Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ANP sta sfruttando la storia invece di affrontare la realtà

Ramona Wadi

9 gennaio 2018, Middle East Monitor

Solo una settimana dopo che il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato che importanti decisioni verranno prese nel 2018, ci sono già degli indizi che una delle priorità sia prolungare lo stallo politico a beneficio di Israele.

Lunedì l’agenzia Wafa [agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ndt.] ha informato che il comitato centrale dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce la maggior parte dei gruppi politici palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.] terrà un incontro il 14 gennaio, apparentemente per “cercare una nuova prospettiva politica” riguardo alle conseguenze dell’annuncio del presidente USA Donald Trump del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

La breve nota di stampa si riferisce a una dichiarazione del presidente del consiglio nazionale palestinese [il parlamento dell’OLP, ndt.], Salim Zanoun, che ha fornito ulteriori dettagli sull’imminente incontro. Tra le questioni citate c’è un riesame dello scenario politico dagli accordi di Oslo, l’unità nazionale e il rinnovamento della “resistenza popolare non violenta contro l’occupazione israeliana”. La riunione, secondo Zanoun, sarà aperta a tutte le fazioni palestinesi, compreso Hamas.

Continuare ad avere contrasti insanabili rimane una priorità per Ramallah. Israele, rafforzato dalla decisione unilaterale su Gerusalemme da parte degli USA, si è avvalsa del momento per rafforzare ulteriormente l’usurpazione del territorio palestinese. Invece i dirigenti dell’OLP staranno a riepilogare un passato che è stato analizzato ed esaminato dai suoi inizi, con l’insistenza condivisa sul fatto che il ruolo degli accordi [di Oslo] è stato di creare nuovi livelli di dipendenza e di violenza per i palestinesi. Pertanto la nuova prospettiva politica cui allude Zanoun è una prassi di risposta diplomatica dilatoria. Anche se il contesto storico è sempre importante e dovrebbe far parte di ogni analisi sull’attualità, sfruttare la storia con l’intento di allontanare l’attenzione dalle attuali violazioni dimostra la politica di esclusione che caratterizza l’ANP.

L’ANP è stata in grado di mettere in pratica una simile politica per fornire dei vantaggi ad Israele. Mettendo ai margini altre fazioni palestinesi, soprattutto Hamas, Abbas si è scavato una nicchia in cui la dissociazione tra la dirigenza e il popolo è arrivata a livelli pericolosi. A prescindere dalle attuali circostanze, comprese le proteste su Gerusalemme che la stessa ANP ha cercato di capitalizzare senza responsabilità riguardo la sicurezza dei civili, gli accordi di Oslo forniranno ora un temporaneo piedistallo come metafora per la messa in atto di ulteriori ritardi. Mentre Israele colonizza il territorio, la dirigenza palestinese collabora con questo processo con diverse forme di mistificazione. Queste tattiche rendono già vuoto di senso l’incontro, per non parlare della prova evidente di come gli accordi hanno contribuito alla frammentazione della Palestina con l’approvazione internazionale.

Oltretutto invitare Hamas a partecipare alla riunione dopo gli ultimi mesi di pressioni costituisce un’altra forma di mistificazione. Le fluttuazioni su Gaza sono dannose per l’enclave – ogni serie di violazioni è rapidamente dimenticata per spianare la strada a quelle che seguono, che sia una promessa di ricostruzione o di un graduale ripristino della fornitura elettrica, che è ancora inadeguata. La stessa manipolazione viene applicata quando il degrado della situazione umanitaria non è più una preoccupazione politica di Abbas.

Ci sono due principali tattiche utilizzate a questo proposito. Una è che Abbas conservi l’apparenza della riconciliazione e dell’unità nazionale. L’altra è la normalizzazione delle privazioni che hanno precipitato Gaza nella scelta tra due scenari disastrosi. La partecipazione di Hamas a questo imminente incontro rafforzerà questa dinamica, in cui la marginalizzazione del movimento avverrà comunque in entrambi i casi. Tuttavia, data l’insistenza sul discutere di Oslo decenni dopo il prolungamento della violenza coloniale sui palestinesi da parte dell’ANP, è importante ricordare che i fondamenti dell’unità nazionale non possono essere formulati da Abbas, data la sua dipendenza dal contesto che sostiene politiche autoritarie a spese dei palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Imporre la pace: Trump e i palestinesi

Osamah Khalil

18 dicembre 2017, Al Shabaka

L’annuncio del presidente Donald Trump secondo cui riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele rappresenta il culmine della politica estera USA durante settant’anni in cui l’obiettivo del processo di pace è stato imporre una soluzione ai palestinesi.

Eppure per circa trent’anni la strategia della dirigenza palestinese è stata l’esaltazione della prevalenza dei negoziati e di politiche guidate dall’élite. Si è concentrata sul garantire la lealtà dei palestinesi al suo programma politico attraverso il clientelismo e la repressione. La dirigenza ha messo da parte, se non danneggiato attivamente, l’organizzazione di base ed ha consumato le istituzioni nella vana e sempre più disperata speranza che i suoi sforzi sarebbero stati premiati dagli Stati Uniti e da Israele. Al contempo la sua politica ha garantito che la ristretta cerchia che beneficia del processo di pace e dell’occupazione israeliana resistesse. I risultati di questa strategia sbagliata sono apparsi evidenti con l’annuncio di Trump, ma sono stati evidenti anche da parecchio tempo.

L’Autorità Nazionale Palestinese dipende dall’appoggio finanziario, soprattutto degli Stati Uniti. Pertanto è improbabile che faccia ricorso nel breve termine a qualcosa di più che iniziative retoriche e simboliche e vuote minacce. Continuerà a concentrarsi sulle élite internazionali e potrebbe tentare di trovare un nuovo mediatore per i negoziati con Israele. Tuttavia non ci sono ragioni per cui Israele riprenda i negoziati in questo momento e consenta che emerga un nuovo mediatore. Se la dirigenza palestinese è seria in merito a un cambiamento rispetto alla soluzione dei due Stati, come ha sostenuto recentemente uno dei suoi rappresentanti, allora l’unica iniziativa significativa che potrebbe prendere è lo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Benché un’azione così drammatica obbligherebbe Israele, gli Stati Uniti, i Paesi arabi e la comunità internazionale nel suo complesso ad una risposta, ciò implicherebbe che la dirigenza abbandonasse la propria posizione ed i propri privilegi. Ciò è ancora più improbabile che l’apparizione di un nuovo mediatore per i negoziati di pace che sfidi gli Stati Uniti.

La dichiarazione di Trump: settant’anni di preparazione

Il processo di pace può essere di fatto diviso in due periodi. Nel primo, dalla fine della guerra palestinese del 1948 e della Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi ad opera delle milizie sioniste, ndt.] fino a metà degli anni ’70, gli Stati Uniti hanno cercato di ignorare la questione palestinese concentrandosi sugli Stati arabi. I palestinesi vennero trattati come un problema umanitario che doveva essere risolto senza il loro intervento piuttosto che una questione politica che li includesse come parte dei negoziati.

Mentre gli Stati arabi erano generalmente disponibili a un accordo di pace con Israele a patto che il problema dei rifugiati palestinesi venisse risolto, Israele rimase il principale impedimento. L’intransigenza israeliana non fece che aumentare dopo la guerra del giugno 1967 e l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, del Sinai e delle Alture del Golan. Subito dopo la guerra del giugno 1967 gli Stati Uniti misero in rilievo negoziati “terra in cambio di pace”, soprattutto con l’Egitto e con la Giordania. Continuarono ad ignorare l’emergere di organizzazioni politiche palestinesi, compresa Fatah, che col tempo avrebbe dominato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

In seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, Washington sembrò più interessata ad affrontare le rivendicazioni palestinesi. Eppure nel secondo periodo del processo di pace Washington cercò di limitare o sabotare la partecipazione dei palestinesi alle trattative. Pubblicamente ciò venne ottenuto imponendo all’OLP richieste perché dimostrasse la sua adeguatezza come partner nei negoziati. Washington insistette che l’organizzazione accettasse le risoluzioni 242 e 338 del consiglio di sicurezza dell’ONU e riconoscesse Israele.

In privato gli Stati Uniti ed Israele si coordinarono nei negoziati e Washington accettò di appoggiare, se non assecondare, la posizione israeliana sulle questioni chiave. Quindi Washington chiese all’OLP di fare importanti concessioni solo per partecipare ai negoziati, senza alcuna garanzia che avrebbero avuto successo. Gli accordi segreti e il coordinamento tra gli Stati Uniti ed Israele servirono a garantire che qualunque accordo sarebbe stato a scapito dei palestinesi.

Il mito del mediatore imparziale

Il concetto secondo cui gli Stati Uniti sono un “mediatore imparziale” è stato perpetuato da diplomatici americani egocentrici, da politici e dalla stampa. Non ha nessuna base nella realtà storica del conflitto arabo-israeliano e del processo di pace. L’eccessivo ruolo di Washington è in parte un riflesso del suo status come unica superpotenza che ha forgiato l’ordine internazionale e le istituzioni dopo la Seconda Guerra Mondiale. C’è spesso un malinteso fondamentale sulla Guerra Fredda e sull’influenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla scena mondiale. Benché fossero in competizione, Washington era e rimase molto più potente e influente di Mosca sul piano politico, economico e militare.

Benché la posizione internazionale dell’America nei primi anni ’70 fosse ridotta a causa della guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del 1973 fornì a Washington un’opportunità per ribadire la propria influenza in Medio Oriente attraverso il processo di pace. Gli Stati arabi e i palestinesi non videro gli Stati Uniti come un mediatore imparziale. Semmai vennero visti come l’unico potere che sembrava in grado di imporre concessioni da parte di Israele. La nozione secondo cui gli USA potessero aiutare ad ottenere la pace con Israele era promossa dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, in quanto essi intendevano contenere l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione ed a livello internazionale. Ciò è stato dimostrato dalla deliberata politica di Kissinger nei confronti del processo di pace, che intendeva escludere Mosca dai negoziati e rompere la posizione negoziale araba unitaria.

Gli accordi di Camp David del 1978 ed il trattato di pace finale tra Egitto ed Israele confermarono la strategia di Kissinger, che venne adottata dalle successive amministrazioni americane e le influenzò. Anche se Washington riuscì a contribuire a raggiungere la pace tra Egitto ed Israele, quello che è spesso trascurato è che le concessioni di Israele vennero fatte a spese dei palestinesi che vivevano sotto occupazione. Né gli accordi di Camp David comportarono successivi accordi di pace, come sperava il presidente Jimmy Carter, o ulteriori concessioni territoriali da parte di Israele.

Gli accordi di Oslo rafforzarono ulteriormente queste politiche. Washington non venne coinvolta nei negoziati originari né nella dichiarazione di principi del 1993. In effetti, una volta che il processo venne monopolizzato dal presidente Bill Clinton, i negoziati sullo status finale vennero rimandati e alla fine fallirono. Come le precedenti amministrazioni americane, Clinton si mise d’accordo in pubblico ed in privato con Israele. L’amministrazione Clinton si accordò segretamente con l’allora ed attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per discutere ogni proposta americana con Israele prima di presentarla al gruppo di negoziatori palestinesi.

Benché finalmente i palestinesi avessero un posto al tavolo dei negoziati quasi alla pari con gli israeliani, ed al presidente dell’OLP Yasser Arafat venisse consentito di recarsi varie volte alla Casa Bianca di Clinton, il ruolo di Washington era ancora quello di imporre un accordo di pace. Da Arafat e dalla neonata Autorità Nazionale Palestinese ci si aspettava che applicassero una pace inaccettabile e un’occupazione continua in cambio di una parvenza di statualità, ma senza una vera sovranità. A dispetto di tutte le iperboli sulla “generosa offerta” a Camp David nel 2000, Israele e l’allora primo ministro Ehud Barak non avevano intenzione di accettare neppure l’apparenza di uno Stato palestinese e di una Gerusalemme divisa. Guarda caso il fallimento dei negoziati per lo status finale venne attribuito ai palestinesi e ad Arafat, ma le sue radici risalgono al costante approccio al processo di pace fin dal suo inizio.

Il ruolo della politica USA

Benché gli Stati Uniti conservino la posizione dominante sulla scena mondiale, la loro politica interna è provinciale e guidata dai cicli elettorali di due e quattro anni. La necessità di ottenere fondi per le campagne delle elezioni politiche per il Congresso e per la presidenza si traduce nell’eccessiva influenza di importanti donatori su questioni di politica, compresi i rapporti internazionali. Ciò è risultato evidente nella volontà dei candidati presidenziali, compreso Barak Obama nel 2008, di dichiarare pubblicamente che Gerusalemme “dovrebbe rimanere la capitale di Israele e dovrebbe restare indivisa” durante le elezioni, ma di rimandare questa iniziativa fino al raggiungimento di un accordo finale.

Gli sconfortanti livelli di gradimento e gli scarsi risultati di Trump dopo circa un anno in carica hanno contribuito alla decisione su Gerusalemme. In particolare ciò potrebbe aiutare le possibilità del partito Repubblicano di conservare la sua maggioranza nelle elezioni di metà mandato del 2018 e le speranze di rielezione di Trump nel 2020. È probabile che l’annuncio rafforzi la posizione di Trump tra la base cristiana evangelica del partito Repubblicano ed alcuni importanti esponenti si sono affrettati ad acclamare l’annuncio. Questo soddisferà anche i principali donatori di fondi come Sheldon Adelson, un sostenitore di spicco delle colonie israeliane. Poiché la decisione ha un sostegno trasversale, compresi importanti dirigenti democratici, ciò potrebbe anche rendere Trump e il partito Repubblicano più graditi per i votanti filo-israeliani in Stati chiave in cui le elezioni sono sempre più combattute a causa di mutamenti demografici.

Manovre regionali

In quanto debole attore senza uno Stato, i palestinesi sono stati soggetti alle dinamiche regionali e alle politiche della grande potenza. Ciò include regimi che sono stati ostili al nazionalismo palestinese, come la Giordania, o quelli che intendono strumentalizzare i partiti politici palestinesi in competizione tra loro per i propri scopi e progetti regionali, come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. Washington ha spesso cercato di fare pressione sui dirigenti palestinesi attraverso gli Stati arabi con risultati alterni.

Nel loro tentativo di stringere un’alleanza contro l’Iran che includa Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero tentare di obbligare Mahmoud Abbas e la dirigenza palestinese ad accettare un accordo di pace. Tuttavia si renderanno conto che l’ostacolo non è rappresentato da Ramallah. Piuttosto, come altri leader arabi hanno imparato in ritardo, Israele incasserà ogni concessione facendo al contempo altre richieste e saboterà negoziati che possano dare come risultato uno Stato palestinese. L’annuncio di Trump su Gerusalemme, presumibilmente con il tacito accordo di Riyadh e di altre capitali arabe, ricompensa esclusivamente l’intransigenza di Israele a spese dei palestinesi che vivono sotto occupazione e nella diaspora.

Osamah Khalil

Consigliere politico di Al-Shabaka, Osamah Khalil è co-fondatore ed ex co-direttore di Al-Shabaka. È professore associato di storia presso la Maxwell School of Citizenship and Public Affairs dell’università di Syracuse. Khalil è autore di “America’s Dream Palace: Middle East Expertise and the Rise of the National Security State” [Il posto dei sogni dell’America: la conoscenza del Medio Oriente e la nascita dello Stato della Sicurezza Nazionale] (Harvard University Press, 2016).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 19 dicembre 2017 – 1 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (TPO), durante il periodo di riferimento del presente bollettino, l’ondata di proteste e scontri è continuata, seppur con intensità ridotta; era iniziata il 6 dicembre, dopo il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele da parte degli Stati Uniti.

Dall’inizio delle proteste, complessivamente, 14 palestinesi sono stati uccisi e 4.549 sono stati feriti dalle forze israeliane. Le persone ferite durante tale periodo rappresentano circa il 56% del totale dei feriti nel 2017.

Nella Striscia di Gaza, in scontri correlati alle summenzionate proteste, tre civili palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 280 sono rimasti feriti; altri due civili sono morti per le ferite riportate in episodi simili accaduti durante il precedente periodo di riferimento. Gli episodi si sono svolti vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele ed hanno comportato lanci di pietre contro le forze israeliane schierate dalla parte israeliana. Queste, a loro volta, hanno sparato contro i manifestanti con armi da fuoco, proiettili di gomma e bombolette lacrimogene. I tre morti, tutti uomini, si sono avuti in distinti episodi accaduti il 22 ed il 30 dicembre: ad est di Jabalia, nella città di Gaza e ad est di Deir al-Balah. Gli altri due, sempre uomini, sono morti per le ferite riportate l’8 e il 17 dicembre. Dei feriti registrati, almeno 27 erano minori; più di un terzo (103) sono stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti sono stati medicalizzati per inalazione di gas lacrimogeno o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

1.386 palestinesi, di cui almeno 226 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di scontri; la maggioranza (93%) nel contesto delle proteste sopra menzionate. Il numero più consistente di feriti durante proteste è stato registrato nella città di Nablus, seguita dalla città di Jericho, dalla città di Al Bireh (Ramallah) e dalla città di Abu Dis (Gerusalemme). Degli altri feriti, la maggior parte è stata registrata nel corso di operazioni di ricerca-arresto, le più vaste delle quali si sono svolte nella città di Qalqiliya e nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico). Così come era avvenuto nel precedente periodo di riferimento, la maggior parte delle lesioni (68%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeni con esigenza di trattamento medico, seguite da ferite causate da proiettili di gomma (21%).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 170 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 214 palestinesi, di cui almeno 18 minori. Più di un terzo di queste operazioni ha provocato scontri con i residenti. Altri tre palestinesi, tra cui una donna e un minore, sono stati arrestati, in tre diversi episodi mentre, secondo fonti israeliane, tentavano di aggredire con coltello forze israeliane (in due casi) e per possesso di esplosivi (un caso).

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato numerosi razzi in direzione del sud di Israele: due di questi sono caduti in Israele ed hanno danneggiato un edificio; la maggior parte sono stati intercettati in aria da missili israeliani o sono ricaduti nella Striscia di Gaza. I lanci di razzi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza, con danni a numerosi siti che, secondo quanto riferito, apparterrebbero a gruppi armati palestinesi.

In almeno 22 occasioni, le forze israeliane, allo scopo di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa di Gaza: quattro pescatori sono stati arrestati, uno dei quali ferito con arma da fuoco, e una barca è stata confiscata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato cinque strutture, sfollando cinque palestinesi e coinvolgendone altri 33. Tre delle strutture prese di mira, una delle quali demolita dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione, erano in Gerusalemme Est; le altre due nelle parti locate in Area C dei villaggi di Tarqumiya (Hebron) ed Al Walaja (Betlemme).

Sempre in Area C, nel villaggio di Bani Na’im (Hebron), le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione ed arresto lavori contro otto strutture finanziate da donatori; tra queste una scuola, una clinica sanitaria, una moschea e cinque strutture residenziali. Tre di queste strutture erano state finanziate dal Fondo Umanitario per i Territori occupati [Organismo delle Nazioni Unite].

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha costretto una famiglia palestinese a svuotare delle loro merci un magazzino-negozio e l’ha consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliana che ne rivendicava la proprietà. Lo sfratto conclude lunghi procedimenti presso tribunali israeliani, dove la famiglia aveva contestato, senza successo. lo sfratto, sostenendo di essere un “inquilino protetto”. A Gerusalemme Est, sono state presentate almeno 180 istanze di sfratto contro famiglie palestinesi. La maggior parte di queste istanze, avviate da organizzazioni di coloni israeliani, si basano sia su rivendicazioni di proprietà, sia su attestazioni che gli affittuari non sono più “inquilini protetti”.

L’esercito israeliano ha bloccato un certo numero di strade, sia di accesso che interne all’area di Massafer Yatta di Hebron, ed ha emesso un ordine militare che impone ai palestinesi l’acquisizione di permessi per superare i nuovi ostacoli. Per circa 1.400 persone, residenti in 12 comunità, le nuove restrizioni hanno interrotto l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Queste comunità si trovano in una zona designata da Israele “area chiusa per addestramento militare” (zona per esercitazioni a fuoco 918) e sono considerate ad alto rischio di trasferimento forzato. Nella Cisgiordania centrale, il 1° gennaio, dopo averlo bloccato per sette giorni consecutivi, l’esercito israeliano ha riaperto il checkpoint principale che controlla, da est, l’accesso a Ramallah (checkpoint DCO).

Il 29 dicembre, una ragazzina palestinese di 9 anni, malata e con bisogni speciali, è morta mentre si recava in un ospedale della città di Nablus: al checkpoint di Awarta (Nablus) i soldati israeliani le avevano negato l’accesso. Secondo la famiglia della ragazza, dopo aver discusso per circa mezz’ora con i soldati, hanno fatto una deviazione verso il checkpoint di Huwwara. A causa di scontri in corso, anche questo risultava bloccato; dopo un lungo ritardo sono riusciti comunque a superarlo. Circa 90 minuti dopo aver lasciato la loro casa nel villaggio di Awarta, sono arrivati all’ospedale dove la ragazza è stata dichiarata morta. La durata normale del viaggio tra il villaggio e l’ospedale è di 15 minuti.

Sono stati segnalati almeno otto attacchi da parte di coloni israeliani con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a proprietà. Secondo quanto riferito, quattro di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama e Burin (Nablus), ed hanno comportato danni a 62 alberi, l’aggressione fisica a due uomini palestinesi e l’incursione in una scuola. In conseguenza di quest’ultimo episodio, le forze israeliane sono intervenute, scontrandosi con gli studenti e ferendone 11. Altri 22 palestinesi sono rimasti feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. A Ya’bad (Jenin) e Beit Safafa (Gerusalemme Est), in due distinti episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di coloni israeliani, tre veicoli palestinesi e una casa hanno subito danni.

Sono stati segnalati almeno undici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nelle zone di Hebron, Ramallah e Gerusalemme. Secondo rapporti di media israeliani, sono stati provocati danni a cinque veicoli privati e alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat di Gerusalemme Est.

Il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto un giorno, il 19 dicembre, in entrambe le direzioni, consentendo a 569 persone di lasciare Gaza e a 92 di tornarvi. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, compresi casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 gennaio, in scontri scoppiati durante una manifestazione nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), un ragazzo palestinese di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Dopo la bomba atomica di Trump su Gerusalemme: valutazioni sulle opzioni per i palestinesi

Nadia Hijab,

8 dicembre 2017, Al-Shabaka

In tutto il mondo vengono organizzate proteste contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Facendo questo, Trump ha ignorato dettagli quali confini e frontiere – insieme allo stesso diritto internazionale – ed ha ribadito l’impegno USA, da sempre vuoto di significato, di favorire “un duraturo accordo di pace”.

Date le politiche assolutamente scandalose di Trump riguardo a Gerusalemme e ai diritti dei palestinesi in generale, come anche la velocità con cui la sua amministrazione agisce per fare a pezzi i diritti umani ed ambientali negli Stati Uniti e nel mondo intero, è facile cadere nella disperazione. Eppure in un momento simile è importante ricordare le tendenze di più lungo termine che lavorano a favore dei palestinesi e per porre il movimento nazionale palestinese – sia a livello politico che della società civile – nella migliore posizione.

Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento

Molti degli orientamenti a favore dei palestinesi sono dovuti al fatto che Israele sta superando i limiti. Ha vinto molte battaglie, ma non può vincere la guerra. Può sembrare illusorio, data la grande forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza regionale. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe dovuto metterlo in grado di avere la pace con gli arabi nei termini da lui stabiliti del 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e seppellire così la causa palestinese per sempre.

Invece ha proseguito sulla strada tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, che erano decisi a colonizzare ed espropriare, per garantire il minimo numero di autoctoni palestinesi ed il massimo numero di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950 riguardo ai 170.000 palestinesi riusciti a rimanere in ciò che divenne Israele nel 1948, dopo che 750.000 di loro furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che nei prossimi anni possa verificarsi un’altra possibilità di attuare il trasferimento di quegli arabi fuori dalla Terra di Israele.” Dayan divenne poi un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando altri circa 450.000 palestinesi furono costretti a diventare rifugiati.

Iniziata lentamente nel 1967, ma con una drastica accelerazione dopo gli accordi di Oslo apparentemente finalizzati, al momento della loro firma nel 1993, a portare la pace, la corsa inarrestabile di Israele alla colonizzazione dei territori appena acquisiti ha prodotto circa 600.000 coloni in 200 insediamenti, che frammentano la Cisgiordania e dividono tra loro i palestinesi. Il piano israeliano per Gerusalemme è apertamente improntato ad un rapporto di 70% a 30% tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi, previsto come risultato del diradamento degli abitanti di Gerusalemme est.

Sulla base del “successo” di questi sforzi, i leader israeliani ora pensano che non sia necessario occultare le loro ambizioni e proclamano esplicitamente i loro obiettivi, compresi i piani di ulteriori espulsioni di palestinesi e di discriminazione verso quelli che rimangono. Il numero di leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele è balzato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.

Sia le istituzioni ufficiali che le organizzazioni di destra stanno sempre più infliggendo simili trattamenti agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, a prescindere dalla religione o dall’etnia. Gli attacchi contro “Breaking the Silence” (Rompere il Silenzio), una Ong che promuove il fatto che i soldati israeliani denuncino ciò che sono costretti a fare ai palestinesi durante il loro servizio militare, ne sono solo un esempio. La repressione del ministro dell’Educazione Naftali Bennett nei confronti di ACRI (l’Associazione per le Libertà Civili in Israele) è un altro. “Goliath: life and loathing in greater Israel” (Golia: vita e odio nel grande Israele) di Max Blumenthal registra il percorso israeliano sempre più draconiano attraverso il XX secolo fino ad oggi ed è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questa questione.

Lo status di “luce per le nazioni” di cui Israele ha goduto in quanto “unica democrazia” nel Medio Oriente è svanito da tempo. Oggi il progetto di insediamento, con la sua flagrante violazione dei diritti dei palestinesi, ha messo a repentaglio la fondamentale pretesa israeliana di uno Stato ebraico. Molti hanno usato il termine apartheid per descrivere quanto sta accadendo ai palestinesi nei territori occupati (OPT), comprese strade separate, differenti sistemi giudiziari e gravi restrizioni all’accesso all’acqua, alla terra ed anche allo spettro elettromagnetico.

Sempre di più, la situazione nei territori occupati ha spinto gli Stati e i difensori della società civile a tenere conto di quanto accade – e di quanto è accaduto – ai cittadini palestinesi di Israele. Quando niente meno che l’ex direttrice dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times Jodi Rudoren, che aveva mostrato prudenza nei suoi reportage durante il suo mandato, afferma che il termine apartheid ben si addice al trattamento dei cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura dell’impresa è venuta in superficie. La prova è evidente: non è possibile avere uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i “non ebrei”. Chi può ora sostenere seriamente che Israele è uno Stato democratico?

Questa situazione ha condotto a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento del punto di vista degli ebrei americani. Esiste oggi una piccola percentuale, ma in rapida crescita, di ebrei americani che si mobilitano per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. A capo di questo cambiamento c’è “Jewish Voice for Peace (JVP)” (Voce ebrea per la pace), che sostiene i diritti dei palestinesi secondo la definizione data dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, fino a quando non rispetterà il diritto internazionale, e che ricopre un ruolo strategico fondamentale nel movimento USA per i diritti. (1)

Il secondo grande, e più recente, cambiamento nella comunità ebraica degli Stati Uniti è dovuto all’emergere di latenti tensioni tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori [i primi sostengono un rapporto individuale e liberale con la fede, i secondi contestano la secolarizzazione della religione portata dalla società moderna e dall’illuminismo, ndt.], che rappresentano i due terzi degli ebrei americani. Vi è stata una quantità di articoli ed analisi sulla questione, che indicano che il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi alleati puntano sugli ebrei ortodossi americani e trascurano gli altri – trattandoli addirittura come ebrei di seconda classe. Questo è un grave errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono generosamente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e alle posizioni ufficiali. Alienandosi questo importante bacino elettorale – anche se spende milioni per controllare il dibattito e confondere le critiche ad Israele e al progetto politico sionista con l’antisemitismo – Israele sta accelerando dei cambiamenti negli Stati Uniti che eroderanno l’automatico sostegno politico ed il massiccio aiuto militare che riceve, e favoriranno l’appoggio generale ai diritti dei palestinesi ed il riconoscimento della storia della Palestina.

La lotta rivitalizzata della Palestina

La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta per i diritti e la libertà del 1936-39, e vent’anni dopo la catastrofica perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la diaspora dei quattro quinti del suo popolo, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e divenne in breve tempo una forza con cui fare i conti. Tuttavia i reiterati attacchi all’OLP da parte israeliana – ed araba – unitamente ai gravissimi errori della sua leadership, condussero ad colpo quasi mortale con l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e l’esilio dell’OLP da Beirut, la sua ultima roccaforte ai confini di Israele.

Eppure dopo solo cinque anni la lotta palestinese assunse una nuova forma con la Prima Intifada, la rivolta nonviolenta guidata dai leader locali dei territori occupati. L’intifada portò i palestinesi sulla ribalta mondiale e vicino al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione di George W. Bush a garantire un buon accordo in seguito alla prima guerra del Golfo nel 1990. Tragicamente, i negoziati segreti dell’OLP con Israele, che portarono agli accordi di Oslo, sperperarono le fonti di energia palestinese così attentamente costruite, che includevano un movimento globale di solidarietà ed il sostegno del Terzo Mondo.

Nonostante tali battute d’arresto, i palestinesi non stanno scomparendo. Dal 1948 la lotta nazionale è stata accompagnata da un fiorire di letteratura, arte, film e cultura che ha rafforzato e cementato l’identità palestinese. Come ha detto Steven Salaita [studioso e scrittore americano di origine araba, ndtr.] in un recente saggio, “Niente fa più paura ad Israele della sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso successive generazioni.” Ed anche se la leadership nazionale palestinese è in confusione, per usare un eufemismo, la causa palestinese è spalleggiata da un movimento di solidarietà internazionale che include, e ne è rafforzato, il movimento BDS a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni Israele ed i suoi alleati hanno gettato tutto il loro peso contro questo movimento nello sforzo di recuperare terreno e controllare il dibattito, ma esso è vivo e vegeto.

Quanto sarebbe stato più facile per Israele fare un accordo con Giordania, Egitto e Siria nel 1967, invece di azzardare per ottenere tutto e di doversela vedere con il movimento per i diritti dei palestinesi che continuamente si evolve e si rinnova!

Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti

Con queste premesse, quali opzioni hanno i palestinesi? È indubbio che il periodo attuale presenta gravi rischi per loro. Il movimento dei coloni ha avuto il semaforo verde per andare avanti da parte di Trump, che non si è nemmeno degnato di pronunciare “Stato palestinese” nel suo intervento su Gerusalemme, limitandosi a parlare di pace come “inclusiva di …una soluzione a due Stati” e condizionando anche questo all’approvazione di Israele, con l’aggiunta “se concordato dalle due parti.”

Il timore più grande è per la stessa Gerusalemme – sia per i suoi abitanti che per il complesso di Al Aqsa. Vi sono gravi preoccupazioni che Israele possa accelerare l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi, usando le varie tecniche burocratiche perfezionate nel corso degli anni, ed anche i bulldozer e le demolizioni. E, benché Trump abbia detto di continuare a “sostenere lo status quo” nei luoghi santi di Gerusalemme, questo è ampiamente ignorato dal movimento del Monte del Tempio, che intende edificare un terzo tempio ebraico al posto del complesso della moschea di Al Aqsa.

C’è molto da temere anche dal “Quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – e dal suo capofila, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sostiene il piano di annessione USA-Israele e che ha ripetutamente offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal muro illegale che Israele ha costruito ampiamente all’interno dei territori occupati e che separa i palestinesi tra di loro e dalle principali colonie. D’altro lato, è in dubbio fino a che punto il Quartetto arabo possa conseguire i risultati desiderati. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo oltre con la sua guerra allo Yemen, con la repressione nei confronti dei suoi principi ed infine con il fallito tentativo di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi, nel tentativo di indebolire Hezbollah, partito e forza militare libanese alleato di Iran e Siria.

Anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas non potrebbe essere in una posizione meno invidiabile. Se respinge la pressione delle forze schierate contro di lui, perderà l’aiuto degli Stati Uniti e di molti Paesi arabi, senza il quale i dipendenti pubblici [dell’ANP] non potranno essere pagati, il che colpirà circa un milione e mezzo di persone. Se china il capo, sarà costretto a rinunciare ai diritti dei palestinesi. In tutti i casi, il suo arcinemico ed ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan, il protetto degli emirati, è in attesa dietro le quinte ed assai verosimilmente è disposto a firmare.

Il pesante prezzo di sfidare la comunità internazionale è chiaro nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di ammettere la sconfitta o deporre le armi. Il costo che i palestinesi di Gaza hanno sostenuto nell’ultimo decennio, e continuano a sostenere, è davvero alto. E tra le varie voci che si susseguono sul piano finale di colonizzazione che Israele e USA intendono imporre ai palestinesi vi è la deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, molto lontano dai confini della loro patria originaria (circa il 70% dei 1.900.000 palestinesi di Gaza sono rifugiati).

D’altra parte, l’OLP/ANP e la società civile palestinese, sostenuti dal movimento globale di solidarietà, non sono privi di opzioni, se c’è la volontà di unire le risorse ed usare tutte le strade disponibili, come occorre fare per contrastare questa grave minaccia alla richiesta di diritti per i palestinesi. A livello interno, la riconciliazione fra palestinesi di Fatah e Hamas deve essere attuata, non solo come di per sé positivo. È anche essenziale mettere in grado il sistema politico palestinese di attrarre il sostegno di diversi Stati arabi ed asiatici, alcuni dei quali sono più vicini ad un partito che all’altro. Ogni possibile relazione che Fatah e Hamas riescano ad ottenere, ciascuno per conto proprio o insieme, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttata. È un segnale positivo che Abbas intenda convocare il Consiglio Centrale dell’OLP ad una sessione straordinaria a cui saranno invitate “tutte le fazioni”.

Occorre anche trovare il modo di ridurre ed eliminare gradualmente il coordinamento per la sicurezza tra l’ANP e Israele. Sarà molto difficile, considerate le misure che Israele può intraprendere contro i palestinesi, la loro leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe limitata la sua possibilità di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare. Eppure le conoscenze sul settore della sicurezza esistono e c’è molta letteratura in proposito, comprese serie analisi politiche della rete di Al-Shabaka. Queste competenze sarebbero immediatamente disponibili per l’ANP se decidesse di ridimensionare il coordinamento (con Israele). È anche decisamente tempo di andare oltre gli appelli per la protezione internazionale dei palestinesi e sviluppare una coerente strategia per garantirsi tale protezione.

L’OLP/ANP deve essere il più possibile attiva sulla scena europea. Finora quei Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno consentito un facile cammino ad Israele. L’Unione Europea nel 2016 ha ribadito la sua posizione per cui i prodotti delle colonie che entrano nella UE devono essere etichettati per permettere ai consumatori una scelta informata – una misura timida e alla fine inefficace. Gli avvertimenti che 18 Stati dell’UE hanno emesso per mettere in guardia le imprese sui rischi (sul piano legale, di immagine e finanziario) di mettersi in affari con amministrazioni delle colonie hanno un maggiore impatto, ma non sono stati recepiti nella legislazione e nella normativa interna.

Nonostante questo atteggiamento pusillanime, l’UE e la maggioranza dei suoi membri non potranno mai approvare l’occupazione israeliana. Per gli europei il sistema di diritto internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale è la loro garanzia contro altre guerre devastanti. Per riuscire nel suo tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrebbe scalzare – e ha cercato di farlo – tutto quel sistema legale. Finora gli europei hanno potuto chiudere un occhio e fare il minimo possibile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciare agli USA il ruolo del cosiddetto mediatore imparziale.

La dichiarazione di Trump di riconoscimento di Gerusalemme [come capitale di Israele], con il suo implicito attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a sedersi al posto di guida, a meno che intendano assistere al crollo della delicata struttura che hanno messo in piedi. Per di più, la questione dei territori occupati e dell’annessione riguarda direttamente gli europei dal momento dell’occupazione ed annessione russa della Crimea nel 2014. Avendo imposto sanzioni alla Russia, gli europei sono in difficoltà a continuare a trattare Israele con i guanti mentre cerca di legalizzare la sua illegale impresa di colonizzazione.

L’OLP in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal rifiuto europeo del riconoscimento di Trump ed impegnarsi in una vasta campagna di pubbliche relazioni e sensibilizzazione nei confronti dei governi e dei diplomatici europei. Dovrebbe mostrare risolutezza e determinazione e promuovere la responsabilità dei Paesi europei nel difendere il diritto internazionale, nonché continuare a sostenere fattivamente la loro posizione e i loro passi contro le depredazioni israeliane. L’OLP dispone di alcuni diplomatici molto esperti che può mettere in campo per questo compito – dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il muro di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

In altre regioni del pianeta Israele ha lavorato per rovesciare le partnership e le alleanze con la Palestina nel Terzo Mondo, che sono state importanti fonti di sostegno negli anni ’70 e ’80. Lo ha fatto con successo in Asia, specialmente in India, in Africa e in America Latina. Ma non è troppo tardi per i palestinesi per riconquistare terreno e stringere questi legami, offrendo servizi e collegamenti dove possono. Cosa della massima importanza, l’OLP/ANP deve lavorare sodo per impedire che altri Paesi seguano le orme di Trump verso il riconoscimento o, peggio, l’effettivo trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme.

In questo impegno, soprattutto negli USA, in Europa e sempre più in America Latina, l’OLP sarebbe appoggiata dalla società civile palestinese e dal movimento mondiale di solidarietà, che può mobilitare decine di migliaia di attivisti per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Soprattutto negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato diverse forti istituzioni che portano avanti le voci palestinesi e in favore dei palestinesi nei media, forniscono supporto legale agli studenti ed insegnanti che vengono attaccati per i loro discorsi, difendono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti al Congresso e coinvolgono un crescente numero di ebrei nella lotta per uguali diritti per tutti.

Il ruolo della società civile palestinese e mondiale, oltre a mantenere la pressione su Israele ed a respingere i suoi tentativi di controllare la narrazione, è di mantenere l’OLP sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe infliggere un colpo mortale alla causa palestinese se i palestinesi ed i loro alleati non danno una risposta coerente e coordinata. Riflettendo su queste ed altre questioni e sviluppando delle strategie, i palestinesi ed i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.

Note:

  1. È importante sottolineare la seconda parte di questo documento, dati i fraintendimenti circa il BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non contro la sua esistenza e che una volta che gli obbiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati ed uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele – fossero raggiunti, il BDS terminerà.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è cofondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice sui media. Il suo primo libro, “Woman power: the arab debate on women at work “(Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne lavoratrici) è stato pubblicato dalla Cambridge University Press, ed è coautrice di “Citizens apart: a portrait of palestinians in Israel” (Cittadini a parte: un ritratto dei palestinesi in Israele) (I.B. Tauris). È stata capo redattrice della rivista sul Medio Oriente con sede a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. È cofondatrice ed ex copresidentessa della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il Randello della Democrazia

Recensione del libro Il Muro della Hasbara’. Il giornalismo embedded de “La Stampa” in Palestina, di Amedeo Rossi, Zambon Editore, Ottobre 2017.

Angelo Stefanini, 9 dicembre 2017.

Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato”. È lo slogan che sintetizza perfettamente il meccanismo psicologico di controllo della realtà che nella neo-lingua coniata da George Orwell viene chiamato “bi-pensiero”.

Nel mondo distopico descritto nel romanzo 1984, il Partito del Grande Fratello può contare su di una popolazione ciecamente fiduciosa nei dettami del Partito grazie al suo totale controllo sul passato. Tale controllo è talmente assoluto da potere dichiarare che un determinato avvenimento non sia mai successo: nel momento in cui tutti i documenti circolanti riportano la medesima storia imposta dal Partito, allora “la menzogna diventa verità e passa alla storia“.

Nella realtà attuale le cose non vanno in modo molto diverso. Edward Bernays, conosciuto come il “padre delle pubbliche relazioni” (PR), l’inventore della propaganda a fini commerciali e politici, parlava di un “governo invisibile” che è il vero potere dominante del mondo reale: si riferiva al giornalismo, ai media. “Per una democrazia,” sostiene il celebre teorico della comunicazione Noam Chomsky, “la propaganda è quello che è il randello per uno stato totalitario“.i

Più comunemente, le notizie che ci raggiungono quotidianamente attraverso i media esercitano un’influenza potente sulla nostra percezione, dicendoci quali eventi siano importanti e modellando la nostra comprensione dei problemi. Per questo motivo, il controllo delle immagini e delle parole usate per raccontare le guerre moderne, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è diventato un elemento essenziale. Che per Israele tale controllo sia decisivo l’ha ammesso candidamente l’ex Console Generale di Israele a New York, Alon Pinks: “Siamo attualmente in conflitto con i palestinesi e impegnarsi in una campagna di pubbliche relazioni di successo è una componente della vittoria in quel conflitto“.ii

Dopo il disastro d’immagine che fece seguito al massacro di Sabra e Shatila in Libano nel 1982, Israele decise di creare una struttura istituzionale permanente per condizionare come il mondo vede il Medio Oriente. Nacque così il Progetto Hasbara’ (ebraico per “spiegazione”) che la rivista indipendente israeliana online +972 Magazine definisce come “una forma di propaganda rivolta a un pubblico internazionale… allo scopo di influenzare il discorso in un modo che raffiguri positivamente l’operato e le politiche israeliane, comprese le azioni intraprese da Israele nel passato. Spesso, ne risulta anche un ritratto negativo degli arabi e in particolare dei palestinesi.iii

Un modo di “influenzare” il discorso può essere, per esempio, attraverso uffici stampa talmente efficaci a diffondere i loro comunicati che un giornalista potrebbe rimanere seduto a scrivere articoli nel proprio ufficio a New York o a Roma senza dover sprecare tempo o energia immergendosi nella pericolosa realtà. Oppure, per contrastare le critiche, utilizzare schiere di “guardiani” che tengano sott’occhio e facciano pressione su giornalisti e mezzi di comunicazione.

Il tutto diventa così contorto nel panorama del conflitto israelo-palestinese che la mancanza d’informazione, l’assenza d’immagini, la scarsità di analisi, il vuoto di voci che descrivano l’esperienza dei palestinesi sotto occupazione è talmente vasto che la gente non ha nemmeno l’idea che da cinquanta anni in quelle terre si stia consumando la profonda ingiustizia di una crudele occupazione militare e una progressiva colonizzazione condannate più volte dalla comunità internazionale.

È di tutto questo che tratta il libro di Amedeo Rossi. Militante per la causa palestinese, l’autore collabora con un gruppo che si dedica alla traduzione in italiano di articoli di giornali pubblicati in Israele o su mezzi d’informazione palestinesi, che poi sono inseriti nel sito Zeitun.info. Da questa sua esperienza è nato il libro Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La Stampa» in Palestina. Sulla scia di lavori fondamentali come quelli di Noam Chomskyiv o di Greg Philov, Rossi si propone di “analizzare i meccanismi attraverso i quali il discorso filo-israeliano viene trasmesso ai lettori” cercando “forme di controinformazione e di denuncia che aiutino a smascherare l’operazione di fiancheggiamento”, insomma gli effetti dell’hasbara’. E lo fa in modo eccellente utilizzando come caso di studio il quotidiano “La Stampa”.

Il libro prende di mira più in generale quella che nella Prefazione Moni Ovadia definisce con l’ossimoro di “libera stampa embedded”, la stampa che vuole apparire rispettabile pilastro dell’establishment presentandosi come oggettiva, equidistante e asettica. È ciò che il famoso inviato di guerra John Pilger in modo beffardo descrive come “professional journalism”. Proprio quello che Amedeo Rossi espressamente dichiara NON essere la sua ricerca, affermando: “chi scrive è schierato dalla parte dei palestinesi”. “Il pericolo per i media “, chiarisce con una delle numerose citazioni di Jerome Bourdon, storico della comunicazione dell’università di Tel Aviv, “non è quello di fare delle scelte, ma di negare che le fanno”.

Tra la Prefazione e la Post-fazione scorrono l’Introduzione e cinque capitoli. Nei primi tre l’autore prende in esame in ordine cronologico l’operazione “Piombo fuso” (cap.1), l’attacco alla Freedom Flottilla e il massacro sulla nave Mavi Marmora (cap.2) e l’operazione “Margine protettivo” (cap.3). Il corposo cap.4, che occupa circa la metà dell’intero libro, è dedicato all’analisi de “Il conflitto a bassa intensità”. Gli innumerevoli e dettagliati esempi citati lungo tutto il percorso di analisi degli articoli del quotidiano trovano una sintesi conclusiva nel cap.5 che documenta in modo impeccabile come “a dispetto di ogni verosimiglianza, la versione fornita dai portavoce ufficiali israeliani viene costantemente riportata dai mass media”, soprattutto quelli italiani a cominciare da La Stampa.

Ciò che questo lavoro esemplare aiuta a svelare è l’importanza di cogliere non solo cosa c’è nella storia, ma, soprattutto, quello che non c’è. In questo senso l’assenza di un’informazione è vitale tanto quanto la sua presenza in termini di come le persone danno un significato alla storia stessa. Il contesto è tutto. Il contesto che spesso manca nel racconto della “libera stampa embedded” è che la rivolta palestinese è il risultato di 50 anni di brutale occupazione e di 70 anni di continua Nakba (“catastrofe”) palestinese. Quando questi fatti non sono presenti nella storia, ci mette in guardia Amedeo Rossi, allora la notizia in realtà non ha alcun senso e nasconde una situazione inaccettabile. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli occidentali non ha la minima idea di quale sia la storia e la realtà del conflitto.

Con questo coraggioso ed elegante lavoro di ricerca l’autore ci offre, in questi tristi momenti della vita dei palestinesi, una lettura indispensabile per comprendere come sia possibile che uno Stato che continua a violare il diritto internazionale, ignorando con arroganza decine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, possa essere dalla maggioranza dell’opinione pubblica ancora considerato il bastione della democrazia nel Medio Oriente, ed essere servilmente celebrato con l’offerta di ospitare l’inizio del Giro ciclistico d’Italia.

Un consiglio di ordine “tipografico” per la prossima edizione: arricchire l’Indice con i titoli delle sezioni e sotto-sezioni dei vari capitoli. Sarebbe un importante aiuto al lettore per avere davanti a se’, in un’unica pagina, il percorso analitico che compone la “disamina concreta, puntigliosa, certosina, inattaccabile”vi condotta al quotidiano La Stampa. Che ne esce nudo e disonorato per la… oggettività perduta.

ii “Peace, Propaganda & The Promised Land: Occupied Palestine”. https://bennorton.com/peace-propaganda-the-promised-land-occupied-palestine/

iii “Hasbara: Why does the world fail to understand us?” https://972mag.com/hasbara-why-does-the-world-fail-to-understand-us/27551/

iv Noam Chomsky & Edward S. Herman, La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media. Il Saggiatore, 2014.

v Greg Philo and Mike Berry, Bad News From Israel, Glasgow University Media Group, 2004. Greg Philo and Mike Berry, More Bad News From Israel, Glasgow University Media Group 2013.

vi Nella Post-fazione di Ugo Giannangeli, p.367.




Rapporto OCHA del periodo 21 novembre- 4 dicembre 2017 ( due settimane)

Il 30 novembre, un agricoltore palestinese 48enne è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso da un colono israeliano che accompagnava un gruppo di giovani coloni in escursione in un’area agricola prossima al villaggio di Qusra (Nablus).

Mentre testimoni oculari palestinesi hanno riferito che lo sparo è stato preceduto da un alterco tra i coloni e l’agricoltore, i media israeliani hanno riferito che lo sparatore ha aperto il fuoco in risposta al lancio di pietre da parte del palestinese. Per due giorni il corpo dell’agricoltore è stato trattenuto dalle autorità israeliane per autopsia. Immediatamente dopo l’omicidio, abitanti di Qusra sono arrivati sul posto ed hanno lanciato pietre ai coloni, che si erano nascosti in una grotta; questi ultimi hanno risposto sparando e ferendo un palestinese; due coloni sono stati feriti da pietre. La polizia israeliana ha aperto un’indagine sul caso.

Più tardi, nello stesso giorno, in due episodi separati, nei villaggi di Qusra ed ‘Asira al Qibliya (Nablus), altri 34 palestinesi sono stati feriti durante scontri con coloni israeliani armati e soldati. Uno dei feriti è stato colpito con arma da fuoco, 15 da pallottole di gomma, 15 hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, tutti da parte dei soldati israeliani, mentre tre palestinesi sono stati feriti da pietre lanciate da coloni. Altri tre palestinesi sono stati aggrediti e feriti da coloni in due distinti episodi in Gerusalemme Est e nel villaggio di Susiya (Hebron).

Inoltre, 36 palestinesi, sette dei quali minori, sono stati feriti da forze israeliane durante scontri avvenuti in Cisgiordania: 19 di questi ferimenti sono stati registrati nel villaggio di Qusra il 2 dicembre, in occasione del funerale dell’agricoltore di cui sopra, e due nella città di Nablus, in seguito all’entrata di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. La maggior parte degli altri ferimenti sono avvenuti in questi contesti: operazioni di ricerca-arresto che hanno innescato scontri, i più ampi dei quali nel governatorato di Hebron; durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione dell’insediamento colonico israeliano e contro le restrizioni di accesso in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Nabi Saleh (Ramallah); e prima di una demolizione punitiva nel villaggio di Qabatiya (Jenin).

Il 30 novembre, tre civili palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti nel corso di attacchi israeliani a postazioni militari nella città di Gaza e nella parte nord della Striscia: i siti presi di mira hanno subìto danni. A quanto riferito, gli attacchi sono stati condotti in risposta al lancio di 12 granate di mortaio effettuato nello stesso giorno da un gruppo armato palestinese. Le granate erano cadute in Israele, senza causare feriti o danni.

Ancora in Gaza, durante scontri scoppiati nel corso di due proteste svolte vicino alla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno ferito con arma da fuoco due minori palestinesi. Inoltre, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra ed in mare, senza causare feriti, ma interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. Nella zona settentrionale della Striscia di Gaza un minore palestinese è stato arrestato ed un altro è stato ferito e arrestato mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per punizione, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Qabatiya (Jenin), sfollando cinque persone, tra cui tre minori. La casa demolita apparteneva ad uno dei due palestinesi, attualmente in carcere, che uccisero un colono israeliano il 4 ottobre 2017. Dall’inizio del 2017, nove case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando 49 palestinesi.

Citando la mancanza delle licenze edilizie israeliane, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture in Area C e Gerusalemme Est, sfollando 24 palestinesi, tra cui 12 minori; altre 78 persone sono state diversamente toccate dalle demolizioni. Otto delle strutture demolite erano in Area C, e tre di esse appartenevano a comunità di pastori: in Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj e in Al Jiftlik-ash-Shuneh (entrambe in Jericho) e nella comunità di Halaweh, situata nel sud di Hebron, nella “zona 918 per esercitazioni a fuoco”. Le restanti quattro strutture erano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Shu’fat, Beit Hanina, Al ‘Isawiya ed Umm Tuba.

Il 4 dicembre, le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema Israeliana della loro intenzione di demolire 46 strutture nel villaggio di Susiya (Hebron). Come conseguenza quaranta persone, tra cui 14 minori, saranno sfollate, mentre tutti i suoi 160 residenti in Area C si troveranno ad alto rischio di trasferimento forzato. L’intera Comunità (327 abitanti) sarà colpita dalla demolizione delle 46 strutture, che includono otto abitazioni, due strutture sanitarie, 12 locali usati per la scuola, altre due strutture di sussistenza ed un impianto di pannelli solari. Secondo le autorità, queste strutture furono realizzate senza i permessi necessari, a partire dal 2014, in violazione di un’ingiunzione del tribunale.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno due di tali episodi sono stati danneggiati veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto in una direzione per un solo giorno, permettendo a 174 persone di entrare in Gaza. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, più di 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa per attraversare il valico. Nonostante la chiusura al transito di viaggiatori, il valico di Rafah è stato aperto per nove giorni per il transito di combustibile importato dall’Egitto e destinato alla Centrale Elettrica Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Perché la Palestina è ancora il problema

John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Le forze israeliane mandano avvisi di sgombero a 300 palestinesi in un villaggio beduino

Ma’an News

17 novembre 2017

BETLEMME (Ma’an) – Secondo l’agenzia di informazioni Wafa, di proprietà dell’ANP, venerdì le autorità israeliane avrebbero distribuito avvisi di sgombero a tutti i 300 palestinesi residenti nel villaggio beduino di Jabal al-Baba, nel distretto centrale di Gerusalemme della Cisgiordania occupata.

La Wafa ha riferito che il personale dell’amministrazione civile israeliana, spalleggiato dall’esercito israeliano, avrebbe preso d’assalto il villaggio ed ordinato ai suoi abitanti di lasciare le proprie case.

Secondo la Wafa, Jabal al-Baba comprende 100 edifici, 58 dei quali sono case, mentre i restanti sono strutture per uso agricolo. “Poiché la comunità non è riconosciuta, la popolazione di Jabal al-Baba vive senza elettricità e riceve acqua solo da camion cisterna”, ha detto Wafa.

Negli ultimi anni le forze israeliane hanno demolito decine di case nella zona di Jabal al-Baba, molte delle quali costruite con l’aiuto dell’UE e di organizzazioni umanitarie.

In agosto hanno demolito un asilo infantile del villaggio.

La collina è popolata da circa 55 famiglie di beduini che hanno vissuto nella zona per 65 anni e sono costantemente minacciate di espulsione dalle loro case.

Circa 90 beduini palestinesi, in maggioranza bambini, sono rimasti senza casa quando, nel maggio 2016, le forze israeliane hanno smantellato le case prefabbricate donate dall’UE a Jamal al-Baba.

Jamal al-Baba, come altre comunità beduine della regione, è minacciata da Israele di espulsione forzata per il fatto di essere situata nel conteso “corridoio E1”, creato dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’area E1 migliaia di case per colonie di soli ebrei , il che dividerebbe di fatto la Cisgiordania e renderebbe quasi impossibile la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come ipotizzato dalla soluzione di due Stati al conflitto israelo-palestinese.

Le associazioni per i diritti umani e membri della comunità beduina hanno aspramente criticato i piani israeliani di ricollocazione dei beduini residenti vicino alla colonia israeliana illegale di Maale Adumim, sostenendo che lo sgombero espellerebbe palestinesi autoctoni in favore dell’espansione delle colonie israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, in violazione del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)