La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come “colonie archeologiche” stanno distruggendo case palestinesi

Mersiha Gadzo

 8 luglio 2019 – Al Jazeera

Secondo una Ong, Israele sta creando una “realtà storica immaginaria” con scavi di tunnel nella Gerusalemme est occupata.

Fayyad Abu Rmeleh, 60 anni, teme che un giorno il pavimento e il cortile della sua casa crollino. Ogni giorno, dice, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la famiglia sente scavare e trivellare tunnel sotto l’edificio.

Gli scavi condotti dalle autorità israeliane sono iniziati per la prima volta nel 2000, ma è stato solo cinque anni fa che loro hanno iniziato a notare danni alla casa.

“Sta mettendo in pericolo le nostre vite,” dice Abu Rmeleh ad Al Jazeera. “Se ti guardi intorno trovi nuove crepe. Non sappiamo quanti tunnel ci siano sotto la nostra casa, ma crediamo che siano almeno tre.”

I cinquanta membri della famiglia Abu Rmeleh vivono nel quartiere Wadi Hilweh di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, pubblicizzato come l’attrazione turistica della “Città di Davide”, dove secondo alcuni israeliani il re Davide biblico costruì l’“originaria città di Gerusalemme”, circa 3000 anni fa.

Sotto la loro casa le autorità israeliane hanno scavato tunnel, cercando le tracce dell’epoca del Secondo Tempio.

Nella sua casa si sono formate lunghe crepe irregolari in ogni direzione – sulle scale, vicino alle finestre in bagno e in sala, mentre in certi punti si sono staccati dal muro dei calcinacci.

Fuori di casa una crepa lunga un metro e mezzo si snoda sul terreno.

Ma la casa di suo nipote, che si trova nello stesso edificio, è stata ancora più danneggiata. All’inizio del 2018 è stato obbligato ad andarsene con la moglie e i cinque figli, in quanto il terreno ha ceduto e può a malapena sostenere i muri.

“Ho sempre paura, sono sempre preoccupato. Chiedo ai bambini di non giocare molto nel cortile o di non correre troppo, in quanto il pavimento potrebbe crollare in qualunque momento,” dice Umm Jihad, la moglie di Abu Rmeleh.

Da anni gli abitanti palestinesi di Silwan sono allarmati dai danni che le loro case hanno subito a causa degli scavi nel sottosuolo.

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno inaugurato il tunnel scavato da poco, “il Cammino dei Pellegrini”, che si estende da Wadi Hilweh al Muro del Pianto, appena fuori dal complesso di Al Aqsa nella Città Vecchia della Gerusalemme est occupata.

Fonti ufficiali israeliane – compresi membri dell’organizzazione dei coloni “Elad”, che finanzia gli scavi e gestisce il sito – affermano che la strada era percorsa dai pellegrini ebrei verso il Secondo Tempio, che credono si trovasse dove ora c’è il complesso di Al Aqsa.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato la presenza di funzionari USA all’inaugurazione, definendo l’avvenimento come parte della “ebreizzazione” di Gerusalemme.

Il consigliere della Casa Bianca Jason Greenblatt ha risposto in un tweet che la protesta è “ridicola”, aggiungendo: “Non possiamo ‘ebreizzare’ quello che la storia/archeologia mostrano. Possiamo attestarlo e voi potete smettere di fare finta che non sia vero! La pace può essere costruita solo sulla verità.”

Cattiva archeologia”

Mentre Greenblatt e membri di “Elad” sono certi che il nuovo tunnel servisse come cammino dei pellegrini verso il Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono, come ha notato in un articolo Yonathan Mizrachi, che vive a Gerusalemme.

Mizrachi, direttore dell’Ong israeliana “Emek Shaveh”, dice ad Al Jazeera che i tunnel che Israele ha scavato dentro e attorno alla Città Vecchia e a Silwan sono “problematici”.

Finora non è stato pubblicato nessun articolo accademico o scientifico sui tunnel, né è stato pubblicato alcun dato su quello che è stato scoperto. Secondo “Emek Shaveh”, riguardo al “Cammino dei Pellegrini” non ci sono certezze relative alla datazione del canale di drenaggio.

Oltretutto i tunnel sono stati scavati orizzontalmente, rompendo in pratica con il metodo di scavo verticale dalla superficie in giù accettato da un secolo, secondo Mizrachi il metodo utilizzato dagli archeologi in tutto il mondo. Le informazioni ottenute da scavi orizzontali sono quasi senza alcun valore.

“Quando scavi orizzontalmente, non puoi capire esattamente come i vari periodi si sono sviluppati nel sottosuolo, non capisci correttamente quello che trovi perché lo vedi da una sezione laterale, non dall’alto,” dice Mizrachi.

“Non è il modo di fare archeologia. Quando scavi orizzontalmente commetti fin dall’inizio un errore.” In precedenza due importanti funzionari dell’Autorità Israeliana delle Antichità, Jon Seligman e Gideon Avni, avevano criticato l’escavazione dei tunnel, affermando che, contrariamente alla prassi accettata, è “cattiva archeologia” e “le autorità non dovrebbero essere orgogliose di questi scavi.”

Realtà storica immaginaria”

L’ultima inaugurazione è emblematica del più complessivo problema: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nella Gerusalemme est occupata viene detto che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia di Gerusalemme, come i periodi bizantino e omayyade.

“La gente della fondazione “Elad” ha creato una realtà storica immaginaria fondata sulle sue convinzioni religiose e sui suoi obiettivi nazionalisti piuttosto che su ritrovamenti archeologici e altre prove storiche,” ha osservato Emek Shaveh in un suo rapporto del 2017.

Per esempio, secondo Emek Shaveh presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio.

In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV° e XV° secolo, nota Mizrachi.

Eppure quello che viene raccontato ai visitatori si concentra quasi esclusivamente sulla storia del Secondo Tempio. Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, nel XIV° secolo.

Eppure è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, ha scritto Emek Shaveh.

Non ci sono indicazioni per fare in modo che il visitatore sappia che si tratta di una struttura mamelucca o che è stata costruita dal governatore di Damasco, Sayf al-Din Tankaz, responsabile di alcuni degli edifici più considerevoli del tempo, ha scritto Mizrachi in un articolo.

Allo stesso modo nel 2012 il governo israeliano ha deciso di progettare un Centro Biblico all’ingresso di Silwan, che avrebbe presentato storie bibliche e la loro importanza per gli israeliani.

Eppure, secondo Emek Shaveh, nessun resto significativo di periodi biblici è stato scoperto in quel luogo.

A Silwan continuano gli scavi sotto le case palestinesi per trovare prove storiche di re Davide per pubblicizzarla come la “Città di Davide”, nonostante il fatto che gli archeologi mettano in discussione le testimonianze di un regno nel X° secolo a.C.

“C’è un dibattito molto acceso tra gli archeologi su quanto avvenne a Gerusalemme nel X° secolo a.C., il periodo che intendo come l’epoca di Davide e del regno di Salomone,” dice Mizrachi.

“Le testimonianze archeologiche sono molto poche e non ci forniscono il quadro di una vera e propria città, né assolutamente di una città vasta, grande, importante.

“Ci sono stati 150 anni di scavi (alla ricerca della città di Davide), ci sono certamente ancora molte testimonianze mancanti riguardo al tempo di Davide e Salomone. Questo è sicuramente un problema.”

Colonia archeologica”

Mizrachi afferma che gli scavi del tunnel fanno “tutti parte di un progetto politico”.

“Sfortunatamente Israele sta utilizzando questi tunnel mascherati da scavi archeologici, ma in realtà ciò fa parte dell’obiettivo politico di impedire che Gerusalemme rientri in qualunque soluzione politica,” afferma Mizrachi. “Pensiamo che sia un’altra forma di colonizzazione. È una colonia senza persone, ma si tratta di una colonia archeologica. Non è meno problematica, ma persino di più, rispetto ad altre colonie.”

Riguardo alla famiglia Abu Rmeleh, pensa che la sua vita sia in pericolo ma non sa a chi rivolgersi per essere aiutata.

Oltre alle crepe che il loro edificio ha subito, nella casa del nipote hanno anche trovato un buco che porta ai tunnel.

“Lo abbiamo coperto con questo pezzo di legno e qualche pietra perché temiamo quello che potrebbe uscire da quel buco,” dice Abu Rmeleh.

In marzo l’agenzia di notizie Ma’an ha informato che a Silwan un campo giochi è crollato in seguito a 12 anni di scavi sotterranei.

“La cosa più importante nella vita di una persona è vivere in sicurezza e con stabilità. Una casa dovrebbe essere il luogo in cui ci possiamo sentire (sicuri), ma non è il nostro caso,” afferma Abu Rmeleh, aggiungendo che continueranno a vivere nell’edificio nonostante la sua fragilità.

“Questa casa vuol dire tutto per un anziano come me…Il legame tra me e la casa è come quello tra padre e figlio,” dice Abu Rmeleh.

Sull’autrice

Mersiha Gadzo è una giornalista e produttrice in rete di Al Jazeera in inglese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’uso dell’archeologia al servizio del nazionalismo

Di Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi

|5 luglio, 2019 – +972 Magazine

L’inaugurazione di una presunta antica ‘Via del pellegrinaggio’ ebraica da parte dell’ambasciatore (americano) David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come alcuni vorrebbero credere.

Si tende a pensare all’archeologia come ad una disciplina neutrale. Gli archeologi dissotterrano i manufatti, li datano e cercano di stabilire una cronologia per comprendere meglio la storia di un particolare luogo o popolo.

L’inaugurazione, la settimana scorsa, della “Via del Pellegrinaggio” a Gerusalemme da parte dell’ambasciatore USA in Israele David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca in Medio Oriente Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come a qualcuno piacerebbe credere. Secondo alcuni archeologi quella via era percorsa dai pellegrini ebrei quando salivano al Secondo Tempio circa 2000 anni orsono.

Per i palestinesi il tunnel si trova proprio sotto il quartiere di Silwan, a lungo agognato dai coloni israeliani che operano attivamente per giudaizzare l’area.

Quando si tratta dell’archeologia di Gerusalemme sembra che tutti preferiscano non vedere l’elefante nella stanza: come può qualunque sito archeologico, soprattutto se con una storia molto stratificata, essere presentato come prova delle esclusive pretese di un solo gruppo etnico-nazionale?

Doron Spielman, vice presidente dell’organizzazione di coloni Elad, che ha finanziato gli scavi e gestirà il relativo sito archeologico, ha detto al Jerusalem Post che “questo luogo è il cuore del popolo ebraico ed è come il sangue che scorre nelle vene.” Commentando l’importanza della scoperta, Greenblatt ha sottolineato che “l’archeologia non modella il paesaggio storico”, ma piuttosto si concentra sugli “scavi e l’analisi di manufatti e resti materiali.”

La posizione di Greenblatt trascende le differenze politiche tra sinistra e destra. Dopotutto l’archeologia è stata a lungo usata da molte società per consolidare la propria ideologia in quanto parte inseparabile del paesaggio. Questo ovviamente non significa che l’archeologia non possa essere usata per distinguere tra differenti culture. Però, nella maggior parte dei luoghi che sono stati abitati da innumerevoli culture nel corso dei secoli – e soprattutto in luoghi molto stratificati come Gerusalemme – le scoperte archeologiche usualmente rivelano la storia di relazioni complesse tra le varie culture stanziate in ogni specifica area.

Mentre non vi è dubbio che gli ebrei siano vissuti nella zona circostante la Via del Pellegrinaggio in diversi periodi, gli scavi hanno rivelato che l’area è stata costantemente abitata per migliaia di anni prima e dopo il periodo romano (a cui in Israele ci si riferisce come ‘periodo del Secondo Tempio’), durante il quale la via fu costruita per la prima volta.

Inoltre, mentre i rappresentanti di Elad sono convinti che questa via venisse percorsa dai pellegrini per recarsi al Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono. Le prove disponibili chiamano in causa l’esclusività ebraica sul sito. Però finora non è stato pubblicato alcun rapporto sui dati reperiti dagli scavi. In assenza di essi, ogni interpretazione della storia del sito deve essere considerata una congettura piuttosto che un fatto.

Ovviamente la parte non ebraica della storia deve ancora essere narrata. Quando si cammina nel sito archeologico della città di Davide, si apprende molto sull’eredità ebraica. Ci si dovrebbe interrogare sul fatto che la Via del Pellegrinaggio sia stata scavata come tunnel orizzontale, un metodo di scavo archeologico molto contestato, che impedisce la possibilità di distinguere tra gli strati del sito.

Inoltre il tunnel consente ai visitatori di attraversare il villaggio di Silwan senza vedere neanche una volta un palestinese o affrontare le implicazioni politiche dell’impresa archeologica di Elad a Gerusalemme. Così, gli scavi nel tunnel possono essere visti come un ulteriore passo nell’appropriazione di ciò che Friedman e Greenblatt definiscono la “verità” della storia di Silwan, dato che gli scavi stessi – e non soltanto l’interpretazione di essi – ignorano e distruggono gli strati al di sotto e al di sopra di questa via.

Alla domanda sull’importanza della Via del Pellegrinaggio, Friedman ha affermato che “espone la verità e la scienza ad una discussione che per troppo tempo è stata deformata dai miti e dalle mistificazioni”, spiegando che i ritrovamenti “mettono fine agli infondati sforzi di negare il fatto storico dell’antico legame di Gerusalemme con il popolo ebraico.” Friedman e Greenblatt hanno aggiunto che qualunque soluzione per una pace sostenibile con i palestinesi deve basarsi sulla “verità”.

Tuttavia, come per tanti casi precedenti, sembra che la ricerca della verità attraverso l’archeologia si riveli una giustificazione di programmi nazionalisti piuttosto che un tentativo di costruire ponti tra popoli.

Nella loro ricerca di una verità di convenienza, per Friedman e Greenblatt niente è più facile che rimuovere la complessa vicenda storica di Silwan, della Via del Pellegrinaggio e della violenza che questa zona ha subito a causa dell’uso dell’archeologia da parte sia di israeliani che di palestinesi come partita a somma zero. Invece di monopolizzare una narrazione nazionalista esclusiva, sarebbe forse meglio che i leader di tutte le parti creassero un contesto capace di includere le tante narrazioni che il paesaggio contiene.

Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi sono membri di Emek Shaveh, una Ong israeliana che si occupa della protezione dei siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Partito israeliano a favore dell’espulsione ha inaugurato la sua campagna elettorale

5 luglio 2019 Palestine Chronicle

Il partito israeliano di estrema destra “Otzma Yehudit” (Potere ebraico) ha inaugurato la sua campagna elettorale chiedendo l’espulsione dei palestinesi verso i loro “Paesi d’origine”.

Otzma Yehudit” ha iniziato ieri la sua campagna a Gerusalemme in vista delle elezioni politiche israeliane, che si terranno il 15 settembre, dopo che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare una coalizione di governo in seguito alla sua rielezione il 9 aprile.

Il capo del partito Michael Ben Ari ha detto ai presenti: “Vogliamo riportare i nostri nemici nei loro Paesi (…) daremo loro una bottiglia di acqua minerale e persino un panino. Troveremo loro i Paesi d’origine in cui possano andare.”

Otzma Yehudit” ha una storia di incitamento contro i palestinesi, avendo in precedenza chiesto l’espulsione dei palestinesi sia da Israele che dai territori occupati (TPO). I suoi membri sono seguaci dichiarati del rabbino estremista Meir Kahane, il cui partito Kach venne messo fuorilegge dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] negli anni ’80.

L’ideologia di Kahane ispirò anche il massacro compiuto da Baruch Goldstein nel 1994 alla moschea di Ibrahim a Hebron, che lasciò un bilancio di 29 fedeli musulmani morti e molti altri feriti.

A marzo la Commissione Elettorale Centrale israeliana ha pensato di escludere “Otzma Yehudit” dalla partecipazione alle elezioni di aprile a causa del suo discorso antipalestinese, mentre la Corte Suprema alla fine ha deciso di escludere solo Ben Ari dalla competizione [per la carica di primo ministro, ndtr.].

Durante il lancio della campagna di ieri il capo del partito ha attaccato questa decisione affermando che “ci hanno detto che questo (discorso) è razzista (…) hanno detto che mi hanno escluso per questo.”

Il partito ha anche annunciato che parteciperà da solo alle elezioni di settembre, confermando una separazione dall’Unione dei Partiti di Destra (URWP) – un’alleanza di destra tra Casa Ebraica [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] e i partiti dell’Unità Nazionale – con cui ha fatto un accordo di collaborazione prima delle elezioni di aprile.

Questo compromesso è fallito dopo che il leader dell’URWP Rafi Peretz e il numero due del partito Bezalel Smotrich hanno rifiutato di lasciare i propri seggi alla Knesset per consentire al candidato successivo, Itamar Ben Gvir di “Otzma”, di sedere in parlamento come avevano promesso in precedenza.

La legge israeliana consente a ogni parlamentare della Knesset (MK) che abbia un incarico ministeriale di abbandonare il proprio seggio alla Knesset, facendo così posto al primo candidato non eletto del proprio partito. Benché Peretz e Smotrich siano stati nominati ministri rispettivamente dell’Educazione e dei Trasporti, non hanno lasciato libero il proprio seggio per Ben Gvir.

(traduzione di Amedeo Rossi)




rapporto OCHA del periodo 18 giugno-1 luglio (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 494 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane nel corso delle manifestazioni tenute nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno” che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale con Israele.

Oltre il 45% dei feriti è stato ricoverato in ospedale.

Sempre nella Striscia di Gaza, in almeno 12 occasioni non riconducibili alle manifestazioni della”Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi per far loro rispettare le restrizioni di accesso alle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa; agricoltori e pescatori sono stati costretti a lasciare tali aree. Tre pescatori sono stati arrestati e un altro è rimasto ferito, oltre a danni causati a tre barche da pesca e alla confisca di reti da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (ad est di Beit Hanoun e di Khan Yunis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 giugno, Israele, in risposta al lancio di palloncini incendiari da Gaza verso i propri territori, ha sospeso le consegne di carburante, costringendo la Centrale Elettrica di Gaza ad operare a potenza circa dimezzata, riducendo di conseguenza l’erogazione di energia elettrica nei giorni dal 25 al 28 giugno.

In Cisgiordania, il 27 giugno, durante scontri nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, un 21enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco, da un poliziotto israeliano. Secondo fonti della Comunità locale, l’uomo è stato colpito al petto da distanza ravvicinata ed è deceduto poco dopo il ricovero presso un ospedale israeliano. Il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane fino al 1 luglio. Secondo fonti israeliane, quando gli hanno sparato, l’uomo era rivolto nella direzione di poliziotti israeliani e stava accendendo un petardo. Fonti palestinesi affermano che si trattava di un astante non coinvolto negli scontri. Dopo l’omicidio, nella zona di Al Isawiya, gli scontri tra palestinesi e forze israeliane sono proseguiti per diversi giorni, provocando decine di feriti palestinesi (vedi sotto).

Ancora in Cisgiordania, durante proteste e diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito 168 palestinesi, tra cui almeno sei minori [di seguito il dettaglio]. 134 di questi 168, (tra cui almeno tre minori) sono stati feriti durante scontri con forze israeliane avvenuti a seguito dell’uccisione del 21enne palestinese il 27 giugno (vedi sopra): 124 [dei 134] in quattro diverse occasioni verificatesi ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e altri 10 [dei 134] vicino a Bab Az Zawiya (Hebron). Altri 22 feriti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto nel villaggio di Kobar e nel Campo profughi di Al Am’ari (entrambi a Ramallah). I venerdì successivi (21 e 28 giugno) un totale di dodici persone, tra cui tre minori, sono stati feriti durante le manifestazioni settimanali, tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni. Altre tre persone [non conteggiate nel totale], tra cui una donna, sono state ferite il 19 giugno, in una manifestazione svoltasi nella città di Al Isawiya a Gerusalemme Est, per protestare contro le ricorrenti operazioni di ricerca condotte [dalle forze israeliane] nella città. Nell’Area H2 della città di Hebron, due palestinesi, un uomo di 53 anni ed il figlio 14enne, mentre tentavano di accedere, tramite il checkpoint 56, alla loro casa nella via Ash Shuhada, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani [non conteggiati nel totale].

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 155 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato almeno 168 palestinesi, tra cui 13 minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato la più alta quota di operazioni (41) e di arresti (56).

Il 29 giugno, poliziotti israeliani di confine hanno fatto irruzione nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est, interrompendo le prestazioni mediche di emergenza e arrestando due palestinesi. Secondo quanto riferito, stavano ricercando manifestanti feriti negli scontri avvenuti nelle aree di Al Isawiya e At Tur di Gerusalemme Est.

Nella zona C e a Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 27 strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 52 persone, tra cui 35 minori, sono state sfollate e altre 5.074 hanno subìto ripercussioni di entità diverse [di seguito il dettaglio]. Tre delle strutture demolite o sequestrate erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni nei villaggi di Qusra e Majdal Bani Fadil (entrambi a Nablus). Tra le strutture colpite, 24 si trovavano in nove Comunità dislocate in Area C. Tra queste, la Comunità di pastori di Zatara al Kurshan (Betlemme), dove, il 27 giugno, sei strutture sono state demolite, provocando lo sfollamento di 46 persone, tra cui 32 minori. Tale Comunità si trova all’interno di una zona designata da Israele come “area militare chiusa”. In un’altra “area militare chiusa”, nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito un’abitazione presso la Comunità di pastori di Umm Fagarah, sfollando cinque persone, tra cui tre minori. A Barta’a ash Sharqiya (Jenin), in Area C, per mancanza di un permesso di costruzione, è stata sequestrata una roulotte, parte di un progetto per la gestione dei rifiuti. Il provvedimento ha colpito l’attuazione del progetto pensato per servire l’intero villaggio dove vivono circa 4.950 persone. Le restanti 13 strutture dislocate in Area C comprendevano due strutture abitative, cinque di sostentamento e quattro strutture agricole, oltre a due serbatoi d’acqua. Inoltre, tre strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una nell’area di Ras al ‘Amud, dove una famiglia palestinese di sei persone, tra cui quattro minori, è stata costretta ad auto-demolire un ampliamento della propria casa.

Diciotto episodi aggressivi, perpetrati da coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella zona H2 della città di Hebron, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. In altri tre episodi distinti, in base a riprese video realizzate da una Organizzazione per i Diritti Umani e secondo testimoni oculari, coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti di Homesh, Yitzhar e Beitar Illit, hanno incendiato decine di ettari di terreni appartenenti a contadini di Madama e Burin (entrambi a Nablus) e Wadi Fuqin (Betlemme), danneggiando almeno 287 ulivi. In un ulteriore episodio, riferito da fonti della Comunità locale palestinese, coloni hanno vandalizzato altri 37 ulivi e alberelli appartenenti al villaggio di Surif (Hebron). A Yasuf (Salfit), in un’area il cui accesso richiede un preliminare coordinamento con le autorità israeliane, risulta che coloni abbiano dato fuoco a circa 0,5 ettari di terra coltivata a grano e orzo. In due distinti casi, coloni hanno anche spianato circa 1,5 ettari di terra a Wadi Fukin (Betlemme) e Khirbet Samra (Tubas), danneggiando le colture. Dall’inizio del 2019, OCHA ha registrato le segnalazioni di azioni di sradicamento, di incendio o di vandalizzazione di oltre 4.100 alberi perpetrate da coloni israeliani. Sulla media mensile, ciò rappresenta un aumento del 126% rispetto al 2018 e del 37% rispetto al 2017. Gli episodi rimanenti includono la vandalizzazione di 35 veicoli e le scritte offensive spruzzate su muri di case di Deir Istiya (Salfit), Beitin e Sinjil (entrambi a Ramallah).

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in tre occasioni: vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah. Risultano danneggiati almeno tre veicoli.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Sparare ai manifestanti mentre si riposano: le nuove regole d’ingaggio di Israele

Maureen Clare Murphy

28 giugno 2019 – Electronic Intifada

Sparare ai “principali istigatori” durante le proteste disarmate a Gaza quando si stanno riposando. Aprire il fuoco contro adolescenti che cercano di andare a pregare a Gerusalemme benché non rappresentino un pericolo.

Questo è il normale, ingiustificato e criminale uso letale di armi da fuoco contro palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane.

Un documento dell’esercito israeliano afferma che i cecchini hanno il permesso di sparare a palestinesi che essi ritengano essere “i principali istigatori” o “principali facinorosi” durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

L’esercito definisce “principali istigatori” le persone che “dirigono o guidano attività” durante le proteste, come “posizionamento tattico” e bruciare copertoni.

Principali facinorosi” sono definiti quelli il cui comportamento “determina le condizioni grazie alle quali irruzioni di massa o infiltrazioni” in Israele da Gaza possono avvenire.

Il documento dell’esercito israeliano afferma che ai cecchini è consentito “sparare a un istigatore importante” mentre “si allontana temporaneamente dalla folla e si riposa prima di continuare la sua attività.” Il documento presenta simili azioni come un esempio di “moderazione” e suggerisce che tali precauzioni riducono il rischio di “colpire qualcun altro”.

Israele giustifica l’uso di forza letale contro manifestanti definendo le mobilitazioni della “Grande Marcia del Ritorno” – manifestazioni nelle zone orientale e settentrionale di Gaza tenute periodicamente dall’inizio dello scorso anno – una “sommossa” o “violenti disordini” che pongono una minaccia all’esercito e alle sue infrastrutture o in qualche caso a quelle civili.

Afferma anche che il confine di Gaza “separa due parti di un conflitto armato”, una tesi rifiutata da una commissione d’inchiesta ONU che ha stabilito che le manifestazioni sono di carattere civile. Associazioni per i diritti umani affermano che le proteste di massa lungo i confini sono una questione civile di applicazione della legge regolata dal quadro delle leggi internazionali sui diritti umani.

Una di queste organizzazioni, “Adalah”, chiede che Israele proibisca l’uso di proiettili veri contro i manifestanti.

Secondo Adalah il concetto di “principali istigatori non è né fissato dalle leggi internazionali,” né è stato definito dalle autorità durante audizioni dello scorso anno presso l’alta corte israeliana in seguito alle richieste di gruppi per i diritti che contestavano gli ordini dell’esercito di aprire il fuoco.

Secondo Adalah allora la corte “ha accolto in toto la posizione dell’esercito israeliano”, sentenziando che l’uso di proiettili veri potrebbe essere consentito solo quando ci sia “un immediato e imminente pericolo per le forze o per i civili israeliani.”

Più di 200 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati uccisi e circa 8.500 feriti da proiettili veri durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Gli esperti indipendenti sui diritti umani nominati dall’ONU per indagare sull’uso della forza da parte di Israele contro la Grande Marcia del Ritorno hanno preso in considerazione tutte le vittime delle proteste avvenute dall’inizio delle manifestazioni, il 30 marzo 2018, fino alla fine di quell’anno.

La commissione di inchiesta ha notato solo un incidente, il 14 maggio 2018, “che può aver rappresentato una ‘partecipazione diretta alle ostilità’” e un altro il 12 ottobre di quell’anno “che potrebbe aver costituito una ‘imminente minaccia di vita o di gravi conseguenze’ per le forze di sicurezza israeliane.”

In tutti gli altri casi la commissione ha scoperto che “l’uso di proiettili letali da parte delle forze di sicurezza israeliane contro manifestanti è stato illegale.”

Giustificazione retroattiva

Suhad Bishara, avvocatessa di Adalah, ha affermato che l’idea di “principale istigatore” è stata “creata retroattivamente per giustificare il fatto di aver sparato contro persone che non rappresentavano un pericolo reale e immediato per soldati o civili israeliani.”

Ha aggiunto che il tentativo dell’esercito di giustificare l’uso di proiettili veri contro dimostranti disarmati “deriva da un totale disprezzo per la vita umana.”

Il disprezzo israeliano riguardo alla vita dei palestinesi non si limita a Gaza ed è stato esemplificato dalla recente uccisione di un adolescente mentre l’ultimo venerdì di Ramadan tentava di raggiungere Gerusalemme per pregare nella moschea di al-Aqsa con la sua famiglia.

Durante il Ramadan Israele riduce le restrizioni che impediscono ai palestinesi della Cisgiordania il libero accesso ai luoghi sacri a Gerusalemme. Anche con le limitazioni parzialmente revocate, i palestinesi devono attraversare posti di controllo militari e quest’anno ai maschi tra i 16 e i 30 anni è stato vietato di entrare a Gerusalemme durante il Ramadan.

Il 31 maggio questo divieto ha portato Luai Ghaith a accompagnare suo nipote e suo figlio di 15 anni Abdallah nei pressi del muro di Israele in modo che potessero arrampicarvisi e incontrarsi dall’altra parte con i membri della loro famiglia che avevano il permesso di attraversare il posto di controllo.

Dopo che Abdallah e suo cugino si sono arrampicati sul filo spinato e hanno raggiunto un percorso tra il filo spinato e il muro, il cugino ha visto un ufficiale della polizia di frontiera.

Secondo B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani,“è tornato indietro sul filo spinato e ha gridato ad Abdallah di scappare. A quel punto poliziotti di frontiera hanno sparato due pallottole calibro 0,22 contro Abdallah, una delle quali lo ha colpito al petto.”

Abdallah è riuscito a saltare indietro sul filo spinato e correre via per alcuni metri prima di crollare al suolo.”

Luai Ghaith ha detto a B’Tselem che suo figlio “era così eccitato all’idea di andare a pregare ad al-Aqsa l’ultimo venerdì di Ramadan. L’ufficiale della polizia israeliana che gli ha sparato non ne sapeva niente di tutto ciò.”

Nessuna giustificazione”

Circa un’ora prima che Abdallah venisse ferito a morte, nello stesso luogo poliziotti di frontiera hanno sparato e ferito un ventenne palestinese che cercava di raggiungere Gerusalemme per pregare.

Non ci possono essere scusanti per questo uso delle armi da fuoco, con queste conseguenze prevedibilmente letali,” ha affermato B’Tselem. “Ciò dimostra quanto poco contino le vite dei palestinesi agli occhi sia dei poliziotti sul campo che di tutta la catena di comando che consente che tali azioni avvengano.”

Secondo B’Tselem né Abdallah né l’uomo colpito poco prima rappresentavano alcun pericolo per i poliziotti di frontiera che hanno sparato contro di loro: “Non si tratta di un caso di pericolo mortale, o di un qualunque pericolo in assoluto.”

Nessuno sarà chiamato a rendere conto della morte di Abdallah, né la famiglia riceverà un risarcimento in quanto Israele ha “approvato una legge che ha strategicamente escluso per i palestinesi ogni opzione praticabile per denunciare lo Stato per danni.”

Finora quest’anno più di 70 palestinesi sono morti a causa del fuoco israeliano.

Secondo B’Tselem, “il fatto che il prevedibile e mortale risultato di questa vergognosa condotta sia accolto dall’indifferenza dell’opinione pubblica e che questo comportamento riceva il totale sostegno di tutte le istituzioni ufficiali dimostra solo quanto poco valore sia attribuito alle vite dei palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il giorno dopo: che succede se Israele annette la Cisgiordania?

Ramzy Baroud

24 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Gli inviti all’annessione della Cisgiordania occupata sono all’ordine del giorno sia a Tel Aviv che a Washington. Ma Israele e i suoi alleati americani dovrebbero stare attenti riguardo a ciò che auspicano. Annettere i Territori Palestinesi Occupati non farà che rafforzare l’attuale ripensamento della strategia palestinese, invece di risolvere i problemi che Israele stesso si provoca.

Incoraggiati dalla decisione dell’amministrazione di Donald Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, i dirigenti del governo israeliano ritengono che questo sia il momento giusto per annettere l’intera Cisgiordania.

Infatti, “non vi è momento migliore di questo” è stata la frase esatta usata dall’ex Ministra della Giustizia israeliana Ayelet Shaked, quando ha sostenuto l’annessione in una recente conferenza a New York.

Certo, in Israele è nuovamente una stagione elettorale, poiché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo dopo le ultime elezioni di aprile. Durante queste campagne politiche si assiste a molte dimostrazioni di forza, dato che i candidati fanno la voce grossa in nome della ‘sicurezza’, della lotta al terrorismo, eccetera.

Ma i commenti di Shaked non possono essere liquidati come effimere scaramucce elettorali. Rappresentano molto di più, se considerati all’interno di un più ampio contesto politico.

Sicuramente, da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca, per Israele le cose non sono mai – e ripeto, mai – andate così bene. È come se il programma più radicale del governo di destra fosse diventato una lista dei desideri per gli alleati di Israele a Washington. Questa lista include il riconoscimento USA dell’annessione illegale da parte di Israele della Gerusalemme est palestinese occupata, delle Alture del Golan siriane occupate e l’abbandono totale del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Ma non è tutto. Affermazioni fatte da influenti dirigenti USA indicano un iniziale interesse per la completa annessione della Cisgiordania occupata o almeno di larga parte di essa. L’ultimo di questi auspici è stato fatto dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Israele ha il diritto di annettere parte…della Cisgiordania”, ha detto Friedman in un’intervista, citata dal New York Times l’8 giugno.

Friedman è molto coinvolto nel cosiddetto accordo del secolo, uno stratagemma politico sostenuto soprattutto dal primo consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. La palese idea che sorregge questo ‘accordo’ è cancellare le fondamentali richieste dei palestinesi, rassicurando al contempo Israele sulla sua ricerca di maggioranza demografica e sulle preoccupazioni riguardo alla ‘sicurezza’.

Altri dirigenti USA che spalleggiano gli sforzi di Washington a favore di Israele sono l’inviato speciale USA in Medio Oriente, Jason Greenblatt, e l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nicki Haley. In una recente intervista al giornale di destra israeliano ‘Israel Hayom’ Haley ha detto che il governo israeliano “non dovrebbe preoccuparsi” riguardo ai dettagli dell’accordo del secolo, che devono essere ancora del tutto svelati.

Conoscendo l’amore di Haley – e la sua sfrontata difesa – per Israele presso le Nazioni Unite, non dovrebbe essere troppo difficile capire il sottile ed ovvio significato delle sue parole.

Ecco perché il richiamo di Shaked all’annessione della Cisgiordania non può essere liquidato come un banale discorso da periodo elettorale.

Ma Israele può annettere la Cisgiordania?

In pratica sì, lo può fare. È vero che sarebbe una flagrante violazione del diritto internazionale, ma questo concetto non ha mai disturbato Israele, né gli ha impedito di annettere territori arabi o palestinesi. Per esempio, ha occupato Gerusalemme est e le Alture del Golan rispettivamente nel 1980 e 1981.

Inoltre in Israele il clima politico è sempre più disponibile a compiere un simile passo. Un sondaggio condotto dal quotidiano israeliano Haaretz lo scorso marzo ha rivelato che il 42% degli israeliani è favorevole all’annessione della Cisgiordania. Questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi mesi, dato che Israele continua a spostarsi a destra.

È anche importante notare che diversi passi sono già stati compiuti in questa direzione, compresa la decisione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] di applicare ai coloni ebrei illegali in Cisgiordania le stesse leggi civili applicate a chi vive in Israele.

Ma è qui che Israele si trova di fronte al suo più grande dilemma.

Secondo un sondaggio condotto congiuntamente dall’università di Tel Aviv e dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca nell’agosto 2018, più del 50% dei palestinesi si rende conto che la cosiddetta soluzione dei due Stati non può più reggere.

Inoltre un crescente numero di palestinesi ritiene anche che la coesistenza in un unico Stato, in cui ebrei israeliani e arabi palestinesi (sia musulmani che cristiani) vivano fianco a fianco, sia la sola formula possibile per un futuro migliore.

La dicotomia per i dirigenti israeliani che cercano di mantenere una maggioranza demografica ebraica e la marginalizzazione dei diritti dei palestinesi, è che non hanno più alternative valide.

Anzitutto comprendono che l’occupazione senza fine dei territori palestinesi non può essere sostenibile. La perdurante resistenza palestinese all’interno e la nascita del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) all’estero stanno minacciando la stessa legittimità politica di Israele in tutto il mondo.

In secondo luogo, devono anche tenere conto del fatto che, dal punto di vista dei dirigenti ebrei israeliani, l’annessione della Cisgiordania con milioni di palestinesi moltiplicherà proprio la “minaccia demografica” che hanno temuto per molti anni.

Terzo, la pulizia etnica di intere comunità palestinesi – la cosiddetta opzione “trasferimento” – come quella che fece Israele alla sua fondazione nel 1948, e nuovamente nel 1967, non è più possibile. Né i Paesi arabi apriranno le loro frontiere per i genocidi utili a Israele, né i palestinesi se ne andranno, per quanto il prezzo sia alto. Il fatto che gli abitanti di Gaza siano rimasti là, nonostante anni di assedio e di feroci guerre, ne è un esempio.

Al di là delle messinscene politiche, i dirigenti israeliani capiscono che non sono più al posto di comando e, nonostante la loro superiorità militare e politica rispetto ai palestinesi, sta diventando evidente che la potenza di fuoco ed il cieco sostegno di Washington non sono più sufficienti a determinare il futuro del popolo palestinese.

È altresì chiaro che il popolo palestinese non è, e non è mai stato, un soggetto passivo del proprio destino. Se Israele mantiene la sua occupazione da 52 anni, i palestinesi continueranno a resistere. Quella resistenza non verrà indebolita o domata da alcuna decisione di annettere la Cisgiordania, in parte o del tutto, esattamente come la resistenza palestinese a Gerusalemme non è cessata dopo la sua illegale annessione da parte di Tel Aviv quarant’anni fa.

Infine, l’annessione illegale della Cisgiordania può solo contribuire alla irreversibile consapevolezza tra i palestinesi che la loro lotta per la libertà, i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza può essere meglio sostenuta attraverso una battaglia per i diritti civili all’interno dei confini di un unico Stato democratico.

Nella sua cieca arroganza, Shaked e la sua genia di destra non fanno che accelerare la scomparsa di Israele come Stato etnico e razzista, mentre avviano una fase di possibilità migliori della continua violenza e apartheid.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Un ospedale di Gerusalemme in cui i bambini palestinesi muoiono da soli

Oliver Holmes a Gerusalemme e Hazem Balousha a Gaza

Giovedì 20 giugno 2019 – The Guardian

Il blocco israeliano di Gaza implica che i genitori siano separati dai figli con gravi malattie

A prima vista niente sembra fuori posto nell’unità pediatrica di terapia intensiva. Nove letti ospitano nove piccoli bambini appena nati, tutti con tubi collegati ai corpicini. Monitor emettono suoni di continui segnali elettronici. Infermieri passano da un letto all’altro. Un pediatra dall’aspetto stanco compila scartoffie.

Eppure manca qualcosa: non ci sono genitori.

Alcuni sono stati mandati a casa a riposare, o potrebbero stare a bere ansiosamente caffè nel bar al piano inferiore. Ma in questo ospedale palestinese di Gerusalemme le madri di due bambini sono rimaste intrappolate a un’ora e mezza di distanza al di là del blocco imposto da Israele contro Gaza. Entrambi i bambini sono in seguito morti senza aver rivisto la propria madre.

Bambini palestinesi gravemente malati portati da Gaza, impoverita e sconvolta dalla guerra, all’ospedale Makassed, meglio equipaggiato, soffrono e muoiono da soli.

In qualche caso Israele consente l’uscita temporanea da Gaza per ragioni di salute, ma non a tutti. Al contempo impedisce o ritarda in modo grave l’uscita di molti genitori, e altri non fanno neppure richiesta, temendo che gli approfonditi controlli di sicurezza per gli adulti blocchino l’uscita dei loro figli e facciano perdere tempo prezioso.

Secondo l’ospedale, dall’inizio dello scorso anno 56 bambini di Gaza, sei dei quali sono morti in loro assenza, sono stati separati dai loro padri e madri. In un caso a una madre di 24 anni di Gaza è stato permesso di viaggiare due mesi prima fino a Gerusalemme per dare alla luce tre gemelli gravemente malati. Due pesavano meno di un sacchetto di zucchero.

Ma il permesso di Hiba Swailam è scaduto e lei ha dovuto tornare a Gaza. Non era lì quando il suo primo figlio è morto, a nove giorni [dalla nascita], o due settimane dopo, quando è deceduto anche il suo secondo bambino. È stata informata per telefono. La figlia sopravvissuta, Shahad, ha passato i primi mesi della sua vita accudita da infermieri, e Hiba ha potuto vederla solo con videochiamate. Benché la bambina fosse pronta per essere dimessa da febbraio, nessun membro della famiglia è stato in grado di andarla a prendere.

Dopo essere state contattate per fare un commento, le autorità israeliane hanno concesso a Swailam di uscire da Gaza. Le è stato consentito di andare a Gerusalemme lo stesso giorno in cui Israele ha risposto alla richiesta del Guardian di fare un commento, il 29 maggio.

Medici per i diritti umani-Israele”, una Ong di medici israeliani, ha affermato che lo scorso anno più di 7.000 permessi sono stati rilasciati a minori di Gaza. Sono stati concessi meno di 2.000 permessi per genitori, il che lascia pensare che molti bambini abbiano viaggiato senza i propri genitori. Mor Efrat, il direttore del gruppo per i territori palestinesi occupati, ha affermato che “il governo israeliano dovrebbe essere chiamato a rispondere delle sofferenze umane.”

Separare bambini malati dai genitori può avere conseguenze devastanti. I medici credono che uno dei tre gemelli che è morto quando la madre era a Gaza si trovava in una condizione per cui una delle migliori misure di prevenzione sarebbe stato l’allattamento al seno. “Non potrei dire che se la madre fosse stata qui se la sarebbero cavata, ma ciò potrebbe aver ridotto le loro possibilità,” ha affermato Hatem Khammash, il capo dell’unità neonatale.

Ibtisam Risiq, la caposala del reparto dell’unità pediatrica di terapia intensiva, ha osservato un effetto psicologico nei neonati che sono affidati solo alle sue cure: “Hanno bisogno di amore. Il loro battito cardiaco aumenta. Sono depressi,” afferma.

Seduta alla sua scrivania, con pile di carta ovunque, controlla come le sue infermiere si affrettano per tenere in vita i bambini. Le rimprovera di aver lasciato le confezioni di prodotti medici sul pavimento. Un grande schermo di computer dietro di lei mostra il battito cardiaco dei pazienti. Mentre parla, uno sale a 200 battiti al minuto. “Dovrebbe essere a 130”, dice, e rapidamente manda un’infermiera.

Entrano ed escono medici. Risiq prende il telefono per discutere con un direttore amministrativo che l’ha chiamata perché un altro bambino ha bisogno di cure urgenti. Chiede invano se qualcuno dei pazienti di Risiq è sufficientemente stabile da essere spostato in un’unità a basso rischio. “Siamo al 100% della capienza,” dice Risiq. “Ciò succede tutti i giorni. Devo affrontare questa situazione tutti i giorni.”

Sempre alle prese con problemi finanziari, il Makassed è in una situazione critica da quando l’anno scorso Donald Trump ha tagliato milioni di fondi per l’assistenza medica a questo come ad altri ospedali che si occupano di palestinesi a Gerusalemme est. Anche la feroce rivalità tra le fazioni politiche palestinesi in Cisgiordania e a Gaza ha aggravato la crisi sanitaria. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con sede in Cisgiordania, l’unico gruppo con cui Israele collabora, è stata accusata di aver tagliato l’aiuto medico a Gaza per obbligare Hamas a cedere il controllo della Striscia – un’accusa che l’ANP smentisce.

Saleh al-Ziq, il capo dell’ufficio dell’ANP per Gaza che trasmette le richieste di permessi d’uscita per Israele, afferma che esso ha informato che i bambini malati siano accompagnati solo da persone con più di 45 anni, i cui permessi vengono di solito esaminati più rapidamente dalle autorità israeliane in quanto considerati meno rischiosi.

Il risultato è che, invece dei genitori, che di solito sono più giovani, il Makassed è pieno di nonni. L’ospedale deve farsi carico di vitto e alloggio, e ha sistemato roulotte per farceli dormire. Ma in qualche caso anche loro devono tornare a Gaza e i bambini vengono lasciati totalmente soli.

Nel reparto di terapia intensiva pediatrica Risiq prende un grande libro verde pieno delle sue annotazioni compilate a mano di ammissioni, molte delle quali di bambini prematuri.

Una neonata, Reema Abu Eita, è arrivata con la nonna da Gaza per un’operazione urgente al midollo spinale. Questa è stata rimandata perché aveva un’infezione, dice Risiq, guardando la bambina, con gli occhi chiusi e il petto ansimante. Il padre di Abu Eita, un guidatore di ambulanze, ha cercato di ottenere un permesso per visitare la figlia, ma la bambina è morta prima di tornare a Gaza. Un altro neonato di Gaza, Khalil Shurrab, è arrivato con il fegato ingrossato. Giallo per l’itterizia, soffriva di convulsioni.

Secondo suo padre, che parlava da Gaza, lo avrebbe accompagnato la nonna. “L’equipe ospedaliera le ha insegnato come mandare a me e a mia moglie foto del bambino con WhatsApp,” dice Jihad Shurrab, 29 anni.

Sua moglie, Amal, afferma di aver smesso di dormire dopo che suo figlio è partito: “Speravo di poter andare con lui a Gerusalemme. Ho implorato chiunque, ma mi hanno detto che sono giovane e che gli israeliani non avrebbero accettato.”

Con sollievo della famiglia, il Makassed alla fine ha dimesso Khalil dopo un mese, e il bambino ha potuto ritornare a Gaza. Ma quando lo ha fatto, hanno scoperto che lì i farmaci erano introvabili. “Il gonfiore stava aumentando,” dice suo padre. Ha deciso di cercare di andarsene da Gaza verso il sud passando dall’Egitto, che ha imposto anch’esso un blocco ma in alcuni casi consente di viaggiare. “Il giorno in cui avremmo dovuto partire è morto.”

Israele afferma che il blocco terrestre, aereo e marittimo contro Gaza intende impedire ad Hamas e ad altri gruppi di miliziani di lanciare attacchi. L’Onu lo definisce una “punizione collettiva” per 2 milioni di persone che vi sono intrappolate. Gli abitanti lo chiamano assedio.

Il COGAT, l’ente del ministero della Difesa [israeliano] responsabile del coordinamento delle attività governative israeliane nei territori palestinesi, afferma in una risposta scritta di non imporre limiti d’età per i permessi e che ogni richiesta viene esaminata in modo individuale.

Riguardo al caso dei tre gemelli, sostiene che “un errore umano nei moduli per la domanda”, intendendo una richiesta presentata dalla madre in aprile, ha fatto sì che fosse respinto.

Imputa la crisi sanitaria a Gaza ad Hamas e all’ANP, che afferma “riduce drasticamente il bilancio degli aiuti medici per gli abitanti della Striscia di Gaza.” Afferma che Hamas ha utilizzato pazienti come corrieri per far entrare clandestinamente in Israele esplosivi e “finanziamenti per i terroristi”.

Il COGAT è “attivo nel rilascio di decine di migliaia di permessi a pazienti, così come a medici palestinesi, che ricevono formazione negli ospedali in Israele,” aggiunge.

Mentre è più difficile per la gente di Gaza, uscire, il Makassed presta servizio anche per la Cisgiordania, e anche lì i genitori palestinesi trovano difficoltà, e a volte l’impossibilità, di andare all’ospedale.

Israele sostiene di avere la sovranità su tutta Gerusalemme ed ha persino isolato dal resto dei territori palestinesi i suoi quartieri a maggioranza araba. Alcuni pazienti, molti bambini più grandi malati di cancro, hanno famiglie che vivono a pochi minuti di distanza ma non possono andarli a trovare.

La separazione di bambini dalle loro famiglie è talmente comune che gli ospedali palestinesi a Gerusalemme forniscono loro tablet per fare chiamate con Skype.

Un’organizzazione per la salute con sede in Gran Bretagna, “Medical Aid for Palestinians” [Aiuto Medico per la Palestina], ha organizzato visite guidate per parlamentari britannici all’ospedale Makassed per mostrare loro i risultati del fatto di separare i bambini dalle proprie famiglie. Una parlamentare laburista che l’ha visitato ha affermato di aver sollecitato il governo britannico ad intervenire. Rosena Allin-Khan, che lavorava come medico al pronto soccorso, ha affermato: “Nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe stare da solo in un momento di grande necessità. Il governo britannico dovrebbe fare pressione sulle autorità israeliane perché rivedano questo sistema inumano.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 21 maggio- 3 giugno 2019 (due settimane)

Durante il periodo di riferimento, 234 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale israeliana [sul lato interno a Gaza].

Per oltre il 16% dei feriti è stato necessario il ricovero in ospedale.

Presso la recinzione perimetrale e al largo delle coste di Gaza, in almeno sette casi non riferibili alle manifestazioni GMR, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nell’apparente tentativo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso a tali zone; due palestinesi sono stati feriti ed il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Non sono state segnalate incursioni.

In Cisgiordania, il 31 maggio, in due separati episodi accaduti a Gerusalemme e nei dintorni, due palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane [segue dettaglio]. Il ragazzo è stato ucciso vicino al checkpoint di An Nu’man (Betlemme) quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che tentavano di attraversare la Barriera ed entrare in Gerusalemme senza permesso. Antecedentemente, quello stesso giorno, in due diversi punti della Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 19enne aveva pugnalato e ferito due israeliani, tra cui un ragazzo di 16 anni; l’aggressore era stato successivamente colpito e ucciso dalla polizia israeliana. Secondo quanto riferito, si tratterebbe di un palestinese residente nel villaggio di Abwain (Ramallah), entrato in Gerusalemme Est senza permesso. Alla chiusura del presente bollettino il suo corpo risulta ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Dall’inizio del 2019, in attacchi e/o presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi due israeliani e cinque aggressori e/o presunti aggressori palestinesi.

Sempre in Cisgiordania, durante proteste e molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 114 palestinesi, tra cui 53 minori: un incremento significativo rispetto ai due precedenti periodi di riferimento, quando la media era stata di 44 feriti [segue dettaglio dei 114 feriti]. Ventitré feriti sono stati registrati il 2 giugno, in scontri scoppiati nella Città Vecchia di Gerusalemme durante due distinte proteste tenute contro l’ingresso nel Complesso della Moschea di Al Aqsa / Monte del Tempio di coloni e altri gruppi israeliani entrati per commemorare l’anniversario di ciò che, in Israele, viene definita “la riunificazione di Gerusalemme” [avvenuta in seguito alla “Guerra dei sei giorni” del 1967]. Altri 70 palestinesi, tra cui 30 minori, hanno inalato gas lacrimogeno ed hanno avuto necessità di cure mediche dopo che le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni contro palestinesi che, nei pressi del checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), tentavano di attraversare la Barriera ed entrare, senza permesso, in Gerusalemme Est per partecipare alla preghiera di mezzogiorno del venerdì. Altri tre ferimenti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto; nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 110 di tali operazioni, arrestando oltre 146 palestinesi, tra cui almeno otto minori. Altri nove palestinesi sono rimasti feriti, nella città di Nablus, in scontri con le forze israeliane conseguenti all’ingresso di coloni israeliani al sito religioso della Tomba di Giuseppe. Quasi il 71% delle [114] lesioni è stato provocato dall’inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 20% è stato causato da aggressioni fisiche, il 7% da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di armi da fuoco.

Nella Valle del Giordano, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato temporaneamente, per quattro volte, 12 ore ogni volta, 141 palestinesi; l’80% di essi è costituito da donne e minori. Si tratta dei residenti delle Comunità di pastori di Tell al Khashaba, Lifjim e Humsa al Bqai’a, costretti a lasciare incustodito il loro bestiame e, nella maggior parte dei casi, costretti a trascorrere la notte all’aperto o presso Comunità vicine. Tali Comunità sono esposte al rischio di trasferimento forzato e i ripetuti sfollamenti per esercitazioni militari fanno parte del contesto coercitivo.

In Area C, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato dodici strutture di proprietà palestinese; otto di queste erano state fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 19 persone, tra cui nove minori, sono state sfollate e 107 persone sono state altrimenti coinvolte. Delle otto strutture donate, tre strutture abitative e quattro tende per animali, erano state fornite in risposta a precedenti demolizioni avvenute nelle Comunità di pastori di Al Hadidiya e Khirbet ar Ras al Ahmar, nella parte settentrionale della Valle del Giordano, in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco” per addestramento militare. La restante struttura donata, una sezione di una conduttura idrica di nuova costruzione, era destinata al rifornimento di acqua per l’area di Khallet al Foron a sud di Hebron. Le altre [4] strutture demolite includevano una casa in costruzione a Khallet al Louza, una struttura agricola ad Al Khader (entrambe a Betlemme), un deposito ad Az Za’ayyem (Gerusalemme) e un recinto per animali a Khirbet ar Ras al Ahmar, nella parte settentrionale della Valle del Giordano.

Secondo fonti ufficiali israeliane, il terzo e il quarto venerdì di Ramadan, le autorità israeliane hanno permesso, rispettivamente a 61.597 e 90.254 palestinesi in possesso di documenti della Cisgiordania, di entrare in Gerusalemme Est per le preghiere. Complessivamente, ogni venerdì di Ramadan, una media di 79.946 palestinesi ha attraversato uno dei tre checkpoint di ingresso in Gerusalemme Est; l’anno scorso la media era stata di 87.075. I maschi sopra i 40 anni, o sotto i 16, e le donne di tutte le età hanno potuto attraversare i checkpoint senza alcun permesso. Quest’anno, ai residenti di Gaza non sono stati rilasciati permessi per il Ramadan.

Coloni israeliani hanno provocato il ferimento di quattro palestinesi e danni a proprietà palestinesi in sette circostanze [segue dettaglio]. Tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in due distinti episodi verificatisi nella zona H2 [a controllo israeliano] della città di Hebron. Un altro palestinese è stato ferito nella Città Vecchia di Gerusalemme dal lancio di pietre da parte di coloni. Nella zona di Wad Al Hussain (Hebron), secondo fonti locali palestinesi, coloni israeliani di Kiryat Arba hanno distrutto un tratto di una recinzione in pietra (lunga 200 metri) che circonda un terreno agricolo, hanno incendiato raccolti e danneggiato tre ulivi e un fico. A quanto riferito, in altri due episodi, coloni israeliani hanno danneggiato una casa disabitata di proprietà di palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo” sui muri di un distributore di carburante palestinese nel villaggio di Kafr Laqif (Qalqiliya).

Secondo fonti israeliane, in almeno un caso, palestinesi hanno lanciato pietre e danneggiato un veicolo privato israeliano vicino a Gerusalemme, mentre un colono israeliano è stato ferito, sempre per lancio di pietre da parte di palestinesi, nella Città Vecchia di Gerusalemme.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it