Il caso di al-Shifa: indagine sull’attacco al più grande ospedale di Gaza

Louisa Loveluck, Evan Hill, Jonathan Baran, Jarrett Ley, Ellen Nakashima

21 dicembre 2023, Washington Post

Un’analisi del Washington Post su immagini open source e satellitari fa luce sulle affermazioni delle forze di difesa israeliane dell’uso da parte di Hamas dell’ospedale al-Shifa a Gaza City.

GERUSALEMME – Settimane prima che Israele inviasse truppe nell’ospedale al-Shifa, il suo portavoce iniziò a montare un caso.

Le affermazioni erano straordinariamente specifiche: che cinque edifici ospedalieri sarebbero stati direttamente implicati nelle attività di Hamas; che gli edifici si troverebbero sopra i tunnel sotterranei utilizzati dai militanti per dirigere attacchi missilistici e comandare i combattenti e che ai tunnel fosse possibile accedere dall’interno dei reparti ospedalieri. Le affermazioni sarebbero supportate da “prove concrete”, ha affermato il portavoce delle forze di difesa israeliane Daniel Hagari esponendo il caso in un briefing del 27 ottobre.

Dopo aver preso d’assalto il complesso il 15 novembre, l’IDF ha pubblicato una serie di fotografie e video che, secondo loro, ne dimostrerebbero la tesi centrale.

I terroristi venivano qui a dirigere le loro operazioni”, ha detto Hagari in un video pubblicato il 22 novembre, accompagnando gli spettatori attraverso un tunnel sotterraneo, illuminando stanze buie e vuote sotto al-Shifa.

Secondo l’analisi del Washington Post di immagini open source, satellitari e di tutti i materiali dell’IDF rilasciati pubblicamente, le prove presentate dal governo israeliano non riescono a dimostrare che Hamas utilizzasse l’ospedale come centro di comando e controllo. La cosa solleva interrogativi critici, dicono gli esperti legali e umanitari, sul fatto se i danni ai civili causati dalle operazioni militari israeliane contro l’ospedale – l’accerchiamento, l’assedio e infine il raid nella struttura e nel tunnel sottostante – fossero proporzionati alla minaccia stimata.

L’analisi del Post dimostra che:

Le stanze collegate alla rete di tunnel scoperte dalle truppe dell’IDF non offrono prove dirette di un uso militare da parte di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici ospedalieri indicati da Hagari sembra essere collegato alla rete di tunnel.

Non ci sono prove che sia possibile accedere ai tunnel dall’interno dei reparti ospedalieri.

Ore prima che le truppe dell’IDF entrassero nel complesso, l’amministrazione Biden aveva desecretato le valutazioni dell’intelligence statunitense che supportavano le affermazioni di Israele. All’indomani del raid, i funzionari israeliani e statunitensi sono rimasti fedeli alle loro dichiarazioni iniziali.

“Abbiamo totale fiducia nell’intelligence… che Hamas lo stesse usando come nodo di comando e controllo”, ha detto la settimana scorsa al Post un alto funzionario dell’amministrazione statunitense, parlando a condizione di restare anonimo per discutere risultati sensibili. “Hamas aveva tenuto gli ostaggi nel complesso dell’ospedale fino a poco prima che Israele entrasse”.

Il governo degli Stati Uniti non ha reso pubblico il materiale desecretato e il funzionario non ha voluto condividere i dati su cui si basava questa valutazione.

“L’IDF ha pubblicato prove ampie e inconfutabili che indicano l’uso strumentale del complesso ospedaliero di Shifa da parte di Hamas per scopi terroristici e attività terroristiche clandestine”, ha detto al Post un portavoce dell’IDF.

Quando è stato chiesto se fossero disponibili ulteriori prove su al-Shifa, il portavoce ha detto: “Non possiamo fornire ulteriori informazioni”. Il 24 novembre l’esercito israeliano ha annunciato in un comunicato di aver distrutto il tunnel nell’area dell’ospedale; subito dopo le truppe si sono ritirate.

All’inizio ero convinto che [al-Shifa] fosse il luogo in cui si svolgevano le operazioni”, ha detto al Post un membro senior del Congresso americano, parlando a condizione di restare anonimo a causa della delicatezza della questione. Ma ora, ha detto, “Penso ci debba essere un nuovo livello di chiarimenti. A questo punto vorremmo avere più prove”.

Il fatto che un alleato degli Stati Uniti abbia preso di mira un complesso che ospita centinaia di pazienti malati e morenti e migliaia di sfollati non ha precedenti negli ultimi decenni. L’avanzata su al-Shifa ha causato il collasso delle operazioni dell’ospedale. Mentre le truppe israeliane si avvicinavano e i combattimenti si intensificavano finiva il carburante, i rifornimenti non potevano entrare e le ambulanze non riuscivano a raccogliere le vittime dalle strade.

Citando il personale ospedaliero, le Nazioni Unite hanno riferito che, prima che le truppe entrassero nel complesso, i medici avevano scavato una fossa comune per circa 180 persone. L’obitorio aveva cessato di funzionare da tempo. Diversi giorni dopo, quando i medici dell’OMS arrivarono per evacuare le persone ancora all’interno, dissero che il luogo della guarigione era diventato una “zona di morte”. Almeno 40 pazienti – tra cui quattro bambini prematuri – erano morti nei giorni precedenti il raid e per le sue conseguenze, hanno detto le Nazioni Unite.

Nelle settimane successive altri ospedali di Gaza sono stati attaccati in modo simile a quanto accaduto ad al-Shifa, facendone non solo un momento spartiacque nel conflitto, ma un fondamentale case study del rispetto di Israele della legislazione di guerra.

Status protetto

Il complesso medico di al-Shifa era l’ospedale più avanzato e meglio attrezzato di Gaza. Dopo che Israele ha lanciato la sua devastante campagna di attacchi aerei in rappresaglia per il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, al-Shifa è diventato il cuore pulsante del vacillante sistema sanitario dell’enclave, nonché un luogo di rifugio per decine di migliaia di sfollati di Gaza che temevano sarebbero stati uccisi nelle loro case.

Le strutture mediche godono di una protezione speciale – anche in tempo di guerra – perdendo il loro status solo “se vengono utilizzate al di fuori della loro funzione medica per commettere atti dannosi per il nemico”, ha affermato Adil Haque, professore di diritto alla Rutgers University.

Senza una conoscenza completa dei dati dell’intelligence israeliana e dei suoi piani di battaglia, la legalità delle operazioni militari israeliane contro al-Shifa rimane una questione aperta.

Ma nel suo briefing del 27 ottobre, Hagari ha fornito un quadro chiaro di ciò che pensava le forze israeliane avrebbero trovato, mostrando un video animato di ciò che presumibilmente si trovava sotto la struttura. Nel film militanti mascherati pattugliavano un livello collegato a un labirinto di stanze più sotterranee con computer portatili e zone notte.

“La legge riguarda ciò che l’aggressore avesse in mente nel momento in cui ha pianificato ed eseguito la missione rispetto sia al danno collaterale che si aspettava di causare sia al vantaggio militare che prevedeva di ottenere”, ha affermato Michael Schmitt, professore emerito presso il Naval War College degli Stati Uniti.

L’IDF non ha voluto commentare il vantaggio militare cercato o ottenuto.

Qual era l’urgenza? La cosa non è ancora stata dimostrata”, ha affermato Yousuf Syed Khan, avvocato senior presso Global Rights Compliance, lo studio legale che ha redatto i documenti delle Nazioni Unite sulla guerra d’assedio.

Anche se il tunnel sotterraneo scoperto dalle forze israeliane dopo il raid indicasse una possibile presenza di militanti sotto l’ospedale in un qualche momento, non prova che un nodo di comando operasse lì durante la guerra.

Stiamo avendo una comprensione più dettagliata e tridimensionale dell’ospedale al-Shifa e dei tunnel sottostanti”, ha affermato Brian Finucane, ex consulente legale del Dipartimento di Stato e ora consulente senior presso Crisis Group [ONG indipendente impegnata a prevenire e risolvere i conflitti, ndt.]

Ciò che manca davvero qui è una conoscenza affidabile e sicura della quarta dimensione, che è il tempo. Quando sono stati utilizzati in un determinato modo i vari elementi dell’ospedale? E i tunnel sotto il complesso ospedaliero?

La conferenza stampa del 27 ottobre ha provocato soprassalti di paura nell’ospedale, e il personale l’ha vista come il pretesto per un’azione militare. Poche ore dopo le reti di comunicazione dell’enclave si sono interrotte. “Dopodiché, sono iniziati i bombardamenti sugli edifici circostanti al-Shifa”, ricorda Ghassan Abu Sitta, un chirurgo anglopalestinese che lavorava all’ospedale quella notte. “Il bombardamento era molto vicino e l’edificio tremava violentemente.”

All’inizio di novembre migliaia di civili terrorizzati erano rimasti intrappolati all’interno dell’area dell’ospedale mentre l’operazione militare israeliana isolava di fatto il complesso dal mondo esterno.

Almeno due bambini prematuri sono morti l’11 novembre quando l’ospedale è rimasto senza elettricità per alimentare le incubatrici, ha detto il personale.

Diverse decine di altri pazienti in terapia intensiva sono morte nei giorni successivi, hanno riferito i medici. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto che non ha più potuto inviare ambulanze per assistere o evacuare i feriti.

Nelle prime ore del 15 novembre l’IDF ha dichiarato che stava effettuando una “operazione precisa e mirata” contro Hamas in un’area specifica del complesso e che aveva ucciso un certo numero di militanti all’esterno del complesso “prima di entrare. “

Nella tarda mattinata i medici all’interno della struttura e i funzionari del Ministero della Sanità di Gaza hanno affermato che le forze israeliane ne avevano preso il completo controllo. Le truppe erano andate di stanza in stanza interrogando il personale e i pazienti e chiedendo ad alcuni di riunirsi nel cortile, non lontano dalla fossa comune dove i morti venivano sepolti senza nessuna cerimonia.

Il Post ha analizzato le immagini satellitari e le fotografie sui social media per mappare i danni all’ospedale e localizzare la fossa comune, appena dentro i cancelli orientali del complesso ospedaliero.

“Si è trattato di un’operazione militare molto precisa e mirata che Israele ha condotto con molti sforzi per ridurre le vittime civili”, ha detto l’alto funzionario dell’amministrazione americana.

Quando il 18 novembre sono arrivati gli operatori umanitari dell’OMS, medici e pazienti hanno implorato la squadra di fornire un passaggio sicuro, ha riferito l’organizzazione.

Nel pronto soccorso diverse decine di bambini prematuri piangevano, come hanno mostrato i video e detto i medici. Altri due erano morti prima dell’arrivo dei mezzi per l’evacuazione dell’OMS.

Emergono le prove

Durante l’occupazione di al-Shifa da parte dell’IDF, durata più di una settimana, l’IDF ha pubblicato numerose serie di foto e video che mostravano presunte prove dell’attività militare di Hamas all’interno e sotto l’ospedale.

Meno di 24 ore dopo che le forze israeliane erano entrate nel complesso, l’IDF ha diffuso un filmato che mostrava il portavoce Jonathan Conricus mentre attraversava l’unità di radiologia. Dietro una macchina per la risonanza magnetica indica quella che lui chiama una “pesca miracolosa” contenente un fucile tipo kalashnikov e un caricatore di munizioni.

Le foto rilasciate dai militari più tardi lo stesso giorno mostravano l’intero bottino di armi recuperate in ospedale: circa 12 fucili tipo kalashnikov oltre a caricatori di munizioni e diverse granate e giubbotti antiproiettile.

Il Post non è stato in grado di verificare in modo indipendente a chi appartenessero le armi o come fossero finite all’interno dell’unità di radiologia.

Nei giorni successivi sarebbero emerse prove più ampie che sembravano indicare l’attività dei militanti sotto la struttura. Il 16 novembre i militari israeliani hanno diffuso immagini che mostrano l’ingresso di un tunnel nell’angolo nord-est del complesso ospedaliero, vicino all’edificio della chirurgia specialistica.

Le immagini satellitari indicavano che le truppe israeliane avevano trovato l’ingresso all’interno di un piccolo edificio che avevano demolito.

In seguito i militari hanno pubblicato video delle loro truppe e di Hagari mentre esploravano la rete di tunnel collegata al pozzo d’ingresso. Il filmato mostrava un lungo tunnel che si estendeva a est dal pozzo e correva a sud sotto l’unità di chirurgia specialistica; un’altra sezione si dirigeva a nord, lontano dal complesso dell’ospedale. Dai video non è stato possibile determinare la distanza o la direzione finale della sezione nord del tunnel.

È bloccato e sigillato; sanno che saremmo venuti qui da più di un mese e l’hanno sigillato”, ha detto Hagari in un video.

Il Post ha mappato il percorso del tunnel geolocalizzando i siti scavati all’interno di al-Shifa e analizzando i video fotogramma per fotogramma per determinare la direzionalità e la lunghezza della rete. Il Post ha poi sovrapposto i percorsi dei tunnel sulla mappa originale rilasciata dall’IDF il 27 ottobre, che secondo loro mostrava l’intera estensione dell’infrastruttura di comando e controllo di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici evidenziati dall’IDF sembra collegarsi ai tunnel, e non è stata prodotta alcuna prova che dimostri che si potesse accedere ai tunnel dall’interno dei reparti dell’ospedale, come aveva affermato Hagari.

Il Post ha analizzato le prove visive dell’IDF che mappano il tunnel sotto al-Shifa e le ha confrontate con le affermazioni iniziali dei militari.

In una sezione sotto l’edificio dell’ambulatorio sono collegati al tunnel due piccoli bagni, un lavandino e due stanze vuote. Hagari ha detto che le stanze e il tunnel ricevevano elettricità, acqua e aria condizionata da al-Shifa. Una stanza, ha detto Hagari, era una “sala operativa”, e l’ha detto dando il cablaggio elettrico come prova.

Le stanze spoglie, piastrellate di bianco, non mostravano alcuna prova immediata di utilizzo, per comando e controllo o altro. Non ci sono segni di abitazione recente come rifiuti, contenitori per cibo, vestiti o altri oggetti personali.

Questa stanza è stata evacuata e tutta l’attrezzatura è stata evacuata. Immagino che sia stato evacuato quando hanno saputo o capito che saremmo entrati nell’ospedale di Shifa”, ha detto Hagari nel video.

Non ha spiegato quando si pensa che i militanti avessero operato nel tunnel o quando sarebbe avvenuta la loro presunta partenza. L’IDF non ha risposto alle richieste di chiarimenti.

“Se alla fine non trovi quello che avevi detto che avresti trovato è legittimo essere scettici sul fatto che la tua valutazione del valore militare dell’operazione fosse fondata o meno”, ha detto Geoffrey Corn, professore di diritto alla Texas Tech University ed ex consigliere senior per la legislazione di guerra dell’esercito degli Stati Uniti. “Non è certamente decisivo. La domanda finale è se, date le circostanze, la valutazione del vantaggio militare fosse ragionevole”.

In una dichiarazione del 18 novembre Hamas ha descritto le affermazioni sul suo utilizzo di al-Shifa come parte di una “campagna di palesi bugie”. I funzionari non hanno risposto a una richiesta di commenti sul presunto utilizzo dei tunnel da parte del gruppo.

Il giorno successivo l’IDF ha pubblicato un’ulteriore prova: il filmato di una telecamera di sicurezza che mostrava militanti armati condurre attraverso l’ospedale due ostaggi dei circa 240 catturati durante l’assalto al sud di Israele il 7 ottobre. Uno sembrava ferito ed è su una barella. Non è chiaro se gli ostaggi siano stati portati in ospedale per cure mediche o per altri scopi.

La presa di ostaggi è un crimine secondo il diritto internazionale. Ma “l’uso improprio dell’ospedale cinque settimane prima dell’operazione dell’IDF non chiarisce la legalità dell’operazione dell’IDF”, ha detto Haque.

Gli ospedali come obiettivi

Mentre la polvere si depositava su al-Shifa, gli esperti mettevano in guardia sul precedente che aveva creato.

Penso che ci sia il rischio che ciò che Israele ha cercato di fare qui sia scusare in anticipo le future operazioni contro gli ospedali. Non si dovrebbe presumere che gli ospedali possano in genere essere presi di mira in base a ciò che Israele ha ipotizzato riguardo a Shifa”, ha affermato Finucane.

Al momento dell’operazione militare del 15 novembre quasi la metà delle principali strutture mediche nel nord di Gaza era stata presa di mira o danneggiata nei combattimenti, secondo un’analisi che il Post ha fatto dei dati di Insecurity Insight, un gruppo di ricerca senza scopo di lucro.

Nel mese seguente una serie di altri ospedali hanno chiuso o ridotto le operazioni al punto di essere a malapena funzionanti, mentre gli attacchi aerei continuano e le vittime aumentano.

Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato domenica di essere “sconvolto dall’effettiva distruzione” dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, che ha causato la morte di almeno otto pazienti e messo fuori servizio la struttura.

Martedì, dopo aver arrestato il direttore dell’ospedale Ahmed al-Kahlot, Israele ha diffuso un video di interrogatorio in cui Kahlot ammetteva di essere un membro di Hamas e affermava che l’ospedale era sotto il controllo delle Brigate Izzedine al-Qassam, il braccio armato del gruppo. In risposta, il Ministero della Sanità di Gaza ha affermato che la dichiarazione è stata fatta “sotto la forza dell’oppressione, della tortura e dell’intimidazione” per “giustificare i successivi crimini [di Israele], soprattutto contro il sistema sanitario”.

L’ospedale Al-Awda, tra gli ultimi ospedali funzionanti nel nord, è stato assediato dalle truppe israeliane all’inizio di questo mese mentre i medici continuavano a curare i loro pazienti e carburante e cibo scarseggiavano, come hanno detto medici e Medici Senza Frontiere (MSF).

Cerchiamo di essere chiari: Al-Awda è un ospedale funzionante con personale medico e molti pazienti in condizioni vulnerabili”, ha affermato in una nota il capo missione di MSF, Renzo Fricke.

Martedì MSF ha affermato che le forze israeliane avevano preso il controllo della struttura. Uomini e ragazzi sopra i 16 anni, compresi i medici, sono stati portati fuori e spogliati, legati e interrogati. C’erano ancora dozzine di pazienti nei reparti, ha aggiunto l’organizzazione, ma le scorte di anestetici e ossigeno erano finite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I soldati israeliani che hanno ucciso i terroristi a Gerusalemme hanno colpito a morte anche un civile

Nir Hasson

30 novembre 2023 – Haaretz

Nel video dellattacco alla fermata dellautobus di Gerusalemme pubblicato sui social media, si vede Yuval Doron Kastelman alzare le mani e implorare i soldati israeliani di non sparare dopodiché gli sparano e cade a terra

In base alle riprese dell’attacco pubblicate sui social media i soldati israeliani che giovedì hanno ucciso due terroristi alla periferia di Gerusalemme hanno sparato e ucciso sul posto anche un civile.

La vittima si chiamava Yuval Doron Kastelman, 38 anni di Mevasseret Tzion, un avvocato che lavorava per la Commissione sul Servizio Civile. Secondo la sua famiglia stava andando al lavoro quando ha notato l’aggressione dall’altra parte della strada. È sceso dal suo veicolo, armato della sua arma da fuoco autorizzata, per fronteggiare i terroristi.

Nel video si vede Kastelman alzare le mani e implorare i soldati di non sparare, dopodiché gli sparano e cade a terra.

Il filmato mostra chiaramente che è stato colpito allo stomaco. È stato portato d’urgenza in ospedale in condizioni critiche e in seguito è morto per le ferite. La polizia ha affermato di essere a conoscenza della situazione e che sono in corso indagini.

Un’altra ripresa della scena dell’attacco mostra colpi di arma da fuoco contro un civile che ha appena sparato a uno dei terroristi da distanza ravvicinata.

Nel video si vede il civile gettare via la sua arma dopo aver sparato al terrorista, alzare le mani e togliersi il cappotto per dimostrare che è disarmato. Non è chiaro se si tratti dello stesso civile ferito o di qualcun altro.

Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha annunciato sul luogo dell’attacco che la sua soluzione al terrorismo è continuare la politica di distribuzione di armi ai civili. “Mi rivolgo ai cittadini di Israele, i poliziotti non sono ovunque, quindi dove i cittadini sono in possesso di armi, ciò può salvare vite umane”, ha detto Ben-Gvir.

Dallo scoppio della guerra migliaia di armi da fuoco sono state distribuite ai civili e sono state rilasciate più di 20.000 nuove licenze per il porto d’armi. Una delle principali preoccupazioni sul possesso delle armi da parte di civili non addestrati è che ciò potrebbe portare ad episodi di fuoco incrociato, come è accaduto oggi.

Nell’attacco a Gerusalemme tre israeliani sono stati uccisi e altri sei sono rimasti feriti. I terroristi, due fratelli palestinesi del quartiere di Gerusalemme Est, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. L’attacco è stato rivendicato da Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Armando migliaia di israeliani Ben -Gvir gioca con il fuoco

Eyal Lurie-Pardes

3 novembre 2023 – Dawnmena

All’indomani dell’orrendo attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, Itamar Ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, di estrema destra, continua a premere per realizzare il suo programma suprematista ebraico rischiando nuove tensioni e ulteriore violenza tra ebrei israeliani e palestinesi. La sua priorità è rendere meno rigide le norme sulle armi per semplificarne l’acquisto da parte dei cittadini israeliani, invocando un riarmo di massa degli ebrei in Israele. Secondo Ben-Gvir i fucili sono essenziali per la sicurezza pubblica e per prepararsi a uno “scenario di Guardiano delle Mura 2.0,in riferimento ai disordini e alle violenze intercomunitarie nelle città israeliane a popolazione mista ebraico-araba scoppiati durante le proteste nel maggio 2021 a causa dell’espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est e delle operazioni militari israeliane a Gaza.

Ora che Israele è consumato da rabbia nazionalista, ostilità e paura nei confronti dei palestinesi in seguito agli attacchi di Hamas, la nuova politica delle armi—armare migliaia di israeliani, inclusi i coloni—aumenta il rischio di innescare questo scenario da incubo.

Da lungo tempo Ben-Gvir propone il possesso delle armi [da parte dei civili]. Da quando è entrato nel governo israeliano nella coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, il numero delle licenze di porto d’armi è aumentato considerevolmente. Come parte della risposta del ministero della Sicurezza Nazionale all’attacco di Hamas, Ben-Gvir ha adottato modifiche ai requisiti per il porto d’armi intese a estendere l’idoneità e velocizzarne il rilascio. Attraverso un nuovo processo di selezione da remoto, con queste nuove norme un permesso viene rilasciato dopo solo una settimana a chiunque soddisfi i nuovi criteri per l’autodifesa. Sono anche state prorogate le date di scadenza degli attuali permessi ed è stato raddoppiato il numero delle pallottole che è possibile acquistare. Dal 7 ottobre oltre 120.000 persone hanno fatto domanda per il porto d’armi.

In generale le leggi israeliani sulle armi discriminano i non ebrei, rendendo quasi impossibile per loro l’ottenimento di un permesso. Per esempio, le norme concedono una certa discrezione ai funzionari del ministero riguardo alla richiesta ai richiedenti di fornire prova di “sufficiente padronanza dell’ebraico.” Il nuovo criterio per l’autodifesa al centro di tali norme meno rigorose sulle armi è ancora più discriminatorio. Include due requisiti principali: aver prestato il servizio militare o nazionale in determinate unità e la residenza in una “città eleggibile.” I cittadini palestinesi in Israele sono collettivamente esentati dal servizio militare. Anche se soddisfacessero tale requisito sarebbe probabilmente loro negato il porto d’armi in base al luogo di residenza, perché le “città eleggibili” designate sono a gran maggioranza ebraiche. Le norme vanno anche a favore dei coloni ebrei, in particolare in Cisgiordania, dato che l’eleggibilità favorisce le città considerate “pericolose” anche oltre la Linea Verde del 1967. Di 100 città e paesi con il numero più alto di porto d’armi in Israele, 86 sono colonie ebraiche in Cisgiordania.

Un’altra componente della politica sulle armi di Ben-Gvir è istituire più squadre di risposta rapida—conosciute in ebraico come kitat konenut —che da lungo tempo fanno parte delle forze di sicurezza israeliane nelle zone rurali, specialmente in Cisgiordania. Sono gruppi di civili, abitanti di un villaggio o kibbutz, che in caso d’emergenza agiscono come forza volontaria di difesa fino all’intervento della polizia o dell’esercito. Hanno giocato un ruolo chiave nel combattere Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, quando villaggi e kibbutz sotto attacco hanno aspettato che arrivassero i soldati per molte ore, talvolta anche più a lungo.

Nelle settimane seguenti l’attacco di Hamas, il ministero della Sicurezza Nazionale si è attivato per creare 600 nuove squadre di risposta rapida nelle aree urbane e rurali. Simili ai criteri per il porto d’armi, queste squadre sono autorizzate principalmente nelle città ebraiche ed è richiesto aver fatto il servizio militare, per cui discriminano i cittadini palestinesi di Israele. A differenza delle zone rurali, dove c’è il rischio che passi molto tempo prima che arrivi la polizia durante una crisi, tali forze volontarie di difesa hanno meno senso nelle aree urbane più densamente abitate, se la sicurezza, e non qualcos’altro, è veramente l’obiettivo principale. Queste unità armate di civili sono ancora meno giustificabili in zone con una significativa comunità palestinese e un influsso di coloni israeliani, come a Gerusalemme Est, dove le tensioni sono sempre alte e gli scontri frequenti.

In pratica queste squadre creano un ulteriore percorso per armare gli ebrei israeliani. Come ha segnalato Daniel Seidemann, un avvocato israeliano e fondatore e direttore dell’ong Terrestrial Jerusalem, potrebbero finire per assomigliare alle “milizie private di Ben-Gvir.” Per esempio, recentemente a Gerusalemme Est sono state fondate due squadre a Ir David e Nof Zion, piccoli avamposti ebraici composti da coloni di estrema destra nel cuore dei quartieri palestinesi di Silwan e Jabel Mukaber.

In Israele, a differenza della maggior parte delle politiche di mantenimento dell’ordine pubblico, che sono determinate dalla polizia indipendentemente dal ministero della Sicurezza Nazionale, le normative e la gestione delle armi ricadono interamente sotto l’autorità del ministero—che Ben-Gvir sta usando per i propri scopi politici. Facilitando la distribuzione di più fucili agli israeliani, inclusi molti coloni, Ben-Gvir—lui stesso un colono—sta sperando di promuovere la propria immagine pubblica militarista e scatenare un’isteria anti-palestinese ancora maggiore. Ha trasformato la distribuzione pubblica di fucili in un circo mediatico, talvolta offrendo armi persino lui di persona davanti alle telecamere e pubblicizzando foto e video sui social.

Recentemente queste foto pubblicitarie hanno messo in allarme i funzionari USA, che hanno espresso preoccupazione sul fatto che le armi da loro fornite ad Israele siano usate per armare civili e per far pubblicità a Ben-Gvir invece di essere consegnate all’esercito o alla polizia come previsto. Dopo che gli USA hanno minacciato di sospendere la consegna di 20.000 fucili che il ministero della Sicurezza Nazionale aveva acquistato da fornitori americani, il governo israeliano si è ufficialmente impegnato con Washington a fare in modo che tali fucili vengano distribuiti solo dalla polizia o dall’esercito. Tuttavia le armi potrebbero ancora essere date alle squadre di risposta rapida, perché esse dipendono dalla polizia israeliana.

Una politica di armare così tanti israeliani non potrà far altro che alimentare le tensioni già alte fra ebrei e palestinesi entro la Linea Verde e Gerusalemme Est. A differenza di quanto avvenuto nel maggio 2021, nelle ultime settimane non ci sono stati gravi disordini nelle città miste arabo-ebraiche o scontri a Gerusalemme Est. Ma questa relativa calma è fragile, specialmente in un momento in cui molti israeliani descrivono ogni palestinese come “il nemico”. Questa rabbia contro i palestinesi è evidente nei gruppi di destra che hanno attaccato studenti e attivisti di sinistra palestinesi in Israele. In una situazione così esplosiva armare così tanti israeliani che non hanno ancora di un sufficiente addestramento per usare un’arma potrebbe alimentare una nuova ondata di disordini su scala nazionale.

Rendere meno rigida la normativa sulle armi è dannoso specialmente in Cisgiordania, dove la violenza dei coloni è aumentata dal 7 ottobre e dove durante gli attacchi sono stati uccisi almeno 115 palestinesi, feriti oltre 2.000 e rimossi con la forza dalle proprie case circa 1.000 palestinesi. La violenza dei coloni era già in aumento l’anno scorso. Armare praticamente ogni colono come vuole Ben-Gvir porterà solo altra violenza. Dopo l’attacco di Hamas il capo del consiglio regionale di Binyamin, il municipio con circa 50 colonie e avamposti nella Cisgiordania centrale, ha affermato che “ogni arabo che si avvicina a una colonia e mette a rischio gli abitanti” è un obiettivo legittimo.

Ben-Gvir sta giocando con il fuoco. Una nuova fase di violenza intercomunitaria peggiore del maggio 2021—”Guardiano delle Mura 2.0,” come si è espresso Ben-Gvir —potrebbe diventare una profezia che si autoavvera. Persino quando finirà questa guerra a Gaza tutte queste armi in eccesso e le nuove squadre di difesa simili a milizie creeranno una nuova pericolosa situazione in tutto Israele.

Eyal Lurie-Pardes è professore-ospite presso l’Istituto per gli studi sul Medio Oriente (Washington) per il programma sulla Palestina e sugli affari palestinesi-israeliani.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’operazione Al-Aqsa ha cambiato il rapporto tra Palestina e Israele 

Ramzy Baroud

10 ottobre 2023 Middle East Monitor

A prescindere dalla precisa strategia del Movimento di Resistenza Islamico Palestinese, di Hamas, o di qualsiasi altra fazione palestinese in generale, l’audace campagna militare all’interno di Israele di sabato 7 ottobre è stata possibile solo perché i palestinesi sono semplicemente stufi. Israele, ricordiamolo, ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale da 17 anni.

La storia dell’assedio è per lo più presentata in due modi nettamente diversi. Per alcuni si tratta di un atto disumano di “punizione collettiva”; per altri è un male necessario affinché Israele possa proteggersi dal cosiddetto terrorismo palestinese. Nel racconto, tuttavia, manca del tutto il fatto che 17 anni sono sufficienti perché un’intera generazione cresca sotto assedio, si arruoli nella Resistenza e combatta per la libertà.

Secondo Save the Children, quasi metà dei 2,3 milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza sono minori. La cosa è spesso citata per definire la sofferenza di una popolazione che non è mai uscita dalla piccola e impoverita Striscia di 365 chilometri quadrati [corrispondente alla provincia di Prato, ndt.]. Di nuovo, anche se i numeri possono sembrare precisi, vengono spesso utilizzati per raccontare una piccola parte di una storia complessa.

Questa generazione di Gaza, cresciuta o nata dopo l’imposizione dell’assedio, ha vissuto almeno cinque importanti e devastanti guerre, in cui bambini come loro, insieme alle loro madri, ai padri e fratelli sono stati il bersaglio principale e quindi le vittime principali.

Nemmeno i tentativi di protestare pacificamente contro l’ingiustizia dell’assedio radunandosi in gran numero presso la recinzione che separa Gaza assediata da Israele sono stati autorizzati dallo Stato occupante. Le proteste di massa, conosciute come la Grande Marcia del Ritorno hanno ricevuto come risposta i proiettili dei cecchini israeliani. Immagini di giovani che trasportavano altri giovani che sanguinavano per ferite da arma da fuoco e gridavano “Dio è grande” erano diventate una scena normale lungo la recinzione. Man mano che le vittime aumentavano, nel tempo l’interesse dei media per la storia semplicemente svaniva.

Le centinaia di combattenti che all’alba di sabato scorso sono entrate in Israele attraverso quattro diversi punti di ingresso erano gli stessi giovani palestinesi che non conoscono altro che la guerra, l’assedio e il bisogno di proteggersi a vicenda. Hanno anche imparato a sopravvivere a tutti i costi, nonostante la scarsità o la totale mancanza di quasi tutto a Gaza, comprese l’acqua pulita e un’adeguata assistenza medica.

È qui che la storia di questa generazione si interseca con quella di Hamas, della Jihad islamica e di altri gruppi palestinesi.

Certo, Hamas ha scelto i tempi e la natura della sua campagna militare inserendola in una strategia molto precisa. Questo, tuttavia, non sarebbe stato possibile se Israele non avesse lasciato a questi giovani palestinesi altra scelta se non quella di contrattaccare.

I video che circolavano sui social media mostravano combattenti palestinesi che urlavano in arabo, con quel caratteristico, spesso aspro accento di Gaza: “Questo è per mio fratello” e “Questo è per mio figlio”. Hanno gridato queste e molte altre affermazioni rabbiose mentre sparavano contro coloni e soldati israeliani in preda al panico. Molti di questi ultimi, a quanto pare, avevano abbandonato le loro postazioni e si erano dati alla fuga.

L’impatto psicologico di questa guerra supererà sicuramente quello dell’ottobre 1973, quando gli eserciti arabi ottennero rapide conquiste contro Israele, anche allora a seguito di un attacco a sorpresa. Questa volta l’impatto devastante sul pensiero collettivo israeliano si rivelerà essere un punto di svolta, dal momento che la “guerra” coinvolge un solo gruppo palestinese, non un intero esercito o tre messi insieme.

L’attacco a sorpresa dell’ottobre 2023, tuttavia, è direttamente collegato alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973. Scegliendo il cinquantesimo anniversario di quello che gli arabi considerano un grande trionfo contro Israele, la Resistenza palestinese ha voluto inviare un messaggio chiaro: la causa palestinese è ancora la causa di tutti gli arabi. Tutte le dichiarazioni rilasciate dagli alti comandanti militari e dai leader politici di Hamas erano cariche di questo simbolismo e di altri riferimenti ai paesi e ai popoli arabi.

Il discorso pan-arabo non è casuale ed è comparso nelle dichiarazioni di Mohammed Deif, comandante delle brigate Al-Qassam, di al-Arouri comandante fondatore di Al-Qassam Saleh, del capo dell’Ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e di Abu Obeida, il portavoce mascherato delle Brigate. Tutti hanno esortato all’unità e hanno insistito sul fatto che la Palestina non è che una componente di una più ampia lotta araba e islamica per la giustizia, la dignità e l’onore collettivo. Hamas ha chiamato la sua campagna “Al-Aqsa Flood” ricentrando l’unità palestinese, araba e musulmana attorno ad Al-Quds [nome arabo di Gerusalemme, ndt.], Gerusalemme e tutti i suoi luoghi santi.

Tutti sembravano scioccati, compreso proprio Israele, non dall’attacco di Hamas in sé ma dal coordinamento e dall’audacia di un’operazione relativamente massiccia e senza precedenti. Invece di attaccare di notte, la Resistenza ha attaccato all’alba. Invece di colpire Israele utilizzando i numerosi tunnel sotto Gaza, hanno semplicemente guidato, fatto parapendio, remato via mare e, in molti casi, attraversato a piedi il preteso confine.

L’elemento sorpresa è diventato ancora più sconcertante quando i combattenti palestinesi hanno messo in discussione i fondamenti stessi della guerriglia: invece di combattere una “guerra di manovra” hanno combattuto, anche se temporaneamente, una “guerra di posizione”, mantenendo per molte ore le aree di cui avevano ottenuto il controllo dell’interno di Israele.

In effetti, per i gruppi di Gaza, l’aspetto psicologico della guerra era essenziale quanto il combattimento fisico. Centinaia di video e immagini sono diventate virali sui social media, come se si sperasse di ridefinire il rapporto tra palestinesi, solitamente le vittime, e Israele, l’occupante militare.

L’insistenza sul non uccidere anziani e bambini è stata sottolineata dai comandanti sul campo. Questo non era destinato solo ai palestinesi. È stato anche un messaggio al pubblico internazionale, che la Resistenza Palestinese si atterrà alle regole universali della guerra.

Il numero di palestinesi che Israele uccide, e ucciderà in futuro, come rappresaglia per l’operazione Al-Aqsa sarà tragico, ma non salverà la reputazione a brandelli di un esercito indisciplinato, una società divisa e una leadership politica concentrata esclusivamente sulla propria sopravvivenza.

È troppo presto per giungere a conclusioni generali sugli esiti di questa guerra senza precedenti. Ciò che è chiarissimo, tuttavia, è che il rapporto di fondo tra l’occupazione israeliana e i palestinesi occupati di qui in poi è cambiato, probabilmente in modo permanente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Dei coloni ebrei hanno rubato la mia casa. Non è colpa mia se sono ebrei

Mohammed el Kurd 

 26 SEtTEMBre 2023, Mondoweiss

Ai palestinesi viene detto che le parole che usiamo minimizzano i decenni di violenza messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Un drone va bene, ma gli stereotipi… uno stereotipo è inaccettabile. Ora basta.

Mentre crescevamo nella Gerusalemme occupata, le persone che cercavano di espellerci dal nostro quartiere erano ebrei e le loro organizzazioni spesso avevano “ebraico” nel nome. Lo stesso vale per le persone che ci hanno rubato la casa, buttato i nostri mobili per strada e bruciato la culla della mia sorellina. Anche i giudici che battevano il martelletto a favore della nostra espulsione erano ebrei, così come lo erano i legislatori le cui leggi facilitavano e sistematizzavano la nostra espropriazione.

Il burocrate che rilasciava – e talvolta revocava – le nostre carte d’identità blu era un ebreo, e io lo detestavo soprattutto perché un tratto della sua penna si frapponeva tra mio padre e la città dei suoi avi. Per quanto riguarda i soldati che ci perquisivano per controllare quei documenti, alcuni di loro erano drusi, altri musulmani, la maggior parte ebrei, e tutti loro, secondo mia nonna, erano “bastardi senza Dio”. Quelli che gestivano i fucili e le manette, quelli che redigevano meticolosi e sanguinari piani urbanistici erano … avete indovinato.

Non era un segreto. Vivevamo sotto il dominio dell’autoproclamato “Stato ebraico”. I politici israeliani hanno abusato di questa storia mentre i loro colleghi internazionali annuivano. L’esercito si è dichiarato esercito ebraico e ha marciato sotto quella che ha chiamato bandiera ebraica. I consiglieri comunali di Gerusalemme si vantavano di “prendere casa dopo casa” perché “la Bibbia dice che questo paese appartiene al popolo ebraico”, e i membri della Knesset intonavano canti simili. Quei legislatori non erano marginali o di estrema destra: la legge israeliana sullo Stato nazionale sancisce esplicitamente “l’insediamento ebraico” come un “valore nazionale… da incoraggiare e promuovere”.

Tuttavia, sebbene questo non fosse un segreto, ci veniva detto di trattarlo come tale, a volte dai nostri genitori, a volte da attivisti solidali ben intenzionati. Ci è stato detto di ignorare la Stella di David sulla bandiera israeliana e di distinguere gli ebrei dai sionisti con precisione chirurgica. Non importava che i loro stivali fossero sul nostro collo e che i loro proiettili e manganelli ci colpissero. Il nostro essere apolidi e senzatetto erano irrilevanti. Ciò che contava era il modo in cui parlavamo dei nostri guardiani, non le condizioni in cui ci tenevano – bloccati, circondati da colonie e avamposti militari – o il fatto stesso che ci tenessero.

Il linguaggio era un campo minato peggiore del confine tra la Siria e le alture del Golan occupate, e noi, all’epoca bambini, dovevamo aggirarlo, sperando di non calpestare accidentalmente uno stereotipo esplosivo che ci avrebbe screditato. Usare le “parole sbagliate” aveva la magica capacità di far scomparire le cose:gli stivali, i proiettili,i manganelli e i lividi diventano tutti invisibili se dici un qualcosa per scherzo o con rabbia. Ancora più pericoloso credere nelle “cose sbagliate”: ti rende meritevole di quella brutalità. La cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento non erano gli unici privilegi che ci venivano derubati, anche la mera ignoranza era un lusso.

Come palestinesi comprendiamo fin da giovani che la violenza semantica che pratichiamo con le nostre parole fa impallidire decenni di violenza sistemica e materiale messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Va bene un drone, ma uno stereotipo… lo stereotipo è inaccettabile. Impariamo a interiorizzare la museruola.

Quindi ho dato ascolto a quei messaggi – cos’altro dovrebbe fare un bambino di 10 anni? – e ho imparato a conoscere Hitler e l’Olocausto, ho imparato a riconoscere gli stereotipi del naso, i pozzi avvelenati, i banchieri, i vampiri, i serpenti e le lucertole (ho appena scoperto la piovra), e ho imparato che, quando parlo con i diplomatici in visita a quello zoo che è un nostro quartiere, i coloni che occupano casa nostra devono essere argomento secondario nella mia esposizione, dopo un’accalorata denuncia dell’antisemitismo globale. E quando mia nonna ottantenne si rivolgeva a quei visitatori stranieri, la interrompevo per correggerla ogni volta che descriveva i coloni ebrei in casa nostra come, be’, ebrei.   

Più di un decennio dopo non è cambiato molto. Lo stivale resta lì, lo stesso vale per i proiettili e i manganelli (e sarei negligente se non parlassi del genio creativo delle armi da fuoco robotiche azionate dall’Intelligenza Artificiale recentemente aggiunte all’arsenale dello Stato ebraico).

Il governo chiama il suo progetto in Galilea “l’ebreizzazione della Galilea” e le sue quasi-istituzioni fanno lo stesso. Per quanto riguarda i membri del consiglio che hanno promesso di prendere “casa dopo casa”, oltre al loro successo nel rubare case a Sheikh Jarrah, nella Città Vecchia, a Silwan e altrove, marciano regolarmente nelle nostre città con megafoni e bandiere cantando “vogliamo una Nakba ora.” I giudici continuano a battere martelletti per garantire la continuazione di questa Nakba, governano ancora a favore della supremazia ebraica. E, nonostante il disaccordo con la Corte Suprema su vari aspetti, i parlamentari legiferano in conformità con questo atteggiamento suprematista. Alcuni affermano apertamente che la vita ebraica è semplicemente “più importante della [nostra] libertà” (e talvolta sono anche così gentili da scusarsi con i presentatori televisivi arabi mentre gli comunicano questa dura verità).

Più di un decennio dopo lo status quo rimane immutato. E noi, e mi si spezza il cuore, continuiamo a ballare tra le mine. Continuiamo a puntare sulla moralità e sull’umanità così come loro puntano sulle loro armi.

Qualche settimana fa 16 agenti di polizia israeliani hanno spento le loro telecamere e hanno marchiato, intendo dire inciso fisicamente, la Stella di David sulla guancia del 22enne Orwa Sheikh Ali, un giovane arrestato nel campo profughi di Shufat.

Sempre poche settimane fa, MEMRI, un gruppo di controllo dei media co-fondato da un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, ha pubblicato filmati del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas che affermava che gli europei “hanno combattuto [gli ebrei] a causa della loro posizione sociale” e dell’ ”usura” e “non a causa della loro religione”.

In risposta, un gruppo di rinomati intellettuali palestinesi, molti dei quali ammiro e rispetto, ha pubblicato una lettera aperta “condannando senza mezzi termini” – indovinate un po’? – i “commenti moralmente e politicamente riprovevoli” di Abbas.

Forse si può definire la loro dichiarazione congiunta una mossa “strategica” per confutare la convinzione che i palestinesi nascano intolleranti. Altri potrebbero dire che rappresenti ciò che significa avere un “codice morale coerente”. Sono certo che alcuni firmatari credono che la nostra cosiddetta autorità morale ci imponga di deplorare il revisionismo storico “rispetto all’Olocausto” e di dare l’esempio nel rifiutare ogni forma di razzismo, non importa quanto retorica.

Sia quel che sia, quando l’ho letta ho provato un senso di deja vu. Eccoci qui, presi ancora una volta in una crisi sconclusionata, a rispondere precipitosamente di crimini che non abbiamo commesso. La strategia di difenderci dall’accusa infondata di antisemitismo ci ha storicamente avvicinato ad essa. E soprattutto un simile impulso eleva inconsapevolmente la storia della sofferenza ebraica, che è certamente studiata e addirittura glorificata, molto al di sopra della nostra sofferenza odierna, una sofferenza negata e dibattuta.

Anche se i firmatari della lettera, alcuni dei quali criticavano l’Autorità Palestinese da prima che io nascessi, hanno denunciato “il governo sempre più autoritario e draconiano dell’Autorità Palestinese” e hanno preso atto delle “forze occidentali e filo-israeliane” che sostengono il mandato presidenziale scaduto di Abbas, nessuna di queste circostanze è servita da catalizzatore per quella che sembra essere la prima dichiarazione congiunta di condanna per Mahmoud Abbas. La lettera non menzionava nel titolo la sua collaborazione con il regime sionista, né la brutalizzazione di manifestanti e prigionieri politici, per non parlare dell’omicidio di Nizar Banat [militante e attivista per le libertà assassinato dalle Forze di Sicurezza Palestinesi, ndt.]

Il catalizzatore qui sono state le parole. Solo parole. Ed è sempre così. Ancora una volta, un drone va bene, ma uno stereotipo è vietato.

Ironicamente, sia la lettera congiunta che il discorso di Abbas cercavano di prendere le distanze dall’antisemitismo. Verso la fine del filmato, Abbas ha voluto “chiarire” che ha detto ciò che ha detto riguardo “gli ebrei d’Europa che non hanno nulla a che fare con il semitismo” perché dovremmo “sapere chi dobbiamo accusare di essere nostro nemico”. “

Che impeto impegnativo. Non solo viviamo nella paura di essere evacuati per mano di un colonialismo che si professa ebraico, non solo il nostro popolo è bombardato da un esercito che marcia sotto quella che sostiene essere la bandiera ebraica, e non solo i politici israeliani enunciano ossessivamente l’ebraicità delle loro azioni, ci viene detto di ignorare la Stella di David che sventola sulla loro bandiera – la Stella di David che incidono sulla nostra pelle.

Questo impeto è vecchio di decenni, se non di un secolo. Nella trascrizione manoscritta di un discorso tenuto al Cairo nell’ottobre 1948, lo studioso palestinese Khalil Sakakini cancellò un frammento di frase che diceva “… la lotta tra arabi ed ebrei” per sostituirla con “la lotta tra noi e gli invasori .” Gli accademici palestinesi, l’Istituto per gli studi sulla Palestina e il Centro di Ricerca sulla Palestina dell’OLP (che fu saccheggiato e bombardato ripetutamente negli anni ’80) hanno dedicato articoli, libri e volumi allo studio dell’antisemitismo, delle sue radici europee e delle sue manifestazioni, europee e non – e la sua fusione con l’antisionismo.

Il popolo palestinese ha continuamente chiarito che il nostro nemico è l’ideologia colonialista e razzista del sionismo, non gli ebrei. La nostra capacità di cogliere tale distinzione è ammirevole e impressionante, considerando la mano pesante con cui il sionismo tenta di farsi sinonimo di ebraismo.

Tuttavia, questa distinzione non è nostra responsabilità e, personalmente, non è fra le mie priorità. Il risentimento provato da un palestinese non ha il sostegno di una Knesset che lo codifichi in legge. Gli stereotipi non sono droni, né si possono convertire le teorie della cospirazione in armi nucleari. Siamo oltre i primi del ‘900. Le cose sono diverse, il potere è cambiato. Le parole non ammazzano.

Nei giorni trascorsi tra il gesto di 16 soldati che marchiano la Stella di David sul volto di un uomo e la pubblicazione della lettera congiunta, un soldato israeliano ha ucciso un adolescente disabile vicino a un posto di blocco militare a Qalqilya; un altro ha sparato alla testa a un bambino a Silwan; un giovane già colpito durante un raid israeliano nel campo profughi di Balata è morto per le ferite riportate; un cecchino ha sparato alla testa di un giovane palestinese a Beita; un diciassettenne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a sud di Jenin; un altro giovane è morto a causa delle ferite riportate in seguito all’invasione del campo profughi; famiglie di palestinesi i cui cadaveri sono trattenuti dalle autorità di occupazione avevano marciato con bare vuote a Nablus; un soldato ha ucciso un uomo vicino a Hebron; la polizia ha giustiziato un ragazzo di 14 anni a Sheikh Jarrah tra gli applausi di centinaia di coloni; la polizia ha poi lanciato gas lacrimogeni sulla sua famiglia a Beit Hanina; un palestinese è stato ucciso dopo aver speronato soldati israeliani a Beit Sira uccidendone uno; nel nord di Gerico un palestinese è stato ucciso e un soldato è rimasto ferito in uno scontro a fuoco; un soldato ha sparato alla testa a un uomo a Tubas, uccidendolo – e questa è solo la punta dell’iceberg.

Quale di questi eventi ha causato un ampio dibattito? Nessuno. C’è stato molto dibattito in televisione riguardo all’affermazione di Itamar Ben-Gvir secondo cui la vita ebraica è “più importante della libertà [palestinese]”, molto meno riguardo al marchio della Stella di David e, naturalmente, Mahmoud Abbas ha ricevuto la reazione più rumorosa di tutte. (Questo vale in generale, non solo nel caso della lettera aperta).

Tutti e tre questi esempi riguardano l’estetica. Le dichiarazioni di Ben-Gvir erano concrete e vere: la vita ebraica vale più della nostra sotto il dominio israeliano, ma è stata la sua esplicita orazione a scatenare l’indignazione, piuttosto che le politiche istituzionalizzate che hanno reso le sue osservazioni razziste la realtà materiale sul campo. Anche la deformazione fisica del volto di un palestinese è risultata degna di nota solo per ciò che l’incisione simboleggiava, non per l’incisione stessa: se i soldati avessero inciso dei segni senza significato sulla sua guancia dubito del tutto che la cosa avrebbe attirato l’attenzione.

Per quanto riguarda la morte dei palestinesi, è quotidiana e trascurabile. Se siamo fortunati, i nostri martiri vengono comunicati in cifre sulle pagine dei resoconti di fine anno. Il “revisionismo”, d’altro canto, merita una cacofonia di condanne.

E questa è la mia posizione. C’è un ebreo che vive – con la forza – in metà della mia casa a Gerusalemme, e lo fa per “decreto divino”. Molti altri risiedono – con la forza – in case palestinesi mentre i loro proprietari restano nei campi profughi. Non è colpa mia se sono ebrei. Non ho alcun interesse nel ripetere a memoria o chiedere scusa per i luoghi comuni secolari creati dagli europei, o nel dare alla semantica più peso di quanto gli spetti, soprattutto quando milioni di noi affrontano un’oppressione reale e tangibile, vivendo dietro muri di cemento, o sotto assedio, o in esilio, e convivendo con pene troppo grandi per essere riassunte. Sono stanco dell’impulso a prendere preventivamente le distanze da qualcosa di cui non sono colpevole, e particolarmente stanco del presupposto che io sia intrinsecamente fazioso. Sono stanco della pretesa fintamente inorridita secondo cui se tale animosità esistesse, la sua esistenza sarebbe inspiegabile e senza radici. Soprattutto, sono stanco della falsa equivalenza tra violenza semantica e violenza sistemica.

So che questo saggio è già di per sé un campo minato. Che verrà estrapolato dal contesto e divulgato, ma io non sarò mai la vittima perfetta: non si può sfuggire all’accusa di antisemitismo. È una battaglia persa e, cosa ancora più importante, un’evidente diversivo. Ed è ora di riconsiderare questa tattica. Ci sono cose migliori da fare: abbiamo delle bare da trasportare. Abbiamo dei parenti nelle camere mortuarie israeliane che dobbiamo seppellire.

Questo saggio è stato ispirato dallo storico articolo di James Baldwin del 1967 “I negri sono antisemiti perché sono anti-bianchi”.

Mohammed el-Kurd (1998-) è uno scrittore e poeta palestinese che risiede a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est. Prima della crisi Israele-Palestina del 2021 stava conseguendo un master negli Stati Uniti ma è tornato per protestare contro lo sfratto dei palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo un ministro Netanyahu appoggia il congelamento dei fondi per le aree arabe

Redazione di MEMO

8 agosto 2023 – Middle East Monitor

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich [del partito di ultradestra dei coloni, ndt.] ha confermato oggi che il primo ministro Benjamin Netanyahu appoggia la sua decisione di sospendere un programma di istruzione superiore per Gerusalemme Est occupata, tra crescenti proteste dell’opinione pubblica e accuse di razzismo.

Smotrich ha ribadito che i fondi destinati allo sviluppo economico nelle città arabe nello Stato di apartheid non saranno trasferiti come inizialmente pianificato.

Egli ha affermato al canale pubblico Kan: “Mi sto coordinando con il primo ministro. L’ho incontrato e gli ho spiegato ed egli supporta questa posizione. Ho ricevuto il suo consenso”.

“La decisione è finale, lo stanziamento non sarà trasferito,” ha aggiunto Smotrich. “Se troviamo modalità per trasferire davvero denaro ai cittadini arabi di Israele, allora aiuteremo ove necessario.”

Il capo del partito Sionismo Religioso ha dichiarato che la sua decisione è stata presa per evitare che i fondi cadano sotto il controllo del crimine organizzato. Ha anche dichiarato che promuovere l’istruzione superiore tra i palestinesi a Gerusalemme Est favorisce l’estremismo e perciò non è in linea con gli interessi israeliani.

Il governo attuale, ha spiegato, “non è vincolato” ad una promessa fatta dal precedente ministro dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, ndt.] al capo del partito Ra’am [arabo di orientamento religioso che faceva parte della precedente coalizione di governo, ndt.] Mansour Abbas.

In risposta, il capo dell’opposizione Yair Lapid questa mattina ha stroncato Smotrich su Twitter, affermando che “contrariamente alle sue bugie, gli stanziamenti congelati da Smotrich per le autorità locali arabe non sono relative ‘all’impegno del precedente governo’ nei confronti del settore arabo”.

“Smotrich maltratta i cittadini arabi solo perché sono arabi,” ha continuato, aggiungendo di “vergognarsi che il razzismo sia diventato una politica ufficiale dello Stato di Israele.”

Il congelamento dei fondi per l’istruzione dei palestinesi a Gerusalemme Est avviene nonostante funzionari per l’istruzione e per la sicurezza, incluso il capo dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna, ndt.] e il consiglio di sicurezza nazionale israeliano, dicano che finanziare l’istruzione superiore per i palestinesi diminuirebbe il terrorismo.

Il ministro dell’intelligence israeliana Gila Gamliel ha criticato la decisione di Smotrich, sottolineando il fatto che l’inclusione della popolazione araba nelle università porta significativi benefici sociali, economici e di sicurezza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Gerusalemme: un giornalista vestito da religioso cristiano preso a sputi dai coloni

Redazione di MEMO

11 luglio 2023 – Middle East Monitor

Una prova scioccante dell’incremento del numero di attacchi nei confronti dei palestinesi cristiani da parte di coloni israeliani è stata ripresa da un giornalista israeliano che si è vestito da religioso e ha camminato per le strade di Gerusalemme occupata.

Yossi Eli di Canale 13 voleva vedere con i propri occhi la spirale dei crimini d’odio contro i cristiani. Cinque minuti dopo essersi vestito con un saio francescano, Padre Alberto, Eli è stato preso a sputi per cinque volte da coloni israeliani ebrei.

Il video dell’aggressione da parte dei coloni è stato caricato da Eli su Twitter con commenti in cui egli ha respinto i tentativi di minimizzare la spirale dei crimini d’odio contro i cristiani.

“La giustificazione di alcuni gruppi ebrei per i crimini d’odio è che sono ‘malati di mente’,” ha detto Eli. “Non è così. La nostra inchiesta ha provato che gli attacchi non arrivano veramente da malati di mente, ma da gente con una chiara opinione che semplicemente odia qualcosa che non è. Lavaggio del cervello che Gesù è cattivo. Giovani estremisti, bambini, e molto tristemente soldati, ‘il sale della terra’, esprimono il loro odio verso la cristianità.”

Eli ha chiesto quale reazione ci sarebbe stata se fossero stati gli ebrei e non i cristiani a ricevere sputi. “Pensate solo alla reazione che ci sarebbe stata da parte di quegli ebrei se un cristiano avesse sputato su di loro in Europa”, ha affermato, aggiungendo che essere un religioso cristiano per un giorno “è stato molto difficile da digerire”.

L’inchiesta di Eli è stata fatta nel contesto di un preoccupante aumento di crimini d’odio contro le comunità cristiane indigene di Palestina. Il custode del Vaticano in Terra Santa, padre Francesco Patton, ha accusato i politici israeliani per l’aumento di attacchi anti-cristiani da parte di coloni ebrei.

Secondo un reportage di Haaretz, Patton ha citato la profanazione di un cimitero luterano, la vandalizzazione di una sala di preghiera maronita e la scritta “morte ai cristiani” su una proprietà armena, tutto nello spazio di poche settimane. Ha anche indicato “la responsabilità dei leader, di chi è al potere.”

In un precedente avvertimento relativo agli attacchi ai cristiani in Palestina, Patton aveva affermato che essi affrontano “la minaccia di estinzione” da parte di gruppi israeliani “radicali.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Coloni ebrei illegali si sono impadroniti della casa della famiglia Sub Laban nella città vecchia di Gerusalemme

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

11 luglio 2023 – Palestine Chronicle

WAFA, l’agenzia di notizie ufficiale palestinese, ha riferito che martedì coloni ebrei illegali si sono impadroniti della casa della famiglia Sub Laban nella città vecchia di Gerusalemme.

I coloni, scortati dalle forze di occupazione israeliane, hanno fatto irruzione nella casa della famiglia e hanno cacciato con la forza gli abitanti, arrestando nel contempo gli attivisti che offrivano supporto alla famiglia.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Al-Haq con sede a Ramallah, le autorità di occupazione israeliane “hanno emesso nei confronti di Nora Ghaith di 69 anni e di suo marito Mustafa Sub Laban di 72 anni un avviso di sfratto obbligatorio, ordinando loro di sloggiare dalla loro casa.

Per più di 40 anni la famiglia Sub Laban è stata coinvolta in una battaglia legale contro i gruppi di coloni illegali e le autorità israeliane di occupazione per espellerli e appropriarsi della loro casa.

Molti anni fa coloni ebrei illegali si sono appropriati della parte superiore dell’edificio, mentre la casa della famiglia Sub Laban è rimasta nella parte centrale dell’edificio, circondata da colonie da tutti i lati.

La famiglia ha affittato la casa nel 1953 dal regno di Giordania e le era stato concesso il diritto a un affitto protetto, ma dopo l’occupazione di Gerusalemme la casa venne messa sotto la gestione della cosiddetta custodia delle proprietà degli assenti, affermando che tale proprietà apparteneva ai coloni illegali, cosa che è stata categoricamente negata dalla famiglia.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele ha assolto l’assassino di Eyad al-Hallaq. Poi Ben-Gvir ha definito terrorista sua madre.

Yumna Patel 

7 luglio 2023 – Mondoweiss

Un tribunale distrettuale israeliano ha assolto l’agente della polizia di frontiera che nel 2020 sparò e uccise un palestinese affetto da autismo che era disarmato e stava scappando dalla polizia.

Tre anni dopo gli spari che provocarono indignazione a livello internazionale un tribunale israeliano ha prosciolto un agente della polizia di frontiera israeliana che uccise un palestinese affetto da autismo.

Giovedì il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che il poliziotto, inizialmente incriminato per omicidio colposo, agì per “autodifesa” quando sparò e uccise il trentaduenne Eyad al-Hallaq.

Il 30 maggio 2020 al-Hallaq si stava recando a una scuola per disabili nella città vecchia di Gerusalemme est occupata quando venne inseguito da agenti israeliani. All’epoca la polizia affermò che al-Hallaq, che era autistico, stava comportandosi in modo “sospetto” e che era armato, per cui gli agenti gli avevano sparato. In seguito venne dimostrato che era disarmato.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, nella decisione di giovedì del tribunale l’uccisione di al-Hallaq viene descritta come un “tragico errore”, affermando che l’agente “aveva preso una decisione in pochi secondi in una situazione di pericolo,”. Il tribunale ha aggiunto che il poliziotto, la cui identità è rimasta nascosta all’opinione pubblica, aveva agito in “buona fede” perché convinto che al-Hallaq fosse un “aggressore”.

Immagini video postate sulle reti sociali dopo la decisione del tribunale mostrano la madre di al-Hallaq, Ranad, urlare disperata nell’aula del tribunale, e avrebbe gridato: “Siete tutti dei terroristi, mio figlio è sottoterra.”

Il padre di al-Hallaq, Khairi al-Hallaq, ha detto ai giornalisti: “In sostanza il tribunale ha detto alla polizia: ‘Fate quello che volete agli arabi. Non sarete puniti per questo’.”

Video postati sulle reti sociali venerdì 7 luglio, il giorno dopo l’udienza in tribunale, mostrano Ranad al-Hallaq affrontare un gruppo di manifestanti israeliani, tra cui il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, di estrema destra. Benché Mondoweiss non abbia potuto comprendere quello che viene detto nella discussione tra i due, secondo un tweet di Tamy Abdul Ben-Gvir avrebbe urlato: “Vattene, terrorista,” alla madre di al-Hallaq.

In risposta alla decisione della corte Ben-Gvir ha affermato: “Gli eroici soldati che proteggono lo Stato di Israele con le proprie vite avranno un ampio e totale sostegno da me e dal governo israeliano.”

Secondo Haaretz l’agente della polizia di frontiera verrà reintegrato in servizio e parteciperà “tra poche settimane a un corso per comandanti”.

Affermazioni contraddittorie

Durante l’indagine e il procedimento giudiziario i genitori di Eyad al-Hallaq hanno accusato gli inquirenti e i pubblici ministeri israeliani di essere stati indulgenti con l’agente e che egli avrebbe dovuto essere imputato di omicidio volontario invece che colposo, che comporta una pena massima di 12 anni.

L’atto di accusa contro il poliziotto, presentato nel 2021, specificava come l’accusato avesse sparato ad al-Hallaq allo stomaco mentre era intrappolato con la schiena contro il muro, nascosto dietro un cassonetto della spazzatura. L’agente gli sparò una seconda volta al petto mentre era a terra ferito, uccidendolo.

Il poliziotto sostenne che “sospettava che al-Hallaq fosse un terrorista” perché portava guanti e mascherina neri, cosa per niente strana dato che si era all’inizio della pandemia da COVID-19, e “nel camminare si era fermato varie volte guardando indietro.”

Al-Hallaq stava andando a scuola alle prime ore del mattino e sarebbe stato spaventato dal gruppo di poliziotti israeliani che si trovavano nella zona e gli avevano detto di fermarsi. Immagini di una telecamera di sorveglianza mostrano al-Hallaq che si allontana di corsa dai poliziotti, guardando affannosamente dietro di sé mentre gli agenti lo inseguono.

Nella sua testimonianza il poliziotto ha anche affermato di temere per la vita di una donna che si trovava nelle vicinanze, sostenendo di essere stato “sicuro che al-Hallaq fosse un terrorista che intendeva compiere una strage e stava per uccidere una donna.”

Secondo Haaretz l’agente ha detto che dopo che al-Hallaq era entrato in un gabbiotto dei rifiuti avrebbe “sentito le urla di una donna,” affermando: “Da ciò che ho potuto vedere il terrorista stava per uccidere la donna. Erano urla terribili,” ha sostenuto. “Per come l’ho vista io, stavo salvando questa donna.” La donna risultò essere l’insegnante di al-Hallaq e l’unica testimone degli spari. Disse che stava gridando ai poliziotti di non sparare ad al-Hallaq, spiegando loro che si trattava di un disabile. Affermò che gli agenti ignorarono le sue invocazioni e gli spararono ugualmente.”

Lo scorso anno, poco dopo l’uccisione di suo figlio, Ranad al-Hallaq raccontò questi eventi a Mondoweiss, sostenendo che egli si era “rannicchiato per la paura” nascosto dietro al cassonetto, e gridava: “Sono con lei, sono con lei,” indicando la sua insegnante.

“Lei (la docente) vide quello che stava accadendo e urlò alla polizia di fermarsi, dicendo che egli era un disabile,” affermò Ranad. “Ma non si fermarono e continuarono a gridare ‘terrorista!’ in ebraico.”

Di rado poliziotti e soldati israeliani rispondono dei crimini commessi contro palestinesi. Secondo un rapporto di maggio dell’autorità di controllo statale israeliana nel 2021 l’1,2% delle denunce contro funzionari della sicurezza ha comportato un’incriminazione.

Adalah –Centro Giuridico per i Diritti della Minoranza Araba in Israele ha condannato la polizia e le forze di sicurezza israeliane perché non seguono le adeguate procedure prima di aprire il fuoco, affermando che l’“assoluta impunità” che i funzionari ottengono nelle indagini per omicidio colposo comporta “un’estrema facilità nell’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti di polizia e delle guardie giurate quando si tratta di arabi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 13 giugno – 4 luglio 2023

 

1). Durante un’operazione condotta a Jenin, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi, tra cui un minore; altri due palestinesi, tra cui un altro minore, sono morti per le ferite riportate (seguono dettagli).

Il 19 giugno, forze israeliane hanno condotto un’operazione su larga scala della durata di oltre 11 ore, iniziata con unità sotto copertura che hanno fatto irruzione a Jenin durante le prime ore del mattino. Le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi, tra cui un minore, e ne hanno feriti altri 90. Almeno 50 dei feriti sono stati causati da proiettili veri. Palestinesi e forze israeliane hanno avuto uno scontro a fuoco nelle aree vicine al Campo profughi di Jenin. Dai palestinesi sono stati usati ordigni esplosivi improvvisati che hanno provocato danni all’equipaggiamento militare israeliano. Successivamente, le forze israeliane hanno lanciato un attacco aereo, secondo quanto riferito, come parte del processo di evacuazione delle truppe che erano state affrontate dai palestinesi con armi da fuoco e ordigni esplosivi. Secondo fonti israeliane, durante l’operazione, otto membri delle forze israeliane sono rimasti feriti. Secondo fonti mediche, durante le operazioni, le forze israeliane hanno limitato il movimento delle ambulanze nell’area. Il 20 e 21 giugno, altri due palestinesi, tra cui una ragazza, sono morti per le ferite riportate ad opera delle forze israeliane, durante l’operazione a Jenin. Una valutazione umanitaria iniziale stima che almeno 75 case abbiano subito danni durante l’operazione, compresi i danni causati dall’uso di proiettili esplosivi da spalla. Sono stati segnalati danni anche a infrastrutture come generatori elettrici, reti idriche e servizi di telecomunicazione. Non è stato segnalato alcuno sfollamento.

2). Il 20 giugno, nel Campo profughi di Balata (Nablus), due palestinesi sono stati uccisi e un minore è rimasto ferito da un ordigno esplosivo, maneggiato incautamente e fatto esplodere.

3). Due palestinesi hanno ucciso quattro coloni israeliani, tra cui due minori, prima che venissero uccisi (seguono dettagli).

Il 20 giugno, vicino all’insediamento colonico di Eli (Nablus), due palestinesi hanno sparato, uccidendo quattro coloni israeliani, tra cui due minori, e ferendone altri quattro. Uno degli aggressori è stato colpito e ucciso da un colono israeliano sul posto, mentre l’altro è fuggito ed è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane vicino al villaggio di Aqqaba (Tubas), durante una caccia all’uomo. Successivamente, le forze israeliane hanno inasprito le restrizioni di movimento nel governatorato di Nablus e hanno chiuso diversi checkpoints.

4). Le forze israeliane hanno ucciso un palestinese durante un episodio legato a coloni (seguono dettagli).

Il 21 giugno, in seguito all’aggressione avvenuta nei pressi di Eli, circa 300-400 coloni israeliani sono entrati nella Comunità palestinese di Turmus’ayya (Ramallah), accompagnati da forze israeliane. I coloni israeliani hanno sparato, lanciato pietre, aggredito fisicamente residenti palestinesi e dato fuoco a case, veicoli, alberi e terreni coltivati di proprietà palestinese (maggiori dettagli di seguito). I palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni. Le forze israeliane hanno ucciso un palestinese e ne hanno feriti altri 41, tra cui due minori.

5). Le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi, tra cui un minore, in un attacco con droni a Jenin (seguono dettagli).

Il 21 giugno, vicino al checkpoint di Al Jalama (Jenin), tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati presi di mira da un attacco aereo israeliano mentre viaggiavano su un veicolo. L’esercito israeliano ha dichiarato che l’attacco con droni era indirizzato contro palestinesi che avevano precedentemente effettuato attacchi con armi da fuoco contro israeliani. Alla chiusura del presente bollettino le autorità israeliane stavano ancora trattenendo i loro corpi.

6). In Cisgiordania, presso checkpoints, un minore palestinese è stato ucciso e sei membri delle forze israeliane e un colono israeliano sono rimasti feriti in due attacchi con armi da fuoco (seguono dettagli).

Il 24 giugno, al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), un palestinese di 17 anni ha aperto il fuoco contro forze israeliane ed è stato successivamente colpito e ucciso dalle forze israeliane. Secondo fonti israeliane, due membri delle forze israeliane sono rimasti feriti. Il corpo del giovane viene trattenuto dalle autorità israeliane.

Il 13 giugno, un colono israeliano e quattro membri delle forze israeliane sono rimasti feriti quando autori, ritenuti palestinesi, hanno sparato contro i loro veicoli, vicino al checkpoint di Barta’a (Jenin). Successivamente le forze israeliane  hanno intensificato le restrizioni di accesso all’area.

7). Il 3 e 4 luglio 2023, le forze israeliane hanno condotto un’operazione aerea e terrestre su larga scala nel Campo profughi di Jenin e dintorni. I dettagli dell’impatto umanitario dell’operazione di due giorni sono disponibili negli aggiornamenti flash n. 1 e n. 2 di OCHA e nel rapporto sulla situazione n.1. Il Ministero della Sanità palestinese (MoH) ha confermato che, durante l’operazione a Jenin, sono stati uccisi dodici palestinesi, tra cui quattro minori. Inoltre, un palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane, il 3 luglio a Ramallah, durante una manifestazione con lancio di pietre in segno di protesta contro l’operazione di Jenin. Durante l’operazione sono rimasti feriti almeno 143 palestinesi. Secondo fonti israeliane, un soldato israeliano è stato ucciso e un altro è rimasto ferito. Una panoramica delle distruzioni causate dall’operazione di Jenin non è inclusa in questo rapporto poiché le valutazioni umanitarie sono ancora in corso.

8). In ulteriori episodi che hanno provocato vittime in tutta la Cisgiordania, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi e altri due sono morti per le ferite riportate durante cinque operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte dalle forze israeliane, inclusa una demolizione punitiva (seguono dettagli).

Il 13 giugno, forze israeliane hanno fatto irruzione nel Campo profughi di Balata, hanno circondato una casa e hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi. Un palestinese affetto da autismo è stato colpito e ucciso, e nove palestinesi sono rimasti feriti, tutti da proiettili veri sparati dalle forze israeliane.

Il 15 giugno, forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Nablus e condotto una demolizione punitiva della casa di famiglia del palestinese coinvolto nella sparatoria e nell’uccisione di un soldato israeliano nella città di Nablus, nell’ottobre 2022. I palestinesi hanno lanciato pietre in varie località della città di Nablus, e in alcuni casi si è verificato uno scontro a fuoco tra forze israeliane e palestinesi. Un palestinese è stato colpito e ucciso, e 333 palestinesi sono rimasti feriti, di cui tre con proiettili veri sparati dalle forze israeliane.

Il 19 giugno, forze israeliane hanno condotto un’operazione a Hussan (Betlemme), durante la quale i palestinesi hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie contro le forze israeliane, e queste ultime hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni, uccidendo un palestinese e ferendone altri tre, di cui due con proiettili veri.

Il 20 e 24 giugno, due palestinesi sono morti per le ferite riportate, uno durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo profughi di ‘Askar (Nablus) il 19 giugno, e un altro il 22 maggio 2023, durante un’operazione delle forze israeliane a Jenin che ha comportato scambi a fuoco con i palestinesi.

9). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 1.310 palestinesi, tra cui almeno 103 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane, comprese 105 persone colpite da proiettili veri. La maggior parte dei feriti (618) è stata registrata in due episodi di demolizione punitiva a Nablus. Altri 317 feriti si sono verificati durante 23 operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte dalle forze israeliane in tutta la Cisgiordania. In altri 22 casi, registrati principalmente intorno a Nablus e Ramallah, 187 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. La maggior parte di loro è stata curata per inalazione di gas lacrimogeni. Ciò ha fatto seguito all’ingresso di coloni israeliani, accompagnati dalle forze israeliane, in queste Comunità palestinesi. Circa l’85% di questi feriti è stato registrato tra il 20 e il 24 giugno, dopo l’uccisione di israeliani vicino a Eli. Altri 170 feriti sono stati registrati durante manifestazioni, contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso legate agli insediamenti a Beit Dajan e Beita (entrambe a Nablus), e Kafr Qaddum (Qalqilya), e in altre manifestazioni contro l’operazione condotta a Jenin il 3-4 luglio. Un altro minore palestinese è stato aggredito fisicamente, ferito e arrestato dalle forze israeliane a un checkpoint nell’area H2 della città di Hebron. I restanti 17 feriti palestinesi, tra cui quattro feriti da arma da fuoco e con proiettili veri, sono avvenuti durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane posizionate all’ingresso di Beit Ummar (Hebron) e Husan (Betlemme). Complessivamente, 953 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 105 sono stati colpiti da proiettili veri, 50 sono stati feriti da proiettili di gomma, 33 da schegge, 23 sono stati aggrediti fisicamente, tre sono stati colpiti da granate assordanti.

10). Nella Cisgiordania settentrionale e centrale, coloni israeliani hanno ferito 19 palestinesi ed hanno causato danni a proprietà palestinesi in 46 casi, in quattro giorni consecutivi, tra il 20 e il 24 giugno (seguono dettagli).

Dopo l’attacco con armi da fuoco vicino all’insediamento di Eli, centinaia di coloni israeliani, accompagnati da forze armate, hanno aperto il fuoco, lanciato pietre, aggredito fisicamente i residenti palestinesi e dato fuoco alle loro proprietà in 36 Comunità palestinesi; principalmente intorno a Nablus e Ramallah. In totale, 41 case di proprietà palestinese sono state danneggiate. Cinque case di proprietà palestinese sono state completamente bruciate nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah) e 36 sono state danneggiate o bruciate a Huwwara, Al Lubban ash Sahrqiya, ‘Urif, Turmus’ayya, Umm Saffa e Sinjil. La maggior parte dei danni è avvenuta alle finestre, frantumate con pietre dai coloni. Almeno sei famiglie palestinesi, sono state sfollate; comprendevano 25 palestinesi, tra cui otto donne, 12 minori e una persona con disabilità. Almeno 75 veicoli di proprietà palestinese sono stati danneggiati o distrutti, di cui 39 completamente bruciati. Inoltre, il 21 giugno, coloni israeliani hanno vandalizzato una scuola e una moschea a ‘Urif (Nablus). La sera del 21 giugno, coloni israeliani sono entrati nella scuola vuota e hanno lanciato bottiglie incendiarie contro le finestre di due aule, provocando danni. In totale, durante questi attacchi di coloni, 19 palestinesi, tra cui cinque minori, sono stati feriti da coloni e altri 160 sono stati feriti da forze israeliane intervenute o comunque coinvolte. Dei 160 feriti, 14 sono stati causati da proiettili veri, 15 da proiettili di gomma, 123 hanno ricevuto cure mediche per aver inalato gas lacrimogeni sparati dalle forze armate e otto sono stati aggrediti fisicamente. A‘Urif (Nablus), quattro coloni israeliani sono stati feriti da pietre lanciate da palestinesi durante uno di questi episodi.

11). Altri sei palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti da coloni israeliani, e persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in altri 33 casi registrati in Cisgiordania. Questi si aggiungono alle vittime palestinesi da parte di coloni e forze israeliane nei suddetti episodi relativi a coloni (seguono dettagli).

Il 21 giugno, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese all’ingresso di Birin (Hebron) con una sbarra di metallo.

Il 28 giugno, coloni hanno aggredito fisicamente e ferito due minori palestinesi che pascolavano il loro bestiame ad Al Mu’arrajat East (Ramallah).

Lo stesso giorno, coloni israeliani hanno allestito due tende residenziali su un terreno privato palestinese a Khirbet, nell’area di Tawamini, a Massafer Yatta (Hebron). In un successivo scontro fisico tra proprietari terrieri palestinesi e coloni israeliani, un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito.

Il 2 luglio, coloni israeliani hanno bloccato una strada vicino al villaggio di Yasuf (Nablus) e hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi. Un minore palestinese è stato ferito con pietre e due veicoli hanno subito danni. Il 3 luglio, un palestinese è stato colpito e ferito da proiettili veri sparati da coloni israeliani, dopo che, durante la notte, coloni scortati dalle forze israeliane avevano attaccato il villaggio di Deir Dibwan (Ramallah). I palestinesi hanno lanciato pietre e i coloni israeliani hanno sparato proiettili veri, provocando il ferimento di un palestinese a una mano.

Secondo fonti delle Comunità, durante il periodo di riferimento, più di 260 alberi e alberelli sono stati vandalizzati su terra palestinese vicino agli insediamenti israeliani, in otto episodi segnalati vicino a Husan e Al Khadr (entrambi a Betlemme), Tarqumiya, Al Bowereh e At Tuwani (tutti a Hebron) , Umm Saffa e Dura al Qar’a (entrambe a Ramallah) e Kafr ad Dik (Salfit). Altre proprietà palestinesi sono state danneggiate e il bestiame è rimasto ferito in 14 casi verificatisi a Ramallah, Nablus, Salfit, Hebron, Gerusalemme e Qalqiliya o nelle vicinanze. Le proprietà danneggiate includevano strutture residenziali e agricole, trattori, colture e una rete idrica. Negli altri 11 casi segnalati in Cisgiordania, coloni israeliani hanno lanciato pietre, danneggiando 19 veicoli palestinesi.

12). Oltre ai quattro israeliani uccisi e ai nove feriti vicino al checkpoint di Eli, Barta’a (Jenin) e ‘Urif (Nablus) (vedi sopra), in Cisgiordania, altri due coloni sono rimasti feriti in episodi di lancio di pietre. In due casi, il 22 giugno e il 4 luglio, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerico e Gerusalemme, provocando il ferimento di due israeliani e danni a due veicoli. In altri quattro casi, secondo fonti israeliane, persone ritenute palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, vicino a Ramallah, Gerico e Betlemme, causando danni a due veicoli.

13). In Israele, dieci israeliani sono rimasti feriti in due attacchi palestinesi con accoltellamento e speronamento con auto e un aggressore palestinese è stato ucciso (seguono dettagli).

Il 3 luglio, un ragazzo palestinese di 14 anni di Jenin ha accoltellato e ferito un israeliano a Bnei Brak (Israele) prima di essere arrestato dalla polizia israeliana.

Il 4 luglio, un palestinese di Hebron ha speronato con il suo veicolo dei pedoni israeliani a Tel Aviv, prima di uscire dalla sua auto e accoltellare altri. Secondo fonti israeliane, almeno nove persone sono rimaste ferite, tra cui una donna incinta che ha perso il bambino. Secondo quanto riferito, l’autore è stato ucciso da un civile israeliano.

14). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, che sono quasi impossibili da ottenere, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 38 strutture comprese 14 abitazioni. Di conseguenza, 48 palestinesi, tra cui 22 minori, sono stati sfollati e i mezzi di sussistenza di oltre 8.000 altri ne sono stati colpiti. Sei delle strutture colpite erano state fornite da donatori in risposta a precedenti demolizioni nelle Comunità di Hammamat al Maleh e Ein al Hilwa – Um al Jmal (entrambe a Tubas). Più della metà delle strutture colpite (23) si trovavano in Area C. Le restanti 15 strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una struttura residenziale ad Ath Thuri, provocando lo sfollamento di due famiglie comprendenti 14 persone, tra cui sei minori. Undici (11) delle 15 strutture demolite a Gerusalemme Est sono state distrutte dai loro proprietari per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane.

15). Il 15 e 22 giugno, forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Nablus, nell’Area A della Cisgiordania, e hanno demolito con esplosivi due appartamenti in due distinti edifici a più piani, per motivi punitivi, sfollando due famiglie comprendenti undici persone, tra cui tre minori. Entrambe le case appartenevano alle famiglie di due uomini arrestati e accusati di aver ucciso un soldato israeliano nell’ottobre 2022. Il 14 giugno, durante una di queste demolizioni, un palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane, mentre, durante entrambe le demolizioni, altre 618 persone, compresi 38 minori, sono state ferite. Secondo quanto riferito, i palestinesi hanno lanciato pietre e oggetti esplosivi e le forze israeliane hanno usato munizioni vere, proiettili di metallo rivestiti di gomma e lacrimogeni. Dall’inizio del 2023, per motivi punitivi, sono state demolite 14 case e una struttura agricola, rispetto alle 14 strutture di tutto il 2022 e alle tre del 2021. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva e come tali sono illegali ai sensi del diritto internazionale.

16). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, presumibilmente per imporre restrizioni all’accesso, in almeno 21 casi, le forze israeliane hanno aperto il “fuoco di avvertimento”. In tali circostanze, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato gravemente limitato. In due casi, un pescatore è rimasto ferito e altri cinque sono stati arrestati. Inoltre, un peschereccio è stato sequestrato e un altro è stato danneggiato. In due occasioni, le forze israeliane hanno utilizzato bulldozer per spianare il terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, nell’Area centrale. In altre circostanze, tre uomini palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre cercavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

17). Il 3 e 4 luglio, a Gaza City, palestinesi si sono riuniti vicino alla recinzione perimetrale israeliana per protestare contro l’operazione delle forze israeliane a Jenin. Cinque palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un minore, mentre i manifestanti lanciavano pietre e le forze israeliane sparavano proiettili veri.

18). Inoltre, nella Striscia di Gaza, il 14 e il 26 giugno, tre minori palestinesi sono stati feriti dall’esplosione di residuati bellici che avevano trovato a Rafah e nella città di Gaza e che stavano manomettendo.

Ultimi sviluppi (dopo il periodo di riferimento)

Questa sezione si basa su informazioni iniziali provenienti da diverse fonti. Ulteriori dettagli confermati saranno forniti nel prossimo rapporto.

Il 6 luglio, nei pressi dell’insediamento israeliano di Kedumim e del villaggio palestinese di Jit (Qalqiliya), un palestinese ha sparato, uccidendo un soldato israeliano; l’uomo è stato successivamente ucciso dalle forze israeliane. Una guardia israeliana è rimasta ferita.

Il 7 luglio, durante una un’operazione che stavano conducendo a Nablus, in uno scontro a fuoco con palestinesi, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi.

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Note a piè di pagina

1 – Vengono conteggiati separatamente i palestinesi uccisi o feriti da persone che non fanno parte delle forze israeliane; ad esempio da civili israeliani o da razzi palestinesi malfunzionanti, così come quelli la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute.

2 – Le vittime israeliane in questi rapporti includono persone che sono state ferite mentre correvano ai rifugi durante gli attacchi missilistici palestinesi. I cittadini stranieri uccisi in attacchi palestinesi e le persone la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute, vengono conteggiate separatamente.

La protezione dei dati dei civili da parte di OCHA include episodi avvenuti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) solo se hanno coinvolto residenti dei Territori Palestinesi Occupati come vittime o responsabili.

Questo rapporto riflette le informazioni disponibili al momento della pubblicazione. I dati più aggiornati e ulteriori analisi sono disponibili su ochaopt.org/data.

Versione Originale

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it