Gli aiuti per indebolire i palestinesi,riprendiamo il controllo

Alaa Tartir

29 agosto 2018, Nena News da Middle East Eye

Ramallah, 29 agosto 2018, Nena News – Nel 2006, dopo la vittoria di Hamas alle giuste e democratiche elezioni parlamentari palestinesi, i principali donatori dell’industria internazionale degli aiuti hanno interrotto i finanziamenti ai Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza per protesta verso i risultati del voto.

In quel periodo, mentre lavoravo in una nota università palestinese, abbiamo ricevuto lettere su lettere dei donatori che ci informavano che i nostri progetti comuni sarebbero terminati, che la cooperazione era sospesa e che i fondi venivano tagliati.

La brutta faccia degli aiuti

Siamo andati nel panico e ci siamo preoccupati per i progetti che stavamo realizzando; ci siamo sentiti umiliati dal ricevere via fax – nemmeno in un incontro o con una telefonata – una notizia che decideva il nostro futuro. Quell’esperienza ci ha mostrato la brutta faccia dell’industria degli aiuti e ci ha fatto capire quanto cattiva fosse l’idea di lasciare a qualcun altro decidere il nostro destino.

Ci ha anche mostrato che gli aiuti sono un “regalo” due volte dannato: maledice il donatore e il ricevente. Ma ci ha anche insegnato un’importante lezione: se noi palestinesi non diamo dignità al nostro sviluppo, nessuno lo farà.

Questa lezione non è stata compresa bene dalla leadership politica palestinese e da allora gli aiuti internazionali hanno continuato a essere sprecati invece di essere utilizzati efficacemente per trasformare la vita della gente. L’ultimo episodio risale all’inizio dell’anno quando il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di ritirare gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

Non solo taglia i fondi, ma ha anche trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e attaccato l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndt) e l’inalienabile diritto al ritorno palestinese.

A parte qualche focosa dichiarazione e una brillante retorica, la leadership politica palestinese non ha compiuto alcuna azione di senso per controbattere agli Stati Uniti e al loro trumpismo. La scorsa settimana l’amministrazione Usa ha deciso di tagliare oltre 200 milioni di dollari degli aiuti palestinesi, eppure la risposta dei leader palestinesi continua a essere solo a parole, inefficace, dichiarazioni di condanna ma nessuna azione.

A seguire quattro azioni di buon senso che la leaderhip politica palestinese potrebbe considerare per rispondere ai recenti tagli degli aiuti Usa.

Stop al coordinamento alla sicurezza con Israele

Primo, interrompere tutte le relazioni e la cooperazione con l’Uss, il Coordinatore alla Sicurezza Usa. Sarebbe una mossa in armonia con la decisione dell’Olp, le richieste di tutti i partiti politici palestinesi e quelle del popolo palestinese, interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele e modificare le dinamiche del dominio securitario.

Il coordinamento alla sicurezza è stata la principale ragione della creazione dell’Ussc, più di dieci anni fa. L’Ussc non solo viola i principi chiave internazionali sulla consegna degli aiuti perché il suo intervento continua a danneggiare la popolazione ricevente, ma agisce anche come braccio complementare dell’occupazione coloniale israeliana.

Gli aiuti consegnati dagli Usa attraverso l’intervento dell’Ussc non sono aiuti per la Palestina o i palestinesi. Sono aiuti che sostengono le azioni brutali del loro oppressore (l’occupazione israeliana) e aiuti ai contractor amerciani e al loro personale alla sicurezza.

In aggiunta, l’intervento Ussc non è solo diretto a proteggere la sicurezza dell’oppressore, ma ha anche portato a un ulteriore repressione del popolo oppresso (i palestinesi) rendendo le forze di sicurezza dell’Anp più autoritarie del normale, dietro il pretesto di garantire stabilità e ordine pubblico.

I danni causati dalla missione di sicurezza Usa sono evidenti e palesi ed è tempo di riconoscerli responsabili e rifiutarne l’intervento.

Un intervento dannoso

Secondo, chiudere i progetti Usaid. La penetrazione di Usaid nella società palestinese è stata profonda e dannosa fin dall’inizio. Le condizioni imposte sui palestinesi e il tipo di intervento che persegue non solo hanno condotto a una dipendenza nociva dagli aiuti e al sostegno del deleterio status quo, ma ha anche distorto la struttura della società civile palestinese, i suoi valori, le fondamenta e i sostegni del contratto sociale tra governanti e governati.

Per invertire queste tendenze, è tempo di impedire a Usaid di causare ulteriori danni. Il suo intervento futuro rischia di essere ancora più pericoloso perché implementerà la visione politica dell’amministrazione Usa che non fa presagire nulla di buono per ogni tipo di sviluppo positivo, prosperità o pace.

È tempo di femare il solito business di Usaid e riconoscerli responsabili se è la dignità del popolo palestinese che interessa. Se non sarà possibile contrastare lo storico danno causato, sarà un’occasione d’oro per impedirne altri in futuro e la via maestra per farlo è chiudere i progetti di Usaid.

Obiettivi di buon senso

Terzo, tagliare i rapporti con l’ambasciata Usa a Gerusalemme e con il suo staff, il suo supporto, i suoi progetti, il suo personale. Non è intelligente mantenere stretti rapporti e accogliere a braccia aperte un’entità che chiaramente e palesemente dichiara guerra a te, al tuo popolo e ai tuoi diritti fondamentali.

Neppure i principi basilari di diplomaziona scusano un simile atteggiamento. Controbattere e resistere è la reazione naturale. Mentre l’ambasciata Usa a Gerusalemme continua a celebrare le borse di studio che offre a giovani e brillanti palestinesi, agisce senza dubbio come ombra e braccio del governo statunitense nei Territori Palestinesi Occupati per implementare le sue politiche, strategie e visioni politiche.

La mera indifferenza per le azioni dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, come ha deciso di fare la leadership politica palestinese, non è né sufficiente né efficace nel modificare le dinamiche di potere.

Quarto e ultimo, tagliare i costi (200 milioni di dollari) dal gonfio budget del settore della sicurezza dell’Autorità Palestinese. Visto che il principale costo nel budget è la sicurezza, che mangia circa il 30% del bilancio ma dà molto poco in termini di sicurezza e protezione al popolo palestinese, questa recente decisione dell’amministrazione Trump offre alla leadership politica palestinese l’opportunità di rivedere le sue priorità e di abbandonare il paradigma che l’ha costretta ad essere solo il subappaltatore all’occupazione israeliana.

Tagliare quei 200 milioni e condividere con il popolo palestinese le prove di quel taglio manderà un messaggio chiaro all’amministrazione Usa e agli attori dell’industria degli aiuti: è tempo di cambiare marcia per assicurare dignità, auto-determinazione e proprietà locale della consegna degli aiuti ai palestinesi.

Ovviamente questi quattro obiettivi proposti sono politici di per sé e avranno conseguenze sul presente e il futuro della leadership palestinese creando sofferenza nel breve termine. Ma, dall’altra parte, sono azioni di buon senso che la maggior parte dei palestinesi aspettano.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




Israele escogita l’ “assicurazione BDS” per proteggere ‘Eurovisione’

Asa Winstanley

17 agosto 2018 , Middle East Monitor

Non c’è forse miglior barometro per misurare fin dove Israele può arrivare nel diffamare, attaccare e sabotare il movimento internazionale per i diritti dei palestinesi del suo atteggiamento verso il BDS.

Ricordiamoci che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni non è altro che un tentativo di rendere Israele responsabile in base ai principi del diritto internazionale e ai fondamentali diritti umani, laddove i governi nazionali per decenni hanno rifiutato di farlo.

Il BDS invita ad un boicottaggio totale di Israele fino a quando non concederà i tre principali diritti umani dei palestinesi, che sta attualmente violando: libertà, eguaglianza e [diritto al] ritorno.

I palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (insieme ai siriani delle Alture del Golan) vivono sotto un’occupazione militare illegale, che entra ora nel 52mo anno. Perciò i palestinesi chiedono libertà.

I palestinesi cittadini di Israele – mentre godono di alcuni simbolici diritti civili – non hanno eguaglianza, essendoci più di 65 leggi (e continuano ad aumentare) che li discriminano per la colpa di non essere ebrei. Perciò i palestinesi chiedono eguaglianza.

E i rifugiati palestinesi in tutto il mondo vivono in campi profughi dispersi e ormai consolidati, privati della loro patria dopo che i loro avi sono stati espulsi con i fucili puntati dalle milizie sioniste che hanno costituito l’esercito israeliano. A differenza che in ogni altro conflitto nel mondo, sono privati del loro diritto fondamentale (sia in base al diritto internazionale che ai principi etici basilari) di tornare nella loro patria. Perciò i palestinesi chiedono il diritto al ritorno.

Queste tre richieste sono riportate nell’appello del BDS del 2005, il documento fondativo del movimento, che è promosso dalla totalità della società civile palestinese.

I diritti umani basati sul diritto internazionale non sono merce di scambio da barattare con la pretesa di essere “ragionevoli” o “realisti”. I diritti dei palestinesi, come i diritti di tutti gli esseri umani, sono inalienabili e non possono essere ceduti da nessun traditore o leader politico di alcuna fazione.

Il movimento BDS ha messo Israele sulla difensiva.

C’è tutto un “ministero” del governo ora dedicato solamente a combattere il BDS – in ciò che definisce una “guerra”. Utilizzando il comune eufemismo israeliano per assassinio, il ministro spia di Israele Yisrael Katz nel 2016 ha minacciato “l’eliminazione civile” del cofondatore del movimento BDS Omar Barghouti. L’anno seguente Barghouti ha ricevuto il divieto di viaggiare ed è stato vittima di una causa legale per un’“evasione fiscale” inventata ad arte.

Questo cosiddetto ministero – il ministero degli Affari Strategici – è diventato in effetti un nuovo ramo delle agenzie di spionaggio israeliane. È guidato dall’ex ufficiale di alto rango dell’intelligence militare Sima Vaknin-Gil, e la maggior parte del suo staff proviene da diverse agenzie di spionaggio israeliane.

È impegnato non solo nel “monitoraggio” del movimento globale BDS, ma in attività di sabotaggio. Il giornalista veterano dell’intelligence israeliana Yossi Melman le ha definite “operazioni segrete”.

La natura globale di questa minaccia significa che Israele è impegnato in attività sovversive in territorio straniero, incluso il Regno Unito, molto probabilmente in violazione delle leggi locali.

Israele interferisce apertamente nei sistemi elettorali degli Stati Uniti e del Regno Unito ad un livello che supera di gran lunga qualunque cosa di cui la Russia sia mai stata accusata, per non parlare dell’ attendibilità dimostrata.

La campagna segreta di sabotaggio ha diversi fronti, compreso il partito Laburista di Jeremy Corbyn, ma l’obiettivo principale nel mondo è il movimento BDS. A differenza di precedenti “minacce strategiche” al sistema israeliano di razzismo e occupazione, il ministero degli Affari Strategici comprende che il BDS non ha un’unica leadership che possa essere “decapitata”, come è stato con i molti leader palestinesi – sia della lotta armata che di quella senza armi – che ha assassinato in passato.

Perciò si impegna invece in una campagna di sabotaggio ad ampio raggio, che prende di mira questo movimento globale guidato dai palestinesi.

Il fatto che il governo sembra aver escogitato una sorta di “assicurazione BDS” per proteggere il programmato festival musicale “Eurovisione”, che dovrebbe svolgersi in Israele il prossimo anno è un sintomo piuttosto divertente di quanto gli strateghi israeliani temano il movimento BDS.

A giugno gli attivisti BDS contro l’ “Eurovisione” [gara canora internazionale, che si svolge nel Paese vincitore dell’edizione precedente, nel 2018 Israele, ndtr.] israeliana hanno rivendicato la loro prima vittoria. Avendo clamorosamente politicizzato la competizione, la ministra della Cultura di Israele (ed ultra razzista) Miri Regev è stata costretta ad un’umiliante marcia indietro.

Regev aveva sostenuto che “Eurovisione” dovesse svolgersi a Gerusalemme, o non tenersi affatto. Ha preso questa posizione nel tentativo di accrescere la legittimità dell’illegittima pretesa di Israele che Gerusalemme sia la sua capitale.

Il problema ovviamente è che, nonostante il molto controverso spostamento da parte di Trump dell’ambasciata USA nella città all’inizio di quest’anno, nessun Paese europeo riconosce la pretesa di Israele e per tal motivo tutti mantengono le proprie ambasciate a Tel Aviv.

La stampa israeliana ha riferito che lei ha dovuto fare marcia indietro a causa della reazione negativa e che Tel Aviv viene ora considerata come la sede del pacchiano festival pop. Gli attivisti BDS hanno invitato a mantenere alta la pressione finché esso non venga definitivamente annullato.

Anche se nel passato gli artefici della propaganda israeliana hanno cercato di mostrare pubblicamente di ignorare il BDS e ridurlo ad un elemento irrilevante, quel tempo è molto lontano.

Questa “assicurazione BDS” è un segnale di quanto grave sia considerata la minaccia del BDS all’occupazione israeliana. Questa settimana il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito che l’emittente pubblica è in trattativa con il ministero israeliano delle Finanze sui termini di un massiccio prestito di 13,5 milioni di dollari per coprire i costi dello svolgimento del festival.

Secondo il quotidiano, “il ministero delle Finanze si impegnerebbe a coprire l’ammontare del prestito se il festival alla fine non si tenesse in Israele, a causa di circostanze attenuanti come un terremoto, una guerra o un boicottaggio organizzato dal BDS, Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

A quanto pare le condizioni finali non sono state ancora concordate, ma questo genere di “assicurazione BDS” è probabilmente un segnale di come andranno le cose.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 31 luglio – 13 agosto 2018 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele una nuova ondata di ostilità ha provocato l’uccisione di cinque palestinesi, tra cui una donna incinta e sua figlia di 18 mesi; altri 50 palestinesi e 28 israeliani sono rimasti feriti.

L’8 agosto, due membri dell’ala armata di Hamas sono stati uccisi dal fuoco dei carri armati israeliani. A partire da quella sera e fino al 9 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato circa 180 razzi ed hanno sparato con mortai contro le comunità israeliane che circondano Gaza; alcuni razzi hanno colpito aree abitate, causando il ferimento di israeliani e danni a diversi edifici, tra cui un asilo nella città di Sderot. L’aviazione israeliana ha effettuato numerosi attacchi aerei su Gaza, lanciando oltre 110 missili, uno dei quali, a Deir al Balah, ha ucciso la donna palestinese e sua figlia [vedere ad inizio paragrafo]; inoltre sono state danneggiate sei strutture idriche che rifornivano oltre 30.000 persone, dozzine di case e diversi veicoli. Successivamente, il 9 agosto, una fazione palestinese ha lanciato un razzo a medio raggio verso la città israeliana di Beersheba, senza provocare feriti o danni. In risposta, Israele ha completamente distrutto, nel centro della città di Gaza, un edificio di cinque piani che ospitava un centro culturale; secondo l’esercito israeliano, la struttura era utilizzata anche dalla sicurezza interna di Hamas. Questi due ultimi attacchi sono stati i primi del loro genere dalle ostilità del 2014. La sera del 9 agosto è stato raggiunto un cessate il fuoco informale.

A Gaza, nell’ambito della “Grande Marcia del Ritorno”, sono continuate le dimostrazioni e gli scontri del venerdì: quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane; tra essi un operatore di primo soccorso e un minore. Oltre 580 i feriti. Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle precedenti proteste. L’operatore [di cui sopra] è stato ucciso durante una dimostrazione del 10 agosto: è il terzo operatore sanitario ucciso in servizio in simili circostanze. Circa il 60% dei feriti (338 di 580) sono stati ricoverati in ospedale; tra loro, 165 colpiti con armi da fuoco. Non sono state segnalate vittime israeliane. L’11 agosto, nel contesto delle proteste, un raduno di 40 battelli ha tentato di rompere il blocco navale: sono stati fermati dalla marina israeliana che ha aperto il fuoco verso le barche ferendo un palestinese.

Il 2 agosto, le autorità israeliane hanno ripristinato il divieto di ingresso di carburante nella Striscia di Gaza, portando i servizi essenziali sull’orlo del collasso; il 12 agosto è ripresa l’importazione di carburante d’emergenza. Secondo quanto riferito, il divieto era stato adottato in risposta alla prosecuzione del lancio di aquiloni e palloncini incendiari verso Israele. In una dichiarazione rilasciata l’8 agosto, il Coordinatore Umanitario ha invitato le autorità israeliane a consentire immediatamente l’ingresso del combustibile di emergenza acquistato dall’ONU per assicurare il funzionamento dei principali ospedali e dei servizi essenziali: acqua potabile, trattamento reflui e servizi igienici. Già dal 9 luglio, Israele aveva rafforzato il blocco su Gaza, vietando l’ingresso di una gamma di materiali, inclusi materiali da costruzione, mobili, legno, elettronica e tessuti, oltre a proibire l’uscita di ogni tipo di merce.

Dopo il cessate il fuoco del 9 agosto, è stata segnalata una significativa riduzione di lanci di aquiloni e palloncini incendiari da Gaza verso Israele. Secondo le autorità israeliane, dalla fine di aprile sono stati registrati 1.364 incendi che, pur non provocando vittime israeliane, hanno bruciato coltivazioni e riserve naturali.

Dal 5 agosto, un nuovo accordo ha permesso l’importazione di gas da cucina dall’Egitto verso Gaza, attraverso la Porta di Salah ad Din [in Rafah]. Questo accordo compensa la possibile penuria di tale gas, determinata dalle restrizioni israeliane. Durante il periodo di riferimento [31 luglio – 13 agosto], sono entrate in Gaza circa 830 tonnellate di gas.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 17 casi non riferibili alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, causando il ferimento di tre palestinesi e costringendo agricoltori e pescatori a lasciare l’area. In un caso, le forze navali israeliane hanno intercettato un peschereccio e detenuto per un breve periodo cinque pescatori, tra cui un minore. Dal 16 luglio, Israele ha ridotto la zona di pesca accessibile ai palestinesi da 6 a 3 miglia nautiche dalla costa, riducendo ulteriormente i proventi della pesca.

In Cisgiordania, in più scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 55 palestinesi, tra cui nove minori. Diciassette palestinesi sono rimasti feriti negli scontri con le forze israeliane che, nella città di Nablus, stavano scortando un gruppo di coloni israeliani in visita ad un sito religioso. Altri tre feriti sono stati registrati presso il villaggio di Bardala, nella parte settentrionale della Valle del Giordano, nel corso di una protesta palestinese contro la scarsità d’acqua per uso agricolo nella zona. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 100 operazioni di ricerca-arresto, tre delle quali hanno provocato scontri: feriti nove palestinesi e tre soldati.

Il 9 agosto, nella città di Al Eizariya (Governatorato di Gerusalemme), durante scontri seguiti ad un’operazione di polizia, un palestinese è stato ucciso dalle forze dell’Autorità Palestinese (PA). Ulteriori scontri tra palestinesi e Forze di polizia (senza feriti) sono stati registrati l’11 agosto, nel Campo profughi di Balata (Nablus), durante le proteste seguite alla morte, avvenuta in un carcere dell’Autorità Palestinese, di un residente del Campo.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 13 strutture palestinesi, provocando lo sfollamento di 12 palestinesi. Otto di queste strutture, incluse sei abitazioni, si trovavano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Sur Bahir, Jabal al Mukkaber, Shu’fat e Beit Hanina. Nel Campo di Al Aroub (Hebron), in un’area compresa in zona C, le autorità israeliane hanno demolito diverse tombe costruite senza permesso (qui contate come un’unica struttura).

Nel Complesso colonico di Beit al Barakeh, vicino al Campo di Al Aroub (Hebron), coloni israeliani hanno demolito due strutture residenziali sfollando una famiglia di quattro rifugiati palestinesi che vivevano nel complesso da 45 anni. La demolizione è avvenuta nonostante l’ingiunzione di un Tribunale israeliano che impediva lo sfratto della famiglia. Nel 2012 un’organizzazione di coloni aveva acquisito segretamente da una organizzazione cristiana svedese la terra e gli edifici di questo complesso e nel 2015 l’area fu annessa al Consiglio Regionale dell’insediamento [colonico] di Gush Etzion.

Il 6 agosto, nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per sette giorni, quattro famiglie palestinesi della Comunità di pastori di Khirbet Yarza. La comunità si trova in un’area designata come “zona per esercitazioni a fuoco”. Insieme alle demolizioni ed alle restrizioni di accesso, questa pratica accresce la pressione sulla Comunità, ponendola ad elevato rischio di trasferimento forzato.

Per effetto dei procedimenti in corso presso l’Alta Corte di Giustizia israeliana, la demolizione della comunità palestinese beduina di Khan al Ahmar-Abu al Helu è ancora sospesa. In una presentazione alla Corte, le autorità israeliane hanno confermato il loro proposito di demolire le strutture della Comunità e spostare i residenti. Si impegnano comunque a [individuare e] proporre un sito di trasferimento alternativo vicino a Gerico a condizione che i residenti accettino di trasferirsi, pacificamente, nel sito temporaneo attualmente indicato dalle autorità israeliane (Jabal Ovest). Poiché tale sito si trova vicino a un impianto di depurazione, l’avvocato della Comunità ha chiesto alla Corte di accogliere, prima di emettere la sentenza, una valutazione dei rischi ambientali e sanitari del sito in questione.

Il 2 agosto, nel villaggio di Ein Yabrud (Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato dieci veicoli di proprietà palestinese, spruzzando su uno dei veicoli la scritta: “Questo è il prezzo”. I residenti della Comunità di Ein al Hilwe, nella Valle del Giordano settentrionale, hanno riferito che sono stati rubati due pannelli solari che fornivano elettricità alla Comunità, attribuendone la responsabilità ai residenti del vicino insediamento colonico di Maskyiot. Inoltre, sono stati segnalati ulteriori episodi di intimidazioni e molestie da parte di coloni israeliani, senza danni alle proprietà.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, vicino a Hebron, Betlemme e Ramallah, in almeno sei occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni a tre veicoli privati; a Ramallah, in uno di questi episodi, è stato ferito un colono israeliano.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano) è stato aperto per sette giorni in entrambe le direzioni e per altri cinque giorni in una sola direzione; ciò ha consentito l’uscita dei pellegrini per svolgere l’Hajj [il quinto dei pilastri dell’Islam: il pellegrinaggio alla Mecca, da compiere nell’ultimo mese dell’anno islamico]. 1.934 persone sono state autorizzate ad entrare in Gaza e 5.492 ne sono uscite (compresi 3.216 pellegrini). Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 15 agosto, Israele ha revocato le restrizioni imposte il 9 luglio al valico di Kerem Shalom, al confine con Gaza; ha inoltre portato da 3 a 6-9 miglia nautiche dalla costa (variabile a seconda dell’area) la zona di pesca consentita.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA del periodo 17 -30 luglio 2018 (due settimane)

Lungo la recinzione israeliana che circonda Gaza, le proteste e gli scontri del venerdì si sono ripetuti: quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi ed altri 763 sono stati feriti.

Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate durante le dimostrazioni delle settimane precedenti. I due minori (11 e 16 anni) sono stati colpiti con armi da fuoco dalle forze israeliane durante manifestazioni tenute il 27 luglio nelle zone di Rafah e Khan Younis: il primo è morto immediatamente, mentre il secondo è stato ferito in modo grave ed è morto il giorno seguente. Gli altri due morti (due uomini) sono stati colpiti con armi da fuoco a Gaza ed a Khan Younis, durante le manifestazioni del 20 e 27 luglio. Quasi la metà dei feriti sono stati ricoverati in ospedale; 217 di loro erano stati colpiti con armi da fuoco.

Con questi ultimi eventi, salgono a 26, a partire dal 30 marzo 2018, i minori palestinesi uccisi a Gaza dalle forze israeliane. Di questi, 21 sono stati uccisi durante manifestazioni e 5 in altre circostanze. Inoltre, durante lo stesso arco di tempo, sono stati feriti e ricoverati in ospedale 1.487 palestinesi e due minori israeliani. In una dichiarazione rilasciata il 1° agosto, alti funzionari delle Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la violazione dei diritti dei minori e hanno invitato Israele, l’Autorità palestinese e le Autorità di Hamas a Gaza a rispettare i diritti dei minori e ad astenersi dalla loro strumentalizzazione.

Nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, in vari altri episodi, sono stati uccisi sette membri dell’ala armata di Hamas e un soldato israeliano. Il 19 luglio, a est di Rafah, le forze israeliane hanno sparato diversi di colpi di cannone, uccidendo un componente dell’ala armata di Hamas, e ferendone altri tre. Il giorno dopo, ad est di Khan Younis, nel corso di una delle dimostrazioni, un palestinese ha colpito e ucciso un soldato israeliano: è il primo ucciso, dalle ostilità del 2014. Dopo questo fatto, l’esercito israeliano ha lanciato su Gaza massicci raid aerei e bombardamenti, uccidendo tre membri dell’ala armata di Hamas e ferendo 28 persone, tra cui 8 minori. I palestinesi hanno lanciato contro Israele tre razzi, senza causare feriti o danni. Nelle prime ore del 21 luglio, è stato raggiunto un precario cessate il fuoco mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite. Ciò nonostante, il 25 luglio, i palestinesi hanno sparato e ferito un soldato israeliano che pattugliava la recinzione, e carri armati israeliani hanno bombardato postazioni militari a Gaza, uccidendo altri tre membri dell’ala armata di Hamas e ferendo un minore.

Dopo il cessate il fuoco è stato segnalata un significativa riduzione nel lancio di aquiloni e palloncini incendiari da Gaza verso Israele; tuttavia, a partire dal 26 luglio la loro frequenza è nuovamente aumentata. Secondo le autorità israeliane, dalla fine di aprile, sono stati registrati circa 1.200 incendi, che hanno bruciato più di 3.000 ettari di terra coltivata e di riserve naturali. In tali circostanze non sono state segnalate vittime israeliane.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 21 casi, non contestuali alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco. Quattro palestinesi, tra cui un pescatore e due minori, sono rimasti feriti. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 luglio, le autorità israeliane hanno revocato il divieto di ingresso di carburante e gas da cucina nella Striscia di Gaza, imposto il 16 luglio. È rimasto in vigore il divieto di importazione a Gaza di una serie di prodotti, inclusi materiali da costruzione, mobili, legno, elettronica e tessuti, nonché il divieto generalizzato di esportazione. Le restrizioni sarebbero state imposte in risposta al lancio di aquiloni e palloncini incendiari. Secondo la Federazione Palestinese delle Industrie, da quando sono state imposte le restrizioni all’importazione, oltre 4.000 lavoratori dell’edilizia sono stati temporaneamente licenziati, principalmente a causa della carenza di materiali da costruzione.

Il 23 luglio, per mancanza di carburante, la Centrale Elettrica di Gaza (GPP) è stata costretta a fermarsi del tutto: rispetto alle 19 ore precedenti, le interruzioni di corrente sono aumentate fino a una media di 20 ore al giorno. Questa situazione è causata dalla mancanza di fondi per l’acquisto di carburante dall’Egitto. Il 26 luglio, la Centrale ha ripreso, in parte, le operazioni.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, a controllo

egiziano, è rimasto aperto cinque giorni/settimana in entrambe le direzioni, ad eccezione di un giorno. 2.934 persone sono entrate a Gaza e 2.552 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente.

In Cisgiordania, durante numerosi scontri con forze israeliane, un minore palestinese è stato ucciso e 57 palestinesi, tra cui 21 minori, sono rimasti feriti. Il 23 luglio, nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme), durante un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un quindicenne. Dall’inizio dell’anno, sale a sei il numero di minori palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania. I rimanenti ferimenti sono stati registrati durante altre operazioni di ricerca-arresto, tra cui quella svolta nel villaggio di Kobar (Ramallah, vedi sotto), le dimostrazioni settimanali di Kafr Qaddum e gli scontri al Complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio (vedi sotto).

Il 26 luglio, nell’insediamento colonico di Adam (governatorato di Gerusalemme), un 17enne palestinese ha accoltellato e ucciso un colono israeliano e ne ha feriti altri due; è stato successivamente ucciso da un altro colono. Il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. I soldati israeliani hanno fatto irruzione nel villaggio di Kobar, dove viveva l’autore dell’aggressione; ne sono seguiti scontri, durante i quali 17 palestinesi, tra cui nove minori, sono rimasti feriti. Le forze israeliane hanno anche fatto rilievi della casa di famiglia del giovane, in vista della sua demolizione punitiva.

Nella Città Vecchia di Gerusalemme, all’interno e intorno al Complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio, le tensioni sono aumentate in seguito all’ingresso di numerosi gruppi di israeliani. Il 22 luglio, nel Complesso sono entrati circa 1.000 israeliani accompagnati da forze israeliane; successivamente, nella Città Vecchia, alcuni di loro hanno danneggiato proprietà palestinesi, inclusi almeno tre negozi. Il venerdì successivo, nella stessa area, sono scoppiati scontri tra palestinesi e forze israeliane; queste ultime hanno chiuso tutti i cancelli del Complesso ed hanno fatto irruzione nelle due Moschee per allontanarne i palestinesi. In questa circostanza 10 palestinesi sono rimasti feriti e 26 sono stati arrestati; più tardi, nello stesso giorno, è stato ripristinato il regolare accesso al Complesso.

Quattordici attacchi di coloni israeliani hanno provocato il ferimento di sei palestinesi e danni a 760 alberi, 6 abitazioni, 3 negozi, 11 veicoli e il furto di 2 tende fornite come assistenza umanitaria. La metà degli episodi sono avvenuti nella Cisgiordania settentrionale, e quattro di essi hanno causato incendi dolosi di una casa e di alberi nei villaggi di Qusra, Jalud e Asira al Qibliya (in Nablus) e in Immatin (Qalqiliya). Tre degli attacchi sono stati effettuati nella zona H2 della città di Hebron: si è trattato di aggressioni fisiche contro un anziano, una coppia e un minore. Altri due attacchi sono stati registrati nei villaggi di Beitillu e Al Mughayyir (Ramallah), il primo dei quali contro un anziano che si trovava sulla propria terra. Gli ultimi due attacchi sono stati registrati nel governatorato di Gerusalemme, dove tre negozi sono stati vandalizzati da coloni israeliani appena usciti dal complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio (vedi sopra), mentre, vicino all’insediamento colonico di Adam, un uomo è rimasto ferito da pietre lanciate contro il proprio veicolo.

Vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), palestinesi hanno lanciato pietre contro un veicolo, ferendo un colono israeliano. In Cisgiordania, almeno altri 9 veicoli israeliani sono stati danneggiati in episodi simili.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi edilizi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 15 strutture palestinesi, sfollando 14 palestinesi, tra cui sette minori, e colpendone altri 333. Una delle strutture prese di mira era una roulotte finanziata da donatori per la Comunità beduina di Jabal Al Baba (Gerusalemme). Era utilizzata per gestire l’Asilo ed il Centro per le donne; talvolta veniva usata anche come ambulatorio mobile. Una casa, insieme ad altre tre strutture, è stata demolita nella città di Gerico (in una zona compresa in Area C); mentre un ricovero per animali è stato demolito in un’area nel sud di Hebron (Massafer Yatta) designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”. Le restanti demolizioni, inclusa una effettuata dai proprietari, si sono avute a Gerusalemme Est.

Ancora a Gerusalemme Est, nell’area di Beit Hanina, in seguito ad una sentenza della Corte Suprema Israeliana, due case sono state autodemolite dai proprietari palestinesi; la sentenza è stata favorevole ai coloni israeliani che rivendicavano la proprietà del terreno su cui erano state costruite le abitazioni. Di conseguenza, 19 persone, tra cui otto minori, sono state sfollate. Indipendentemente dal caso di sfratto deciso dalla Corte, le case avevano ordini pendenti di demolizione per mancanza di permessi di costruzione. Negli ultimi decenni, organizzazioni di coloni israeliani, sostenuti dalle autorità israeliane, hanno preso il controllo di proprietà interne ai quartieri palestinesi di Gerusalemme Est: circa 180 famiglie palestinesi stanno attualmente affrontando, presso i tribunali israeliani, cause di sfratto intentate da coloni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 2 agosto, le autorità israeliane hanno ripristinato il divieto di ingresso di carburante e gas da cucina nella Striscia di Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA del periodo 3 – 16 luglio 2018

Israele ha intensificato le restrizioni sul transito delle merci attraverso Kerem Shalom, unico valico commerciale operativo tra Gaza e il mondo esterno. Intensificate anche le restrizioni di accesso alle zone di pesca lungo la costa di Gaza.

Il 16 luglio, le autorità israeliane hanno annunciato, per Gaza, un blocco all’introduzione di carburante e gas da cucina, nonché la riduzione, da sei a tre miglia nautiche, della zona di pesca consentita. L’importazione di forniture mediche e alimentari potrà essere autorizzata caso per caso. Le autorità avevano avviato le restrizioni alle importazioni il 9 luglio, consentendole solo per alimenti, forniture medicali, mangimi per animali, bestiame e combustibili, e bloccandole per tutti gli altri prodotti, compresi materiali da costruzione, mobili, legno, elettronica e tessuti. Bloccate del tutto le merci in uscita. In media, dal 9 luglio, sono entrati a Gaza 192 autotreni al giorno: meno della metà degli ingressi registrati durante la prima metà del 2018. Secondo le autorità israeliane, le misure sono state adottate in risposta al lancio di aquiloni e palloncini incendiari (vedere più avanti). In una dichiarazione rilasciata il 17 luglio, il Coordinatore Umanitario per i Territori Palestinesi occupati ha affermato che “se dovessero continuare, queste ulteriori restrizioni potrebbero innescare un drammatico deterioramento della situazione già fragile e delle condizioni umanitarie già disperate”.

Lungo il recinto perimetrale di Israele con Gaza, le manifestazioni e gli scontri del venerdì sono continuati il 6 e il 13 luglio, provocando l’uccisione di tre palestinesi e il ferimento di altri 824; anche un soldato israeliano è rimasto ferito. In una delle dimostrazioni del 13 luglio, le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un ragazzo quattordicenne; mentre un quindicenne, a causa delle ferite riportate nel corso di una manifestazione del 14 maggio, è morto durante il periodo di riferimento [del presente Rapporto]. Questi episodi portano a 22 il numero di minorenni uccisi a Gaza dal 30 marzo, data di inizio delle manifestazioni. Oltre il 43% di tutte le persone ferite durante questo periodo hanno dovuto essere ricoverate in ospedale; 208 di essere erano state colpite con armi da fuoco. A quanto riferito, in una delle manifestazioni del 13 luglio un soldato israeliano è stato ferito da una granata lanciata da parte palestinese.

Da Gaza, i palestinesi hanno continuato a lanciare aquiloni e palloncini incendiari verso il sud di Israele, causando vasti danni alle coltivazioni. Secondo l’esercito israeliano, dall’inizio di questa pratica (fine di aprile), sono stati registrati più di 750 incendi (una media di oltre 11 al giorno) che hanno bruciato circa 3.000 ettari di terreno, con danni stimati a più di 2,2 milioni di dollari USA. Non sono state segnalate vittime israeliane.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno 16 circostanze, non contestuali alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, provocando un ferimento e costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi. In un caso, le forze navali israeliane hanno intercettato una imbarcazione diretta in Turchia, mentre tentava di eludere il blocco navale; nove persone a bordo sono state arrestate, sette di esse sono state rilasciate poco dopo. In sei occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo presso la recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 24 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte dei feriti (14) si sono avuti in scontri scoppiati in cinque operazioni di ricerca-arresto; gli scontri più ampi sono stati registrati nel Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 100 di queste operazioni, arrestando oltre 100 palestinesi, tra cui cinque minori. Altri cinque palestinesi, tra cui un giornalista, sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso della protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti, e a Beit Ummar (Hebron), durante scontri seguiti al funerale di un palestinese, il cui corpo era stato trattenuto dalle autorità israeliane per 45 giorni.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 32 strutture di proprietà palestinese; come conseguenza, 64 palestinesi hanno dovuto sfollare. L’episodio più grave è avvenuto nella Comunità beduina di Abu Nuwar, ad est di Gerusalemme, dove sono state demolite 19 strutture. Presso una Comunità di pastori della Valle del Giordano settentrionale (Al Farisiya) è stato demolito un serbatoio di acqua, finanziato da donatori e fornito come assistenza umanitaria: il serbatoio forniva accesso idrico a 148 persone. Sempre per mancanza di permessi, a Barta’a ash Sharqiya, un villaggio situato nella zona chiusa dietro la Barriera, nel governatorato di Jenin, le autorità israeliane hanno emesso ordini di blocco lavori contro 17 strutture, tra cui quattro case abitate, costruite 30 anni fa.

La demolizione della Comunità palestinese beduina di Khan al Ahmar-Abu al-Helu è stata temporaneamente ritardata a seguito della presentazione di due nuove petizioni all’Alta Corte di Giustizia Israeliana. Similmente ad Abu Nuwar, è una delle 18 comunità che rischiano il trasferimento forzato perché interne, o circostanti, all’area del piano di insediamento [israeliano] E1. Le petizioni saranno ascoltate entro il 15 agosto, ma il 3 luglio i militari israeliani hanno requisito la terra per iniziare i lavori nelle strade che portano alla Comunità. Inoltre, l’area è stata dichiarata zona militare chiusa, il che impedisce l’accesso alla Comunità ai non residenti. Benché tale interdizione non venga applicata continuativamente, in diverse occasioni l’accesso alla Comunità è stato ritardato o impedito agli operatori che erogano i periodici servizi umanitari di assistenza (inclusa la clinica mobile e la cura della salute mentale).

Otto attacchi da parte di coloni israeliani hanno portato al ferimento di due palestinesi e gravi danni a proprietà agricole. Uno dei palestinesi è stato colpito e ferito da forze israeliane intervenute negli scontri tra palestinesi e i coloni israeliani che avevano fatto irruzione nel villaggio di Asira al Qibliya (Nablus). In altri tre episodi, accaduti nei villaggi vicini di ‘Urif e Burin, coloni israeliani hanno incendiato terreni agricoli e diverse auto, ed hanno devastato almeno 360 alberi. Negli ultimi anni, i residenti dei tre villaggi hanno subito violenze e intimidazioni da parte di coloni israeliani provenienti dall’insediamento colonico di Yitzhar e dai suoi circostanti avamposti [= insediamenti colonici illegali anche per la Legge israeliana]. In Cisgiordania, dall’inizio del 2018, oltre 4.700 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni israeliani, con un aumento del 70% rispetto al corrispondente periodo del 2017. In due episodi accaduti nella città di Hebron, nella zona a controllo israeliano, coloni hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese; inoltre hanno bloccato un’ambulanza che portava a casa un’anziana paziente, costringendo i suoi parenti a trasportarla a braccia.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato da media israeliani, in almeno sei casi, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, palestinesi hanno lanciato pietre o bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani, causando danni a due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di tre giorni. Sono entrate in Gaza 3.070 persone e ne sono uscite 2.706. Il valico è rimasto aperto, quasi continuativamente, dal 12 maggio 2018.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Dovremmo rendere omaggio alla Striscia di Gaza

Gideon Levy

15 luglio 2018, Haaretz

Lo spirito di Gaza non è stato spezzato da nessun assedio e soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese.

Se non fosse per la Striscia di Gaza, l’occupazione sarebbe stata da tempo dimenticata. Se non fosse per la Striscia di Gaza, Israele avrebbe cancellato la questione palestinese dalla sua agenda e proseguito tranquillamente con i suoi crimini e le sue annessioni, con la sua routine, come se 4 milioni di persone non stessero vivendo sotto il suo tallone. Se non fosse per la Striscia di Gaza, anche il mondo avrebbe dimenticato. In gran parte lo ha già fatto. Ecco perché noi adesso dobbiamo rendere omaggio alla Striscia di Gaza – soprattutto allo spirito della Striscia di Gaza, l’unico che ancora soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese per la libertà.

La lotta risoluta della Striscia di Gaza dovrebbe destare ammirazione anche in Israele. La manciata di persone dotate di coscienza che è rimasta qui dovrebbe ringraziare l’indomito coraggio della Striscia di Gaza. Il coraggio della Cisgiordania è svanito dopo il fallimento della Seconda Intifada, come anche quello del campo della pace israeliano – gran parte del quale si è da tempo disgregato. Solo il coraggio della Striscia di Gaza rimane saldo nella sua lotta.

Perciò, chiunque non voglia vivere per sempre in un Paese malvagio, deve rispettare le braci che il giovane popolo della Striscia di Gaza sta ancora cercando di attizzare. Se non fosse per gli aquiloni, i fuochi, i razzi Qassam, i palestinesi sarebbero completamente usciti dalla consapevolezza di tutti in Israele. Solo la Coppa del mondo e il Festival europeo della canzone desterebbero qualche interesse. Se non fosse per i campi incendiati nel sud, ci sarebbe un’enorme bandiera bianca a sventolare non solo sopra la Striscia di Gaza, ma sull’intero popolo palestinese. Gli amanti della giustizia, anche in Israele, non possono desiderare questo genere di asservimento.

È difficile, persino arrogante, scrivere queste parole da una tranquilla e sicura Tel Aviv, dopo un’altra notte insonne e da incubo nel sud, ma tutti i giorni e le notti nella Striscia di Gaza sono molto più difficili a causa della disumana politica di Israele, sostenuta dalla maggior parte dei suoi cittadini, compresa la gente che vive nel sud. Non meritano di portarne il peso, ma ogni lotta esige un prezzo di vittime innocenti, che ci auguriamo non diventino dei morti. Bisognerebbe ricordare che solo i palestinesi vengono uccisi. Sabato la 139ma vittima del fuoco israeliano lungo il confine è morta. Aveva 20 anni. Venerdì è stato ucciso un ragazzo di 15 anni. La Striscia di Gaza paga l’intero prezzo di sangue. Questo non la fa desistere. Quello è il suo spirito. Non si può che provare ammirazione.

Lo spirito della Striscia di Gaza non è stato domato da nessun assedio. I cattivi di Gerusalemme chiudono il valico di confine di Kerem Shalom, e Gaza spara [i razzi]. I malvagi nel complesso governativo di Kirya [grattacielo che ospita uffici pubblici, ndtr.] a Tel Aviv vietano ai giovani di essere curati in Cisgiordania per evitare di avere le gambe amputate.

Per anni hanno impedito a pazienti oncologici, comprese donne e bambini, di ricevere terapie salvavita. L’anno scorso è stato approvato solo il 54% delle richieste di uscire dalla Striscia di Gaza per ragioni mediche, rispetto al 93% nel 2012. È una crudeltà. Si dovrebbe leggere la lettera scritta in giugno da 31 medici oncologi israeliani, che chiedevano che si ponesse fine alla violenza verso le donne di Gaza affette da tumore, le cui domande di permesso di uscita impiegano mesi di tempo per essere esaminate, segnando il loro destino.

I 31 razzi lanciati venerdì notte su Israele dalla Striscia di Gaza sono una risposta moderata a questa crudeltà. Non sono altro che un muto richiamo al destino della Striscia di Gaza, rivolto a coloro che pensano che 2 milioni di persone possano essere trattate così per oltre 10 anni continuando come se nulla stesse accadendo.

La Striscia di Gaza non ha scelta. E nemmeno Hamas. Ogni tentativo di gettare la colpa sull’organizzazione – che io vorrei solo fosse più laica, più femminista e più democratica – è un’elusione di responsabilità. Non è stato Hamas a chiudere la Striscia di Gaza. Né vi si sono chiusi dentro i suoi stessi abitanti. Israele (e l’Egitto) lo hanno fatto. Ogni timido tentativo da parte di Hamas di fare qualche passo avanti con Israele riceve un immediato e automatico rifiuto da Israele. E neanche il resto del mondo vuole parlare con loro, chissà perché.

Tutto ciò che gli resta sono gli aquiloni [incendiari], che potrebbero portare ad un’altra serie di spietati bombardamenti e lanci di granate da parte di Israele, che Israele ovviamente non vuole. Ma quale scelta ha la Striscia di Gaza? Una bandiera bianca di resa sui suoi confini, come quella che hanno alzato i palestinesi in Cisgiordania? Il sogno di una verde isola al largo del Mediterraneo, che il ministro israeliano dei Trasporti Yisrael Katz costruirà per loro? La lotta è la sola strada che resta, una strada che dovrebbe ricevere rispetto, anche se si è un israeliano che potrebbe esserne vittima.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 5 – 18 giugno 2018 (due settimane)

Durante la manifestazione di massa dell’8 giugno, svolta lungo la recinzione israeliana attorno a Gaza, le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un ragazzo di 14 anni, e ferito altri 618.

Durante il periodo cui si riferisce questo rapporto, altri due palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle manifestazioni delle settimane precedenti. Oltre il 40% dei feriti ha dovuto ricorrere a cure ospedaliere; tra questi, 117 persone colpite con armi da fuoco. Le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” si sarebbero dovute concludere l’8 giugno, ma è possibile che continuino nei prossimi venerdì.

I palestinesi di Gaza hanno intensificato il lancio, verso il sud di Israele, di aquiloni di carta e palloni gonfiabili caricati con materiali infiammabili, provocando incendi di coltivazioni e boschi. Fonti israeliane hanno anche riferito che un certo numero di aquiloni e palloni erano stati caricati con ordigni esplosivi, ma sono stati neutralizzati prima che esplodessero. Secondo le autorità israeliane, dall’avvio di questa pratica (iniziata a fine aprile), i vigili del fuoco hanno dovuto affrontare più di 400 incendi che hanno bruciato più di 2.400 ha, con danni stimati in oltre 1,9 milioni di dollari.

A Gaza l’aviazione israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro siti militari, aree aperte e un veicolo vuoto, provocando due feriti. Secondo quanto riferito, gli attacchi sono stati effettuati in risposta al lancio di aquiloni e palloni incendiari. In tre diversi episodi, gruppi armati palestinesi hanno lanciato razzi contro Israele. Uno di questi è caduto all’interno di Gaza, i rimanenti sono caduti di Israele, in aree aperte; secondo i resoconti dei media israeliani, non sono stati registrati danni.

Sempre a Gaza, il 18 giugno, un missile israeliano ha ucciso un palestinese e ferito un minore: secondo quanto riferito, i due stavano tentando di danneggiare, presso l’ex valico merci di Karni [chiuso da Israele nel 2011], un impianto di sicurezza installato a ridosso della recinzione perimetrale.

Nelle Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, di Gaza, in almeno dodici occasioni non collegate alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, senza causare feriti. In due casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo ad est di Gaza e Khan-Yunis, nei pressi della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante numerosi scontri, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 21 anni e ferito altri 69. L’uccisione (con arma da fuoco) si è verificata durante un’operazione di ricerca-arresto, svolta il 6 giugno, nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah). Secondo una dichiarazione israeliana, l’uomo aveva lanciato una pietra contro un soldato israeliano che, successivamente, gli ha sparato. Salgono così a cinque, dall’inizio del 2018, i palestinesi uccisi in Cisgiordania, nel corso di manifestazioni e scontri con le forze israeliane. La maggior parte dei ferimenti (60) sono stati segnalati in scontri verificatisi nel corso di dodici operazioni di ricerca-arresto. Il numero più alto di feriti è stato riportato in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguito da quello dei feriti nel corso un’operazione nella città di Nablus e da un’altra operazione svolta nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah). Altri due palestinesi sono stati feriti vicino a Betlemme, con armi da fuoco, in due diversi episodi, mentre cercavano di attraversare la Barriera senza permesso.

L’11 giugno, nella città israeliana di Afula (Israele), secondo quanto riferito, un palestinese ha ferito con coltello una israeliana di 18 anni; l’uomo è stato successivamente colpito e ferito dalle forze israeliane. Il presunto aggressore è stato arrestato; secondo quanto riferito, proverrebbe da Jenin e sarebbe entrato in Israele senza permesso.

Il 13 giugno, in scontri scoppiati durante una manifestazione tenutasi nella città di Ramallah, le forze di sicurezza palestinesi hanno ferito 22 palestinesi, tra cui due minori. I dimostranti protestavano contro le misure punitive imposte dall’Autorità palestinese alla Striscia di Gaza e chiedevano di porre fine alle divisioni interne tra palestinesi. Almeno 40 palestinesi e due giornalisti stranieri sono stati arrestati per un paio d’ore. Una dimostrazione simile si è tenuta nella Striscia di Gaza il 18 giugno, con un ferito. Tutti i ferimenti [di cui sopra] sono stati causati da aggressioni fisiche o inalazione di gas lacrimogeno.

Secondo dati ufficiali israeliani, circa 100.000 palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania, sono entrati a Gerusalemme Est il quarto venerdì di Ramadan (l’8 giugno) attraverso i quattro checkpoints designati lungo la Barriera. Come nelle settimane precedenti, agli uomini sopra i 40 anni e alle donne di tutte le età è stato consentito entrare in Gerusalemme senza permesso. Nessuna autorizzazione è stata invece concessa per il Ramadan dei palestinesi di Gaza.

Il 13 e il 17 giugno, conformemente a quanto stabilito da sentenze della Corte Suprema israeliana, le autorità israeliane hanno evacuato, nei governatorati di Hebron e Salfit, due insediamenti “avamposto” di coloni israeliani [non autorizzati da Israele] e successivamente hanno demolito 28 strutture costruite su terreni privati palestinesi. Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli scontri verificatisi nel corso delle evacuazioni hanno provocato il ferimento di 24 membri delle forze israeliane. A seguito delle proteste di gruppi di coloni, le forze israeliane hanno chiuso le strade vicine, costringendo i palestinesi locali a lunghe deviazioni ed interrompendo il loro accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza.

Nel periodo in esame non sono state registrate demolizioni o confische di strutture palestinesi da parte delle autorità israeliane. Così è stato fin dal 17 maggio (inizio del Ramadan), coerentemente con la prassi registrata negli anni precedenti, quando le demolizioni venivano per lo più interrotte in concomitanza con il Ramadan.

Nella Valle del Giordano settentrionale, per la quinta volta in sei settimane, le forze israeliane hanno sfollato cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a per sei ore, per consentire esercitazioni militari. Questa comunità deve affrontare sistematiche demolizioni, restrizioni di accesso e sfollamenti temporanei che destano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno anche condotto esercitazioni militari notturne nelle vicinanze, e all’interno, del villaggio di Yanun (Nablus); non sono stati segnalati feriti o danni.

In undici episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, sei palestinesi sono stati feriti e quasi 1.200 alberi e cinque veicoli sono stati vandalizzati. Nella zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, hanno fatto irruzione nella casa di un attivista per i diritti umani; qui i coloni hanno aggredito fisicamente l’uomo e ferito la moglie; la sua macchina fotografica e il cellulare sono stati confiscati dalle forze israeliane. Altri quattro palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane, intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani; gli scontri erano conseguenti all’ingresso di coloni nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr Laqif (Qalqiliya). Circa 1.200 tra ulivi e viti sono stati vandalizzati da coloni israeliani in cinque diversi episodi verificatisi a Turmus’aya (Ramallah), Sa’ir (Hebron) e Khalet Sakariya (Betlemme), dove, secondo fonti della comunità locale, su rocce e pareti sono stati trovate scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare”. Il numero di alberi danneggiati dai coloni, dall’inizio del 2018, arriva così quasi a 3.700. Inoltre, in cinque distinti episodi verificatisi sulle strade della Cisgiordania, cinque veicoli palestinesi, incluso uno scuolabus, hanno subito danni a causa del lancio di pietre da parte di coloni israeliani.

Secondo media israeliani, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, ci sono stati almeno quattro casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danneggiamento di due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, durante l’intero periodo di riferimento, è rimasto aperto in entrambe le direzioni, consentendo l’ingresso in Gaza ad un totale di 2.083 persone e l’uscita ad altre 4.375. Il valico è stato continuativamente aperto dal 12 maggio: dal 2014, è il periodo di apertura più lungo. Secondo fonti locali di Gaza, Rafah rimarrà aperto fino a nuovo avviso.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte tra il 19 ed il 20 giugno c’è stata una progressione di attacchi aerei israeliani su Gaza e di lanci di razzi palestinesi verso il sud di Israele; le operazioni si sono concluse senza provocare vittime. Il 14 giugno, in una relazione presentata al Consiglio di Sicurezza, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha avvertito che la situazione a Gaza è “prossima al limite della guerra”.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I bulldozer, i beduini e la pulizia etnica annunciano la morte della soluzione dei due Stati

Peter Oborne

Venerdì 15 giugno 2018, Middle East Eye

Gli abitanti del villaggio beduino di Khan al-Ahmar temono che la loro comunità in Cisgiordania, da tempo minacciata, possa essere demolita entro pochi giorni.

KHAN AL-AHMAR, Cisgiordania occupata – Ci vogliono circa 30 minuti per andare in macchina da Gerusalemme all’ormai condannata comunità beduina di Khan al-Ahmar, situata sull’autostrada per Gerico in Cisgiordania. Ma non c’è un’uscita sull’autostrada. Dobbiamo parcheggiare in una vicina piazzola, scavalcare la barriera metallica, evitare [di essere travolti dal] veloce traffico in arrivo e poi arrampicarci su un ripido pendio per raggiungere il villaggio.

A Khan al-Ahmar abitano 173 persone, molti sono pastori beduini che vivono nella zona da tempi immemorabili. Ma lo Stato di Israele è determinato a demolire il villaggio per fare spazio all’espansione della vicina colonia di Kfar Adumim.

Tre settimane fa, dopo anni di battaglie legali, il governo ha ricevuto dalla Corte Suprema l’autorizzazione a trasferire i beduini. I giudici hanno stabilito che la demolizione può essere effettuata perché i beduini non hanno le licenze edilizie. Ma questa è una mistificazione: i beduini non hanno modo di ottenere i permessi.

Per quanto riguarda i beduini, adesso a loro non resta che attendere l’arrivo dei bulldozer e dell’esercito israeliano che li portino via.

È stato loro assegnato un nuovo luogo per abitare vicino a una discarica a Gerusalemme est. In questa zona urbana, sulla quale non sono stati consultati, non c’è spazio per pascolare le loro greggi e quasi nessuna prospettiva di altri lavori. In realtà i beduini dicono che il luogo che è stato loro proposto per andarvi ad abitare è maleodorante, contaminato, tossico e inadatto perché vi vivano degli esseri umani.

Sono in viaggio con una guida dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Quando raggiungiamo il villaggio incontriamo Ibrahim Jahalin, un pastore. Sua figlia di 11 anni gioca lì accanto. Che cosa farà, gli domando, quando arriveranno i bulldozer?

Perché mai dovrei andare altrove?”, dice. “Sono nato qui. Loro sono arrivati dopo. Noi non ce ne andremo, qualunque cosa accada. Resteremo qui.”

Continue umiliazioni

Questa minaccia di trasferimento è solo l’ultima di una serie di umiliazioni inflitte dagli israeliani ai beduini palestinesi.

Jahalin appartiene ad una tribù espulsa dal deserto del Negev dall’esercito israeliano negli anni ’50. Si sono spostati dove ora c’è la vicina colonia di Kfar Adumim, ma sono stati espulsi anche di là.

Israele nega ai beduini l’accesso ai servizi pubblici e alle infrastrutture di base, come fa con la maggior parte dei palestinesi che vivono nell’area C della Cisgiordania [più del 60% della Cisgiordania, sotto completo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo, ndtr.]. Non hanno accesso alla rete elettrica. Nel 2015 l’amministrazione civile israeliana ha confiscato 12 pannelli solari che erano stati donati ai beduini, anche se poi sono stati restituiti in seguito ad una causa legale.

Non vi è accesso all’autostrada Gerico-Gerusalemme, anche se si trova a circa 100 metri di distanza e mentre parliamo possiamo sentire le automobili che passano.

Ibrahim mi dice: “Ci vogliono dieci minuti per arrivare a Gerico in autostrada. Dato che noi non siamo collegati alla strada, ci impieghiamo mezz’ora.”

Questo isolamento ha conseguenze tragiche. Ibrahim ha perso la sua giovane figlia Aya per un incidente domestico. Attribuisce la responsabilità di ciò ai ritardi nel portarla in ospedale. “È morta, ma poteva essere salvata”, dice.

Io e Ibrahim chiacchieriamo nel cortile della vicina scuola, ascoltando i bambini che cantano nell’aula. E’ previsto che anche questo sito – che ospita oltre 150 alunni, molti dei quali delle comunità vicine – venga demolito.

Parlo a Ibrahim della crescente collera in Gran Bretagna e in Occidente riguardo ai piani di demolizione del suo villaggio. Boris Johnson, il ministro degli Esteri britannico, è “profondamente preoccupato”, e 100 deputati hanno scritto all’ambasciatore israeliano avvertendo che la demolizione potrebbe violare il diritto umanitario internazionale.

Ma i beduini sono comprensibilmente scettici riguardo a quest’ultima manifestazione di preoccupazione da parte dell’Occidente. Tutti sono troppo abituati alle dichiarazioni di sostegno dell’Occidente che non contano niente. Il libro dei visitatori del villaggio suona come un appello di persone importanti. Alistair Burt, sottosegretario agli Esteri per il Medio Oriente, il suo predecessore Tobias Ellwood, Ed Milliband, ex capo del partito Laburista, Valerie Amos, sottosegretaria delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e coordinatrice degli aiuti di emergenza, Martin Shulz, ex capo del partito socialdemocratico tedesco, Emily Thornberry, ministra ombra degli Esteri [del partito Laburista, ndt.], William Hague, ex ministro degli Esteri, sono tra i 60 nomi presenti nel libro. Sono stati tenuti incontri all’ONU, al Parlamento britannico, al Parlamento europeo, in Svezia, in Norvegia. Tutto ciò non ha prodotto alcun effetto su Israele.

Se Israele procede con la demolizione, allora sarà un momento importante nella storia dell’occupazione della Cisgiordania. Nei decenni scorsi Israele ha condotto una politica che, in gran parte, ha evitato il trasferimento forzato della popolazione.

Le autorità hanno invece creato condizioni terribili per i palestinesi, nella speranza che alla fine se ne andassero di propria spontanea volontà. Adesso stanno optando per la deportazione: di fatto la sostituzione di un gruppo etnico con un altro attraverso la violenza.

Questa è pulizia etnica.

Con le parole di B’Tselem: “Questa non è una volgare o insignificante violazione del diritto umanitario internazionale, ma una violazione che costituisce un crimine di guerra.”

Cambio di passo’ nell’occupazione

Dopo la nostra visita a Khan al-Ahmar siamo ritornati sulla strada e siamo saliti alla vicina colonia di Kfar Adumim. Abbiamo costeggiato piccoli negozi, uno studio fotografico ed una scuola elementare. In plateale contrasto con il nostro viaggio al villaggio beduino, l’accesso è facile lungo strade asfaltate. I coloni vivono in confortevoli case distanziate tra loro, con vista spettacolare su un panorama dalle reminiscenze bibliche.

Parcheggiamo in cima alla collina e guardiamo giù verso il villaggio beduino. Mi sono chiesto: che cosa vedono i coloni quando guardano i beduini laggiù? Dei criminali? Dei terroristi? Una specie subumana di cui si può disporre a proprio piacimento?

Ibrahim mi ha parlato di quando alcuni coloni di Kfar Adumim si sono schierati con lui. Sono scesi nella notte a dormire nel suo accampamento in modo da poter essere d’aiuto se arrivavano i bulldozer. Un’ombra di umanità. Ma sono stati i coloni di Kfar Adumim a inviare la petizione per chiedere la distruzione della scuola del villaggio.

Ibrahim mi ha detto: “Temo che accadrà in questo fine settimana, quando c’è la festa per la fine del Ramadan.”

Sembra inevitabile che questa comunità verrà cacciata e diventerà un’altra vittima dell’occupazione. E che sarà un altro passo da gigante verso la creazione di un blocco di colonie urbane che separerà la parte sud e quella nord della Cisgiordania.

Significherà anche un cambio di passo nell’occupazione, in quanto Israele è orientato ad una politica di trasferimento forzato di altre comunità. E la soluzione dei due Stati apparirà sempre più come un sogno infranto.

Peter Oborne nel 2017 ha vinto il premio come miglior commentarista/blogger e nel 2016 è stato nominato giornalista freelance dell’anno del premio per i media online per gli articoli che ha scritto per Middle East Eye. E’ stato anche premiato come editorialista della stampa britannica dell’anno 2013. Nel 2015 si è dimesso da capo editorialista politico del Daily Telegraph. I suoi libri includono: ‘The triumph of the political class’ [Il trionfo della classe politica], ‘The rise of political lying’ [La nascita delle menzogne in politica], ‘Why the West in wrong about nuclear Iran’ [Perché l’Occidente si sbaglia sul nucleare iraniano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 22maggio – 4 giugno (due settimane)

Durante manifestazioni di massa, svolte il 25 maggio e il 1 giugno lungo la recinzione perimetrale che separa Israele da Gaza, le forze israeliane hanno ucciso una donna e ferito altri 170 palestinesi.

Durante il periodo di riferimento di questo Rapporto [dal 22.5 al 4.6] altri sette palestinesi sono morti per le ferite subite durante le manifestazioni delle settimane precedenti. La donna uccisa il 1 giugno aveva 21 anni e stava prestando servizio come volontaria con la Società di Soccorso Medico Palestinese. Funzionari e Agenzie delle Nazioni Unite hanno espresso indignazione per l’omicidio. Un altro palestinese è morto il 5 giugno: il giorno prima era stato colpito dalle forze israeliane a Khan Yunis, vicino al recinto perimetrale. Il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. Le dimostrazioni della “Grande Marcia di Ritorno”, iniziata il 30 marzo, dovrebbero concludersi l’8 giugno.

A Gaza e nel sud di Israele, durante il periodo di riferimento, si è avuto un crescendo di violenza: la più grave dalle ostilità del 2014. In due distinti episodi, verificatisi il 27 e il 28 maggio, a est di Khan Yunis e a nord di Beit Lahia, le forze israeliane hanno aperto il fuoco con carri armati contro postazioni militari palestinesi, uccidendo quattro membri di gruppi armati e ferendone un altro. Nei giorni successivi, gruppi armati palestinesi hanno lanciato più di 150 tra razzi e colpi di mortaio contro Israele. Uno dei razzi è caduto nel nord di Gaza, all’interno di una casa, provocando lievi danni; secondo quanto riportato da media israeliani, la maggior parte dei rimanenti è caduta in aree aperte o è stata intercettata in aria. Tre soldati israeliani sono rimasti feriti e, all’interno di Israele, i danni sono stati limitati, compresi quelli ad un asilo nido. Le forze israeliane hanno effettuato decine di attacchi aerei contro siti militari e aree aperte di Gaza: è stato registrato un ferito e danni ai siti bersagliati; danneggiate anche sette barche da pesca, una struttura produttiva, terreni agricoli e una scuola. L’intensificarsi di violenza è terminata alla fine del periodo di riferimento [di questo Rapporto].

Durante il periodo di riferimento, in particolare nel corso delle dimostrazioni vicino alla recinzione, i palestinesi hanno fatto volare centinaia di aquiloni di carta e palloni gonfiabili caricati con materiali infiammabili che, nel sud di Israele, hanno danneggiato terreni agricoli e colture. Secondo il ministro della Difesa israeliano, le cui dichiarazioni sono state riportate da media israeliani, dei circa 600 aquiloni lanciati, due terzi sono stati intercettati in aria, mentre un terzo ha raggiunto Israele, provocando incendi su una superficie di circa 900 ha.

Il 5 giugno, per carenza di carburante, l’unica Centrale Elettrica di Gaza ha spento la turbina ancora operativa. La Centrale ha cessato di funzionare a causa di dispute irrisolte tra le Autorità palestinesi di Gaza e quelle della Cisgiordania, in merito al finanziamento e alla tassazione del carburante. A Gaza le carenze di energia elettrica comportano interruzioni di corrente di 20-22 ore al giorno, rendendo precaria l’erogazione di servizi, tra cui quelli sanitari, l’acqua potabile, il trattamento dei reflui e l’istruzione.

Per far rispettare le restrizioni di accesso a zone di terra e di mare, in almeno 28 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro agricoltori e pescatori. Hanno anche arrestato quattro pescatori e confiscato una barca. Il 29 maggio, le forze navali israeliane hanno intercettato e sequestrato un natante che, da Gaza, stava tentando di rompere il blocco navale ed hanno arrestato 17 persone presenti a bordo. In due casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Beit Lahiya e Jabalia (a nord di Gaza), ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nei pressi della recinzione perimetrale.

Il 2 giugno, nell’area H2 della città di Hebron, controllata da Israele, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese 35enne che stava lavorando in un cantiere edile. Secondo fonti militari israeliane, l’uomo è stato colpito con armi da fuoco per aver tentato di investire i soldati con un bulldozer. Testimoni palestinesi respingono questa versione ed affermano che l’uomo non si era fermato all’intimazione dell’alt, a causa del forte rumore presente nel luogo in cui si è verificato l’episodio.

In Cisgiordania un soldato israeliano è stato ucciso e 33 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri scoppiati nel corso di operazioni di ricerca-arresto. I maggiori scontri si sono verificati il 26 maggio, durante un’operazione nel Campo Profughi di Al Amari (Ramallah), dove un palestinese ha lanciato una lastra di marmo su un soldato che è morto due giorni dopo per le ferite riportate. In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto, complessivamente, 114 operazioni di questo tipo, arrestando 207 palestinesi, tra cui sette minori. Il più alto numero di operazioni (42), è stato registrato nel governatorato di Hebron, seguito dai governatorati di Gerusalemme (17) e di Ramallah (15).

Durante manifestazioni e scontri, altri 12 palestinesi sono rimasti feriti. Un 15enne palestinese, colpito con arma da fuoco il 15 maggio, durante una manifestazione vicino a Beit El / DCPO, è morto in seguito al ferimento. In Cisgiordania questo è il quarto minore palestinese ucciso, dall’inizio del 2018, nel corso di manifestazioni ed episodi di lancio di pietre. La maggior parte dei ferimenti si è verificata durante scontri scoppiati nelle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel villaggio di An Nabi Saleh (a Ramallah). In due diversi episodi, accaduti vicino a Tulkarem e vicino a Betlemme, altri due palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti mentre stavano cercando di attraversare la Barriera senza permesso.

Secondo fonti ufficiali israeliane, il secondo e il terzo venerdì del Ramadan, le forze israeliane hanno consentito l’ingresso a Gerusalemme Est a circa 87.000 e 122.000 fedeli palestinesi rispettivamente. I maschi sopra i 40 anni e sotto i 12 anni e tutte le donne hanno potuto attraversare i posti di controllo senza permesso, mentre agli altri maschi erano stati concessi dei permessi. I residenti di Gaza non hanno avuto permessi per il Ramadan.

Il 24 maggio, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto le petizioni presentate dalla comunità palestinese beduina di Khan Al Ahmar – Abu al Helu (Governatorato di Gerusalemme), aprendo così la strada per la demolizione del villaggio, motivata dalla mancanza di permessi di costruzione, ed il trasferimento forzato dei suoi 180 residenti. La Comunità ha respinto il piano di trasferimento in un sito vicino, proposto dalle autorità israeliane. Tra le strutture a rischio c’è una scuola finanziata da donatori che serve le comunità beduine della zona. La comunità coinvolta è una delle 18 situate all’interno, o vicine, ad un’area parzialmente destinata ad un piano di insediamento strategico denominata E1. Il 1 giugno, il Coordinatore Umanitario e il Direttore delle operazioni dell’UNRWA, hanno invitato Israele a fermare i suoi piani di demolizioni di massa e di trasferimento della Comunità.

Nel periodo in esame non sono state registrate demolizioni o confische. Ciò è in accordo con la prassi, già riscontrata negli anni precedenti, di interrompere le demolizioni durante il mese del Ramadan.

In un caso, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per sei ore, cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a, nella Valle del Giordano settentrionale. Questa comunità affronta sistematiche demolizioni, restrizioni di accesso e sfollamenti temporanei che sollevano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato.

In Cisgiordania, in episodi che hanno visto coloni israeliani come protagonisti, tre palestinesi sono rimasti feriti e oltre 1.200 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. In due distinti casi, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito tre uomini palestinesi nel quartiere di Sur Bahir, a Gerusalemme Est e vicino al villaggio di Urif (Nablus). Nell’ultima località, un gruppo di 30 coloni israeliani ha aggredito, con pietre e bastoni, un uomo di 71 anni che stava pascolando le pecore, innescando scontri con i residenti della zona. A seguito di tali scontri, sono intervenute le forze israeliane che hanno ferito due palestinesi. Secondo fonti della Comunità, in sei distinti episodi, sono stati vandalizzati da coloni israeliani circa 1.265 alberi e colture su terre appartenenti a palestinesi di Ein Samiya e Kafr Malik (entrambi a Ramallah), ‘Urif (Nablus), Khallet Sakariya (Betlemme), Bani Na’im ed Halhul (entrambi in Hebron).

I media israeliani hanno riportato nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani; non sono stati segnalati feriti, ma un veicolo è stato danneggiato.

Le autorità egiziane avevano annunciato l’apertura del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto per tutto il mese del Ramadan. Tra l’apertura, avvenuta il 12 maggio, e la fine del periodo di riferimento [4 giugno] sono state registrate 8.786 uscite da Gaza e 1.587 ingressi. Dal 2014, questa è la più lunga apertura continuativa del valico di Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 6 giugno, nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah), durante scontri scoppiati nel corso di un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 21 anni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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