Un fotogiornalista palestinese rischia di essere espulso da Israele

Linah Alsaafin

1 giugno 2019 – Al Jazeera

Mustafà al-Kharouf, che vive a Gerusalemme est occupata, rischia l’espulsione in Giordania

Negli ultimi cinque mesi Mustafà al-Kharouf è stato a languire nel carcere israeliano di Givon, lontano dalla moglie Tamam e dalla figlia Asia di un anno e mezzo, ma ora rischia la deportazione in Giordania.

Il trentaduenne fotogiornalista, figlio di madre algerina e padre palestinese, ha vissuto a Gerusalemme dal 1999, quando la sua famiglia vi è tornata.

Nonostante vari tentativi negli ultimi dieci anni, gli è stato negato lo status di residente permanente, a cui avrebbe diritto, facendo quindi di lui un apolide.

Quando la famiglia di Kharouf ha raggiunto i requisiti stabiliti dalle regole per avere la residenza, Mustafà aveva 18 anni e la sua famiglia non poteva presentare per lui una richiesta di ricongiungimento familiare o di registrazione di un minore.

A gennaio Mustafà, che lavorava per l’agenzia Anadolu [agenzia di notizie turca, ndtr.], è stato arrestato dopo che il suo legale si è opposto alla decisione del ministero dell’Interno israeliano di negargli la domanda per la regolarizzazione. Ora il suo destino è nelle mani di un tribunale israeliano, che deciderà se sarà espulso in Giordania, un Paese con cui non ha nessun legame.

Per ottenere lo status legale come palestinesi in città, la famiglia di Kharouf aveva presentato richieste di ricongiungimento familiare.

Ma alla base delle complicate leggi israeliane per i residenti palestinesi di Gerusalemme – a cui vengono concessi i diritti di residenza ma non la cittadinanza israeliana – è la politica del “centro della vita”, che è stata descritta come una “pulizia etnica legalizzata”.

Questa politica, che esige dai palestinesi che vivono nella Gerusalemme est occupata di dimostrare di avere il centro della propria vita in città per conservare il proprio status giuridico, è stata criticata dai gruppi per i diritti umani in quanto discriminatoria e come prodromo dell’espulsione – una grave violazione delle leggi internazionali.

Status giuridico rifiutato dal ministero degli Interni israeliano

Adi Lustigman, l’avvocatessa di Kharouf dell’organizzazione israeliana per i diritti umani “HaMoked”, ha detto ad Al Jazeera che per anni Kharouf ha cercato di regolarizzare la propria situazione a Gerusalemme, ma senza risultati. “Ha avuto un permesso temporaneo per qualche tempo, ma per il resto si è solo arrangiato in qualche modo, come fanno molti altri abitanti di Gerusalemme, apolidi e privi di status,” ha affermato Lustigman. “Ovviamente è estremamente difficile essere una persona senza diritti, senza permesso di lavoro e senza un luogo in cui andare per essere legale.”

Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015 Kharouf ha ottenuto un visto israeliano di lavoro B/1 per “ragioni umanitarie”. Eppure alla fine le richieste di una proroga del visto sono state rigettate dal ministero dell’Interno per “ragioni di sicurezza”.

Lustigman crede che i rifiuti del ministero riguardino il suo lavoro come fotogiornalista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane a Gerusalemme est occupata.

Dopo che nel 2016 si è sposato con Tamam, una palestinese di Gerusalemme, Kharouf ha presentato un’altra domanda di ricongiungimento familiare, ma è stata di nuovo rigettata nel dicembre del 2018 dal ministero dell’Interno.

Secondo Lustigman, la decisione era basata su accuse infondate secondo cui Kharouf sarebbe membro di Hamas, messa fuorilegge da Israele.

Il 21 gennaio 2019 l’avvocatessa ha presentato appello contro la decisione, ma il giorno dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Kharouf e lo hanno arrestato, e da allora è sottoposto a detenzione amministrativa – incarcerazione indefinita senza processo o accuse contro di lui. “Mio marito è la persona più ottimista che conosca, ma ora è disperato,” ha detto ad Al Jazeera Tamam, la moglie di Kharouf.

Tamam ha il permesso di visitare suo marito una volta alla settimana per un massimo di 20 minuti solo attraverso una vetrata.

Il suo stato d’animo è molto peggiorato da quando è stato arrestato,” dice la ventisettenne consulente scolastica. “Ha perso 10 chili ed è molto depresso.”

Pochi mesi fa, in aprile, il tribunale distrettuale israeliano ha rigettato l’appello di Kharouf e gli ha concesso un permesso provvisorio perché non sia espulso, in modo che possa presentare il suo caso all’Alta Corte israeliana, con il 5 maggio come scadenza. L’appello è già stato presentato, ma l’Alta Corte non ha ancora preso una decisione. Kharouf rimane esposto al rischio di essere espulso in Giordania.

Ordine di espulsione ‘illegale’

Saleh Hijazi, il capo dell’ufficio di Amnesty International a Gerusalemme, ha definito la decisione israeliana di negare la richiesta di residenza di Kharouf e di espellerlo “crudele e illegale”. “[Kharouf] deve essere rilasciato immediatamente e gli deve essere concessa la residenza permanente a Gerusalemme est in modo che possa riprendere la sua vita normale con la moglie e la figlia,” dice Hijazi.

L’arresto arbitrario e la prevista espulsione di Mustafà al-Kharouf riflettono la pluriennale politica israeliana di riduzione del numero di palestinesi residenti a Gerusalemme est, negando loro i diritti umani,” prosegue.

In seguito all’annessione illegale di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, almeno 14.600 palestinesi si sono visti revocare il permesso di residenza.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra l’espulsione da un territorio occupato di persone protette è illegale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che “la deportazione o il trasferimento [da parte del potere occupante] di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o fuori da questo territorio” costituisce un crimine di guerra.

Una persona non può essere resa apolide,” ha sostenuto in aprile con un comunicato stampa Jessica Montell, direttrice esecutiva di HaMoked. “A livello pratico, non ha senso mantenere Mustafà in ‘attesa di espulsione’ quando non c’è nessun Paese in cui Israele lo possa espellere.

L’Alta Corte di Giustizia ha riconosciuto gli abitanti di Gerusalemme est come popolazione indigena con uno status unico. Israele quindi deve rilasciare senza indugio Mustafà e concedergli lo status legale a cui ha diritto in quanto gerosolimitano.”

Tamam si è molto impegnata per consultare avvocati e vedere quello che si può fare, ma dice che la maggior parte di loro afferma che il caso di suo marito è troppo complicato ed ha rifiutato di occuparsene.

Non ho mai pensato a un progetto alternativo per noi,” dice Tamam. “Se Mustafà viene espulso in Giordania, non otterrà la residenza, per non parlare della cittadinanza. Di fatto verrà arrestato dalle autorità giordane appena attraversato il confine per tutto il tempo che ci vorrà perché controllino la sua documentazione e prendano una decisione su cosa farne di lui,” continua. Se viene espulso non sarà solo una famiglia che verrà separata. Verrà strappato a me e a mia figlia, ai suoi genitori e ai suoi suoceri.”

Lustigman afferma che mettere in evidenza il caso di Kharouf può fare la differenza per non sradicare la vita del fotogiornalista.

Speriamo che l’opinione pubblica, l’interesse della stampa e le azioni delle Ong possano avere un certo peso ed aiutare,” sostiene l’avvocatessa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)




“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 23 aprile – 6 maggio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e in Israele, tre giorni di intense ostilità hanno provocato l’uccisione di 25 palestinesi (tra cui tre minori e due donne incinte) e quattro civili israeliani. Tra i feriti 153 palestinesi e 123 israeliani.

Lo scontro ha raggiunto il culmine tra il 3 e il 6 maggio, in seguito al ferimento di due soldati israeliani durante le proteste settimanali per la “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) del 3 maggio. A quanto riferito, il ferimento sarebbe stato opera di un cecchino palestinese, al quale ha fatto seguito l’attacco dell’aeronautica israeliana contro le postazioni di Hamas e l’uccisione di due suoi membri. Nei giorni successivi, le forze israeliane hanno colpito circa 320 obiettivi in Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato quasi 700 tra missili e proiettili di mortaio contro Israele. Secondo prime valutazioni, a Gaza sono state distrutte 41 abitazioni e altre 16 sono state gravemente danneggiate e rese inabitabili. Sono state danneggiate anche 13 strutture scolastiche, un centro sanitario e varie reti elettriche. Un accordo informale per il cessate il fuoco, raggiunto attraverso mediazione egiziana e delle Nazioni Unite, è entrato in vigore nella prima mattina del 6 maggio e risulta rispettato al momento della pubblicazione del presente rapporto.

Inoltre, in proteste svolte il 26 aprile ed il 3 maggio vicino alla recinzione israeliana di Gaza nell’ambito delle manifestazioni per la GMR, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, ferendone altri 370 circa. Secondo fonti mediche palestinesi, di tutti i palestinesi feriti durante proteste tenute nel periodo di riferimento [del presente rapporto] , 237 sono stati ricoverati in ospedale; 91 di questi presentavano ferite da armi da fuoco.

Il 30 aprile, in risposta al lancio di missili da Gaza verso il mare, effettuato da gruppi armati palestinesi, le autorità israeliane hanno ridotto da 15 a 6 miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Il 4 maggio, in un contesto di crescenti ostilità, le autorità israeliane hanno proibito tutte le attività di pesca al largo della costa di Gaza. Inoltre, il valico pedonale di Erez e il valico per le merci di Kerem Shalom, entrambi controllati da Israele, sono stati chiusi al transito di persone e merci; fanno eccezione determinati viaggiatori (internazionali) e l’importazione di carburante per la Centrale Elettrica di Gaza.

Il 20 aprile, al checkpoint di Za’tara (Nablus), le forze israeliane hanno sparato e ferito un 20enne palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano; per le ferite riportate, l’aggressore è deceduto il 27 aprile in un ospedale israeliano e il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Nessun israeliano risulta ferito nell’episodio. Ciò porta a sei, dall’inizio del 2019, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in attacchi e presunti attacchi. In un altro episodio, avvenuto il 29 aprile, vicino al villaggio di Ya’bad (Jenin), un palestinese è stato colpito e ferito dalle forze israeliane, presumibilmente dopo aver aperto il fuoco contro una postazione militare israeliana.

In aree [di terra, interne alla Striscia e] adiacenti alla recinzione perimetrale ed [in aree di mare,] al largo della costa di Gaza, in circa 30 occasioni estranee alle proteste per la GMR, le forze israeliane, in applicazione delle restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre palestinesi. In uno degli episodi, due pescatori palestinesi sono stati arrestati e le loro imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane, complessivamente sono rimasti feriti 63 palestinesi. Ciò rappresenta una riduzione significativa di circa il 63%, rispetto alla media quindicinale di 170 feriti registrata, fino ad ora, nel 2019. 17 palestinesi [dei 63] sono stati feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane che stavano accompagnando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante scontri scoppiati nel corso della protesta settimanale contro le restrizioni all’accesso e l’espansione degli insediamenti. Altri 40 feriti si sono avuti ad Al ‘Eizariya, nella città di Abu Dis, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e nella città di Qalqiliya, in scontri seguiti a cinque operazioni di ricerca-arresto condotte da forze israeliane. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 141 di queste operazioni, il 4% delle quali ha provocato scontri.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 41 strutture di proprietà palestinese, sfollando 38 persone e creando danno ad altre 121. 37 strutture [delle 41 citate] erano a Gerusalemme Est e 4 nella Zona C. Nella sola giornata del 29 aprile, le autorità israeliane hanno demolito 31 strutture in diversi quartieri di Gerusalemme Est, segnando il maggior numero di strutture demolite in un solo giorno a Gerusalemme Est da quando, nel 2009, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha avviato sistematicamente il monitoraggio delle demolizioni. Il 3 maggio, il Coordinatore Umanitario Jamie Mc Goldrick, insieme ai Capi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Profughi della Palestina nel Vicino Oriente (UNRWA) e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che invita Israele al rispetto del diritto internazionale e a porre fine alla distruzione di proprietà palestinesi a Gerusalemme Est.

Il 25 aprile, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Az Zawiya (Salfit), nella zona B, con motivazione “punitiva”, sfollando una famiglia di sette persone, di cui cinque minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese di 19 anni accusato di aver ucciso, il 17 marzo 2019, vicino all’insediamento israeliano di Ariel (Salfit), un soldato israeliano e un colono israeliano, oltre ad aver ferito un altro soldato. Il giovane fu ucciso da forze israeliane in un successivo episodio. Dall’inizio del 2019, questa è la quinta demolizione del genere. Nel 2018 tali demolizioni furono sei e nove nel 2017.

In Cisgiordania sono stati registrati tredici attacchi attribuiti a coloni israeliani, con conseguente ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), un gruppo di coloni israeliani, alcuni dei quali armati, hanno aggredito fisicamente e ferito tre palestinesi che stavano misurando terreni. Inoltre, in cinque episodi verificatesi nelle ultime due settimane, coloni israeliani, accompagnati dall’esercito israeliano, hanno vandalizzato proprietà palestinesi nella zona della sorgente di Ein Harrasheh, ed un parco pubblico nella zona B del villaggio Al Mazra’a Al Qibliya (Ramallah); secondo fonti della comunità locale, i coloni hanno lanciato pietre contro due case, hanno molestato palestinesi ed hanno vandalizzato tubature dell’acqua e infrastrutture del parco. Nel villaggio di ‘Urif (Nablus), dopo che coloni avevano lanciato pietre contro una scuola per ragazzi e contro le case circostanti, sono scoppiati scontri che hanno visto palestinesi contrapposti ai coloni ed alle forze israeliane che li accompagnavano. In altri cinque episodi verificatisi a Burqa (Ramallah), Isla (Qalqiliya), Huwwara (Nablus) ), al Ganoub (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno vandalizzato 51 ulivi, hanno bucato le gomme di dodici veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte “questo è il prezzo” su quattro case palestinesi e danneggiato un negozio. Dall’inizio del 2019, la media bisettimanale [14 giorni] di attacchi di coloni (con vittime palestinesi o danni alle proprietà) ha registrato un aumento del 40% rispetto alla media bisettimanale [14 giorni] del 2018, e del 133% rispetto al 2017.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; una colona israeliana è stata ferita e diversi veicoli sono stati danneggiati.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto aperto per tre giorni in entrambe le direzioni e quattro giorni in una direzione. Un totale di 2.662 persone, tra cui 1.451 pellegrini, sono entrati a Gaza e 2.466 ne sono usciti, tra cui 1.603 pellegrini.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Occidente e Stato di apartheid

L’Israele di Netanyahu dichiarerà uno Stato dell’apartheid. L’Occidente non farà niente?

I leader del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile Sudafrica

Gideon Levy

30 Aprile 2019 – Middle East Eye

Il mondo continua a girare sul suo asse, nulla è cambiato nemmeno dopo le recenti elezioni in Israele.

Eletto alla guida di Israele per la quinta volta, Benjamin Netanyahu è pronto a dare vita al governo più nazionalista e di destra nella storia del Paese – e intanto il mondo sembra andare avanti come niente fosse.

Da decenni Israele sputa continuamente in faccia al resto del mondo, con noncurante disprezzo del diritto internazionale e con totale indifferenza riguardo alle esplicite decisioni e precise politiche adottate dalle istituzioni mondiali e dalla maggioranza dei governi nazionali del mondo.

Tuttavia nel mondo tutto quel disprezzo scivola via come fosse acqua fresca. Le elezioni sono arrivate e passate senza evidenti effetti sul sostegno ciecamente automatico a Israele da parte dei governi europei e, ovviamente, anche da parte americana: incondizionato, senza riserve, appartenente invariato. Evidentemente ciò che era è ciò che sarà.

Però Israele è cambiato nel corso del lungo regno di Netanyahu. Questo abile statista israeliano sta lasciando il segno sul volto del suo Paese, con un profondo e duraturo effetto – molto più di quanto previsto o di quanto appaia.

È pur vero che anche i governi di sinistra in Israele hanno fatto il possibile per mantenere l’occupazione israeliana per sempre e non hanno avuto intenzione neppure per un istante di porvi fine – ma Netanyahu sta portando Israele molto più lontano, verso livelli ancor più estremi.

Sta compromettendo ciò che costituisce un governo accettabile entro il territorio sovrano riconosciuto di Israele, anche nei confronti dei suoi cittadini ebrei. Il volto stesso dell’“unica democrazia in Medio Oriente”, che ha a lungo funzionato soprattutto a beneficio degli ebrei israeliani che costituiscono la sua classe privilegiata, viene adesso sfigurato da Netanyahu e soci.

Beniamino dell’Occidente

Intanto, incredibilmente, la risposta del mondo è di non cambiare affatto il sostegno che ha offerto a Israele in tutti gli anni del governo Netanyahu, come se in quest’ultima fase lui non stesse modificando niente, come se le mutate posizioni assunte da Israele non facessero aumentare né diminuire quel sostegno.

Con o senza Netanyahu, Israele resta il beniamino dell’Occidente. Nessun altro Paese gode dello stesso livello di sostegno militare, economico, diplomatico e morale, senza condizioni. Ma la prossima amministrazione israeliana, il quinto governo Netanyahu, è pronta ad annunciare un cambiamento che alla fine il mondo avrà difficoltà ad ignorare.

Il nuovo governo è pronto a strappare l’ultimo lembo di maschera dal suo volto reale. La principale risorsa di Israele, nel proporsi come una democrazia liberale che condivide i valori cari all’Occidente, sta per essere annientata.

L’Occidente continuerà allora a sostenerlo? L’Occidente, che chiede che la Turchia introduca profondi cambiamenti prima di concederle una piena ammissione, che impone sanzioni alla Russia quando invade la Crimea, questo Occidente continuerà a sostenere la nuova repubblica di Israele che Netanyahu e i suoi partner di governo stanno preparandosi a varare?

Un cambiamento radicale

Il livello del cambiamento atteso non può essere sopravvalutato. Israele sarà diverso. Dove il precedente governo ha appiccato l’incendio, questo attizzerà il fuoco appena si propagherà. Il sistema giudiziario, i media, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei diritti degli arabi in Israele presto proveranno una cocente sensazione.

Gli editoriali, se criticano per esempio i soldati israeliani o appoggiano un boicottaggio contro Israele, tra breve per legge non verranno più pubblicati sui media israeliani. L’aeroporto Ben Gurion amplierà i divieti di ingresso per chi critica il regime israeliano.

Le organizzazioni della società civile verranno private del loro status giuridico. Gli arabi verranno più rigorosamente esclusi in vista della realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i parlamentari sono ebrei.  E ovviamente vi è l’annessione, attualmente in attesa dietro le quinte.

Il nuovo governo sarà il governo israeliano dell’annessione. Se il previsto appoggio di Washington sarà imminente – il riconoscimento americano dell’annessione delle Alture del Golan è stato il primo passo, il ‘ballon d’essai’ – allora Netanyahu farà la mossa che finora si è trattenuto dal fare durante tutto il suo regno.

Annuncerà l’annessione almeno di parte dei territori occupati.

Il significato sarà inequivocabile: Israele ammetterà per la prima volta che la sua occupazione militare della Cisgiordania, durata 52 anni, sarà permanente; che non è, come per molto tempo sostenuto, un fenomeno transitorio.

Drastici cambiamenti di politica

I territori non sono “merce di scambio” in negoziati per la pace, come sostenuto all’inizio dell’occupazione, bensì possedimenti coloniali che rimarranno in modo permanente sotto il governo israeliano. Non vi è alcuna intenzione che i territori annessi ora, che potranno poi espandersi, vengano mai restituiti ai palestinesi.

Quindi il nuovo governo Netanyahu annuncerà due drastici cambiamenti di politica. Primo, si chiuderà la questione della soluzione di due Stati, che persino Netanyahu ha appoggiato e a cui tutti i leader mondiali si sono dichiarati favorevoli.

Quell’opzione verrà dichiarata morta. Al tempo stesso Israele si dichiarerà uno Stato di apartheid non solo di fatto, ma adesso, per la prima volta, anche di diritto.

Poiché nessuno di coloro che sono a favore dell’annessione intende garantire uguali diritti ai palestinesi nei territori che verranno annessi, e poiché una annessione mirata solo sulla terra su cui si trovano le colonie è palesemente una mistificazione, gli uomini di Stato del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, nel XXI secolo, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile sudafricano.

L’ultima volta un regime di apartheid è stato miracolosamente abbattuto senza alcuno spargimento di sangue. Questa volta il mondo si riunirà e ripeterà l’impresa?

Quale Israele state ancora appoggiando?

Questa domanda va posta anzitutto ai leader dell’Europa, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, compresa Theresa May – a tutti i leader dell’Unione Europea. Hanno ripetuto all’infinito il mantra che il loro appoggio ad Israele e al suo diritto di esistere in sicurezza è fermo e irrevocabile.

Hanno continuamente dichiarato il loro sostegno ad una soluzione negoziata di due Stati. Quindi chi sostenete adesso? Che cosa sostenete? Quale Israele, esattamente? In quale mondo pensate di vivere? Forse in un mondo dei sogni che evidentemente trovate comodo, ma che ha sempre meno rapporti con il mondo reale.

L’Europa riuscirà a continuare a sostenere che Israele condivide i suoi valori liberali, quando in Israele sono vietate le organizzazioni della società civile? Quando quasi tutti i politici sionisti israeliani dichiarano che non hanno niente da discutere con i deputati arabi eletti in parlamento?

Provate a immaginare un diplomatico europeo che dichiari che i membri ebrei del suo parlamento nazionale non possono partecipare ad alcun dialogo politico. O che un diplomatico europeo dichiari che i cittadini ebrei del suo Paese sono dei traditori e una quinta colonna.

Questo genere di cose sono politicamente corrette in Israele, in tutti i partiti. E che dire della libertà di parola, tanto sacra nel discorso europeo, quando il ‘World Press Freedom Index’ (Indice mondiale della libertà di stampa) del 2019 di Reporter senza Frontiere classifica già Israele al numero 88 – dopo Albania, Kirghizistan e l’Ungheria di Victor Orban?

Questo è l’Israele che state appoggiando.

La soluzione dei due Stati è morta

Anche il sostegno automatico dell’Occidente alla soluzione dei due Stati deve essere aggiornato. Credete davvero, cari uomini e donne di Stato, che questo Israele abbia qualsivoglia intenzione di applicare una simile soluzione?

Vi è mai stato anche un solo politico israeliano che volesse, o potesse, trasferire circa 700.000 coloni, anche da Gerusalemme est occupata?

Credete davvero che senza un ritiro da tutte le colonie, che rappresenterebbe il minimo di giustizia per i palestinesi, vi sia qualche prospettiva che una simile soluzione si affermi e si trasformi in realtà?

Si potrebbe notare che la maggior parte dei diplomatici occidentali che sono ben informati su ciò che accade sanno già da tempo che questa soluzione è morta, ma nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo.

Ammetterlo richiederebbe di ridefinire tutte le loro posizioni sul conflitto in Medio Oriente, compreso il sostegno all’esistenza di uno Stato ebraico.

Con l’arrivo del nuovo governo Netanyahu il mondo occidentale non può semplicemente continuare a chiudere un occhio e sostenere che tutto va bene. Niente va bene.

Perciò ora la domanda è: siete pronti ad accettare questo? Rimarrete in silenzio, muti, concederete il vostro appoggio e chiuderete gli occhi sulla realtà?

Chi di voi si preoccupa per il futuro di Israele dovrebbe essere il primo a svegliarsi e trarre le dovute conclusioni. Certamente, ogni persona di coscienza dovrebbe farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro della direzione editoriale del quotidiano. E’ entrato in Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vicedirettore del giornale. Ha vinto il premio ‘Euro-Med Journalist’ nel 2008; il premio ‘Leipzig Freedom’ nel 2001; il premio ‘Israeli Journalists’Union’ nel 1997; il premio ‘The Association of Human Rights in Israel’ nel 1996. Il suo nuovo libro, ‘The Punishment of Gaza’ (La punizione di Gaza) è stato appena pubblicato da Verso.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Venezuela: perché Israele vuole che Maduro venga rovesciato *

Ahmad Moussa

Lunedì 11 febbraio 2019 , Middle East Eye

Il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive nel quadro di un più complessivo progetto regionale che prende di mira la solidarietà con la Palestina

*Nota redazionale: Abbiamo deciso di tradurre questo articolo, benché risalga al febbraio scorso, in quanto la crisi venezuelana è diventata di drammatica attualità in questi giorni e il testo che segue offre interessanti indicazioni sul rapporto tra quanto avviene nel Paese latinoamericano e le vicende mediorientali.

Diversi fattori e importanti elementi hanno alimentato l’attuale disastrosa situazione in Venezuela, ma l’ingerenza israeliana negli affari latino-americani è raramente citata.

Dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez il suo successore, Nicolás Maduro, ha rapidamente dovuto affrontare le sfide di un’economia sull’orlo del naufragio, di un’iperinflazione e di una mancanza di medicine e prodotti alimentari dovuta alla caduta del prezzo del barile di petrolio nonostante le notevoli riserve del Paese.

Le manifestazioni contro l’aggravamento della situazione socio-economica hanno portato a una polarizzazione e a un’impasse politica. I campi pro e contro il governo si scontrano senza una terza opzione alternativa né speranza di riconciliazione interna.

La comparsa dell’autoproclamato presidente ad interim, Jaun Guaidó, sostenuto da Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e Israele – anche se le Nazioni Unite, la più alta carica giudiziaria del Paese e i militari rifiutano la sua leadership e Maduro ha chiesto elezioni anticipate – pone questa domanda: quali interessi rappresenta?

Lotta a favore dell’autodeterminazione

Il caos politico in Venezuela è il risultato di una combinazione tra l’estrema vulnerabilità di uno Stato petrolifero e le conseguenze delle politiche imperialiste e delle iniziative che alimentano la corruzione interna. Ciononostante il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive in un programma più vasto che intende consolidare una campagna antipalestinese in America latina a spese del popolo venezuelano.

Benché nel 1947 la maggioranza dei Paesi dell’America latina abbia appoggiato il piano di partizione [della Palestina] delle Nazioni Unite, che costituì ufficialmente lo Stato di Israele e portò alla Naqba [l’espulsione della popolazione palestinese, ndt.], la regione è stata nettamente favorevole ai palestinesi, e accoglie la più grande presenza palestinese al di fuori del mondo arabo.

La solidarietà con la lotta palestinese a favore dell’autodeterminazione ha raggiunto il suo apogeo durante gli anni di Chávez fino ad oggi, in quanto i dirigenti hanno apertamente criticato le flagranti violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Il Venezuela ha rotto i suoi rapporti diplomatici con Israele nel 2009, in seguito alla sua campagna militare contro Gaza [operazione “Piombo Fuso”, ndt.].

L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della nostra America (ALBA) è stata creata dal Venezuela e da Cuba durante l’era di Chávez. Gli Stati Uniti e Israele restano i soli Paesi ad aver votato contro la risoluzione annuale dell’ONU intesa a mettere fine al blocco di più di mezzo secolo contro Cuba. Inoltre il recente voto dell’ONU a favore della creazione di uno Stato palestinese, così come i tentativi fatti dalla Palestina per ottenere il riconoscimento internazionale, beneficiano di un consistente appoggio in America latina, soprattutto in Venezuela.

Sotto l’amministrazione Trump si assiste a un lento e constante cambiamento per imporre delle politiche antipalestinesi, come la riduzione dell’aiuto americano all’agenzia per i rifugiati dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi nei campi profughi, ndt.] e all’Autorità Nazionale Palestinese, e l’adozione dell’“accordo del secolo” che distrugge ogni speranza per le aspirazioni nazionali palestinesi.

Ideologia neoconservatrice

L’amministrazione Trump ha rafforzato l’estrema destra politica diffondendo l’ideologia neoconservatrice del sionismo cristiano in tutta l’America Latina. Il voto dell’ONU di condanna dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è stato respinto dal Guatemala, dall’Honduras e dal Brasile in un contesto regionale di rafforzamento dei legami “per la sicurezza” con Israele. Paesi come il Cile, il Brasile, l’Argentina, il Costa Rica, la Colombia, il Perù, il Paraguay e l’Ecuador hanno riconosciuto Guaidó.

È estremamente indicativo che l’amministrazione Trump abbia fatto di Elliot Abrams il suo nuovo inviato americano per il Venezuela, rafforzando l’idea che gli Stati Uniti e Israele vedano in questa situazione un’occasione per rovesciare Maduro e instaurare un regime filo-israeliano nel Paese.

Abrams è stato condannato per il suo ruolo nello scandalo Iran-Contra, che implicava un piano americano-israeliano inteso a fornire segretamente armi all’Iran, in un contesto di embargo sulle armi in nome della liberazione degli ostaggi [dell’ambasciata americana a Teheran, ndt.]. Il fine ultimo era finanziare la contro-insurrezione e i guerriglieri, sostenuti dagli Stati Uniti, che lottavano contro il socialismo o il comunismo [del governo sandinista in Nicaragua, ndt.].

Abrams è stato anche implicato nella massiccia violazione dei diritti umani perpetrata da regimi filo-americani nel Salvador e in Guatemala, come dai ribelli nicaraguensi della Contra negli anni ’80, che hanno fatto decine di migliaia di morti.

Prospettive per il futuro

Abrams è stato in seguito graziato dall’amministrazione Bush e nominato consigliere aggiunto alla sicurezza nazionale in vista della promozione di una strategia dell’ex-presidente George H. W. Bush che consisteva nell’ “adozione di un approccio democratico all’estero”, sulla falsariga del ruolo giocato nel fallito tentativo di colpo di Stato contro Chavez.

Abrams è al contempo ferocemente filo-israeliano. Ha criticato l’amministrazione Obama per aver penalizzato l’illegale espansione delle colonie di insediamento nei territori palestinesi, il che fa di lui il candidato ideale per il programma antipalestinese in America latina.

La direzione che sta prendendo il Venezuela non è di buon auspicio per la regione, soprattutto dal punto di vista della solidarietà con la Palestina, vista la storica e attuale ingerenza sionista.

La presa del potere riuscita del Venezuela da parte delle forze filo-americane implicherà il rafforzamento della politica antipalestinese con una strategia interventista che cancelli e “tolga di mezzo” la Palestina da questa regione.

La speranza è nelle mani del popolo venezuelano, della società civile e dei movimenti di base latino-americani. Solo il futuro ci dirà se potranno mettere fine a questo progetto, sostenuto da Israele, di porre fine alla solidarietà con la Palestina nel continente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, e collaboratore regolare ed editorialista di numerose agenzie di notizie internazionali. È professore di questioni indigene e mediorientali. È anche attivista per i diritti umani con un master in Diritto internazionale e Diritti umani. Moussa è attualmente coinvolto in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gerusalemme ordina che gli asili non permettano l’ingresso alle “minoranze”

Michael Schaeffer Omer-Man

18 aprile 2019, + 972

Il dipartimento della sicurezza del Comune invia istruzioni agli asili della città ordinando che stranieri e “minoranze”, eufemismo per indicare gli arabi, non siano ammessi nei loro spazi. Un’associazione antirazzista chiede che il Comune revochi gli ordini.

In un documento che riporta le istruzioni distribuite di recente agli asili, la Divisione di Emergenza e Sicurezza del Comune ha ordinato agli asili pubblici di Gerusalemme di non consentire agli “stranieri” e alle “minoranze” di entrare nelle strutture scolastiche.

In una sezione intitolata “Ingresso dei visitatori”, il documento recita: “Non consentite l’ingresso di stranieri negli spazi dell’asilo – come norma l’ingresso non è permesso alle minoranze, in questi casi dovete comunicarlo al responsabile della sicurezza dell’area.”

Minoranze è un eufemismo semi-ufficiale e universalmente inteso nell’uso ebraico del termine in Israele per arabi.

Il “Centro di Crisi sul Razzismo”, un progetto della Coalizione contro il Razzismo e del Centro israeliano di Azione Religiosa del Movimento Riformato [una corrente dell’ebraismo, ndt.], la scorsa settimana ha inviato una lettera al Comune di Gerusalemme sostenendo che le istruzioni sono illegali e chiedendo che vengano cambiate.

Secondo il giornale in lingua ebraica Ma’ariv [secondo quotidiano più letto in Israele, ndt.], che per primo ha riportato la vicenda, il Comune di Gerusalemme ha risposto che “i protocolli per la sicurezza delle istituzioni educative sono stabiliti dalla polizia israeliana e dal ministero dell’Educazione.”

Il Comune ha detto a Ma’ariv che avrebbe corretto la formulazione del documento. Nella risposta non ha indicato se la modifica della formulazione avrebbe cambiato le istruzioni relative alla discriminazione sulla base della nazionalità o dell’etnia.

“Le minoranze, anche se si tratta di cittadini e residenti dello Stato, sono considerate automaticamente stranieri pericolosi”, ha scritto la parlamentare Aida Touma-Sliman del partito ebraico-arabo Hadash.

“Il Comune ha detto che avrebbe corretto le istruzioni – ma che cosa dovremo aspettarci se il razzista Bezalel Smotrich sarà a capo del ministero dell’Educazione?”, ha scritto su Twitter Touma-Sliman.

Smotrich, un parlamentare apertamente omofobo che in passato ha difeso la segregazione e la cui lista di candidati parlamentari include ex seguaci del gruppo terrorista fuorilegge un tempo guidato da Meir Kahane [si riferisce al partito Kach, messo fuorilegge nel 1994, ndt.], ha detto che chiederà il ministero dell’Educazione nel prossimo governo.

L’ esplicita segregazione – sia ufficiale che ufficiosa – esiste in Israele in moltissimi modi, dai reparti di maternità ai parchi giochi, agli autobus, alberghi, piscine pubbliche, strade e abitazioni.

L’anno scorso Israele ha approvato una norma costituzionale che dà la precedenza ai diritti nazionali degli ebrei in Israele senza garantire piena uguaglianza a tutti i cittadini non ebrei. Si pensa che la legge verrà usata per giustificare e preservare politiche e leggi intrinsecamente razziste e discriminatorie se esse dovessero essere messe in discussione dalla Corte Suprema del Paese.

Oltre al razzismo e alla discriminazione sancite dallo Stato all’interno di Israele, nei territori palestinesi occupati da Israele vi è un insieme di leggi completamente differenti per ebrei israeliani e palestinesi non cittadini. Questo insieme di leggi e sistemi giuridici si accompagna a una serie di diritti estremamente differenti, che portano a sempre più frequenti accuse di [aver instaurato] un sistema di apartheid.

Michael Omer-Man

Sono capo redattore di +972 Magazine e collaboratore fisso sia di cronaca che di analisi. Prima di entrare a +972 ho lavorato come responsabile delle notizie per JPost.com [versione on line del Jerusalem Post, giornale israeliano inizialmente di sinistra che negli ultimi anni si è spostato a destra, ndt.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele vieta a centinaia di cristiani palestinesi di viaggiare per Pasqua

Henriette Chacar

19 aprile 2019,  +972

Con una decisione senza precedenti le autorità israeliane hanno negate a centinaia di cristiani palestinesi il diritto di andare a Gerusalemme per le feste, bloccando nel contempo ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

Per le celebrazioni pasquali si attendono che vadano a Gerusalemme migliaia di pellegrini cristiani da tutto il mondo. Tuttavia per i cristiani palestinesi che vivono a non più di qualche ora dalla Città Santa i progetti per i giorni di festa sono condizionati dai capricci dell’esercito israeliano. Quest’anno, con una decisione senza precedenti, l’esercito sta negando a centinaia di palestinesi gli spostamenti e ha vietato ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

L’esercito israeliano ha limitato la quota di viaggi per le festività a 200 cristiani di Gaza che hanno più di 55 anni e solo per spostamenti fuori da Palestina/Israele. Solo 120 dei 1.100 cristiani di Gaza rispondono a questo requisito arbitrario. I palestinesi che stavano pianificando di visitare i luoghi santi o le proprie famiglie in Cisgiordania e in Israele, di per sé un’occasione rara, non potranno farlo.

Ho fatto richiesta per un permesso negli ultimi tre anni, ma senza alcun risultato,” dice Samir Abu Daoud, 65 anni, di Gaza, che ha un figlio e nipoti a Ramallah. Benché rispetti i criteri israeliani per viaggiare, sta ancora aspettando una risposta riguardo alla sua richiesta di un permesso.

Nonostante l’esercito abbia concesso una quota doppia per i palestinesi della Cisgiordania – a cui verrà permesso di recarsi in Israele e a Gerusalemme – ciò consente solo a circa l’1% della popolazione cristiana di viaggiare per la festività. Non possono visitare i parenti a Gaza.

L’imposizione di tali radicali restrizioni agli spostamenti non può essere giustificata da necessità legate alla sicurezza,” dice Miriam Marmur, una coordinatrice per i media di “Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che si concentra sulla libertà di movimento in entrata ed in uscita da Gaza. La decisione si basa su considerazioni politiche, aggiunge Marmur, e le restrizioni sono parte della politica israeliana di “separazione”, che intende accentuare la divisione tra comunità palestinesi geograficamente non collegate tra loro.

Israele sta sempre più restringendo gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania in modo da approfondire la separazione tra palestinesi in parti del territorio palestinese occupato, e così facendo prosegue e legittima l’annessione della Cisgiordania,” ha scritto questa settimana Gisha in una comunicato.

Contattato per avere una spiegazione, il “Coordinator of Government Activities in the Territories” [il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori] dell’esercito israeliano (COGAT) – l’ente militare israeliano responsabile di amministrare l’occupazione e l’assedio di Gaza – ha rinviato la rivista +976 all’ufficio del primo ministro, che ha citato indicazioni relative alla sicurezza come la ragione della decisione.

Ci sono circa 400.000 cristiani palestinesi [sparsi]nel mondo, molti dei quali sono rifugiati che sono scappati o sono stati espulsi dalle forze israeliane durante la Nakba [la pulizia etnica che ha consentito la nascita di Israele, ndt.] del 1948 e ora vivono fuori dalla Palestina e da Israele. Circa 123.000 sono cittadini israeliani e 50.000 o poco più vivono nei territori palestinesi occupati.

Mentre ufficialmente Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, ha sottoposto la Striscia a un rigido assedio, controllando molti aspetti della vita, compreso lo spostamento delle persone e dei prodotti. I palestinesi possono entrare ed uscire in uno dei due modi seguenti: attraverso il valico di Rafah con l’Egitto o quello di Erez con Israele. Fino a poco tempo fa l’Egitto ha aperto Rafah solo in modo intermittente e in marzo, per la prima volta dal dicembre 2014, ha consentito ai musulmani di Gaza di recarsi alla Mecca per il pellegrinaggio della Umrah attraverso Rafah.

Secondo “Gisha”, già lo scorso mese il COGAT ha ricevuto una lista di persone che desideravano lasciare Gaza per Pasqua. Tuttavia solo pochi giorni fa l’esercito ha annunciato il numero di persone – anche se non chi – a cui avrebbe consentito di viaggiare durante le festività, negando la possibilità di opporsi a questa decisione ricorrendo ai tribunali.

(traduzione di Amedeo Rossi)