di Israele” nelle ARA “una particolare fonte di preoccupazione”.

Secondo James Heenan, capo dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU nei territori palestinesi occupati, “ci sono quasi quotidianamente episodi in cui le forze israeliane sparano a Gaza, causando spesso feriti o anche morti e distruzioni di proprietà.”

Nella maggior parte dei casi, ha detto Heenan a Middle East Monitor, “non ci sono indicazioni che le forze israeliane fossero di fronte a una minaccia imminente tale da giustificare il livello di forza impiegato, incluso l’uso di armi da fuoco. Spesso le vittime sono contadini, pescatori, bambini e manifestanti.”

Il 3 aprile le autorità israeliane hanno annunciato un ampliamento della zona con permesso di pesca dalla costa sud di Gaza da 6 a 9 miglia (da notare che gli Accordi di Oslo prevedevano un limite di 20 miglia). Comunque il 26 giugno, meno di tre mesi dopo, è stato nuovamente imposto il limite di 6 miglia.

Secondo l’OCHA a luglio sono stati arrestati ed imprigionati più di 90 pescatori, “il numero più alto all’anno da quando, nel 2009, si è iniziato a tenere il conto.” In nove giorni di agosto, per esempio, le forze israeliane hanno attaccato pescatori palestinesi in sei diverse occasioni (il 21, 23, 25, 27, 28 e 29 agosto).

Intanto, a maggio, è stato comunicato che l’esercito israeliano avrebbe permesso ai contadini di accedere alle terre vicine alla barriera di confine, sotto il controllo del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Dal 2014 l’ICRC aiuta i contadini di Gaza a recuperare la terra e a garantirsi l’ accesso.

Mentre alcuni contadini hanno certamente beneficiato di questo, un portavoce dell’ICRC di Gerusalemme ha rifiutato di commentare i continui attacchi israeliani nelle ARA, dicendo che “tutte le questioni che suscitano preoccupazione sono affrontate come parte del nostro dialogo riservato e bilaterale con tutte le parti in conflitto.”

Come ha detto recentemente un agricoltore agli attivisti: “I miei terreni sono relativamente vicini alla barriera, perciò io non posso metterci piede dalle 6 del pomeriggio alle 6 di mattina senza che mi sparino addosso. Cosa ci posso fare se l’elettricità non c’è prima delle 6 del pomeriggio? Devo lasciare la mia terra senz’acqua, rischiando di perdere il raccolto.”

La violenza usata dalle forze israeliane contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza non è quasi per niente citata dai media occidentali di lingua inglese. La maggioranza degli attacchi a pescatori, contadini e manifestanti non viene nemmeno menzionata.

.Comunque questi attacchi non possono essere separati dal più vasto scenario della Striscia di Gaza, compresa la dimensione della “sicurezza”, che è tipicamente intesa da giornalisti, analisti e politici in termini di lancio di razzi [da parte dei palestinesi] e reazioni militari israeliane.

Secondo Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas a Gaza, Hamas considera l’impiego metodico della violenza contro i palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ARA come una violazione del cessate il fuoco del 2014. “Hamas registra tutte le violazioni ed aggiorna regolarmente i garanti regionali del cessate il fuoco”, ha dichiarato.

Inoltre, ha aggiunto Barhoum, questi attacchi delle forze israeliane “mettono a rischio lo status quo.”

“Ogni volta Hamas discute ciò che accade con le altre fazioni palestinesi, che valutano insieme quale sia la risposta migliore alla violazione israeliana in questione; se il silenzio, la condanna, l’avvertimento, il lancio di razzi a breve gittata, piazzare cecchini ai confini, ecc.”

Quindi, oltre al costo per contadini e pescatori della politica israeliana di imporre una “zona interdetta” all’interno di Gaza, questi attacchi, che sono chiaramente in aumento, rischiano anche di minare ulteriormente un accordo di cessate il fuoco che ha portato “tranquillità” per Israele, ma nulla di simile per i palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La risposta dei palestinesi agli incendi in Israele: se fossero intenzionali, sarebbe una follia.

di Amira Hass – 25 novembre 2016, Haaretz

Gli incendi in Israele sono stati acclamati in commenti online da Gaza e da Paesi arabi, ma molti altri palestinesi dicono: questi sono i nostri alberi e le nostre terre, quindi perché distruggerli?

“Cosa pensate del fatto che l’incendio sia scoppiato vicino a voi, accanto alla base militare di Neveh Yair?” ho chiesto per telefono, parlando ad amici del villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, dopo essermi assicurata che il fuoco fosse sufficientemente lontano e loro fossero in salvo.

“Oh, è l’esercito.” ha detto un amico – ancor prima che fosse data la notizia che un soldato sbadato potesse aver gettato via una sigaretta accesa.

La gente del villaggio ha smesso di contare quante volte i loro campi hanno preso fuoco a causa di granate assordanti e di lacrimogeni lanciati dai soldati per reprimere manifestazioni contro il furto di una sorgente da parte dei coloni.

Aggiornamenti in tempo reale: incendi imperversano in Israele da quattro giorni

“Siete sicuri che non siano intenzionali?” ho chiesto; era chiaro che mi stavo riferendo alla possibilità che un palestinese avesse appiccato il fuoco.

Un amico ha affermato: “E’ impossibile. E se qualcuno lo avesse fatto di proposito, sarebbe folle, irrazionale e sbagliato. Sono la natura e l’ambiente ad essere danneggiati: alberi ed animali.”

C’erano informazioni su un incendio scoppiato nei pressi della colonia di Mevo Horon, e sull’evacuazione di escursionisti dal “Canada Park” nell’enclave di Latrun. Ho chiamato un conoscente che vive nel villaggio di Beit Liqya, al di là della barriera di separazione [cioè in territorio israeliano. Ndtr.].

“Cosa pensi che sia accaduto?” chiedo dopo essermi assicurata che stesse bene. “Qualcuno ha buttato una sigaretta da un’auto di passaggio,” ha sostenuto.

Il mio conoscente è originario di Beit Nuba. L’esercito espulse i residenti di questo villaggio e dei villaggi circostanti di Yalo e Imwas subito dopo che furono conquistati nella guerra del 1967. Mevo Horon fu costruito sulle terre di Beit Nuba. Il Fondo Nazionale Ebraico [organizzazione che promuove la colonizzazione della Palestina. Ndtr.] ha costruito il “Canada Park” sulle rovine di Yalo e Imwas. Il nome commemora gli ebrei canadesi che hanno donato fondi per crearlo.

” Secondo te l’incendio non è intenzionale?” ho chiesto. Il mio conoscente ha pensato che mi stessi riferendo ai sospetti che i palestinesi avessero appiccato il fuoco.

“In primo luogo, nessun palestinese ha il permesso di entrare in quell’area, salvo gli operai che si guadagnano lo stipendio nella colonia,” ha detto. “Secondo, ci sono i nostri alberi là, i nostri morti sepolti nei cimiteri, le cisterne d’acqua scavate dai nostri nonni. Ci ritorneremo, perché distruggerli?”

Le informazioni sui siti di notizie arabi sono deliranti. Ci sono commenti secondo cui l’entità (sionista) sarà bruciata – come punizione per la legge che proibisce di diffondere il richiamo alla preghiera con altoparlanti, la mano di dio. Ci sono citazioni dal Corano che avvalorano questo, come anche critiche all’Autorità Nazionale Palestinese, che vorrebbe ancora una volta offrire le proprie attrezzature per combattere gli incendi.

Un esame approssimativo mostra che molte delle persone che si rallegrano risiedono in Paesi limitrofi (Egitto, Giordania). Gli abitanti di Gaza che tifano per gli incendi rivelano solo quanto il blocco israeliano della Striscia li abbia separati dal resto del loro popolo. Non sanno che ci sono palestinesi che vivono ad Haifa e nei dintorni? Non sanno che ci sono carcerati palestinesi nella prigione di Damon (costruita sul villaggio di Damon distrutto nel 1948)?

Ovviamente ci sono molti altri post, scritti da palestinesi, che si prendono gioco di quelli che plaudono e sono furiosi contro di loro perché dimenticano che “gli alberi sono i nostri, la terra è la nostra, il Paese è il nostro.”

Qualcuno ha scritto: “Smettetela con le fesserie. Gli incendi sono scoppiati anche in Giordania. Per che cosa dio la starebbe punendo?” I sospetti comuni contro i palestinesi espressi dal ministro dell’Educazione Naftali Bennett e dal primo ministro Benjamin Netanyahu si diffondono nel sottobosco israeliano di arroganza e pregiudizio.

“Il sospetto automatico nasconde una profonda, sorprendente visione, non solo ignoranza e razzismo, ” ha affermato un amico palestinese della Galilea. ” A quanto pare gli ebrei israeliani si rendono conto che l’oppressione e l’espropriazione del popolo palestinese da parte di Israele e la nostra perdita della speranza stanno prendendo dimensioni apocalittiche. Gli israeliani si aspettano che la nostra risposta all’oppressione sia anch’essa apocalittica. E non lo è.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Pregare per la libertà: perché Israele impedisce l’appello alla preghiera a Gerusalemme?

di Ramzy Baroud

14 novembre 2016,Middle East Monitor

Negli anni della mia infanzia mi rassicurava sempre la voce del “ muezzin” che chiamava alla preghiera nella principale moschea del nostro campo profughi a Gaza.

Quando alla mattina presto sentivo il richiamo che annunciava con voce melodiosa che stava arrivando il momento della preghiera dell’aurora (‘Fajr’), sapevo che potevo andare a dormire tranquillamente.

Ovviamente il richiamo alla preghiera nell’Islam, così come il suono delle campane nelle chiese, implica un profondo significato religioso e spirituale, come accade ininterrottamente, per cinque volte al giorno, da 15 secoli. Ma in Palestina queste tradizioni religiose hanno anche un profondo significato simbolico.

Per i rifugiati del mio campo la preghiera dell’aurora significava che l’esercito israeliano era andato via dal campo, ponendo fine ai suoi terribili e violenti raid notturni, lasciandosi alle spalle rifugiati in lutto per i loro morti, feriti o arrestati, e consentendo al muezzin di aprire le vecchie porte arrugginite della moschea ed annunciare ai fedeli l’arrivo del nuovo giorno.

Era quasi impossibile andare a dormire in quei giorni della prima rivolta palestinese, quando la punizione collettiva delle comunità palestinesi nei territori occupati superava ogni livello tollerabile.

Questo accadeva prima che la moschea del nostro campo – il campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza – fosse attaccata e l’Imam arrestato. Quando le porte della moschea furono sigillate per ordine dell’esercito, la gente salì sui tetti delle case durante il coprifuoco militare per annunciare comunque il richiamo alla preghiera.

Lo fece persino il nostro vicino ‘comunista’ – un uomo di cui si diceva che non avesse mai messo piede in una moschea in tutta la sua vita!

Non era soltanto una questione religiosa, ma un atto di sfida collettiva, che dimostrava che nemmeno gli ordini dell’esercito avrebbero fatto tacere la voce del popolo.

Il richiamo alla preghiera significava continuità, sopravvivenza, rinascita, speranza e una serie di significati che non furono mai capiti, ma sempre temuti, dall’esercito israeliano.

L’offensiva contro le moschee non è mai terminata.

Secondo fonti del governo e dei media, un terzo delle moschee di Gaza è stato distrutto durante la guerra di Israele contro la Striscia nel 2014. 73 moschee sono state completamente distrutte da missili e bombe e 205 parzialmente demolite, compresa la moschea Al-Omari di Gaza, che risale al 649 d.C.

E’ accaduto anche alla principale moschea di Nuseirat, dove il richiamo alla preghiera durante la mia infanzia mi portava la pace e la tranquillità sufficienti per andare a dormire.

Ora Israele sta tentando di bandire il richiamo alla preghiera in diverse comunità palestinesi, a cominciare da Gerusalemme est occupata.

Il bando è stato emesso solo poche settimane dopo che l’UNESCO ha approvato due risoluzioni di condanna delle attività illegali di Israele nella città araba occupata.

L’UNESCO ha chiesto ad Israele di cessare tali imposizioni, che violano il diritto internazionale e minacciano di modificare lo status quo della città, che è centrale per tutte le religioni monoteistiche.

Dopo aver organizzato una fallimentare campagna per contrastare l’iniziativa dell’ONU, arrivando ad accusare l’istituzione internazionale di antisemitismo, i dirigenti israeliani adesso stanno attuando misure punitive: la punizione collettiva dei residenti non ebrei di Gerusalemme per le decisioni dell’UNESCO.

Questo comporta la costruzione di ulteriori abitazioni ebree illegali, la minaccia di demolire migliaia di case arabe e, da ultimo, il divieto dell’invocazione alla preghiera in diverse moschee.

Tutto è cominciato il 3 novembre, quando una piccola folla di coloni dell’insediamento illegale di Psigat Zeev si è riunita davanti alla casa del sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barakat. Chiedevano che il governo ponesse termine all’ “inquinamento acustico” proveniente dalle moschee della città.

L’ ‘inquinamento acustico’ – così definito dalla maggior parte dei coloni europei arrivati in Palestina solo recentemente – sono i richiami alla preghiera che si svolgono nella città fin dal 637 d.C., quando il califfo Omar entrò nella città e ordinò di rispettare tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro fede religiosa.

Il sindaco israeliano si è prontamente e immediatamente preso l’impegno. Senza perdere tempo, i soldati israeliani hanno incominciato ad irrompere nelle moschee, comprese quelle di al-Rahman, al-Taybeh e al-Jamia di Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme.

Secondo quanto riportato da International Business Times, citando Ma’an ed altri media, “prima dell’alba sono arrivati ufficiali militari per informare del bando i muezzin, gli uomini responsabili del richiamo alla preghiera attraverso gli altoparlanti della moschea, ed hanno impedito ai musulmani del posto di raggiungere i luoghi di culto.”

La preghiera per cinque volte al giorno è il secondo dei cinque pilastri dell’Islam e il richiamo alla preghiera è la chiamata ai musulmani perché adempiano a tale dovere. E’ anche un elemento essenziale dell’identità intrinseca di Gerusalemme, dove le campane delle chiese e il richiamo alla preghiera delle moschee spesso si intrecciano in un armonico monito che la coesistenza è una possibilità reale.

Ma la coesistenza non è possibile con l’esercito, il governo ed il sindaco della città israeliani, che trattano Gerusalemme occupata come una base d’appoggio per la vendetta politica e la punizione collettiva.

Bandire il richiamo alla preghiera è unicamente un modo per ricordare il dominio israeliano sulla Città Santa ferita ed un messaggio che il controllo di Israele va oltre quello sulle situazioni concrete, arrivando ad incidere su tutti gli altri ambiti.

La versione israeliana del colonialismo d’insediamento non ha quasi precedenti. Non mira semplicemente al controllo, ma alla totale supremazia.

Quando la moschea del mio vecchio campo profughi venne distrutta, e subito dopo che furono estratti da sotto le macerie alcuni corpi per essere bruciati, i residenti del campo pregarono in cima ed intorno alle rovine. Questa prassi si è ripetuta altrove a Gaza, non solo durante l’ultima guerra, ma anche durante quelle precedenti.

A Gerusalemme, quando viene loro impedito di raggiungere i loro luoghi sacri, spesso i palestinesi si radunano dietro ai checkpoint dell’esercito e pregano. Anche questa è stata una pratica testimoniata per circa cinquant’anni, da quando Gerusalemme è caduta sotto l’esercito israeliano.

Nessuna coercizione e nessun ordine del tribunale potrà mai cambiare questo.

Se Israele ha il potere di imprigionare gli imam, demolire le moschee ed impedire i richiami alla preghiera, la fede dei palestinesi ha dispiegato una forza molto più imponente, per cui comunque Gerusalemme non ha mai smesso di chiamare i suoi fedeli ed essi non hanno mai smesso di pregare. Per la libertà e per la pace.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’ipocrisia del boicottaggio da parte di Israele

La coalizione di Netanyahu è determinata a boicottare la Lista Araba Comune (alleanza politica di 4 partiti arabi in Israele, ndtr.).

di Neve Gordon –Counterpunch

22 ottobre 2016, Nena News

Paradossalmente, si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento non violento e politicamente legittimo per lottare contro l’oppressione israeliana del popolo palestinese.

Il 9 ottobre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato di aver intenzione di sostenere l’iniziativa della sua coalizione di boicottare la Lista Comune, il terzo maggior partito nella Knesset. L’iniziativa, promossa dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, ha lo scopo di punire la decisione del partito di non recarsi al funerale dell’ex Presidente Shimon Peres, a cui hanno partecipato personalità provenienti da non meno di 70 paesi, incluso il Presidente Barak Obama e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. “I membri della Lista Comune hanno dimostrato che non c’è più niente di cui discutere né dibattere con loro”, ha asserito Lieberman, aggiungendo che “dobbiamo prendere la decisione di boicottare ogni loro presenza e intervento alla Knesset.”

Parlando all’israeliano Canale 2, il capo della Lista Comune Araba, Ayman Odeh, ha spiegato che il funerale di Peres era parte di una “giornata nazionale di lutto in cui io non mi riconosco; non nella narrazione, non nella simbologia che mi esclude, non nella storia di Peres come uomo che ha creato il sistema di difesa di Israele.” Ha poi proseguito ricordando episodi della lunga carriera pubblica di Peres: dal suo ruolo nel governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966, per passare al suo ruolo centrale nel realizzare l’arsenale nucleare di Israele, fino all’attacco dell’esercito israeliano del 1996 ad una base ONU nel villaggio libanese di Qana, in cui furono uccisi 106 civili. Ha persino citato l’assenza di Peres al funerale di Arafat (insieme al quale aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace) e, ovviamente, di tutti gli altri leader arabo-israeliani.

Pensando forse che il pubblico israeliano non avrebbe potuto sopportarlo, Odeh non ha ricordato che Peres è stato in tutto e per tutto un colonialista. In documenti recentemente resi pubblici, si citano dichiarazioni di Peres in cui afferma di non credere in uno “stato di Arafat” e che la Giordania è l’unico stato palestinese, rammaricandosi dell’esistenza di cittadini palestinesi in Galilea (nel nord di Israele, ndtr.). “Vedo come si stanno mangiando la Galilea ed il mio cuore sanguina”, disse all’ex primo ministro Menachem Begin durante un loro incontro nel 1978. Molto più recentemente Peres si è spinto fino ad affermare che “le operazioni dell’esercito israeliano hanno reso possibile la prosperità in Cisgiordania, hanno sollevato i cittadini del sud del Libano dal terrore di Hezbollah ed hanno permesso agli abitanti di Gaza di avere nuovamente una vita normale.” Certamente fino alla sua morte è stato la voce esemplare della missione civilizzatrice del colonialismo.

Comunque, nel corso della stessa intervista a Canale 2, Odeh ha ricordato al suo pubblico ebreo israeliano che il sabato seguente la comunità arabo-israeliana avrebbe celebrato il 16^ anniversario dei disordini dell’ottobre del 2000, in cui 13 cittadini della comunità furono uccisi dalla polizia durante una serie di manifestazioni di protesta nei confronti delle azioni di Israele contro i palestinesi all’inizio della seconda intifada. “Vi parteciperà qualcuno del governo?” si è domandato Odeh; “Qualcuno riesce a capire le nostre sofferenze oppure non interessano a nessuno?”

Nonostante il sincero sforzo di Odeh per descrivere l’approccio razzista di Israele nei confronti dei suoi cittadini palestinesi, la coalizione di Netanyahu è decisa a boicottare la Lista Comune Araba.

Paradossalmente si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento politico legittimo e non violento di lotta contro l’occupazione israeliana del popolo palestinese. Attualmente il governo Netanyahu sta spendendo milioni e milioni di dollari per contrastare il movimento palestinese di boicottaggio, criminalizzando chiunque osi sostenerlo pubblicamente. Il ministro dell’interno Aryeh Deri ed il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato la creazione di un comitato per impedire agli attivisti del movimento BDS di entrare nel paese e per espellere quelli che già si trovano in Israele/Palestina.

Netanyahu ed i suoi compari affermano che boicottare il progetto coloniale israeliano è antisemitismo, e intanto boicottano i leader palestinesi che hanno osato non onorare le spoglie di Peres. Sono talmente prigionieri della loro logica contorta che hanno perso il senso del paradosso.

Neve Gordon è co-autore (insieme a Nicola Perugini) del libro appena uscito ‘The human right to dominate’ (Il diritto umano di dominare. Edizione italiana: Perugini N., Gordon N. “Diritti umani e dominio”, Nottetempo, Firenze, 2016).

(Traduzione di Cristiana Cavagna)