Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La crisi per la corruzione di Netanyahu: ne faranno le spese i palestinesi

Danny Rubinstein

Giovedì 15 febbraio 2018, Middle East Eye

L’iniziativa di imputare il primo ministro israeliano per corruzione potrebbe spingerlo ancor di più nelle braccia della destra nazionalista: i palestinesi ne subiranno le conseguenze

In quanto anziano giornalista israeliano che ha scritto di palestinesi praticamente fin dalla fine della guerra del 1967 [la “guerra dei Sei Giorni”, ndt.], desidero testimoniare che nelle ultime settimane i palestinesi hanno continuato a dire che la loro situazione attuale è la peggiore di sempre.

Ed è ulteriormente peggiorata in seguito al terremoto politico provocato dalla raccomandazione della polizia israeliana che Netanyahu venga imputato di corruzione. Più la situazione di Netanyahu vacilla, più dovrà appoggiarsi alla sua base tradizionale: la destra ed i coloni. Ed il prezzo verrà pagato dai palestinesi. Per spiegare il rapporto tra Netanyahu ed i palestinesi dobbiamo tornare indietro a un episodio del suo passato.

Qualche anno fa, durante una sorta di incontro a Gerusalemme tra israeliani e palestinesi, il poeta israeliano Avoth Yeshurun (il nome d’arte di Yehiel Perlmutter), si alzò e si rivolse al poeta arabo Hanna Abu Hanna.

Solo un poco”

Yeshurun spiegò di essere arrivato come un pioniere nella terra di Israele, dopo le persecuzioni in Europa, per costruire una nuova società ebraica, una società giusta. Parlò a lungo della sua scoperta di una società ed una cultura arabe che per centinaia di anni erano state all’avanguardia della civilizzazione nel mondo. “Voi arabi siete grandi e forti,” disse.

Avete avuto le prime scuole di medicina al mondo; avete portato l’algebra in Europa insieme al sistema decimale e allo zero; avete rilanciato la filosofia aristotelica; avete guidato il mondo nell’arte, nella poesia, nella scienza, nella geografia e nell’astronomia, e avete rapidamente conquistato la vastità dell’Est e parte dell’Europa.”

Yeshurun guardò Hanna Abu Hanna e gridò: “Ecco quello che vi chiedo: spostatevi un poco, solo un poco. Voi dominate dall’oceano occidentale (il Marocco) fino al Golfo Persico, 300 milioni di persone, lasciate un po’ di spazio per noi, spostatevi un poco, solo un poco!!!”

Ricordo molto bene quell’incontro perché chi parlò dopo fu un anonimo giovane arabo che si alzò per affrontare Avoth Yeshurun e disse, in sostanza: “Cosa intendi per spostarci un poco? Cosa sarebbe un poco? Sono nato a Jaffa e tutta la mia famiglia vi aveva vissuto per centinaia di anni, e non mi sono spostato un poco, mi sono spostato di un bel po’, mi sono spostato del tutto. Noi siamo rifugiati. Abbiamo perso tutto. La casa e il giardino sono persi, la famiglia si è sparpagliata dappertutto. Questo è ‘un poco’?”

Debole – e forte

Tra i palestinesi che ho conosciuto, c’è sempre stata una tensione tra la loro identificazione come arabi e quella come palestinesi. In quanto arabi fanno parte di una nazione vasta, potente e prospera, ma come palestinesi sono deboli e impotenti. Recentemente abbiamo commemorato i 100 anni dalla emanazione della dichiarazione Balfour (novembre 1917), che nella cronologia palestinese è considerata l’inizio del conflitto tra la Palestina ed Eretz Yisrael [la Terra di Israele, ndt.].

E nel corso di questo secolo i palestinesi hanno continuamente cercato l’aiuto del grande e potente mondo arabo nella loro lotta contro l’Yishuv (pre-Stato) ebraico [la comunità degli ebrei sionisti in Palestina prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ndt.] prima e contro Israele poi. I Paesi arabi tentarono di aiutare i palestinesi. Ci furono un tentativo durante la rivolta araba del 1936-39 e ovviamente le guerre del 1948 e poi del 1967 e dell’ottobre 1973. Ma tutti questi tentativi fallirono.

Spesso a Yasser Arafat è stato chiesto cosa avesse determinato il problema palestinese ed egli ha sempre dato la stessa risposta: “Siamo stati traditi dagli arabi.” Arafat pensava che gli arabi avessero tradito i palestinesi quando firmarono l’armistizio del 1949 con Israele, e che li tradirono di nuovo quando non consentirono ai palestinesi di continuare la loro lotta popolare contro Israele.

Lui stesso venne incarcerato in Egitto quando era studente al Cairo. In seguito fu imprigionato in Libano, in Siria (1966), e perseguitato in Giordania durante il “Settembre Nero” [repressione dei palestinesi da parte dell’esercito giordano, ndt.] nel 1970. La ragione fu sempre la stessa: Arafat e i suoi nazionalisti palestinesi lealisti chiedevano che gli Stati arabi li aiutassero a lottare – e ormai da molto tempo i governanti arabi si sono rifiutati.

Il “tradimento arabo” dei palestinesi continua tuttora – più che mai. Si prenda, ad esempio, l’Egitto, lo Stato arabo più grande e forte e quello che ha lottato per i palestinesi più di quanto abbia fatto qualunque altro Paese arabo. Il regime del Cairo sotto il generale al-Sisi è in una pessima situazione. Oggi la popolazione egiziana è circa di 100 milioni di abitanti. I problemi economici sono senza precedenti.

Una volta il presidente Sadat disse a noi, un gruppo di israeliani, che comprendeva i problemi di sicurezza di Israele. “Avete sempre paura che gli arabi vi attacchino, ma la nostra paura è diversa: ogni giorno temiamo che, alla sera, non avremo abbastanza da mangiare.”

Oltre alla terribile sfida economica di alimentare un centinaio di milioni di egiziani, il regime del Cairo è minacciato dai gruppi estremisti islamici. L’ISIS [lo Stato islamico, ndt.] è attivo nella penisola del Sinai; recentemente ha operato un attacco contro una moschea a ovest di El Arish e ucciso più di 300 fedeli. Il generale al-Sisi ha grandi problemi ad affrontare l’estremismo islamico.

In questo contesto posso immaginare il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che arriva per un incontro al Cairo con al-Sisi e gli dice: “Mi devi aiutare. Gli israeliani hanno costruito altre 50 unità abitative nella loro colonia di Ma’ale Adumim ed hanno espulso e demolito le case di decine di famiglie palestinesi, e un soldato ha arrestato una ragazza a Nabi Saleh, nei pressi di Ramallah…”

In un immaginario scenario piuttosto stravagante come questo, il generale al-Sisi starebbe pensando che Abu Mazen ha perso la testa. L’Egitto sta affrontando problemi di vita o di morte di decine di milioni di persone e Abu Mazen sta parlando al leader egiziano di qualche casa mobile parcheggiata in qualche colonia. Questi sono i problemi dei palestinesi?

In questo contesto la cooperazione militare e di intelligence tra Israele e l’Egitto è migliore di quanto non sia mai stata. Israele aiuta l’Egitto nella sua guerra contro gli estremisti islamici nel Sinai. L’Egitto è diventato un vero alleato di Israele.

La situazione è simile tra Israele e la Giordania, dove il re Abdullah ha problemi economici da affrontare, con centinaia di migliaia di rifugiati siriani, e deve respingere militanti islamici sulle frontiere con la Siria e l’Iraq. La cooperazione di intelligence tra Israele ed Amman è un fatto consolidato e ben noto da molto tempo.

Alleati arabi

E c’è di più. C’è anche una cooperazione politica di livello piuttosto alto tra Israele, Arabia saudita ed Emirati. Israele, i sauditi e gli Stati del Golfo hanno un nemico comune: l’Iran. I sauditi stanno combattendo gli iraniani in Yemen – dove gli iraniani lanciano missili verso il territorio saudita – così come sul suolo siriano e libanese. Quindi ha preso forma una specie di alleanza strategica tra Israele e gli Stati arabi sunniti contro l’Iran sciita. Tutto sotto il patrocinio del presidente americano Donald Trump.

In Medio Oriente i palestinesi non hanno prospettive. Assolutamente nessuna. Nessun Paese arabo li aiuterà, ma potrebbe piuttosto danneggiarli. Benjamin Netanyahu ed il suo governo lo sanno. Possono fare tutto quello che vogliono ai palestinesi. E quindi il governo israeliano di destra continua a costruire e sviluppare le colonie della Cisgiordania.

Il 60% della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è controllato da Israele, è stato quasi completamente annesso a Israele. Praticamente ogni settimana sentiamo di nuove leggi o regolamenti che discriminano gli arabi in Cisgiordania e in Israele. Nell’ultima settimana, per esempio, è stata approvata una legge speciale per accordare all’università della colonia di Ariel lo stesso status di cui godono le istituzioni accademiche all’interno di Israele.

Riguardo a Gaza, non c’è praticamente più niente da dire. I due milioni di palestinesi a Gaza sono stati sotto assedio per un decennio. Gli egiziani ed il regime di Ramallah fanno molto poco per aiutarli. Il risultato è che Gaza è sull’orlo di un disastro umanitario di massa. C’è energia elettrica solo da quattro a otto ore al giorno. L’acqua non è potabile. La disoccupazione è circa del 50%. L’economia è limitata alla generosità delle organizzazioni umanitarie internazionali, guidate dall’ONU, che recentemente hanno fatto notizia quando Trump ha annunciato progetti per ridurre drasticamente il loro bilancio.

Non tanto bene

Come già detto, oggi la situazione dei palestinesi è la peggiore da molto tempo a questa parte. Una società frammentata sprofondata nell’indigenza e sottoposta al potere limitato dell’Autorità Nazionale Palestinese, le cui forze di sicurezza sono diventate, in gran parte, complici di Israele.

Molti israeliani pensano che, finché i palestinesi stanno male, noi qui in Israele stiamo bene.

È così nei conflitti a somma zero. Ma nel nostro caso, non è così.

In Israele ci sono ambienti progressisti che pensano che anche noi siamo in una brutta situazione. Ormai da qualche tempo qui molte organizzazioni dei diritti umani hanno operato come l’opposizione più decisa al governo di Netanyahu.

La prova sta nella dura campagna di attacchi del regime contro le Ong. “Breaking the Silence” e i suoi soldati della riserva apertamente critici contro la condotta dell’esercito in Cisgiordania, “B’Tselem”, “Machsom Watch”, l’“Association for Civil Rights in Israel” [“Associazione per i Diritti Civili in Israele, ndt.], il “New Israel Fund” [“Nuovo Fondo Israele, ndt.]: tutte esistono da almeno 20 anni, ma solo ultimamente il governo Netanyahu le ha definite come il “Nemico numero uno”.

Netanyahu gode di ampio prestigio internazionale. È invitato nelle capitali internazionali, da Delhi a Varsavia, da Mosca a Washington. I suoi problemi sono principalmente in patria. Le critiche sono per lo più degli ambienti progressisti, all’interno di Israele, che non possono sopportare la realtà di quanto sta succedendo ai palestinesi. Egli sostiene sempre che tutte le critiche dirette contro il suo comportamento corrotto vengono da circoli progressisti di sinistra che cercano di rovesciare il suo governo.

Persino la raccomandazione della polizia di imputarlo di corruzione è vista da Netanyahu come nient’altro che un ulteriore tentativo politico da parte della sinistra traditrice di fare un colpo di stato. Quindi il grande timore è che l’attuale situazione lo spinga ancor di più nelle braccia della destra nazionalista e verso nuovi passi contro i palestinesi e contro i suoi nemici di sinistra. Mentre la presa di Netanyahu sul potere si indebolisce, i palestinesi e la sinistra progressista in Israele rischiano di pagarne il prezzo.

Danny Rubinstein è un giornalista e scrittore israeliano. In precedenza ha lavorato per “Haaretz”, dove è stato analista delle questioni arabe e membro del comitato editoriale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Mike Pence ha appena confermato l’uscita dell’America dal processo di pace in Medio Oriente

Sam Bahour

23 gennaio 2018, Haaretz

Quando Pence afferma: ‘Noi stiamo con Israele. La vostra causa è la nostra causa, la vostra lotta è la nostra lotta’, è chiaro che l’America è interessata solamente ad offrire ad Israele un cieco appoggio politico e ad abbandonare i palestinesi. Una vera pace ora non può che significare aggirare l’amministrazione USA

Il vicepresidente USA non avrebbe potuto dirlo più chiaramente.

Sono qui per trasmettervi un solo semplice messaggio. L’America sta con Israele. Noi stiamo con Israele perché la vostra causa è la nostra causa, i vostri valori sono i nostri valori e la vostra lotta è la nostra lotta,” ha detto lunedì alla Knesset (il parlamento) israeliana.

Ha rilanciato il piano dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ed ha ripetuto come un mantra l’affermazione che la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele era giustificata in quanto “dato di fatto”. Il termine ‘palestinese’ non è stato quasi pronunciato e ‘Palestina’ – neanche una volta.

Pence ha anche detto che gli USA avrebbero sostenuto una soluzione dei due Stati, ma solo se entrambe le parti l’avessero appoggiata – ribadendo la posizione di Trump quando ha fatto l’annuncio. Che cosa significa? Che gli USA stanno rinunciando alla soluzione dei due Stati. Uno Stato palestinese sovrano non è più un obbiettivo necessario e centrale della politica estera americana.

Donald Trump, a quanto pare, non farà niente per bloccare o disapprovare l’accelerata costruzione di colonie da parte di Israele, o l’autorizzazione retroattiva degli avamposti costruiti su terre private palestinesi, avendo ammorbidito la vecchia e stanca retorica statunitense di “le colonie sono un ostacolo alla pace” con “le colonie potrebbero non aiutare” la pace. Quindi la loro costruzione continuerà, indefinitamente.

L’impresa coloniale israeliana ha acquisito, e gli USA hanno volontariamente venduto, tempo e spazio per consolidarsi, rendendo così sempre più impossibile la realizzazione di una soluzione di due Stati.

Alla luce di questa realtà, la comunità internazionale deve ora riconoscere che l’approccio “a guida USA” alla soluzione del conflitto israelo-palestinese è destinato al fallimento. Non vi è ora alcun dubbio che l’inafferrabile pace non si verificherà mai durante la presidenza Trump. È assolutamente chiaro – dopo due decenni di negoziati falliti sotto gli auspici USA – che la leadership americana è inutile e controproducente negli sforzi per la soluzione di questo conflitto.

Se la comunità internazionale intende ottenere due Stati per due popoli dovrà perseguire una posizione politica indipendente che aggiri gli americani. L’influenza politica della comunità internazionale in questo ambito è stata a lungo irrilevante, dato il monopolio USA sul processo di pace. Adesso è il momento che si faccia sentire.

La comunità internazionale per troppo tempo si è affidata alla leadership sbagliata. Questo tragico errore storico non solo è costato miliardi ai contribuenti della comunità internazionale, ma ha anche condotto ad una realtà diametralmente opposta a ciò che intendevano i responsabili delle politiche globali.

Dopo 24 anni, la fiducia nella “leadership” americana ha portato alla creazione di tanti bantustan palestinesi, finanziati dai contribuenti europei, circondati da una potenza militare occupante che continua ad occupare impunemente: l’UE ed i suoi Stati membri sono di gran lunga i maggiori donatori nei confronti dei palestinesi.

Israele – entusiasta che una parte terza intenda sovvenzionare la sua occupazione militare – continua ad ampliare e consolidare la sua impresa coloniale, con il sostegno di ampi settori dell’opinione pubblica e del governo americani.

Storicamente USA e UE hanno condiviso il comune obbiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese nella cornice di una soluzione a due Stati. Ma da quando Trump occupa la Casa Bianca ed i repubblicani ora controllano i tre poteri del governo USA, vi è stato un significativo slittamento a destra nella politica del partito repubblicano verso Israele e Palestina.

Al contrario, gli europei si sono mossi verso un riconoscimento dello Stato di Palestina. Il riconoscimento svedese è ora ufficiale, mentre i parlamenti di Regno Unito, Irlanda, Spagna, Francia, Lussemburgo, insieme al Parlamento Europeo, hanno tutti approvato il riconoscimento. In seguito alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, tutto indica che più Paesi andranno verso il riconoscimento della Palestina per salvaguardare la soluzione dei due Stati.

L’America sostiene l’occupazione israeliana. L’Europa senza volerlo la sovvenziona. L’amministrazione Trump farà ben poco per contrastare il suo stesso partito o rischiare la collera dell’influente lobby israeliana negli USA, favorevole alle colonie. Trump continuerà a difendere l’approccio di non intervento, “tocca alle due parti decidere”. Il risultato è che Israele, che ha tutto il potere, è poco incentivato a fare concessioni, mentre i palestinesi, che non hanno potere e dovrebbero essere “protetti” in base al diritto internazionale, sono lasciati alla loro disperazione.

L’America è parte del problema

L’intransigenza di Israele e la sua palese violazione del diritto internazionale sono alimentate dalla sicurezza che, qualunque cosa faccia, gli USA lo proteggeranno sempre da un serio biasimo. La disperazione palestinese si basa sulla convinzione che l’enorme sostegno americano ad Israele renda inutili i negoziati, in quanto Israele ha poco interesse a fare concessioni, ricevendo così tanto denaro, armi e cieco sostegno politico.

Quindi che cosa può fare la comunità internazionale, più che votare contro la dichiarazione di Trump nelle varie istanze delle Nazioni Unite? La comunità internazionale può rimboccarsi le maniche, gestire una politica forte e affrontare l’occupante senza aspettare che la leadership americana ottenga risultati.

Se le esperienze di Bosnia, Kosovo, Timor est e Sudafrica insegnano qualcosa, un occupante o un regime di apartheid cambieranno direzione solo attraverso un’articolata combinazione di sanzioni, isolamento internazionale e, come ultima risorsa, forza militare.

La comunità internazionale deve cogliere l’occasione e dimostrare ai suoi componenti che l’Europa sta sprecando il suo denaro e la sua credibilità indulgendo al gioco americano dell’imparzialità. È chiaro che l’America non ha scrupoli morali o politici a che Israele resti una forza di occupazione. Una volta che la comunità internazionale finalmente riconoscerà questa realtà e andrà avanti, troverà la forza e la legittimazione per proporre politiche proprie, conformi al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite ed ai propri standard morali.

Sam Bahour è un analista politico per ‘Al-Shabaka: rete di informazione politica palestinese’ ed è membro del segretariato del Gruppo di Strategia per la Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale

Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.

Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina

Seri dubbi

Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

Palestinesi si dirigono verso un checkpoint israeliano  / AFP PHOTO / Musa AL SHAER

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.

Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

 




Faranno un deserto e lo chiameranno pace?

Jeff Halper, La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Edizioni Epoké, Alessandria 2017, pp. 338, euro 16,00.

 Francesco Ciafaloni

L’ultimo libro di Jeff Halper, antropologo ed attivista politico ebreo americano, cittadino israeliano dal ‘73, promotore del movimento contro la distruzione delle case dei palestinesi (ICAHD), attivo nel boicottaggio di Israele, segna una discontinuità netta rispetto ai suoi libri precedenti nei problemi affrontati, nelle fonti usate, nel modo di usarle, nella scrittura. Siamo abituati ad un autore che scrive di ciò che fa, di persone umane, di dolore e danno da evitare, di solidarietà e uguaglianza da costruire, di resistenza non violenta, di scuola e libri di testo. Scopriamo che questa volta si occupa di Sistema mondo, di imposizione della sicurezza (dei potenti, contro il popolo) con le armi, di egemonia globale del centro sulle periferie e delle élite transnazionali sul centro, del ruolo di Israele nella sicurezza globale, di sistemi d’arma, di potenziamento dei soldati, di robot e droni da combattimento, di logistica, di servizi segreti e manipolazione dell’informazione, di strategie: della guerra reale o minacciata, in una parola, come mezzo per controllare il mondo. Del resto è esattamente ciò che promette il titolo. La sorpresa è che qui non si racconta la storia di una guerra in atto. Si descrivono invece i mezzi, le tecniche, i linguaggi, le alleanze con cui si prepara una guerra globale possibile, eternamente minacciata al mondo intero, parzialmente realizzata ove necessario. Si descrive il ruolo importante che Israele ha nel fornire quei mezzi e quelle tecniche ai potenti che li richiedano. Si sostiene che quei mezzi e quelle tecniche, e le alleanze che essi consentono, sono determinanti per confermare il dominio di Israele sulla terra tra il Giordano ed il mare e il suo potere in Medio Oriente.

È questo perdurante dominio la causa della discontinuità. Abbiamo lasciato Jeff Halper in piedi davanti ad un bulldozer israeliano per impedire la distruzione di una casa palestinese. Lo ritroviamo, nelle conclusioni del volume, ad ascoltare lo storico e sociologo statunitense Immanuel Wallerstein che parla di economia mondo e attribuisce la debolezza della propria parte politica alla impossibilità di delineare una alternativa globale allo stato di cose presente. Perché?

La risposta dell’autore è che non si spiega il successo di Israele nel sopravvivere alla condanna morale per le sue politiche di occupazione discriminante ed oppressiva, la sua capacità di tenere sotto controllo gli occupati e di sconfiggere e reprimere chi protesta, senza mettere in conto la sua forza militare, non solo sul campo, che sarebbe ovvio, ma su scala globale; la possibilità di stringere alleanze vendendo tecnologie ed armi, offrendo se stessa come modello di repressione, di pacificazione, di guerra contro il popolo. Non si può andare avanti a cercare di impedire una demolizione dopo l’altra senza cercare di spiegare perché la parte propria, che dovrebbe essere politicamente vincente, almeno sul piano internazionale, finisca invece sempre isolata, sconfitta dall’indifferenza, senza cercare di capire e contrastare l’origine, i mezzi, della forza del nemico.

Non credo sia fuori tema osservare che un sociologo italiano morto non molto tempo fa, Luciano Gallino, è stato costretto dalle cose ad una discontinuità simile. Dopo aver passato buona parte della vita ad occuparsi di lavoro ed organizzazione del lavoro in fabbrica, di significato e storia del significato dei concetti della propria disciplina, ha finito occupandosi di finanza, di sociologia mondo, di sociologia del possibile, di teoria critica della società, di responsabilità etica degli scienziati. Se il sistema della oppressione diventa intrinsecamente globale, bisogna ripensare criticamente come funziona il mondo. Se sono globali la produzione e il trasporto delle merci, oltre alla comunicazione e all’informazione, bisogna occuparsi non solo dei precari che lavorano per la logistica o dei ragazzi in bicicletta con lo zaino fucsia di Foodora ma anche di logistica come sistema globale.

Quindi Jeff Halper ha fatto benissimo ad allargare il campo della sua analisi. Forse non tutti gli aspetti affrontati sono però ugualmente utili e necessari per noi lettori. Penso che l’autore dimostri a sufficienza la solidità della propria tesi di fondo, cioè l’importanza della vittoria ideologica su scala mondiale e della connessione, tecnica e militare, con le potenze dominanti, ed ancor più con quelle periferiche, per il successo politico ed economico dello Stato di Israele. Il mondo è peggiorato. Sono talmente tanti gli Stati che fanno alle loro minoranze e ai loro vicini ciò che Israele ha fatto e fa ai palestinesi che le eventuali condanne di alcuni governi restano puramente verbali.

Non è detto però che le descrizioni di tecniche, armi, linguaggi, strategie, siano tutte indispensabili. Alcuni di noi sono nati, come me, prima dell’ultima guerra mondiale, hanno conservato l’abitudine di cercare di capire come funzionano le armi e leggeranno e controlleranno. Ma si può essere convinti della superiorità tecnica di alcuni sistemi d’arma israeliani anche senza sapere come funzionano, perché abbiamo visto in televisione gli effetti del loro uso. Anche senza conoscere i mezzi per potenziare le capacità fisiche e mentali dei combattenti che gli eserciti moderni cercano di mettere a punto, siamo già convinti che gli strumenti di cui dispongono gli danno considerevoli vantaggi su quelli che si ribellano al loro dominio. I quali però non si lasciano sconfiggere senza reagire.

Perciò il libro mi sembra fin troppo pessimista. Non tiene conto di una vecchia massima che, in metafora, è utile anche oggi: “Con le baionette si possono fare molte cose, ma non sedercisi sopra.” Per le potenze dominanti è facile sconfiggere gli eserciti dei paesi periferici; è impossibile governarne le città.

Forse l’autore sostiene che il dominio dell’informazione unito alla superiorità militare e a un sistema globale di alleanze e complicità può pacificare il mondo, cioè dominarlo di fatto, senza un vero consenso, senza una vera pace. Può avere ragione in generale o aver ragione su alcuni punti e torto su altri. Bisogna leggere il libro e controllare le singole affermazioni, in biblioteca e in rete, per cercare di capire cosa succede davvero quando la televisione ci porta in casa i fuochi d’artificio dell’ultima impresa militare, percepire la gravità delle tragedie delle vittime.

Se si ascoltano alla radio o si guardano in televisione i resoconti di alcuni eventi di questi giorni (23-24 gennaio) si trovano delle conferme alla tesi del libro della centralità del controllo globale della forza, ma anche delle difficoltà del dominio dei militarmente forti.

Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso, entusiasticamente accolto dalla maggioranza, alla Knesset, ripetendo, con più dettagli, la promessa del trasferimento della capitale di Israele a Gerusalemme, dove, secondo lui, avrebbe dovuto stare fin dalla fondazione dello Stato, sottolineando il significato salvifico per il mondo dell’alleanza e della identità di valori tra Israele e Stati Uniti. I deputati palestinesi che hanno protestato sono stati prontamente sospinti fuori dalla sala da commessi con kippà. Hanan Ashrawi, storica dirigente palestinese, che abbiamo sentito in passato parlare con eloquenza e competenza, durante un programma della BBC è apparsa recriminatoria e prolissa, è stata interrotta dal conduttore – “Perché nascondete la testa sotto la sabbia?” – non ha retto il confronto con il lapidario e trionfalistico intervento del portavoce dei vincitori. Il vento che spira sul mondo è contro di lei. L’alleanza ideologica e militare tra la potenza dominante globale e quella locale ha il vento in poppa.

Ma la farebbero male i vincitori a inorgoglirsi troppo della supremazia militare e dell’appoggio americano.

I saggi amici della Prussia le dicono sottovoce, non come minaccia ma come avvertimento: Vae victoribus!” [Guai ai vincitori] – scrisse Renan nel 1870, subito dopo la sconfitta francese nella guerra franco-prussiana.

Francesco Ciafaloni, nato il primo agosto 1937 a Teramo, ha lavorato come ingegnere del petrolio per l’Agip dal 1961 al 1966. È stato redattore di Paolo Boringhieri dal ’66 al ’70 e poi di Giulio Einaudi dal ’70 alla crisi dell’inizio degli anni ’80. Da allora ha lavorato soprattutto coi migranti, prima alle dipendenze della Cgil, poi come volontario. Ha lavorato per il “Comitato oltre il razzismo”. Attualmente collabora con i mensili “Una città” e “Gli asini” e con il sito “Workingclass”.




ISRAELE E I MITI SIONISTI (II)

Joseph Halevi

Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171

Seconda parte

rproject.it

Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico. In verità nessuna entità statuale ove é in atto una colonizzazione a scapito della popolazione autoctona é definibile come democratica: si veda il caso dell’Australia ove fino al 1967 gli aborigeni, già violentemente decimati durante il diciannovesimo secolo, non venivano nemmeno contati nei censimenti. Eppure l’Australia era considerata una fiorente democrazia, il che significa che il termine è perfettamente malleabile a piacere senza un valore universale. Il settimo capitolo del volume di Pappé si prefigge di dimostrare la fallacia insita nella propaganda americano-israeliana riguardo l’unica democrazia nel Medioriente. Il capitolo é più incisivo di quello precedente appena discusso.

Pappé inizia osservando che la visione di Israele nel mondo, condivisa anche da rispettabili autori palestinesi, é che, dopo la guerra del 1967, il paese pur incorrendo in delle difficoltà con l’occupazione e il dominio sui palestinesi, rimane comunque uno Stato democratico. Scrive però Pappé che anche prima del 1967 in nessun modo poteva lo Stato d’Israele essere considerato democratico; a meno che, aggiungo, non si consideri la democrazia applicabile solo ad una parte della popolazione. A questo punto l’autore passa in rassegna le misure e le politiche di repressione nei confronti dei pochi palestinesi scampati alla Naqba. Nei due anni che trascorsero dalla fine della guerra del 1948-49 il parlamento, la Knesset, incorporò le leggi speciali di emergenza varate dalle autorità britanniche nel 1945 durante gli anni del terrorismo sionista dell’Irgun di Begin e compagnia, ma che non era soltanto una prerogativa della destra bensì vi partecipava anche l’establishment socialista-sionista. (10) La popolazione palestinese rimasta venne sottoposta ad un governatorato militare retto dalle leggi di emergenza, le stesse che al tempo del dominio britannico tutte le organizzazioni sioniste denunciarono come di stile nazista. La conseguenza fu la totale assenza di uno stato di diritto per questa popolazione che in teoria avrebbe dovuto godere di tutti i diritti in quanto formalmente di cittadinanza israeliana. Il governatore militare poteva – in maniera assolutamente insindacabile – requisire case, espellerne ed arrestarne gli abitanti, confiscare terreni, revocare permessi. Il governatore poteva dichiarare delle aree chiuse per motivi di sicurezza rendendo ‘illegali’ casolari e agglomerati di abitazioni palestinesi ubicate dentro queste aree che poi venivano assegnate a insediamenti che per statuto erano esclusivamente ebraici. Tale pratica continua tutt’oggi con la messa fuori legge di agglomerati beduini nel Negev a sud di Tel Aviv. Accadeva e accade, che dei palestinesi fossero – e siano ancora – condannati per aver violato un’area chiusa di cui erano o sono proprietari. (11) Spesso i villaggi palestinesi erano sottoposti a coprifuoco e fu in queste circostanze che, sottolinea Pappé, alla vigilia della guerra del 1956, accadde il massacro di Kafr Qasim che costò la vita a 49 palestinesi. Sul villaggio, assieme ad alcuni altri nelle vicinanze, il coprifuoco scattò quando molte persone erano ancora al lavoro nei campi per cui man mano che rientravano, ignare della decisione del governatore militare, venivano uccise dall’esercito israeliano. Tale evento non fu casuale: Pappé scrive che l’eccidio va inquadrato nell’ambito dell’operazione “Talpa”, un piano di espulsione dei restanti palestinesi in caso di un nuovo conflitto con i paesi arabi e il massacro di Kafr Qasim costituiva un test circa la propensione della restante popolazione palestinese a fuggire oltre la linea verde. Malgrado il governo di Ben Gurion avesse cercato di occultare l’eccidio, questo fu portato alla luce del sole grazie all’attività dei deputati comunisti e di un deputato del partito socialista sionista Mapam. Il processo che seguì inflisse delle pene molto leggere seguite da ulteriori condoni.

Gran parte delle leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi passano, senza mai menzionare i soggetti verso cui sono dirette, attraverso il fatto che gli arabi israeliani sono esenti dal servizio militare. Ad esempio, disposizioni riguardo l’usufrutto di servizi sociali o di altri tipi di sovvenzioni includono la clausola che i richiedenti devono aver effettuato il servizio militare. Nella popolazione ebraico-israeliana – la sola che veramente conti dato che gli altri ci sono perché o l’esercito non ha fatto in tempo a cacciarli via o perché sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro paesi e/o a nascondersi in villaggi vicini a quelli investiti dal terrorismo dell’Haganà –  l’esonero dei palestinesi dall’esercito fornisce la giustificazione circa la natura non razzista delle misure di discriminazione. Meritatamente Pappé porta a conoscenza del grande pubblico la vera storia dell’esclusione dalla leva dei palestinesi israeliani. A metà degli anni ’50 il governo israeliano mise i palestinesi di fronte alla prova, chiamandoli ai centri di reclutamento dell’esercito. Sollecitati anche organizzativamente dal Partito Comunista d’Israele, che era la maggiore formazione politica tra i palestinesi israeliani e la sola forza di ricostituzione della loro identità palestinese, i giovani in età di leva accorsero in massa con grande sorpresa del governo. Colte in contropiede le autorità non ripeterono mai più l’esercizio ma hanno da sempre usato la falsa scusa del rifiuto palestinese di servire nell’esercito per giustificare le misure discriminatorie.

L’arbitrio del regime militare verso i palestinesi era totale. Non solo i coprifuoco erano ingiustificati e applicati per terrorizzare la popolazione palestinese ma i soldati potevano intimare l’alt e sparare, anche su bambini, in condizioni ‘normali’. Avendo, una parte di quegli anni, vissuto da ragazzo in Israele come figlio di una famiglia dell’establishment sionista socialista, posso dire che la segregazione era totale. Pappé scrive che il governatorato militare proibiva ai palestinesi l’accesso al 93% del territorio nazionale. Per noi ‘ebrei’ del luogo, Israele era – ed é per gli ‘ebrei’ israeliani di oggi – un paese liberissimo di cui si poteva e si può dire peste e corna fermo restando il fatto che gli ‘arabi’ volevano e vogliono ‘distruggerci’ e quelli rimasti in Israele – una potenziale quinta colonna – dovevano ringraziarci per tollerarli. In ogni caso, la Terra d’Israele è nostra da oltre 3000 anni, eccetera.  Noi ‘ebrei’ abbiamo quindi ragione a priori!

Benché sottoposti al regime militare i palestinesi israeliani potevano votare e questo, dal lato propagandistico, cancellava ogni discriminazione. Guardando poi da vicino si scopre che la situazione era ed é assai diversa, ma su questo tema rinvio ad un altro lavoro di Pappé. (12) La situazione, allargando il tema trattato da Pappé, era gravissima per i palestinesi cittadini israeliani di terza o quarta classe col diritto di voto come foglia di fico che copriva la realtà effettiva. L’assenza per loro di uno stato di diritto significava essere esposti ad uccisioni da far west. Ben Gurion era consapevole dello stato di cose e ne era preoccupato non per ragioni di democrazia verso i palestinesi  ma perché pensava che gli assassinii compiuti dai soldati verso gli arabi israeliani potessero ripercuotersi sull’immagine di Israele. Di recente Gidi Weitz di Ha-aretz ha riportato alla luce i verbali desecretati di una riunione del consiglio dei ministri del 1951 nella quale Ben Gurion parlò nella veste del suo secondo ruolo, quello di Ministro della Difesa, strabiliando gli stessi ministri:

“Non sono il Ministro della Giustizia, non sono il Ministro di Polizia e non sono a conoscenza di tutte le azioni criminali commesse ma come Ministro della Difesa, conosco alcuni di questi crimini e devo dire che la situazione fa paura specialmente in relazione a due aspetti: 1) omicidi e 2) atti di stupro”. E aggiunse: “persone dello Stato Maggiore mi dicono – ed é anche la mia opinione –  che fintanto che un soldato ebreo non viene impiccato per aver ucciso degli arabi, questi omicidi non cesseranno”. Ben Gurion colse perfettamente l’essenza della dimensione razzista di Israele, allora ancora in formazione ma oggi non più eradicabile su cui la professoressa (Premio Sakharov del Parlamento Europeo) Nurit Peled Elhanan dell’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto pagine preziosissime. (13)

Continuiamo a leggere Ben Gurion:

“In linea di massima coloro che hanno i fucili li usano”  e (alcuni) “credono che gli ebrei siano persone ma non gli arabi e che quindi sia possibile far contro di loro qualsiasi cosa. Alcuni pensano che uccidere arabi sia un comandamento e che tutto quello che il Governo dice contro le uccisioni di arabi  non sia una cosa seria e il divieto di uccidere arabi é solo una finzione ma che in effetti sia un atto ben accetto perché così vi saranno meno arabi in giro. Fintanto che continueranno a pensare in questo modo le uccisioni non si fermeranno.” E infine: “Presto non saremo più in grado di mostrare la nostra faccia al mondo. Gli ebrei incontrano un arabo e (che fanno?) lo uccidono”. (14)

La stampa ebraico-israeliana era allora completamente passiva e rarissimamente riportava gli assassinii perpetrati dai soldati – criminali a piede libero – sulle strade di campagna d’Israele, e mai come degli omicidi. A loro volta, i giornali dei movimenti kibbutzistici erano falsi, in quanto predicavano idee socialiste per poi partecipare a man bassa alla spoliazione della popolazione palestinese. Solo i giornali comunisti Kol ha-am (La voce del popolo) in ebraico e Al Ittihad (L’Unità) in arabo, costituivano una voce fortemente critica riguardo i soprusi subiti dai palestinesi. I comunisti però erano molto guardinghi proprio perché conoscevano bene la situazione sul terreno essendo la maggiore forza tra gli arabi israeliani ed erano consapevoli del rischio di una nuova ondata di pulizia etnica come erano consapevoli della pulizia etnica in atto condotta dall’esercito israeliano nella zona demilitarizzata. Tuttavia non tutto è controllabile soprattutto se la critica viene dall’élite europea degli ebrei israeliani. Anche in Sudafrica del resto il regime dell’ apartheid non riusciva a silenziare completamente le critiche provenienti da bianchi democratici specialmente se si trovavano ad essere membri del Parlamento di Città del Capo come nel caso della famosa deputata Helen Suzman (1917-2009), con 36 anni di vita parlamentare sulle spalle e amica di Nelson Mandela che andava a visitare in prigione.

Nel 1953 Azriel Karlibach, fondatore e direttore di Maariv, il maggior quotidiano – politicamente di centro – d’Israele, pubblicò un suo pezzo, scritto in forma poetica, di una potenza straordinaria, ancor oggi insuperata. Il titolo dell’articolo è molto significativo in quanto è preso da un’opera letteraria sudafricana nota per essere un testo di critica e protesta contro il tipo di società che darà vita all’apartheid. Si tratta del romanzo di Alan Paton pubblicato nel 1948 col titolo Cry Beloved Country (Piangi terra amata). (15) L’articolo di Karlibach, avendo lo stesso titolo, stabiliva un legame diretto col regime di apartheid sudafricano e – essendo l’autore liberaleggiante ed anti-socialista – puntava apertamente il dito contro la falsità dei kibbutzim che da un lato esprimevano solidarietà con gli africani e, dall’altro, derubavano gli arabi delle loro terra. Il tema del poema, stilato nella forma di un dialogo tra padre e figlia mentre vanno a vedere cosa stava succedendo in Galilea, è una disamina molto dettagliata dei meccanismi messi in atto per espropriare i palestinesi israeliani delle proprio terre. In tale contesto, il parlamento israeliano, la Knesset, viene esplicitamente accusato di essere non un’assise democratica ma un consesso ove arbitrariamente viene legalizzata la spoliazione degli arabi d’Israele, contro la quale, in seguito ai ricorsi da parte delle vittime, si erano formalmente espressi i magistrati israeliani. Tuttavia, scrive Karlibach, per aggirare le sentenze, in effetti giuste, dei tribunali israeliani, coloro che hanno partecipato al furto si riuniscono nella Knesset e decretano che questi terreni non sono regolati da alcuna legge stabilendo altresì che ai legittimi proprietari è fatto divieto di rivolgersi alla magistratura. La critica di Karlibach si connette alle osservazioni di Ben Gurion riguardo le uccisioni arbitrarie effettuate dai sodati israeliani in libertà, che si appaiano all’arbitrarietà della legislazione votata dalla Knesset, funzionante come un parlamento dell’apartheid sionista avente quindi poca o nessuna legittimità democratica. Il quadro che emerge circa la democrazia israeliana nei confronti dei palestinesi rimasti in Israele è preciso e sconvolgente.

Quando nel 1966 gran parte dei terreni arabi erano ormai stati requisiti e la popolazione ammassata in villaggi impoveriti e resi asfittici per mancanza di aree disponibili, il regime militare, divenuto troppo ingombrante rispetto alla pretesa di democraticità dello Stato nei confronti di tutti i suoi cittadini, venne abrogato. Non fu così però con le prerogative già in possesso del governatore militare che vennero trasferite alle autorità civili. Intatta rimase la prerogativa di dichiarare illegali degli insediamenti arabi, di raderli al suolo e  adibire le zone così ‘ripulite’ a nuovi insediamenti per soli ebrei.  Succede ancor oggi e non mi riferisco alle distruzioni di case palestinesi, 50 mila dal 1967, di uliveti, frutteti, e delle requisizioni di terreni che avvengono ormai da cinquant’anni nei territori conquistati con la guerra del 1967. L’ottavo capitolo del volume di Pappé tratta di tutto questo in maniera egregia. Mi riferisco invece a fatti accaduti recentemente, nel 2016, dentro la vecchia linea verde, come la distruzione del villaggio beduino di Um-Al-Hiram nel Negev settentrionale dichiarato illegale cui é seguita la rapida assegnazione del suolo alla costruzione di una località per soli ebrei. (16) I mesi intercorsi tra l’abolizione del governo militare sui palestinesi di Israele e la guerra del 1967 hanno costituito l’unico periodo in cui, dal 1948, i Palestinesi dell’ insieme della Palestina non fossero soggetti ad un regime militare. Con la conquista della Cisgiordania e di Gaza il governo israeliano, nota giustamente Pappé, trasferì l’intero apparato repressivo perfezionato dal governo militare riguardo i palestinesi di Israele sui palestinesi delle zone conquistate senza che essi potessero usufruire perfino di una minima protezione non avendo diritti politici e civili.

Rispetto all’evento del 1960, il 1967 rappresentò la grande occasione di conquistare l’insieme della Palestina. L’occupazione ebbe immediatamente un carattere di conquista – di “liberazione” di tutta la Terra di Israele, come allora recitavano in coro giornali e partiti ad eccezione del quello comunista Rakah. (17) Liberazione da chi? dal controllo arabo ovviamente. Purtroppo, per i dirigenti israeliani, i nuovi territori non vennero liberati dalla presenza della popolazione palestinese. Un esodo oltre il Giordano vi fu: circa trecentomila profughi lo attraversarono ma il restante milione e passa di abitanti della Cisgiordania rimase fissa sul posto. Da Gaza poi era impossibile andarsene sebbene Levi Eshkol, Primo Ministro laburista durante il 1967, ne avesse vagheggiato l’espulsione. Immediatamente in Israele si sviluppò il dibattito su come annettere i nuovi territori senza però assorbirne la popolazione araba, ingombrante e superflua quindi. Questo è Israele, un paese razzista fino al midollo, razzismo che nasce dall’ideologia sionista di insediamento coloniale volta espressamente a sostituire popolazione araba con una ebraica. Molto rapidamente venne prodotto un piano noto come il Piano Allon, ideato da Ygal Allon, ministro nel governo laburista di Levi Eshkol, un’importante figura nel movimento kibbutzistico e nella storia dell’esercito israeliano. Una prima versione apparve nell’estate del 1967 e una seconda agli inizi del 1968. Il piano prevedeva l’annessione di una parte della Cisgiordania, una fascia assai ampia  lungo la valle del Giordano e di tutta Gerusalemme collegata alla fascia con una striscia. In tal modo la Cisgiordania veniva spaccata in tre parti: una zona annessa ad Israele con completa continuità territoriale e due zone palestinesi separate tra loro: una a nord di Gerusalemme e del suo corridoio verso la valle del Giordano e una a sud di Gerusalemme. Queste erano le aree con la più alta concentrazione di palestinesi. Il piano non venne mai adottato ufficialmente dal governo ma servì da piattaforma di riferimento per le politiche di colonizzazione. L’idea di un’autonomia palestinese nella forma dei bantustan del Sudafrica dell’apartheid nasce col Piano Allon.

Cinquant’anni dopo stiamo ancora alla stesso punto con un’importante differenza: già nel 1990 il Piano Allon non era più realizzabile in quanto gli insediamenti coloniali, tutti al 100% illegali, punteggiavano le tre zone. L’alternativa venne in effetti da Rabin: collegare gli insediamenti con Israele e tra di loro attraverso un sistema di strade speciali chiuse ai palestinesi. Queste strade frammentano le zone della supposta autorità palestinese in un mosaico di piccole aree senza continuità territoriale e soggette al regime dei posti di blocco dell’esercito israeliano. Ciò implica che l’esercito oppressore deve essere presente in permanenza controllando i passaggi da una zona palestinese all’altra attraverso dei posti di blocco. Da molti anni i posti di blocco costituiscono uno strumento di vessazione ed umiliazione costante della popolazione palestinese, una prova quotidiana che – nella ‘democrazia’ israeliana – essi non hanno diritti e sono ciecamente soggetti al dominio militare. Parallelamente gran parte della popolazione ebrea israeliana si trova da circa due generazioni ormai a partecipare attivamente alla repressione dei palestinesi con la gestione dei posti di blocco e dell’occupazione militare, sia attraverso il servizio militare che coinvolge uomini e donne, sia attraverso il periodico richiamo nel servizio di riserva degli uomini fino a circa 50 anni.  Con una politica di bantustan come principio guida, gli accordi di Oslo non potevano che fallire. Ed è questo che dimostra Pappé nell’ottavo capitolo. All’autorità palestinese veniva richiesto di gestire i bantustan secondo i criteri dell’occupazione, di riconoscere la ‘realtà’ sul terreno, cioè la colonizzazione, e veniva escluso il riconoscimento dei diritti dei rifugiati della Naqba. Nei negoziati durante il fallito accordo di Camp David patrocinati da Clinton, fu respinta perfino la richiesta di Arafat di cessare gli abusi quotidiani nei confronti della popolazione palestinese. Gli accordi che avrebbero dovuto portare ad una soluzione negoziata del ‘conflitto’ comportavano inoltre un ulteriore restringimento e frammentazione delle aree palestinesi e, osserva Pappé, ad ogni proposta di spartizione il popolo palestinese ha visto aumentare la violenza nei suoi confronti. Le proposte di Ehud Barak, il leader laburista allora al governo, erano talmente inaccettabili che anche l’allora ministro degli esteri di Israele nel governo Barak, Shlomo Ben Amì, dichiarò nel 2006 in un dibattito televisivo sul canale di “Democracy Now”, che se fosse stato palestinese non avrebbe firmato gli accordi di Camp David. (18)

Particolarmente importante é il racconto che nel nono capitolo Pappé fa della situazione a Gaza ove ricapitola le fasi della crescita di Hamas mostrando che si tratta di un movimento politico, e non terroristico in quanto tale, sviluppatosi sul vuoto creato da Al-Fatah e con una posizione) netta sul diritto al ritorno dei profughi del 1948. Quest’ultimo aspetto è molto importante a Gaza dato che nel 1948 la striscia era stata scelta da Israele per espellervi i palestinesi delle zone meridionali del loro stesso paese. Il fallimento pianificato di Camp David e Taba (19) – località questa sul confine tra Egitto e Israele vicino a Eilat sul Golfo di Aqaba – diede luogo alla Seconda Intifada mentre Ariel Sharon del Likud (‘destra’) diventava il nuovo Primo Ministro. In questo contesto Pappé mostra come Sharon sfruttò la nuova situazione e la crescita di Hamas a Gaza per ottenere da parte degli USA via libera riguardo l’annessione di gran parte della Cisgiordania. L’impossibilità di controllare Gaza dall’interno fornì lo spunto per la messa in opera di una strategia che da un lato presentava il ritiro da Gaza come una concessione di pace e, dall’altro, chiedeva agli Stati Uniti, allora governati da Bush figlio, di escludere i profughi della Naqba da ogni negoziato. Un fatto riportato da Pappé chiarifica la strategia di Ariel Sharon. Gli Stati Uniti erano riluttanti ad accettare il piano di ritiro da Gaza proposto da Sharon. Contando sulle affinità ideologiche con Bush riguardo il mondo arabo, Sharon scommise che sarebbe riuscito a far accettare il piano alla Casa Bianca. E così in effetti fu con l’aggiunta della promessa da parte di Washington di non includere i profughi nelle trattative e di non far pressione su Israele riguardo l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Lo sganciamento da Gaza e la trasformazione della Striscia in una prigione controllata dall’esterno e regolarmente bombardata ha sortito, nota Pappé, l’effetto di silenziare  l’opposizione – tra gli ebrei di Israele – all’occupazione e di formare un vastissimo consenso in favore di essa. Ergo conclude Pappé nel decimo ed ultimo capitolo del libro, la sola via è quella di una battaglia per un solo Stato di tutti i cittadini, come nel caso del Sudafrica dopo l’apartheid. Anzi, prosegue Pappé, continuare a parlare della soluzione a due Stati significa appoggiare l’apartheid, dato che con i due Stati la colonizzazione non verrà eliminata né arrestata mentre lo Stato palestinese sarà una serie di bantustan e Gaza rimarrà una prigione dalle orribili condizioni di vita diventate ormai insostenibili.

Negli ultimi quattro decenni si sono formati degli storici che hanno profondamente cambiato lo studio del Medioriente. Essi sono ebrei israeliani, palestinesi israeliani e palestinesi, dai Khalidi, a Nur Masahla, a Avi Shlaim, a Joseph Massad, a Ilan Pappé. Fino alla formazione di questi storici la propaganda israeliana dominava e si basava su criteri tanto semplici quanto falsi. Secondo tale propaganda, gli “ebrei” hanno diritto alla Terra di Palestina perché era la loro storicamente e ne sono stati stati espulsi definitivamente dai romani. Nei tempi più recenti la Palestina era pressoché disabitata, atta dunque a ricevere i presunti discendenti degli abitanti originari perseguitati da un razzismo anti-ebraico immanente ed incancellabile. Al loro arrivo per costruire il loro legittimo Stato essi  si sono confrontati con l’ostilità araba anch’essa motivata da un’innata anti-ebraicità. I ‘pochi’ abitanti arabi della Palestina avrebbero potuto facilmente sistemarsi nei paesi arabi vicini solo che i governi ‘arabi’ hanno preferito la via di distruggere Israele. Gira e rigira questa è la storia ufficiale ormai del tutto invalidata. Essa è stata talmente invalidata che perfino gli storici ufficiali rimasti la negano sul piano metodologico, come é successo nel caso delle loro reazioni ai volumi di Shlomo Sand ed anche in altre circostanze, per poi farla riemergere quando respingono la natura del sionismo come un movimento di insediamento coloniale ed esclusivo.

Ilan Pappé é sicuramente la persona che ha maggiormente studiato la storia della Palestina e di Israele in tutte le sue molteplici forme fornendoci un quadro storiografico incontrovertibile. Per i suoi imprescindibili contributi, Pappé ha ricevuto, nel novembre del 2017 a Londra, il massimo premio del Palestine Book Awards. (20) Tuttavia non é detto che le conclusioni da lui raggiunte in questo volume siano realizzabili e tali da poter arrestare la colonizzazione. E’ perfettamente possibile, anzi probabile, che mentre la soluzione a due Stati sia ormai defunta, quella che liberi il popolo palestinese dall’oppressione coloniale sia di là da venire e nemmeno individuabile.

Fine

Note

10 E’ indicativo che durante il massacro di Deir Yassin perpetrato dall’Irgun nell’aprile del 1948, una formazione dell’ufficiale Haganà stazionasse a pochissimi chilometri di distanza senza alzare un dito. Le bande criminali ebbero tutto il tempo di esibire la popolazione catturata per le strade di Gerusalemme, di riportarla a Deir Yassin e di sterminarla senza che l’Haganà facesse nulla per impedirlo.

11 Vedi Mondoweiss del 27/12/2017: http://mondoweiss.net/2017/12/israeli-sentences-trespassing/?utm_source=Mondoweiss+List&utm_campaign=32481edf23-RSS_EMAIL_CAMPAIGN&utm_medium=email&utm_term=0_b86bace129-32481edf23398519897&mc_cid=32481edf23&mc_eid=9728f22b82

12 Ilan Papp é, The Forgotten Palestinians: A History of the Palestinians in Israel, New Haven, CT: Yale University Press, 2013.

13 Nurit Peled Elhanan: La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nellistruzione. Milano: EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2015.

14 Le citazioni provengono dall’ edizione in inglese di Ha-aretz e sono state tradotte da me. Vedi Gedi Weitz in Ha-aretz 1/4/2016: Ben-Gurion in 1951: Only Death Penalty Will Deter Jews From Gratuitous Killing of Arabs.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.712125

15 Azriel Karlibach: Cry Beloved Country, in ebraico in Maariv 25/2/1953. Tradotto e stampato in Inglese in Uri Davis e Norton Mezvinsky (a cura di), Documents From Israel: 1967-1973. London: Ithaca Press, 1975, pp. 14-20.

16 https://972mag.com/authorities-start-process-of-replacing-bedouin-town-with-a-jewish-one/121065/

17 Nel 1965 il Partito Comunista d’Israele si spaccò a causa del fatto che il suo segretario generale, Shmuel Mikunis effettuò una svolta filosionista e critica verso la posizione dell’ URSS sul Medioriente. Il grosso dell’ufficio politico e del partito non seguì Mikunis il quale però era il titolare legale del nome del partito MAKI (partito cominista d’Israele). Si formarono cosi due gruppi parlamentari, quello di Mikunis dal nome Maki e composto dal solo Mikunis, e RAKAH (nuova lista comunista) con tre parlamentari. Molto rapidamente il gruppo Mikunis si sciolse nelle liste piu radicali della sinistra sionista che, dopo varie mutazioni, oggi si condensano nel piccolo partito MERETZ, mentre RAKAH diede vita a HADASH (acronimo per fronte democratico per la pace) oggi facente parte della Lista Unita – terzo gruppo parlamentare alla Knesset – che raccoglie una serie di organismi politici palestineso-israeliani. In tal modo però HADASH ha perso il suo carattere di unica formazione politica israeliana non ‘etnicamente’ schierata. La scelta è stata imposta dal cambiamento delle legge elettorale che, aumentando la soglia di sbarramento, ha obbligato i partiti che operano nel settore arabo o, come i comunisti, che ricevono voti soprattutto dai palestinesi israeliani, ad accorparsi.

18 https://www.democracynow.org/2006/2/14/fmr_israeli_foreign_minister_if_i, anche:

https://www.theguardian.com/commentisfree/2010/jul/01/israel-palestinian-peace-camp-david

19 I colloqui di Taba si tennero tra il 21 e il 27 gennaio 2001 e avrebbero dovuto essere lo strumento per l’applicazione degli accordi di Camp David II dell’ anno precedente. I colloqui furono però interrotti per le elezioni israeliane che portarono al governo israeliano Ariel Sharon.

20 http://www.middleeasteye.net/news/three-authors-highlighted-palestine-book-awards-489086373

Il ringraziamento di Pappé, breve ma importante, si trova a:https://www.versobooks.com/blogs/3532-ilan-pappe-s-keynote-address-at-2017-palestine-book-awards




Politica, bugie e registrazioni audio

Omar Karmi

20 gennaio 2018, Electronic Intifada

Le ripercussioni del caotico lavoro di demolizione della soluzione dei due Stati da parte del presidente USA Donald Trump continuano.

Vi è invischiata una regione già in preda a caos e confusione. Vecchie certezze sono state sradicate e tradizionali alleati ed alleanze, alle quali il processo di pace forniva una copertura di comodo per non fare niente, sono stati sconvolti.

Il 14 gennaio persino Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, finora così fiducioso in un processo della cui creazione e salvaguardia è stato determinante, è stato spinto a dichiarare che “oggi è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono finiti.”

In un rabbioso discorso di due ore e mezza da Ramallah, egli ha annunciato poche conseguenze concrete e gli uomini del suo apparato inviati in seguito a spiegarle sono stati altrettanto vaghi (cosa mai può significare “congelare il riconoscimento di Israele”?).

Tuttavia la frustrazione era reale, e la sua descrizione dello stato delle cose – benché ovvia e in ritardo – esatta.

L’ANP è in effetti un’”autorità senza potere”; a Israele è sicuramente consentita – con la complicità dell’ANP, avrebbe dovuto aggiungere, ma non l’ha fatto – un’“occupazione senza nessun costo”; l’ambasciatore USA in Israele David Friedman è, in effetti, “un colono che si oppone al termine ‘occupazione’” e indubbiamente “un essere umano prepotente.”

Abbas ha avuto anche parole dure per i governi arabi, sostenendo che, se non offriranno ai palestinesi un “aiuto concreto”, possono “andare tutti all’inferno.”

Un problema si muove in Arabia

Non è un segreto che i Paesi arabi, soprattutto, ma non solo, quelli detti “moderati” che includono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania – che sono definiti tali dai circoli occidentali, soprattutto per la loro posizione verso Israele – sono stati per lo più tutto fumo e niente arrosto quando si tratta di Palestina.

Tuttavia essi hanno anche e pubblicamente da tempo tenuto (per lo più) drastiche linee rosse: a parte i Paesi confinanti come Giordania ed Egitto, non ci saranno relazioni diplomatiche complete con Israele finché la “questione” palestinese non sarà risolta. E le ricette per questa soluzione devono includere una (vagamente definita) “soluzione giusta” del problema dei rifugiati, così come (precisata più chiaramente) la costituzione di uno Stato e l’indipendenza per i palestinesi su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme est.

Quest’ultima non è mai stata vista come una questione solamente palestinese, ma come più generalmente araba e musulmana. Di conseguenza, la risposta ufficiale alla dichiarazione di Trump a dicembre che Gerusalemme è la capitale di Israele è stata unanime e priva di ambiguità.

Il 13 dicembre l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, composta da 57 membri, che include i Paesi arabi e musulmani del mondo, ha inequivocabilmente respinto come illegale la posizione del presidente americano su Gerusalemme e ha dichiarato capitale della Palestina Gerusalemme est.

Poi il 6 gennaio la Lega Araba ha annunciato che gli Stati arabi avrebbero intrapreso un’iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale.

Fin qui, come molte altre volte. Stavolta, tuttavia, per almeno alcuni di questi Paesi, pare che questa non sia solo vuota retorica: è una totale menzogna.

Il nuovo ordine del mondo (arabo)

Prendete l’Egitto. Mentre l’incontro d’emergenza dell’OIC [Organizzazione della Cooperazione Islamica, ndt.] a Istanbul ha visto la partecipazione di alcuni importanti capi di Stato della regione, compreso il presidente turco che l’ospitava, Recep Tayyip Erdogan, così come del re di Giordania Abdullah e del presidente iraniano Hassan Rouhani, erano significative anche le assenze. Non erano presenti né il re dell’Arabia Saudita Salman (o il suo principe ereditario Mohammad bin Salman) né il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Infatti, anche se il Cairo ha condannato la nuova posizione USA su Gerusalemme, un ufficiale dell’intelligence egiziana sarebbe stato registrato in audio mentre cercava di persuadere importanti personaggi della televisione egiziana a convincere i loro telespettatori ad accettarla, sostenendo in pratica che Ramallah è un posto altrettanto valido di Gerusalemme per stabilirvi la capitale.

Il Cairo ha negato l’informazione, il procuratore di Stato egiziano ha annunciato un’inchiesta sull’articolo del New York Times che ha fatto la denuncia e le personalità della televisione di cui sopra hanno da allora ritrattato alcuni dei commenti fatti in precedenza.

Ma il Times ha confermato le proprie informazioni e, nell’attuale clima politico, non suonano per niente false. E non ci dovrebbe essere alcun dubbio che quello che alcuni governi arabi stanno sostenendo in merito al destino di Gerusalemme evidenzi fino a che punto i dirigenti e governi arabi siano diventati vulnerabili alle pressioni esterne.

La debolezza degli Stati arabi corrisponde in generale ad una caratteristica in tutta la regione: scarsa capacità di governo come risultato di sistemi statali autocratici e clientelari che resistono alle idee che vengono da fuori ma dipendono dai finanziamenti e dalla protezione esteri o economie basate su una sola risorsa. Ne conseguono logicamente corruzione, nepotismo, servilismo e stagnazione, con – per parafrasare – il settarismo, l’ultima risorsa delle canaglie.

Gli ultimi anni di rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili, guerre e invasioni nelle regioni arabe hanno anche visto la questione palestinese scivolare in fondo alla lista delle priorità e perdere il suo ruolo come sfogo sicuro per la rabbia popolare. E poi c’è l’Arabia Saudita.

Rivoluzione a Ryadh

L’assunzione di una posizione di rilievo del principe ereditario Mohammad bin Salman, spesso indicato come MBS, ha sconvolto la tradizionale politica regionale e scosso le antiche alleanze e certezze. Decisa a quanto pare a rivolgersi a viso aperto verso uno scontro con l’Iran, la posizione di Riad su altre questioni regionali è improvvisamente diventata imprevedibile.

Yemen, Libano, Siria ed Egitto hanno risentito a vari livelli dei freddi venti del cambiamento in quanto il nuovo potere a Riad sonda il terreno e persegue quelli che ha identificato come gli interessi sauditi, giusti o sbagliati, con energia incontenibile e in modi senza precedenti per l’Arabia Saudita. Sono presunte informazioni saudite sulla prospettiva finale dell’amministrazione Trump per un accordo di pace – qualcosa meno di uno Stato per i palestinesi, non basato sulle frontiere del 1967 e senza Gerusalemme – che questa settimana hanno spinto davvero Abbas a perdere il controllo e gli hanno fatto venire un colpo apoplettico.

Oltretutto fonti vicine ad Abbas hanno fatto sapere che, durante una recente visita, MBS ha fatto pressione sul leader dell’ANP perché accetti il piano di Trump, indicando che Riad ora attribuisce molta più importanza al potenziale aiuto di Israele contro l’Iran rispetto ad ogni pressione per i diritti dei palestinesi.

Per quanto audaci, simili pressioni, su Abbas e su altri, probabilmente falliranno, così come finora sono fallite le recenti avventure saudite in politica estera in altre parti della regione.

In parte, un simile clamoroso scostamento è un cambiamento decisamente troppo rapido da assorbire per i pigri sistemi dello Stato arabo, soprattutto di fronte alla disapprovazione profonda e generalizzata dell’opinione pubblica. E in parte, mentre ciò potrebbe funzionare solo nei Paesi del Golfo, isolati dal denaro, né Egitto né Giordania sono probabilmente in grado di collaborare, anche se i loro dirigenti lo volessero.

Quello che i soldi non possono comprare

Al momento l’Egitto è semplicemente troppo instabile per assorbire troppi sconvolgimenti del sistema. Ancora scosso dalla rivoluzione del 2011 e dalla controrivoluzione del 2013, il Cairo se la deve vedere anche con la contagiosa guerra civile nella vicina Libia, con tensioni in Sudan, con una disputa con l’Etiopia per una diga sul Nilo che potrebbe avere effetti drammatici in Egitto e con una sempre più sanguinosa rivolta nel Sinai.

Al-Sisi potrebbe voler tentare di adeguarsi alla pressione di USA e Arabia Saudita. Le umilianti registrazioni del capitano Ashraf al-Kholi che implora i suoi interlocutori di spiegare la differenza tra Gerusalemme e Ramallah suggeriscono che il Cairo ci ha provato. Semplicemente non può.

L’ultima cosa di cui Al-Sisi ha bisogno, con tutto il resto, è di essere accusato di abbandonare Gerusalemme e i palestinesi. E solo mercoledì il presidente egiziano si è sentito obbligato a ribadire la politica egiziana di lunga data a favore dei due Stati, che rivendica Gerusalemme est come capitale palestinese.

La Giordania ha a lungo dovuto conciliare gli interessi palestinesi e giordani – o sponda ovest ed est del Giordano – e lo ha fatto in gran parte con successo. Ma la destinazione favorita da ogni rifugiato nella regione è satura, impoverita e non disposta a patteggiare la propria custodia di Al-Aqsa [la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ndt.] e dei luoghi sacri cristiani di Gerusalemme per avere la responsabilità di più di due milioni di palestinesi scontenti e riottosi in aree non contigue della Cisgiordania, come prospettato da qualcuno nell’amministrazione Trump.

Infatti Amman ha già messo in chiaro il proprio malcontento, e si dice che avrebbe cacciato tre principi per essere stati troppo vicini a Riad.

I soldi non possono comprarti l’amore, ma ti possono comprare un sacco di dispiaceri. E il dispiacere è ciò che attende Abbas, Abdullah e al-Sisi se dovessero stare al gioco del piano di Trump, che è un buco nell’acqua.

Probabilmente MBS lo capirà presto. Ma a quel punto il gioco sarà completamente cambiato.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington, DC, per il giornale The National [“Il Nazionale”, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (oPt) [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in quattro diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso quattro civili palestinesi, tre dei quali minori.

Tre delle uccisioni (due minori di 15 e 17 anni e un uomo di 25) sono avvenute in tre distinti episodi di proteste e scontri, il 3, 11 e 15 gennaio, nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Bureij (Gaza) e nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya); proteste seguenti al riconoscimento, da parte dell’amministrazione statunitense, di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Un altro ragazzo di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco l’11 gennaio, in Iraq Burin (Nablus), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane.

Il 9 gennaio, sulla Strada 60, vicino all’incrocio di Sarra-Jit (Nablus), un colono israeliano di 35 anni è stato ucciso da palestinesi che hanno sparato da un’auto in corsa. A seguito dell’attacco, le forze israeliane hanno imposto restrizioni di accesso alla città di Nablus ed ai villaggi circostanti. Le operazioni di ricerca sono state intensificate, causando l’interruzione degli ingressi e delle uscite dalla città di Nablus.

Nei Territori palestinesi occupati, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente, 269 palestinesi, tra cui 83 minori. 67 di tali ferimenti si sono avuti nella Striscia di Gaza, in scontri verificatisi durante proteste vicino alla recinzione perimetrale. I rimanenti (202) sono stati registrati in Cisgiordania; la maggioranza durante proteste vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus); a seguire, le città di Al Bireh (Ramallah), Abu Dis e Al ‘Eizariya (Gerusalemme). Altri 28 feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). 61 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 62 da proiettili di gomma, 137 hanno inalato gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico, o sono stati colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 176 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 261 palestinesi, tra cui almeno 22 minori. Dieci di queste operazioni hanno provocato scontri con i residenti. Nella Striscia di Gaza, nei pressi di Khan Younis e Beit Hanoun, in due occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Gaza, in almeno 13 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa. Cinque pescatori sono stati feriti, altri otto, tra cui due minori, sono stati arrestati e tre barche sono state confiscate. È stato riferito che, in almeno quattro occasioni, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato razzi verso Israele, tre dei quali atterrati nel sud di Israele: non sono stati segnalati feriti. In risposta, le autorità israeliane hanno portato quattro attacchi aerei e lanciato missili contro siti di addestramento militare ed aree aperte: segnalati danni, ma non feriti.

Secondo agricoltori palestinesi di Gaza, in quattro diverse occasioni, il 7 e il 9 gennaio, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli situati lungo la recinzione perimetrale con Israele.

Il 13 gennaio, nei pressi della Striscia meridionale di Gaza, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una barca da pesca, uccidendo un pescatore palestinese di 33 anni; non sono chiare le circostanze dell’episodio.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito e/o sequestrato tre strutture, sfollando due palestinesi e colpendo le proprietà di altri 16. Due delle strutture prese di mira (una abitativa ed una agricola) erano a Beit Hanina e Silwan (Gerusalemme Est); la terza (una struttura agricola) nella parte del villaggio di Al Khadr (Betlemme) che si trova in Area C. Sempre in Area C, le autorità israeliane hanno emesso sei ordini di arresto lavori contro tredici strutture nel villaggio di Duma e nella comunità di Khirbet al Marajim (Nablus); tra queste, due strutture abitative in uso e dodici rifugi per animali.

In 14 diversi episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, cinque palestinesi sono rimasti feriti, 115 alberi e sette veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. Secondo quanto riferito, sette di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama, Burin, Yatma, Urif e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus): 100 alberi danneggiati, un uomo aggredito fisicamente e quattro veicoli palestinesi danneggiati da lancio di pietre. Su terreni appartenenti a palestinesi di Deir al Hatab (Nablus), altri 15 alberi sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni dell’insediamento di Elon Moreh. Dopo l’attacco in cui è stato ucciso un colono israeliano [vedi sopra], coloni hanno attaccato abitazioni nei villaggi di Sarra, Huwwara (Nablus), Far’ata (Qalqiliya) e in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus); sono stati segnalati danni alle abitazioni. In quest’ultima località, 42 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri che hanno coinvolto forze israeliane. Nella città di Nablus, in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane.

Secondo resoconti di media israeliani, ci sono stati almeno cinque casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danno a cinque veicoli privati: nei pressi di Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. Inoltre, a Gerusalemme Est, nell’area di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

In seguito alla scoperta di un tunnel (successivamente distrutto), le autorità israeliane hanno chiuso per due giorni (il 14 e il 15 gennaio) Kerem Shalom, l’unico valico per il transito delle merci di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte di mercoledì 17 gennaio 2018, le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca-arresto in una casa situata tra il villaggio di Birqin (Jenin) e il Campo profughi di Jenin. Secondo fonti giornalistiche, nel corso dell’operazione sarebbe stato ucciso un palestinese coinvolto, a quanto riferito, nell’uccisione del colono israeliano avvenuta il 9 gennaio (vedi sopra). Durante l’operazione sono rimasti feriti altri tre palestinesi e due membri delle forze israeliane; tre abitazioni sono state demolite.

þ

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Come i sionisti cristiani hanno ottenuto il loro uomo nella Casa Bianca

Morgan Strong

2 gennaio 2018, Middle East Eye

I sionisti cristiani sono riusciti ad avere, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi compagni di fede alla Casa Bianca, un’incredibile influenza su quella che è la più potente Nazione sulla terra.

Il 18 luglio il vice presidente USA Mike Pence ha pronunciato il discorso d’apertura all’annuale riunione dei “Christians United for Israel” [“Cristiani Uniti per Israele”] (CUFI). Fondato nel 2006 dal pastore John Hagee, un evangelico di San Antonio, il CUFI sostiene di essere il più numeroso gruppo filo-israeliano degli Stati Uniti, con tre milioni di membri. Nel maggio 2016 Hagee ha appoggiato la candidatura di Trump a presidente.

Pence ha di nuovo sostenuto che l’amministrazione Trump avrebbe spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, questa volta di fronte ai sostenitori cristiani di Israele che sono diventati sempre più insoddisfatti per il fatto che Trump non abbia ancora tenuto fede alla sua promessa elettorale nei confronti di Israele – segnando quello che alcuni analisti hanno visto come un nuovo cambiamento ideologico della Casa Bianca.

Il cambiamento ideologico della Casa Bianca

Il discorso di Pence segna un cambiamento fondamentale nel linguaggio che la Casa Bianca ha storicamente utilizzato per esporre i rapporti degli Stati Uniti con Israele,” ha scritto sul “Washington Post” Dan Hummel, uno studioso dell’Harvard Kennedy School.

Questo cambiamento fondamentale è verso il sionismo cristiano, un’ideologia che basa il proprio appoggio ad Israele sulla convinzione che il moderno Stato di Israele sia una manifestazione delle profezie della Bibbia – e che il destino degli Stati Uniti sia profeticamente legato ad Israele.

Hummel descrive Pence come un “ardente sionista cristiano” che esprime il proprio appoggio ad Israele in termini esplicitamente profetici. La sua comparsa alla riunione “indica una nuova era dell’influenza del sionismo cristiano sulla Casa Bianca.”

Pence non è da solo nel tentativo di convincere Trump a realizzare quello che i cristiani sionisti vedono come una profezia biblica. Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas, sua figlia Sara Huckabee Sanders, ora addetto stampa della Casa Bianca, e Sara Palin esercitano una grande influenza nell’amministrazione Trump e sono ardenti sionisti cristiani.

Roy Moore dell’Alabama, che Trump ha appoggiato in Alabama per l’elezione al Senato, è annoverato in questo gruppo.

L’apocalisse dei cristiani sionisti

I sionisti cristiani, che sono circa 20 milioni negli Stati Uniti, negli ultimi decenni hanno investito milioni di dollari a favore di un’espansione di Israele. Hanno sponsorizzato la migrazione di migliaia di ebrei dalla Russia, dall’Etiopia e da altri Paesi.

Hanno contribuito con milioni [di dollari] alla costruzione di nuove colonie nelle zone palestinesi occupate per sistemarvi i migranti. “Lo spostamento [dell’ambasciata Usa a Gerusalemme] dimostra che il nostro presidente mantiene fede alla sua parola,” ha detto Hagee.

Ha anche detto alcune altre cose meno lucide: “Restituire Gerusalemme ai palestinesi equivarrebbe a restituirla ai talebani.” Ha anche detto che il popolo ebraico sta per bruciare all’inferno per l’eternità, a meno che non abbandoni l’ebraismo e si converta al cristianesimo dopo la battaglia di Armageddon [probabilmente Tel Megiddo, nell’attuale Israele nei pressi di Nazareth, ndt.].

Ciò è qualcosa in cui John Hagee crede, e in cui credono tre milioni di fedeli del CUFI e inoltre i complessivi 40 milioni di membri del movimento evangelico, o almeno vi credono in parte.

Rimane la più terrificante supposizione che una parte, o quanto meno qualcuna, delle cose che Hagee crede possa essere creduta anche dallo stesso presidente. L’ossessione di Trump per l’Islam potrebbe essere parzialmente influenzata dalle opinioni contro l’Islam dell’ex capo del CUFI, il defunto pastore Jerry Falwell.

Non più un onesto mediatore

Il 6 dicembre Trump ha esplicitamente negato la persistente speranza per una soluzione dei Due Stati. “Dopo più di due decenni di deroghe, non siamo più vicini ad un accordo di pace definitivo tra Israele ed i palestinesi. Pertanto ho deciso che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele. Sarebbe una follia ritenere che ripetere esattamente la stessa formula produrrebbe ora un risultato diverso o migliore,” ha detto.

Il riconoscimento di Gerusalemme come unica capitale di Israele è molto più che simbolico. In effetti nega uno dei più fondamentali impegni del processo di pace, una soluzione dei Due Stati.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas lo ha pienamente compreso. I palestinesi sono ora convinti che gli Stati Uniti non possano essere degli intermediari imparziali, o neutrali – benché gli Stati Uniti non siano mai stati dei mediatori veramente obiettivi.

L’enorme influenza politica di Israele negli Stati Uniti ha reso impossibili rapporti onesti, e questa duplicità è palesemente evidente ora. Il mese scorso in un summit internazionale Abbas ha detto che gli Stati Uniti non sono adeguati a mediare nel conflitto in Medio Oriente, segnando un importante cambiamento di politica dopo decenni passati a corteggiare la benevolenza americana.

Abbas ha annunciato il cambiamento, che arriva in risposta alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, durante un incontro dei dirigenti musulmani che ha condannato la mossa degli USA e ha chiesto il riconoscimento mondiale di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme est.

Il 21 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato per condannare la decisione di Trump su Gerusalemme. Quasi tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno condannata, nonostante le sue minacce di negare ulteriori finanziamenti agli Stati che avessero votato contro.

Ciò porta ad una drastica fine del processo di pace attraverso il fruttuoso tentativo di Jared Kushner, il genero di Trump e principale consigliere, di chiedere ai palestinesi di accettare una totale capitolazione alle richieste di Israele. La famiglia Kushner e lui stesso hanno contribuito con milioni [di dollari] agli sforzi di colonizzazioni israeliane in Cisgiordania.

Il risultato del suo obiettivo di negare qualunque soluzione ai palestinesi per le loro rivendicazioni non avrebbe mai dovuto essere stato in dubbio, dal momento in cui gli è stata concessa da Trump autorità assoluta.

Il ritorno del messia

Una questione essenziale per i sionisti integralisti e per i loro alleati cristiani è la collocazione delle rovine del primo e del secondo tempio ebraico sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più venerato dell’Islam. Un principio fondamentale della teoria dei sionisti cristiani è che un nuovo tempio venga costruito su queste antiche rovine.

I palestinesi credono che gli scavi archeologici israeliani sotto il complesso della moschea di Al-Aqsa per costruire il nuovo tempio costituisca una minaccia per la moschea. I sionisti cristiani sono assolutamente convinti che questo debba essere fatto per rispettare la profezia. Credono che una volta completata la costruzione del nuovo tempio il ritorno del messia sarà inevitabile.

L’unica speranza per i palestinesi è una graduale inclusione della popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza in quella che diventerà un’entità unica, Israele. Un esito estremamente improbabile. Gli israeliani non acconsentiranno mai a concedere la cittadinanza ai palestinesi musulmani o cristiani, e il diritto di voto in quello che è ora dichiarato da Netanyahu come lo Stato ebraico.

Netanyahu ha l’incrollabile, forse delirante, convinzione di essere stato scelto da dio per guidare il popolo ebraico. Eyal Arad, un importante ex- consigliere politico, ha detto: “Il primo ministro ha una visione messianica di se stesso, come di una persona chiamata a salvare il popolo ebraico dal nuovo olocausto.”

Farebbe meglio a sbrigarsi. Ora è sottoposto alla quarta inchiesta per corruzione e malversazione da quando è al governo.

Anche Pence è convinto di essere chiamato da dio. Il suo passaggio biblico favorito, che spesso cita, è: “Poiché conosco i progetti che ho per te, dichiara il signore, progetti di farti prosperare e non di danneggiarti, progetti di darti speranza e un futuro.”

Pence è ambizioso, nonostante l’apparente mancanza di credenziali e i suoi errori politici come governatore dell’Indiana. Pence “ha chiarito” al comitato nazionale repubblicano di voler prendere il posto di Trump come candidato del GOP [il partito repubblicano, ndt.] per la presidenza all’indomani della registrazione di “Access Hollywood” [uno spettacolo televisivo. Nella registrazione Trump fa pesanti apprezzamenti sulle donne, ndt.] nell’ottobre 2016.

Un presidente veramente evangelico?

La scorsa estate il “New York Times” ha informato che sembrava che Pence si stesse preparando per la candidatura presidenziale. Pence ha risolutamente smentito la storia. Pence ha immaginato la reale possibilità che il GOP volti le spalle a Trump dopo un altro grave scandalo, garantendo la sua conseguente ascesa.

Gli Stati Uniti potrebbero finire per avere un presidente veramente evangelico. Ciò che è preoccupante non è che Pence creda in dio, ma che sembri sicuro che dio creda in lui.

I principali studiosi cristiani della Bibbia la vedono come un testo allegorico. I sionisti cristiani credono a un’interpretazione letterale del noioso e deprimente testo del libro dell’Apocalisse.

Il movimento sionista cristiano tuttavia non è un fenomeno recente. C’è stato più di un secolo di tentativi di restituire Israele ad una gloria biblica largamente illusoria. Nel 1600 re Giacomo I suggerì che “la fine del mondo” avrebbe avuto luogo in Palestina.

Come i sionisti cristiani ora, egli credeva che le tribù ebraiche dovessero essere riunite e tornare dalla diaspora in modo che la battaglia finale tra le forze del male e il messia potesse aver luogo ad Armageddon.

Un’altra dichiarazione Balfour

Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, e il suo primo ministro, David Lloyd George, erano entrambi simpatizzanti del sionismo cristiano. Nel 1917, tre anni prima che la Società delle Nazioni concedesse alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina, Balfour scrisse a lord Rothschild, appartenente alla ricchissima famiglia di banchieri ebrei e precoce sostenitore del sionismo, che “il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina e farà uso del suo massimo impegno per agevolare il raggiungimento di questo obiettivo.”

Lo Stato di Israele non avrebbe potuto nascere senza la dichiarazione Balfour. Quando gli Stati Uniti hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, lo hanno fatto, almeno in parte, per invocare il messia e iniziare la preparazione della battaglia di Armageddon.

Questo è quello che credono i sionisti cristiani ed hanno senza sosta chiesto dall’amministrazione. La Bibbia ci dice che Gesù tornerà per mettere tutto quanto a posto.

I musulmani, gli ebrei, i buddisti, gli induisti, gli scintoisti, gli animisti, i seguaci del voodoo, i cattolici, gli agnostici e gli atei, ecc., verranno convertiti alle legioni del signore dei sionisti cristiani. Il messia, Gesù Cristo, prevarrà e porrà fine a tutto il male che ora ci colpisce. Annichilerà l’anticristo e la sua orda barbarica, che include i russi, ed egli, Gesù, regnerà come re sulla terra per mille anni di felicità ed abbondanza.

Ma in primo luogo credono che l’antico Israele debba essere reso totalmente immune da eretici di ogni convinzione religiosa, diversa dalla loro, in modo da rispettare la profezia biblica del ritorno di Cristo sulla terra.

Israele biblico

Secondo la liturgia sionista cristiana questo ritorno tuttavia non promette bene per gli israeliani. Purtroppo Israele non ci sarà più. Israele verrà distrutto durante questa apocalisse.

Secondo quello che credono, Gesù, addolorato che gli ebrei non lo vedano come il messia, ucciderà tutti gli ebrei che rifiutino di convertirsi al cristianesimo, o più precisamente al sionismo cristiano. Gesù non sembra essere uno che volge l’altra guancia quando viene offeso.

Se credi altrimenti, se credi che le profezie bibliche come le interpretano i sionisti cristiani siano una follia, fai parte della maggioranza senza speranza. Perché i sionisti cristiani sono riusciti ad avere alla Casa Bianca, grazie alla posizione di Mike Pence e dei suoi adepti, un’incredibile influenza su quella che forse è la più potente Nazione sulla terra.

Essi credono che solo l’apocalisse purificherà il mondo e che gli Stati Uniti debbano essere lo strumento che porterà a termine l’ira di dio. Le grandi risorse ed il potere militare degli Stati Uniti sono parte del piano divino per portare su di noi l’apocalisse.

Trump farà di tutto per incoraggiare la cieca lealtà di questo gregge che ha in eredità. Il partito Repubblicano dipende in modo massiccio dai sionisti cristiani sia per quanto riguarda i finanziamenti che i voti. Hanno un profondo effetto sull’orientamento del partito, anche se ora il partito sembra essere più teocratico che politico.

È molto probabile che i sionisti cristiani vadano a votare; sono più di venti milioni e sono finanziatori generosi. Sono la base di questa nuova teocrazia repubblicana.

Non vogliono la pace con i palestinesi. I palestinesi non hanno posto nell’Israele biblico. I sionisti cristiani vogliono che se ne vadano per purificare il nascente regno di Israele e consentire la loro eterna beatitudine in paradiso.

– Morgan Strong, un ex-professore di Storia del Medio Oriente, è stato consulente di “60 minuti” [programma televisivo statunitense di attualità della CBS, ndt.] sul Medio Oriente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Apartheid dall’interno? I palestinesi cittadini di Israele

Yara Hawari

23 novembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Importanti personalità del panorama internazionale hanno descritto la situazione in Cisgiordania come apartheid, citando caratteristiche proprie della segregazione, quali strade per soli coloni, insediamenti fortificati e il muro di separazione. Nel suo libro del 2006 “Peace not apartheid” [“Pace non Apartheid] , l’ex presidente USA Jimmy Carter ha adottato questo termine proprio a proposito dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), mentre John Kerry nel 2014 ha avvertito che Israele “potrebbe” diventare uno Stato di apartheid se non si verificasse la soluzione dei due Stati.

Tuttavia, più recentemente, eminenti voci hanno applicato il termine alla situazione dei palestinesi cittadini di Israele. Jodi Rudoren, ex capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, ha detto: “…Penso che la questione dell’apartheid sia più attinente a come gli arabi israeliani (i palestinesi cittadini di Israele) vengono trattati nel contesto di Israele.” La Commissione Socio-Economica per l’Asia Occidentale delle Nazioni Unite (ESCWA) all’inizio di quest’anno ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele, fin dall’inizio, “ha imposto un regime di apartheid che domina il popolo palestinese nel suo complesso” – intendendo i palestinesi non solo dei TPO, ma anche quelli in esilio e quelli all’interno di Israele stesso. (1)

Questo documento politico prende in esame l’analisi dell’apartheid relativamente ai palestinesi cittadini di Israele, con particolare attenzione alla cittadinanza, alla terra, all’educazione e alle politiche. Si conclude con le strategie su come tale analisi possa essere utilizzata per sostenere i diritti dei cittadini palestinesi [di Israele] e contribuire a contrastare la frammentazione all’interno del popolo palestinese nel suo complesso.

L’apartheid e i suoi inizi

Il diritto internazionale consuetudinario e lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale definiscono l’apartheid come “atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica di un gruppo razziale su qualunque altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime.”

Benché molti associno l’apartheid al Sudafrica, la definizione è applicabile universalmente e perciò confuta l’errato concetto che l’apartheid sia stato un caso eccezionale che da allora non si è più verificato. La definizione inoltre consente una comprensione dell’apartheid come un sistema che può assumere diverse caratteristiche e manifestarsi in vari modi, compreso quello economico (vedere l’articolo Rethinking our definition of apartheid [Ripensare alla nostra definizione di apartheid], che sostiene che l’apartheid non è ancora stato superato in Sudafrica).

Mentre 750.000 palestinesi furono espulsi dai confini del nuovo Stato ebraico nel 1948, 150.000 Palestinesi rimasero e vennero sottoposti alla legge marziale per quasi 20 anni. Quel periodo, noto come regime militare, si basava sulle Norme di Emergenza del 1945 introdotte dalle autorità del Mandato britannico, che le utilizzava per controllare gli arabi di Palestina. I meccanismi limitavano ogni aspetto della vita dei palestinesi all’interno del nuovo Stato, compresa la libertà di movimento e di espressione politica.

Questo periodo vide una massiccia appropriazione di terre, compiuta attraverso la Legge sulla Proprietà degli Assenti, varata dalla Knesset  nel 1950. La legge continua ad essere il principale strumento con cui Israele confisca i terreni, anche a Gerusalemme est. (2) Essa ha consentito allo Stato di appropriarsi della proprietà di chiunque abbia lasciato il proprio luogo di residenza tra il 29 novembre 1947 e il 19 maggio 1948. Questa legge ed altre, comprese quelle che costituiscono la Legge Fondamentale – che tuttora funge da Costituzione di Israele – hanno codificato l’apartheid nel sistema giuridico. Queste leggi hanno anche stabilito la dottrina fondamentale di Israele del predominio ebraico in uno Stato ebraico, con disuguaglianza per tutti gli altri.

Benché il regime militare sia stato abolito nel 1966, la comunità palestinese è rimasta una minaccia demografica e potenzialmente politica alla natura dello Stato. Perciò Israele ha mantenuto sia la segregazione che l’emarginazione dei palestinesi. Oggi i palestinesi di Israele sono 1,5 milioni, un quinto della popolazione totale. Non ci sono stati tentativi di assimilarli nella struttura coloniale, come in altri casi di regimi di colonizzazione di insediamento. La preoccupazione che Israele avesse un carattere esclusivamente ebraico ha lasciato i suoi cittadini palestinesi ai margini, eppure loro continuano a sopravvivere.

La cittadinanza come meccanismo di apartheid

Si dice spesso che i palestinesi in Israele sono cittadini “di seconda classe”, eppure questa frase non rispecchia la realtà. Anche se ai palestinesi rimasti all’interno dei confini del nuovo Stato è stata concessa la cittadinanza israeliana, fin dall’inizio non è stata usata come meccanismo di inclusione. Questo perché in Israele, a differenza della maggior parte dei Paesi, cittadinanza e nazionalità sono termini e categorie distinte. Mentre esiste la cittadinanza israeliana, non esiste la nazionalità israeliana; piuttosto, la nazionalità viene definita in base a criteri etnico-religiosi. Israele conta 137 possibili nazionalità, compresi ebrei, arabi e drusi, che sono registrate sulle carte di identità e nelle banche dati dell’anagrafe. Ma poiché lo Stato si definisce costituzionalmente come ebraico, coloro che hanno nazionalità ebraica contano di più della popolazione non ebrea (in maggioranza palestinese).

Dato che la nazione ebraica e lo Stato di Israele sono considerati una sola cosa, la conseguenza è l’esclusione dei cittadini non ebrei. Il rapporto ESCWA spiega che la distinzione tra cittadinanza e nazionalità consente un sistema razzista sofisticato e occulto, non necessariamente rilevabile dall’osservatore non esperto. Il sistema divide la popolazione in due categorie (ebrei e non ebrei), incarnando proprio la definizione di apartheid. I cittadini palestinesi sono quindi definiti “arabi israeliani”, termine diventato usuale nei principali media. Oltre a far parte del meccanismo binario di esclusione, questo termine tenta di negare l’identità palestinese di questi cittadini, mentre consente ad Israele di presentarsi come uno Stato eterogeneo e multiculturale. Questo incide sull’accesso alla terra, all’abitazione e all’educazione, come si esporrà più avanti.

Sia i cittadini palestinesi che gli ebrei israeliani hanno più volte sollevato la questione della cittadinanza e della nazionalità nei tribunali israeliani. Mentre i palestinesi lo hanno fatto nel tentativo di ottenere pieni diritti all’interno dello Stato, gli ebrei israeliani hanno in genere richiesto di abbandonare l’identità etnica e religiosa. Finora la Corte Suprema ha respinto tutte le petizioni per cambiare la legge, sulla base del fatto che la nazionalità israeliana potrebbe tecnicamente aprire all’inclusione di cittadini non ebrei e minacciare il dogma sionista di Israele come Stato della nazione ebraica.

Segregazione e esproprio della terra

Anche l’organizzazione dello spazio all’interno di Israele configura l’apartheid. La maggior parte dei palestinesi cittadini di Israele vive in villaggi e città di soli arabi, soltanto alcuni vivono in “città miste”. Questa segregazione non è casuale, né un “naturale” modello residenziale. Un esame sommario rivela l’obiettivo israeliano di comprimere il maggior numero di arabi palestinesi nella più piccola porzione possibile di terra. I villaggi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 hanno visto espropriata molta della loro terra e da allora non è stata permessa alcuna espansione. Il risultato è che questi villaggi e cittadine arabi soffrono di un grave sovraffollamento e non hanno opportunità di riscatto attraverso sviluppo o crescita. Inoltre, dal 1948 non è stato costruito un solo nuovo villaggio o città arabi.

Se i palestinesi lasciano le loro città e villaggi di origine, non hanno la possibilità di comprare o affittare terra grazie a due principali meccanismi: i comitati di ammissione e le politiche discriminatorie del Fondo Nazionale Ebraico (JNF) e delle autorità statali. Le comunità rurali possono istituire comitati di ammissione che controllano l’“idoneità sociale” dei potenziali residenti, consentendo il fatto che i palestinesi che fanno richiesta vengano “legalmente” non accettati in quanto non sono ebrei. L’Alta Corte ha avallato questa prassi nonostante le contestazioni contro di essa.

L’Autorità Israeliana per la Terra (nota come Israeli Land Administration [Amministrazione Israeliana della Terra] fino al 2009) è stata incaricata fin dall’inizio di mantenere il mandato del Fondo Nazionale Ebraico per agire come affidatario della terra di Palestina per il popolo ebraico ed operare in base alla Legge del 1952 sullo status dell’Organizzazione Mondiale Sionista-Agenzia Ebraica, la cui funzione principale consiste nel radunare e insediare gli ebrei di tutto il mondo in Israele.

Quindi la pianificazione urbana e rurale e l’organizzazione dello spazio mantengono la preminenza del carattere ebraico dello Stato e corroborano la narrazione sionista. L’obiettivo del Piano Generale di Israele, formulato in base alla Legge del 1965 sulla pianificazione e l’edilizia, ribadisce questa politica: “Sviluppare aree in Israele in modo da permettere la realizzazione degli obbiettivi della società israeliana e delle sue diverse componenti, la realizzazione del suo carattere ebraico, l’inserimento di immigrati ebrei ed il mantenimento del suo carattere democratico.”

Questa ideologia e le politiche che la supportano hanno avuto conseguenze devastanti per le zone palestinesi lungo i confini del 1948. In Galilea, dove i palestinesi sono la maggioranza, il governo israeliano ha condotto decisi tentativi di “giudaizzare” la regione. Questo comprende l’accerchiamento dei villaggi palestinesi con insediamenti ebrei per impedire la contiguità geografica, – rivelando le preoccupazioni demografiche dello Stato, soprattutto il suo timore per la crescita della popolazione palestinese. Questa preoccupazione israeliana si è espressa anche attraverso continue espulsioni e trasferimenti di decine di migliaia di beduini palestinesi nel Naqab (Negev).

Ben 90.000 beduini vivono in “villaggi non riconosciuti”, il che significa che Israele considera questi villaggi illegali ed i loro abitanti “intrusi” nella terra dello Stato. La definizione di “illegali” deriva anzitutto dal fatto che molti dei villaggi sono precedenti alla nascita di Israele e la tradizione beduina determinava la proprietà della terra. Riguardo agli altri villaggi, i beduini li hanno creati dopo essere stati espulsi dalle loro terre ancestrali nel 1948 e non sono “autorizzati” dallo Stato. In questo modo, Israele rivendica la legittimità di privare molti beduini del Naqab dei servizi essenziali come l’acqua e l’elettricità e in molti casi distrugge i villaggi.

Il fatto che palestinesi ed ebrei vivano in aree segregate rende più facile per Israele privare dei servizi i palestinesi in altre zone all’interno dei confini del 1948. Le organizzazioni para-governative che si occupano di allocazione delle risorse favoriscono tale deprivazione. Queste organizzazioni sono enti ebraici o sionisti, comprese l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, ed il loro compito è essere al servizio del popolo ebraico e mantenere il carattere sionista dello Stato. Di conseguenza, negano risorse ai palestinesi allo stesso modo in cui viene loro negato lo spazio, sulla base del fatto che non sono ebrei. Pur se in molti Paesi esiste una distribuzione iniqua ed ingiusta delle risorse e della terra, raramente tali politiche sono inserite in modo così esplicito nella legge come in Israele.

Conservare il regime

Israele mantiene questo regime di apartheid tramite vari metodi di controllo esterno ed interno. All’interno dei confini del 1948 lo Stato cerca di sottomettere i palestinesi fin dall’inizio della loro esistenza attraverso il sistema educativo. Stabilito durante il regime militare, il sistema scolastico statale ha posto i bambini palestinesi e quelli ebrei israeliani in scuole separate. Il docente di Educazione dell’università Ben Gurion del Negev, Ismael Abu-Saad, ha affermato che, mentre le strutture formali del regime militare sono cambiate da allora, la strategia di usare “l’educazione come strumento a fini politici è perdurata e continua ancora oggi a determinare l’esperienza educativa degli studenti arabi palestinesi autoctoni in Israele.”

Questa strategia politica include il controllo del curriculum per eliminare l’identità palestinese ed impedire la mobilitazione contro lo Stato. Inoltre le scuole palestinesi hanno grande carenza di risorse: meno di un terzo di quanto viene speso per gli scolari ebrei israeliani è speso per quelli palestinesi. Questa mancanza di risorse non solo dimostra le palesi ineguaglianze tra le due categorie di cittadini, ma è anche un ostacolo per le opportunità dei ragazzi palestinesi nella loro vita futura.

Le scuole ebree israeliane godono di ampia autonomia relativamente al loro curriculum, mentre il ministero dell’Educazione stabilisce il curriculum delle scuole palestinesi. Non sorprende quindi che il curriculum delle scuole palestinesi sia quasi del tutto incentrato sulla storia, sui “valori” e sulla cultura ebraica, senza riferimenti alla storia palestinese e araba. La narrazione della Nakba, come i palestinesi chiamano la catastrofe della loro espulsione nel 1948, non esiste – e di fatto è messa al bando. La “Legge sul Finanziamento delle Fondazioni “di Israele, comunemente nota come “Legge della Nakba”, autorizza il ministro delle Finanze a ridurre o eliminare i finanziamenti statali a qualunque istituzione che commemori la Nakba o definisca il giorno dell’indipendenza israeliana un giorno di lutto.

Ciò riguarda scuole, Ong e amministrazioni comunali. La negazione di questo aspetto fondamentale della storia palestinese mira a recidere l’identità collettiva dei palestinesi, in cui la Nakba riveste un ruolo essenziale.

Se i palestinesi possono ottenere qualche successo nell’ambito del sistema giuridico israeliano attraverso azioni legali o ricorsi, non sono in grado di minacciare seriamente il regime razziale. E benché la partecipazione politica palestinese alla Knesset (parlamento israeliano) sia spesso citata come esempio della pluralità e della democrazia dello Stato, dal 1948 nessun partito arabo è stato incluso in una coalizione di governo e solo alcuni cittadini palestinesi sono stati designati in posizioni ministeriali.

I candidati alla Knesset possono essere esclusi se negano l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico, il che rende la partecipazione politica in Israele basata sulla premessa di accettare che lo Stato è per il popolo ebraico e che l’esistenza dei palestinesi nello Stato non sarà mai uguale a quella delle loro controparti ebree.

La mobilitazione politica contro il regime è stata perciò condotta al di fuori della politica istituzionale, sia nella società civile che negli ambienti militanti, entrambi i quali sono sotto costante controllo e intimidazione. “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della minoranza araba in Israele, ha documentato la sistematica attività dello Stato di arresti e persecuzioni di soggetti rilevanti della società civile e di militanti politici. Analogamente, spesso lo Stato reprime con violenza le manifestazioni, in particolare nell’ottobre 2000, quando 13 cittadini palestinesi disarmati furono uccisi con armi da fuoco per aver protestato in solidarietà con i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nonostante queste crudeli e violente prassi, Israele conserva un’immagine di democrazia liberale e multiculturale – un alleato dell’Occidente in una regione altrimenti ostile. Dipinge il sionismo come un’ideologia di liberazione nazionale ebraica, invece che come base di un regime coloniale di insediamento che mantiene un sistema di apartheid. Israele è anche riuscito a orientare la discussione su che cosa sia la Palestina e chi sia un palestinese.

Sicuramente la Nakba ha diviso il popolo palestinese in tre parti: i palestinesi cittadini di Israele, i palestinesi in Cisgiordania e Gaza e i palestinesi in esilio (i rifugiati). Israele ed i vari processi di pace, compresi gli accordi di Oslo, hanno continuato a consolidare questa frammentazione attraverso la volutamente limitata interpretazione della Palestina come i “Territori Palestinesi Occupati” – e del popolo palestinese come persone all’interno di quei territori. Questo omette di riconoscere la Nakba come parte della storia palestinese e quindi esclude sia i palestinesi cittadini di Israele che i rifugiati in esilio dalla lotta di liberazione palestinese. Il rapporto ESCWA sottolinea che questa frammentazione è il principale strumento con cui Israele impone l’apartheid al popolo palestinese. È perciò importante elaborare strategie per usare l’analisi dell’apartheid e sfidare quella frammentazione.

L’analisi dell’apartheid come strategia per garantire diritti a tutti i palestinesi

Il termine “apartheid”, senza dubbio a causa delle sue gravi implicazioni politiche e giuridiche, non è ancora entrato nella sfera dei principali ambiti mediatici e politici in relazione ad Israele e Palestina. È stato solo occasionalmente applicato alla situazione della Cisgiordania. Anzi, il rapporto ESCWA, con la sua conclusione che Israele pratica l’apartheid su tutta la popolazione palestinese, è stato ritirato poco dopo la pubblicazione, in seguito all’enorme pressione da parte di USA ed Israele.

Ciononostante, l’analisi dell’apartheid può essere utilizzata strategicamente per contrastare la frammentazione del popolo palestinese e promuovere i suoi diritti, compresi quelli dei palestinesi cittadini di Israele. Ci sono molte ragioni per cui ’analisi dell’apartheid è particolarmente utile al riguardo.

Anzitutto, il diritto internazionale fornisce un modello e una definizione universali del termine, che riconosce che l’apartheid può assumere diverse forme. La comprensione dell’apartheid non si limita quindi a quello del regime sudafricano. Apartheid è anche un meccanismo inserito nel sistema giuridico, praticato e mantenuto dallo Stato. In quanto tale, il problema non riguarda i partiti politici o i politici al governo, ma piuttosto il fondamento costituzionale dello Stato stesso. Infine, l’analisi dell’apartheid riconosce che il regime israeliano di oppressione e discriminazione non solo colpisce tutte le componenti della società palestinese, ma di fatto dipende da tale frammentazione. Perciò le soluzioni a lungo termine alla violazione dei diritti dei palestinesi devono prendere in considerazione tutte le componenti del popolo palestinese, non solo i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il problema dell’apartheid riguarda il fondamento costituzionale dello Stato.

Creare questi punti di forza consente alcune possibili strategie. Chi si occupa di diritto internazionale e di analisi politica non deve rinunciare a perseguire i diritti dei palestinesi nel quadro dell’occupazione militare, in particolare del riconoscimento della Linea Verde [il confine tra Giordania ed Israele prima della guerra del ’67, ndt.]. Tuttavia i politici ed i soggetti della società civile devono anche evidenziare che i palestinesi cittadini di Israele ed i palestinesi rifugiati non sono separati dalla complessiva lotta palestinese. Tenere insieme questi elementi può aiutare a sfidare i limiti del discorso internazionale che detta i criteri su chi sia un palestinese.

Per i palestinesi, soprattutto per la leadership politica e della società civile, uno dei compiti più importanti dovrebbe essere contrastare la frammentazione imposta dal regime israeliano. I dirigenti devono prendere in considerazione l’epoca antecedente a Oslo, un periodo di maggior cooperazione attraverso la Linea Verde, e portare avanti il lavoro già in atto, benché su piccola scala, da parte di diverse Ong che si occupano soprattutto di raggruppare insieme i giovani palestinesi, come Baladna (Associazione per la gioventù araba con sede ad Haifa). Ciò che è necessario è uno sforzo collettivo sviluppato dai palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde e in esilio, che spinga per una visione politica ed un futuro sostenibile.

Vi è un precedente di una tale visione tra i palestinesi cittadini di Israele. I ‘Documenti per una visione del futuro’, pubblicati nel 2006-2007, sono scaturiti dal lavoro collettivo di politici, intellettuali e leaders della società civile palestinesi. I documenti non solo enunciavano le richieste sociali e politiche della comunità palestinese in Israele, ma proponevano anche una sintetica narrazione palestinese. Ne è risultato un quadro teoretico e strutturato per i diritti dei palestinesi entro lo Stato di Israele. Il quadro disegnava il futuro a prescindere dalle limitazioni dall’alto al basso e avanzava proposte politiche concrete.

Però l’accento posto dai documenti su Israele mette in luce I loro limiti, soprattutto relativamente alla frammentazione. Ampliare questa visione attraverso ed oltre la Linea Verde e trasformarla in una richiesta di fine dell’apartheid e della frammentazione imposta, deve assumere un ruolo centrale nella lotta di liberazione palestinese. Solo attraverso un simile sviluppo tutti gli aspetti del regime israeliano di apartheid possono essere messi in discussione.

Note:

  1. Il rapporto ESCWA afferma: “Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina i palestinesi nel loro complesso….Israele è colpevole di politiche e prassi che configurano il crimine di apartheid come giuridicamente definito nei dispositivi del diritto internazionale.”

  1. Un caso recente è stato il tentativo di sfratto nel 2014 della famiglia Ghaith-Sub Laban, che aveva vissuto nella sua casa nella città vecchia di Gerusalemme per 60 anni.

Yara Hawari

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka: rete di politica palestinese.

E’ una studiosa-attivista anglo-palestinese, i cui lavori sono sempre improntati al suo impegno per la decolonizzazione. Originaria della Galilea, Yara ha passato la sua vita tra la Palestina e il Regno Unito. Attualmente è dottoranda all’ultimo anno presso il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter. La sua tesi si incentra su progetti ed iniziative di storia orale in Galilea, e più ampiamente sulla storia orale come forma autoctona di produzione di conoscenza. Yara è anche assistente all’insegnamento post-laurea e lavora come giornalista freelance pubblicando per diversi organi di informazione, compresi Electronic Intifada e The Independent.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)