I giorni del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme sono contati?

Ahmad Melhem

23 ottobre 2017,Al-Monitor

Sintesi dell’articolo

La comunità greco-ortodossa in Palestina e in Giordania è in aperta rivolta contro il patriarca Theophilos III per la vendita di terre della chiesa a Israele e a israeliani.

Ramallah, Cisgiordania – I rapporti tra il patriarca Theophilos III di Gerusalemme e di tutta la Palestina e la comunità greco-ortodossa nei territori palestinesi e in Giordania sono più che mai vicini a trasformarsi in guerra aperta. Theophilos, che ha assunto la direzione della chiesa nel 2005, ha presieduto la chiesa mentre una serie di accordi sono stati raggiunti per la vendita o l’affitto di proprietà ecclesiastiche ad Israele, a singoli cittadini e a investitori israeliani. Come stabilito dalla legge giordana n° 27 (1958), il patriarca è responsabile della gestione di tutte le donazioni della chiesa. La chiesa ha proprietà in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, a Gaza e in Israele. Membri della comunità greco-ortodossa scontenti si sono organizzati contro Theophilos nel tentativo di cacciarlo e per spingere le autorità giordane e palestinesi a ritirargli il proprio riconoscimento.

Il 13 ottobre Haaretz ha informato che sei dunam [0,6 ettari, ndt.] di terra su cui si trovano decine di negozi attorno alla Torre dell’Orologio di Giaffa, così come 430 dunam [43 ettari, ndt.] a Cesarea, compresi gran parte del parco nazionale e dell’anfiteatro di Cesarea e un anfiteatro romano, sono stati venduti a imprese straniere anonime. La terra di Cesarea era stata affittata ad Israele, che non è stato informato della vendita. Ciò ha fatto seguito ad un accordo per vendere 500 dunam [50 ettari, ndt.] di terra nei quartieri di Talbiya e Rehavia a Gerusalemme est. Contratti precedenti erano stati raggiunti a Gerusalemme est e in Cisgiordania, anche per terreni nei pressi del monastero di “Mar Elias” a Betlemme.

Il movimento di opposizione – guidato dal “Consiglio Centrale Ortodosso Arabo” e dalla “Gioventù Ortodossa Araba” – ha ricevuto un importante impulso con la partecipazione di fazioni politiche e personalità palestinesi e giordane nella “Conferenza Nazionale in Appoggio alla Causa Arabo-Ortodossa in Palestina”, durata un giorno. I più di 200 partecipanti hanno confermato la propria opposizione al fatto che il patriarcato sia rappresentato da Theophilos, hanno chiesto le sue dimissioni e che venga processato per il suo ruolo nella vendita di terre della chiesa. La conferenza, che si è tenuta il 1° ottobre a Betlemme, ha incluso la partecipazione di Mahmoud al-Aloul, vice presidente e membro del comitato centrale di Fatah; Mustafa al-Barghouti, segretario generale di “Palestinian National Initiative” [“Iniziativa Nazionale Palestinese”, gruppo politico alternativo sia a Fatah che ad Hamas, favorevole alla resistenza non violenta contro l’occupazione, ndt.]; Qais Abdul Karim, vice segretario generale di Democratic Front for the Liberation of Palestine (DFLP) e un certo numero di dirigenti del Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) [rispettivamente “Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina” e “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, due gruppi storici della resistenza armata marxista, in cui dirigenti e militanti di origine cristiana sono numerosi, ndt.].

La conferenza si è conclusa con i partecipanti che hanno emesso 14 decisioni e raccomandazioni, compresa “la dichiarazione del caso della chiesa greco-ortodossa come problema strategico nazionale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), simile ai problemi di Gerusalemme e dei rifugiati” e “il ritiro del riconoscimento del patriarca come primo passo verso la destituzione dalla sua posizione, la sua imputazione, il rifiuto della sua partecipazione a qualunque cerimonia religiosa e l’individuazione di lui e dei suoi fedeli come esclusi dal contesto nazionale.” La conferenza ha formato un comitato di 17 membri delle fazioni politiche palestinesi e giordane, del consiglio greco-ortodosso e del movimento giovanile greco-ortodosso perché metta in pratica le decisioni della conferenza a livello politico, giudiziario e popolare.

Alif Sabbagh, portavoce della conferenza nazionale e del movimento di opposizione greco-ortodosso, ha detto ad Al-Monitor: “La conferenza è la prima di questo genere. E’ riuscita a radunare le forze palestinesi e giordane in appoggio al movimento greco-ortodosso e ad aggiungere il problema delle proprietà ecclesiastiche all’agenda dell’OLP perché è considerato di importanza nazionale piuttosto che religiosa.”

Aghlab Khoury, un attivista della “Gioventù greco-ortodossa”, ha detto ad Al-Monitor: “Questa conferenza intendeva principalmente revocare la legittimità popolare del patriarca e considerarlo persona non grata in base ai sentimenti nazionali di palestinesi e giordani. Un altro importante risultato è stato la richiesta alle autorità giordane e palestinesi di ritirare il riconoscimento ufficiale al patriarca Theophilos III e di impegnarsi con le istituzioni greco-ortodosse nel mondo per smascherarlo.” In un comunicato stampa del 4 ottobre il Consiglio Ortodosso Libanese, guidato da Robert al-Abiad, ha espresso “la propria solidarietà ed il proprio appoggio ad ogni decisione e raccomandazione emessa dalla conferenza nazionale.” Il consiglio ha anche condannato “la vendita di terra santa su cui ha camminato Gesù Cristo.”

Khoury ha inoltre sottolineato: “Il comitato che è scaturito dalla conferenza ha il compito di organizzare un incontro con il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas e con il re Abdullah II di Giordania per trasmettere loro tutte le decisioni della conferenza e per chiedere loro di ritirare la fiducia al patriarca.” Nel contempo il movimento di opposizione greco-ortodosso farà pressione sui dirigenti politici palestinesi e giordani per realizzare le richieste della conferenza.

Khoury ha rilevato: “Il prossimo futuro assisterà a un intenso movimento per tenere incontri e colloqui con le istituzioni locali in modo che offrano il proprio appoggio al boicottaggio del patriarca e facciano pressione sulle autorità politiche perché rispondano alla richiesta popolare di rimuoverlo dalla sua posizione.”

Dopo aver partecipato alla conferenza, Abd al-Karim, del DFLP, ha detto ad Al-Monitor: “Il movimento (di opposizione) non si limita più alla congregazione ortodossa, in quanto le proprietà della chiesa non sono solo di questa fede religiosa, ma sono parte di una causa nazionale più complessiva per conservare la proprietà (palestinese) della terra.” Ha aggiunto: “La raccomandazione della conferenza di non collaborare con il patriarca e le sue richieste che le autorità importanti, cioè Palestina e Giordania, ritirino il proprio riconoscimento al patriarca saranno aggiunte all’agenda del Comitato Esecutivo dell’OLP. Il comitato studierà questi punti e si consulterà con la Giordania per emanare una decisione comune che possa essere messa in pratica.”

Il movimento di opposizione greco-ortodosso ha già presentato una denuncia al procuratore generale dell’ANP Ahmad Barrak per rendere legalmente responsabile Theophilos. La legge n° 27 stabilisce la gestione delle proprietà ecclesiastiche da parte del patriarca, ma non cita il suo diritto di vendere o affittare le terre della chiesa. Secondo Sabbagh la denuncia, firmata da 309 persone e presentata il 30 agosto, chiede che Barrak indaghi su Theophilos per il suo coinvolgimento nel consegnare la terra della chiesa a israeliani. Ha aggiunto: “Presenteremo anche una denuncia contro il patriarca alla procura generale giordana, e solleveremo la questione della mancanza di trasparenza del patriarca nella gestione della terra della chiesa e della sua corruzione amministrativa e finanziaria.”

L’opposizione greco-ortodossa sta progettando di rafforzare le succitate attività organizzando manifestazioni e proteste contro Theophilos. Tali eventi arriveranno fino a Natale e si intensificheranno durante le feste, quando i contestatori tenteranno di impedirgli di entrare nelle chiese in Cisgiordania e in Israele.

Il movimento ha tenuto la sua prima protesta l’8 ottobre nel villaggio arabo di Reineh, in Israele. Personalità religiose cristiane e politiche, compreso il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Jamal Zahalka, hanno partecipato alla manifestazione, così come attivisti politici di Balad (Assemblea Democratica Nazionale) [gruppo politico della sinistra marxista israelo-palestinese, ndt.], del Movimento Islamico [gruppo politico israelo-palestinese di ispirazione islamica, ndt.] e del PFLP. Quel giorno i manifestanti hanno cercato di impedire al patriarca di entrare in una chiesa del villaggio. L’esercito israeliano è intervenuto per proteggere la sua incolumità.

Il movimento di base contro il patriarca deve continuare e raggiungere il suo acme durante il Natale, quando non permetteremo al patriarca di mettere piede nella chiesa della Natività,” afferma Sabbagh. “Esporremo la bandiera palestinese sulla chiesa della Natività e sulle chiese greco-ortodosse sotto sovranità palestinese al posto delle bandiere greche.” Sabbagh ha anche evidenziato: “Nelle precedenti celebrazioni del Natale abbiamo consentito l’ingresso in chiesa del patriarca in seguito all’intromissione del presidente Abbas, ma quest’anno non accetteremo nessun intervento. Come congregazione religiosa ortodossa, appoggiata da forze palestinesi, impediremo al patriarca di entrare in chiesa.”

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese per Al-Watan News [giornale in arabo edito in Oman, ndt.] con sede a Ramallah. Scrive per una serie di giornali arabi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La sorveglianza sui palestinesi e la lotta per i diritti digitali

Nadim Nashif

23 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

La sorveglianza sui palestinesi è sempre stata parte integrante del progetto coloniale israeliano. Prima della creazione dello Stato di Israele, squadre del gruppo paramilitare sionista Haganah percorrevano i villaggi e le città palestinesi, raccogliendo informazioni sui residenti. Questo controllo sulle vite dei palestinesi è continuato dopo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, nel 1967. Gli strumenti utilizzati comprendevano registri della popolazione, carte di identificazione, rilevamenti catastali, torri di controllo, incarcerazione e tortura.

Benché queste tecniche di controllo poco sofisticate siano ancora oggi in uso, una vasta gamma di nuove tecnologie, come il monitoraggio e l’intercettazione per telefono e via internet, la CCTV [televisione a circuito chiuso, ndt.] e la banca dati biometrici, ha messo in grado Israele di sorvegliare la popolazione sotto occupazione su scala massiccia e pervasiva. Israele utilizza in particolare i social media per monitorare ciò che i singoli palestinesi dicono e fanno e per raccogliere ed analizzare informazioni sui comportamenti della popolazione palestinese in generale.

In questo documento Nadim Nashif discute l’uso da parte di Israele dei social media come strumento di controllo dei palestinesi. (1) Prende in esame le tattiche israeliane e gli altri ostacoli digitali ai diritti dei palestinesi, inclusa la parzialità di Facebook a favore di Israele attraverso la censura e la mancanza di trasparenza, nonché la nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Nashif conclude fornendo suggerimenti su come i palestinesi possono contrapporsi all’uso dei social media per la sorveglianza e proteggere i propri diritti informatici.

I social media come ambito di sorveglianza

L’esplosione di rabbia palestinese iniziata nell’ ottobre 2015 in risposta alle incursioni israeliane alla Moschea di Al-Aqsa ha rappresentato una nuova sfida per l’apparato di sicurezza israeliano. Storicamente, gli individui affiliati ai bracci militari delle fazioni palestinesi, come Fatah, Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, hanno condotto attacchi ai quali Israele ha risposto con la violenza, la distruzione e le punizioni collettive. Per esempio, Israele ha scatenato le sue ultime tre guerre nella Striscia di Gaza, nel 2009, 2012 e 2014, con il pretesto di fermare i lanci di razzi da parte di Hamas.

Questa volta, tuttavia, sono stati adolescenti palestinesi, molti dei quali non appartengono ad alcuna fazione politica o ala militare palestinese, a sferrare gli attacchi. Il governo israeliano ha accusato i social media per questa nuova tendenza e l’intelligence militare israeliana ha rafforzato il monitoraggio degli account dei social media palestinesi. In seguito a ciò, Israele ha arrestato 800 palestinesi a causa dei loro post sui social media, soprattutto su Facebook, la piattaforma più seguita dai palestinesi.

All’inizio di quest’anno Haaretz ha rivelato che questi arresti sono il risultato di un metodo poliziesco basato su algoritmi che creano profili di quelli che Israele vede come probabili attentatori palestinesi. Il programma monitora decine di migliaia di account Facebook di giovani palestinesi, cercando termini come shaheed (martire), Stato sionista, Al Quds (Gerusalemme) o Al Aqsa. Ricerca anche account che postano foto di palestinesi recentemente uccisi o imprigionati da Israele. Il sistema identifica quindi i “sospetti” basandosi su un possibile atto di violenza, piuttosto che su un attacco reale – o almeno su un piano per realizzare un attacco.[vedi zeitun.info]

Ogni profilo Facebook segnalato come sospetto dal sistema è un potenziale bersaglio di un arresto e la principale accusa di Israele alle persone arrestate è “incitamento alla violenza”. Poiché l’incitamento è definito in modo vago, il termine include tutte le forme di resistenza alle politiche ed alle pratiche israeliane. La “popolarità”, o il livello di influenza che una persona esercita sui social media, è un fattore che conta nella decisione di Israele di sporgere denuncia contro i palestinesi accusati di incitamento. Per esempio, più alto è il numero di ‘like’, di commenti e di condivisioni che ha un’utenza, maggiore è la possibilità che le persone vengano denunciate – e più lunga e pesante sarà la condanna.

L’intelligence israeliana inoltre crea falsi account Facebook per tracciare e ottenere accesso a profili Facebook per poter comunicare con palestinesi e ricavare informazioni private che altrimenti essi non condividerebbero. Nell’ottobre 2015, per esempio, parecchi attivisti palestinesi hanno riferito di aver ricevuto messaggi da account Facebook con nomi arabi e fotografie di bandiere palestinesi, che chiedevano i nomi dei palestinesi che partecipano alle proteste.

Inoltre Israele si introduce negli account Facebook per accedere ad informazioni private, come l’orientamento sessuale, le condizioni di salute e mentali e lo status coniugale e finanziario. Un veterano dell’Unità 8200, un corpo d’elite dell’intelligence dell’esercito israeliano, spesso paragonato all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale USA, ha testimoniato che questo materiale viene raccolto come mezzo di pressione. “Ogni informazione che possa consentire di ricattare una persona è considerata un’informazione rilevante”, ha detto. “ Sia che tale individuo abbia un certo orientamento sessuale, tradisca sua moglie o necessiti di cure in Israele o in Cisgiordania – è un bersaglio per essere ricattato.” L’intelligence israeliana ha preso di mira soprattutto palestinesi omosessuali, minacciando di pubblicare le loro foto intime per costringerli a collaborare con Israele.

Una simile intrusione nella vita privata dei palestinesi è resa possibile dal fatto che Israele occupa e controlla l’intera infrastruttura delle telecomunicazioni usata dalle compagnie e dai gestori del servizio di internet palestinesi. La mancanza di qualunque limitazione legale o etica sul punto fino al quale Israele può spingersi nella sorveglianza sui palestinesi nel 2014 ha addirittura portato 43 veterani dell’Unità 8200 ad inviare una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per contestare “il continuo controllo di milioni di persone ed un’intrusione profondamente invasiva in quasi tutti gli ambiti della vita.”

Il complesso militare industriale del Paese è uno strumento ancor più pervasivo per il controllo digitale sui palestinesi. Israele produce ed esporta un’enorme quantità di tecnologie di sicurezza militare e cibernetica. Secondo un rapporto del 2016 di ‘Privacy International’, una Ong che indaga sui controlli da parte del governo e sulle imprese che lo consentono, Israele è la sede di 27 imprese di sorveglianza – il più alto numero pro capite di tutti i Paesi del mondo. Nel 2014 le esportazioni israeliane di tecnologie di sicurezza informatica e di sorveglianza all’estero, come il monitoraggio di telefoni e internet, hanno superato le esportazioni di armamenti. Queste tecnologie sono state vendute a regimi autoritari e repressivi in Colombia, Kazakhstan, Messico, Sud Sudan, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan, tra gli altri.             

Ambigui legami tra l’esercito israeliano ed il settore tecnologico rafforzano l’importanza del Paese nell’industria della sorveglianza. I veterani dell’Unità 8200 hanno fondato alcune delle principali compagnie israeliane di sicurezza informatica, come le imprese Mer e NSO. I veterani trasferiscono le loro competenze militari e di intelligence sviluppate nell’unità di elite al settore privato, dove non ci sono ostacoli legali relativamente alla sovrapposizione tra industria militare e di sorveglianza.

Facebook: neutrale o di parte?

Facebook si pubblicizza come una piattaforma aperta, al servizio di tutti. Il fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto recentemente: “Lavoro ogni giorno per unire le persone e creare una comunità per tutti. Speriamo di dare voce a tutto il popolo e di creare una piattaforma per tutte le idee.”

Gli affari del gigante dei social media con Israele mettono in discussione tale affermazione. Mentre Facebook ha dei chiari protocolli e meccanismi per le richieste da parte di governi di rimuovere contenuti, e addirittura pubblica un rapporto biennale delle richieste dei governi, l’azienda viene spesso criticata per la sua mancanza di trasparenza e le sue decisioni arbitrarie. Un’inchiesta del Guardian ha rivelato le norme riservate di Facebook per limitare argomenti relativi a violenze, discorsi di odio, terrorismo e razzismo – norme che dimostrano la sua parzialità a favore di Israele.

Per esempio, Facebook segnala i sionisti come “gruppo globalmente protetto”, il che significa che i contenuti che li attaccano devono essere rimossi. Un’altra regola spiega che “le persone non devono elogiare, sostenere o raffigurare un membro…di un’organizzazione terrorista, o di qualunque organizzazione che abbia lo scopo principale di intimidire una popolazione, un governo, o di usare violenza per resistere all’occupazione di uno Stato riconosciuto a livello internazionale.” Di conseguenza, Facebook ha censurato attivisti e giornalisti in territori oggetto di disputa, come Palestina, Kashmir, Crimea e Sahara occidentale. Secondo rapporti dei media, Facebook ha rivisto la definizione di terrorismo per includervi l’uso di violenza premeditata da parte di organizzazioni non governative “allo scopo di raggiungere un obiettivo politico, religioso o ideologico.” In ogni caso, la definizione permette di punire coloro che resistono all’occupazione e all’oppressione, mentre non include il terrorismo di Stato e la violenza inflitti ai palestinesi da parte di Israele.

Inoltre nel 2016 la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ed il ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato un accordo tra Israele e Facebook per creare delle squadre di monitoraggio e rimozione dei contenuti “che favoriscono l’incitamento [alla violenza]”.

Il direttore politico di Facebook, Simon Milner, nega l’esistenza di qualunque accordo speciale tra il suo datore di lavoro e Israele. Ha anche ribadito che tutti gli utenti di Facebook sono soggetti alle stesse politiche per la comunità di utilizzatori. Tuttavia un recente rapporto di Adalah [organizzazione per i diritti umani e centro legale per i diritti degli arabi in Israele, ndtr.] rivela che fin dalla seconda metà del 2015 l’ufficio del procuratore generale di Israele ha gestito un’unità informatica in collaborazione con Facebook e Twitter, per rimuovere contenuti online. Il resoconto finale annuale del 2016 dell’unità si fa vanto di aver trattato 2.241 casi e rimosso il contenuto in 1.554 di essi.

La collaborazione tra Israele e Facebook è dovuta probabilmente a molteplici ragioni. Anzitutto Israele ha una fiorente industria di alta tecnologia e rappresenta un lucroso mercato per Facebook. In secondo luogo, l’ufficio di Facebook a Tel Aviv rende la compagnia più soggetta all’influenza dei decisori israeliani. La nomina di Jordana Cutler, da lungo tempo principale consigliera di Netanyahu, a capo della politica e comunicazione di Facebook nell’ufficio israeliano è un caso emblematico.

Terzo, forse Facebook teme azioni legali. Nel 2015 un’organizzazione filoisraeliana, ‘Shurat HaDin-Israel Law Center’, ha intentato una causa contro Facebook negli Stati Uniti a nome di 20.000 querelanti israeliani, che accusavano la compagnia di “incitamento ed incoraggiamento alla violenza contro gli israeliani.” Il timore di Facebook di un’azione legale è espresso in un documento interno, che è trapelato, relativo ad un contenuto negazionista dell’Olocausto. Il documento spiega che Facebook semplicemente nasconderà o rimuoverà tale contenuto in quattro Paesi – Austria, Francia, Germania e Israele – per evitare cause legali.

Infine, benché Facebook neghi ogni discriminazione tra palestinesi ed israeliani, gli utenti palestinesi raccontano una storia diversa. Per esempio, poco dopo che una delegazione di Facebook aveva incontrato rappresentanti del governo israeliano nel settembre 2016, gli attivisti palestinesi hanno documentato interruzioni degli account personali su Facebook di giornalisti e di organizzazioni di informazione. Gli account di quattro giornalisti dell’agenzia di notizie palestinese Shehab e di tre giornalisti della rete Al Quds News sono stati chiusi. In seguito a proteste online e campagne con gli hashtag #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, Facebook si è scusata per l’interruzione, spiegando che si era trattato di un errore.

La nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese

Non è soltanto Israele a reprimere gli utenti palestinesi dei social media: lo fa anche l’ANP, per cassare opinioni politiche sfavorevoli o critiche verso la leadership palestinese. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra la portata del controllo digitale israeliano e le violazioni della libertà di espressione online da parte dell’ANP. Mentre il controllo digitale globale di Israele fa di ogni palestinese un sospetto ed un bersaglio, l’ANP utilizza le informazioni condivise pubblicamente per prendere di mira il dissenso politico.

L’ANP ha recentemente approvato una legge che limita ancor di più la libertà dei palestinesi di esprimersi online. La controversa legge sui crimini informatici è stata firmata dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas il 24 giugno 2017, senza alcuna consultazione pubblica con le organizzazioni della società civile palestinese o con i gestori dei servizi internet. E’ stata pubblicata con decreto presidenziale due settimane dopo la firma ed è entrata immediatamente in vigore.

Il pretesto della nuova legge è quello di combattere i reati informatici come l’estorsione per motivi sessuali, la frode fiscale e il furto di identità. Però l’utilizzo di termini vaghi come “armonia sociale”, “modalità pubbliche”, “sicurezza dello Stato” e “ordine pubblico” indica che la legge ha scopi differenti, in particolare eliminare la libertà di espressione online e reprimere ogni critica politica. Essa rende gli utenti palestinesi di internet, specialmente gli attivisti e i giornalisti, passibili di incriminazione da parte dell’ANP, che può interpretare le disposizioni della legge come vuole.

I primi due casi intentati in base alla legge rivelano il suo scopo. In entrambi è stato utilizzato l’art. 20, che stabilisce che ogni utente di internet che possiede o gestisce un sito web che pubblica “notizie che mettono a rischio la sicurezza dello Stato, il suo ordine pubblico, o la sicurezza interna o esterna” può essere arrestato per un anno o multato fino a circa 1.400 dollari. Nel primo caso sono stati arrestati sei giornalisti palestinesi che lavorano per organi di stampa legati ad Hamas in Cisgiordania. Nel secondo caso, i servizi di sicurezza preventiva dell’ANP hanno arrestato Issa Amro, importante difensore dei diritti umani ed attivista politico nonviolento palestinese di Hebron, che aveva protestato con un post su Facebook per l’arresto da parte dell’ANP di un giornalista.

La legge è in netto contrasto con la legge fondamentale di tutela della privacy e della libertà di espressione. Conferisce alle istituzioni dello Stato un ampio potere di monitoraggio, raccolta e conservazione di dati relativi alle attività online di palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), e di fornire, su loro richiesta, tali informazioni alle autorità preposte all’applicazione della legge. Anche i gestori privati del servizio internet sono obbligati a cooperare con le agenzie di sicurezza raccogliendo, conservando e condividendo i dati informativi sugli utenti per almeno 3 anni, oltre che bloccando qualunque sito web su ordine della magistratura.

L’applicabilità della legge si estende oltre i confini legali dei territori controllati dall’ANP e consente di perseguire palestinesi che vivono all’estero. Ciò costituisce una reale minaccia per gli attivisti politici palestinesi che vivono all’estero, ma che hanno una notevole influenza sui social media in patria. Comunque la legge non specifica se le autorità possano tentare di ottenere l’estradizione di palestinesi che risiedono all’estero per aver commesso un crimine informatico.

Contrastare il controllo digitale

Mentre la violazione dei diritti digitali dei palestinesi è un caso unico, data l’occupazione militare israeliana, la lotta per questi diritti è globale. I governi, le organizzazioni della società civile, le agenzie di social media e gli utenti di internet hanno tutti un ruolo importante nella protezione della libertà di espressione online e della privacy dal controllo e dalla censura dello Stato.

In Palestina l’ANP deve revocare immediatamente la legge sui crimini informatici. Per adempiere meglio allo scopo che esplicitamente si propone – combattere il crimine informatico – l’ANP dovrebbe consultare le organizzazioni della società civile ed altri importanti attori coinvolti per assicurarsi che ogni legge collegata all’informatica riduca effettivamente i crimini informatici senza violare i diritti politici dei palestinesi e le libertà pubbliche. Invece di reprimere i palestinesi per aver espresso le proprie opinioni politiche, l’ANP dovrebbe cercare di proteggere il suo popolo dagli arresti e dalle incriminazioni da parte di Israele con accuse senza fondamento di incitamento e terrorismo.

I diritti digitali, che sono parte del complesso dei diritti umani, sono un concetto relativamente nuovo nei Territori Palestinesi Occupati. Le organizzazioni palestinesi della società civile hanno la responsabilità di creare consapevolezza circa questi diritti, soprattutto riguardo alla sicurezza digitale. Proteggere gli account di un individuo e mantenere tali le informazioni private dovrebbe essere una priorità, soprattutto per giornalisti ed attivisti. Questo è particolarmente vero nel contesto di un’occupazione in cui l’occupante dispone di potenti capacità di controllo e controlla tutta l’infrastruttura delle telecomunicazioni.

La società civile palestinese ed i media devono anche smascherare e mobilitarsi contro le immorali pratiche di sorveglianza israeliane, la censura e la repressione della libertà di espressione dei palestinesi. Campagne online cresciute dal basso, come #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, si sono dimostrate efficaci nell’attaccare le violazioni dei diritti digitali delle aziende di social media, dovute a prese di posizione faziose, nonostante le dichiarazioni di neutralità. I palestinesi hanno anche bisogno di coalizzarsi con organizzazioni internazionali per i diritti digitali, che possono aiutare a fare pressione sulle aziende di social media e sul governo israeliano perché interrompano le violazioni.

Note:

  1. Questo scritto si basa su una tavola rotonda organizzata nel maggio 2017 da Al-Shabaka e dalla Fondazione Heinrich Boell a Ramallah, in collaborazione con “7amleh: Centro arabo per lo sviluppo dei social media”. Le opinioni espresse in questo scritto sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Fondazione Heinrich Boell

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Il blocco della Cisgiordania e di Gaza dura da 26 anni

 

Amira Hass,

16 ottobre 2017 Haaretz

 

Quando Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento – cosa che non avviene dal gennaio 1991.

Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.) mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato (ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco la mia personale responsabilità sulla questione.

Parecchi miei colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione collettiva, con un blocco.

Ma questi articoli hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.

Dalle critiche contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e dirigersi ad ovest. Verso il mare. O a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.

Ripetiamolo ancora una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.) – ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).

A volte il blocco è meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello Shin Bet) hanno bisogno di loro.

Per quasi due decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni – e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.

Ma dal 1991 Israele ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che stabilisce e modifica come gli conviene.

Il gennaio 1991 è storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro vite.

Nella storiografia della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica) dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo. Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato per l’altro.

E non meno importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.

E’ importante anche la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato molto prima che quelli cominciassero.

Dal 1991 la negazione della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche; un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.

Il blocco (come elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione, annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.

Comunque, io non sono un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo accanto agli orrori che abbiamo creato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 26 settembre – 9 ottobre 2017 (due settimane)

Il 26 settembre, ad un cancello della Barriera vicino all’insediamento di Har Hadar (nel governatorato di Gerusalemme), un 37enne palestinese ha sparato e ucciso tre israeliani: due guardie di sicurezza e un poliziotto di frontiera, ed ha ferito un altro poliziotto di frontiera. L’aggressore è stato colpito e ucciso sul posto ed il corpo è trattenuto dalle autorità israeliane.

Il Coordinatore Speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha fortemente condannato l’attacco. L’episodio di cui sopra fa salire a 14 il numero di israeliani (di cui nove membri delle forze di sicurezza) uccisi da palestinesi dall’inizio del 2017, mentre sale a 23 il numero di palestinesi (di cui sei minori) autori e/o sospetti autori di attacchi, uccisi nello stesso periodo.

Dopo l’attacco, le forze israeliane hanno chiuso i due ingressi principali del villaggio di Beit Surik (governatorato di Gerusalemme), dove viveva l’aggressore e, per un periodo di tre giorni, hanno limitato l’accesso alla strada principale che collega al resto della Cirgiordania questo ed altri otto villaggi circondati dalla Barriera. Come conseguenza, l’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza delle circa 35.000 persone residenti in questi villaggi è stato gravemente compromesso. Le forze israeliane hanno anche individuato e messo sotto sorveglianza la casa della famiglia dell’aggressore.

Il 4 ottobre, nella città di Kafr Qasim in Israele, è stato trovato il corpo di un colono israeliano 70enne con ferite da coltello. Secondo media israeliani, fonti di sicurezza israeliane hanno indicato che l’uomo è stato ucciso da palestinesi per “ragioni nazionaliste”. Due palestinesi del villaggio di Qabatiya (Jenin), sospettati dalle autorità israeliane dell’uccisione, sono stati arrestati dalle forze israeliane.

62 palestinesi, tra cui 23 minori e due donne, sono stati feriti nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza] in scontri con le forze israeliane. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, durante le proteste in prossimità della recinzione perimetrale, ed i restanti in Cisgiordania. La maggior parte delle lesioni (42) sono state registrate durante nove operazioni di ricerca e arresto in Biddu, Beit Surik, Silwan, Campo profughi di Shu’fat (governatorato di Gerusalemme) e nel Campo profughi di Jalazun ed in Al Bireh a Ramallah. Altri scontri che hanno causato lesioni si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Ni’lin (entrambi a Ramallah); all’entrata di Beit ‘Ummar e nel Campo profughi di Al’ Arrub (entrambi a Hebron); ed a seguito dell’ingresso di coloni israeliani in un sito religioso vicino a Gerico.

Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 121 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 205 palestinesi, di cui nove minori. Il numero più alto di operazioni (36) è stato effettuato nel governatorato di Hebron, mentre il maggior numero di arresti (53) è stato compiuto nel governatorato di Gerusalemme. Ancora in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento [due settimane], le forze israeliane hanno allestito almeno 156 chekpoint “volanti”, più del doppio della media dall’inizio dell’anno.

A motivo delle feste ebraiche, per dieci giorni durante il periodo di riferimento, le autorità israeliane hanno imposto una chiusura generale nella Cisgiordania. A tutti i titolari di documenti di identità della Cisgiordania, inclusi i lavoratori ed i commercianti con permessi validi, è stato impedito di entrare in Gerusalemme Est ed in Israele attraverso tutti i punti di controllo, ad eccezione dei casi medici urgenti, degli studenti e dei dipendenti palestinesi delle ONG internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite.

Nella Striscia di Gaza, in almeno dieci episodi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso civili palestinesi presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra e in mare; non ci sono stati feriti. Inoltre, in un caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Deir El-Balah, nella zona centrale, ed hanno svolto operazioni di spianatura e di scavo in prossimità della recinzione perimetrale.

Le autorità israeliane, citando la mancanza di permessi di costruzione, hanno demolito tre strutture ed hanno sequestrato materiali e attrezzature in varie comunità in Area C, con ciò colpendo i mezzi di sussistenza di più di 800 palestinesi. Faceva parte delle strutture prese di mira un tratto di strada agricola, finanziata da un donatore, la quale consentiva l’accesso ai terreni agli agricoltori di tre comunità nella valle del Giordano settentrionale; durante questa operazione, è stata danneggiata parte di una rete di irrigazione, finanziata da donatori, che forniva acqua alla stessa area. In altri due episodi, le forze israeliane hanno sequestrato fogli di lamiera zincata da utilizzare nella costruzione di una struttura residenziale nella Comunità pastorale di Mak-hul, nella valle del Giordano settentrionale e una serie di materiali e attrezzature utilizzati per la costruzione di una scuola nella Comunità beduina di Abu Nuwar, nel governatorato di Gerusalemme.

Quattro comunità di pastorizia nella valle del Giordano settentrionale (Mak-hul, Humsa-Al Bqai’a, Al Farisiya – Ihmayyer e Al Farisiya – Nabe ‘Al Ghazal) sono diventate ad alto rischio di sfollamento a seguito di sentenze dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, emesse all’inizio di ottobre 2017, che hanno annullato la sospensione degli ordini di demolizione in queste Comunità. Si stima che più di 200 strutture in queste Comunità possano, da ora, essere demolite in qualsiasi momento, con ciò ponendo circa 170 persone, di cui 90 minori, a rischio di sfollamento.

In tre diverse azioni di coloni israeliani, due palestinesi sono stati feriti e sono stati segnalati danni materiali. Nei pressi di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno fisicamente assalito e ferito un palestinese, membro delle forze di sicurezza palestinesi; un altro uomo, una donna e una ragazza sono stati feriti in un episodio di lancio di pietre al raccordo stradale di Beit ‘Einoun (Hebron). Secondo fonti locali palestinesi, la raccolta di 70 ulivi è stata rubata, da coloni israeliani a quanto riferito, in una zona vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya) cui i palestinesi possono accedere solo previo coordinamento con l’autorità israeliana.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Rapporto OCHA del periodo 12 – 25 settembre 2017 (due settimane)

Nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 48 palestinesi, tra cui dieci minori e sei donne.

Quattro i feriti nella Striscia di Gaza, durante le proteste presso la recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania. Il numero più elevato di feriti (33) è stato registrato nel governatorato di Qalqiliya: nel villaggio di Azzun, durante un’operazione di ricerca-arresto e a Kafr Qaddum, durante la manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso. Inoltre, vicino al villaggio di Kiryat Arba (Hebron), le forze israeliane hanno colpito, ferito e successivamente arrestato un quindicenne palestinese che, a quanto riportato, aveva tentato di accoltellare un israeliano.

Complessivamente, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 123 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 152 palestinesi, di cui 20 minori. La maggior parte delle operazioni sono state svolte nei governatorati di Hebron e di Gerusalemme (37 ciascuno).

Il 20 settembre, nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), un bambino palestinese di 11 anni è stato ferito dalla detonazione di un ordigno inesploso.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno dieci casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili palestinesi; un pescatore è stato ferito e la sua barca confiscata. Inoltre, è stato riferito che al valico di Erez un commerciante è stato arrestato dalle forze israeliane. In due occasioni le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza presso Khan Younis ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale.

Il 13 settembre, nella città di Yatta (Hebron), durante uno scontro a fuoco avvenuto nel contesto di un’operazione di ordine pubblico, le forze di sicurezza palestinesi hanno ucciso un 34enne palestinese e ne hanno ferito un altro.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 21 strutture, sfollando 29 persone, di cui 16 minori, e compromettendo i mezzi di sostentamento di altre 40. La demolizione più ampia è avvenuta in Area C, nella comunità di Istaih, vicino alla città di Jericho dove le autorità israeliane hanno demolito 16 strutture, tutte, tranne una, in fase di costruzione. A Gerusalemme Est sono state demolite quattro strutture: un impianto di lavaggio auto, un riparo per animali e il secondo piano di un edificio a due piani. La demolizione di quest’ultimo ha gravemente danneggiato l’intero edificio.

Nella comunità pastorale di Umm al Oborin, nella valle del Giordano settentrionale, le forze israeliane hanno sequestrato due mucche e 50 barili per la conservazione dell’acqua. Il sequestro ha compromesso il sostentamento di 14 persone, di cui quattro minori. La Comunità si trova all’interno di un’area che Israele ha dichiarato “zona per esercitazioni a fuoco” e riserva naturale. Inoltre, in due distinti episodi che hanno interessato i villaggi di Beit Furik (Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sequestrato tre bulldozer di proprietà palestinese, adducendo la motivazione che gli stessi erano impiegati per costruzione illegale in Area C.

Militari israeliani, presentatisi presso la comunità di Khan al-Ahmar / Abu al Helu (Gerusalemme), in Area C, hanno reiterato ai leader locali l’ordine di lasciare l’area per trasferirsi in un sito di rilocalizzazione a loro destinato. Secondo i resoconti dei media, il Procuratore di Stato israeliano ha informato la Corte di Giustizia israeliana della sua intenzione di trasferire la Comunità entro la metà del 2018. Questa è una delle 46 comunità beduine palestinesi della Cisgiordania centrale, in cui vivono complessivamente circa 8.100 persone, a rischio di trasferimento forzato e gravate da un contesto coercitivo prodotto da una serie di politiche israeliane (demolizioni incluse) e da un piano di rilocalizzazione [stilato da Israele].

Il 13 settembre, secondo quanto riferito, coloni israeliani hanno dato fuoco a circa 400 ulivi appartenenti a 19 agricoltori palestinesi di Burin (Nablus). L’area presa di mira è adiacente all’insediamento colonico di Yitzhar e, per accedervi, ai palestinesi è richiesto un coordinamento preventivo con le autorità israeliane. Dall’inizio dell’anno sono stati vandalizzati circa 2.800 alberi di proprietà palestinese; lo scorso anno furono 1.650.

Secondo i rapporti dei media israeliani, sulle strade principali dei governatori di Ramallah e Hebron, almeno cinque episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani hanno causato il ferimento di due coloni israeliani, tra cui un minore, e danni ad almeno quattro veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico egiziano di Rafah è stato aperto per tre giorni in una sola direzione, consentendo a 2.083 pellegrini palestinesi di fare ritorno nella Striscia di Gaza. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrati e in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 26 settembre, nei pressi del villaggio di Har Hadar (governatorato di Gerusalemme), un palestinese ha ucciso, con arma da fuoco, due guardie di sicurezza israeliane e un poliziotto di frontiera che erano in servizio presso un attraversamento della Barriera; l’aggressore è stato colpito e ucciso.

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Il presente e la sua storia

Chiara Cruciati, Michele Giorgio,  Cinquant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma 2017, pp.223, euro 15,00

Chi segua le drammatiche vicende del territorio tra il Giordano ed il mare e la tragedia infinita di Gaza, o legga il Manifesto, per cui gli Autori scrivono spesso, non ha bisogno di leggere il sottotitolo e il risvolto per capire che i cinquant’anni sono dopo la guerra israelo-palestinese del 1967. E non fa fatica a condividere la tesi del fallimento della soluzione dei due Stati, a cui non si vede alternativa; e quindi della prosecuzione indefinita dell’occupazione e della violenza sempre più asimmetrica che ne discende.

I primi tre capitoli dei nove del libro raccontano le vicende politiche, militari, culturali, la propaganda, delle due parti in conflitto. Poi vengono raccontate le storie particolari, da quella tragica e conflittuale di Gaza, di Hamas e di Fatah, degli abitanti non schierati in nessuna milizia; delle scelte di Israele e delle colonie ebraiche in Cisgiordania; di Gerusalemme e della sua asimmetrica riunificazione con la forza; della resistenza palestinese, nelle sue fasi. Chiudono un capitolo sulla economia vincolata, chiusa, dipendente, dei territori occupati, e uno sulla situazione internazionale, perché in questo come in tutte le situazioni di conflitto civile locale, malgrado la grande forza militare di Israele, sono le Grandi Potenze che stabiliscono le regole del gioco e determinano il risultato, perché lo accettano, anche se non lo producono direttamente, mentre ne impediscono altri.

Cosa ci dà il libro che non si trova negli articoli, di oggi e di ieri

Il libro ci dà una ricostruzione accurata ed equilibrata del contesto e del passato, che è ciò che manca anche ai lettori attenti, ben informati, ma non specialisti. Anche i lettori attenti possono aver cambiato idea nel corso del tempo, essersi informati negli anni, ma aver trascurato di ricostruire i precedenti. Ci aiuta a completare la nostra conoscenza degli atti, delle ideologie, della propaganda, delle parti in conflitto. che sono state sempre più di due – si pensi alla rivalità tra Olp e Hamas, o all’interno dell’Olp. Ci aiuta a capire che non esistono vittime assolute, eterne: non Israele, malgrado le stragi di ebrei in Europa, 75 anni fa; non chi governa Gaza, malgrado i massacri di innocenti. Ci ricorda che nella guerra senza fronti che si combatte in Palestina da un secolo l’immagine, la percezione, l’opinione pubblica mondiale, il consenso degli Stati, la loro disponibilità a fornire armi e denaro, sono stati spesso determinanti.

Il libro ci racconta i mutamenti, reali e d’immagine, nel tempo. Descrive l’acquisizione delle risorse strategiche, economiche e militari da parte di Israele; il controllo dell’acqua e del territorio. La propaganda delle due parti. Le divisioni e i conflitti interni dei palestinesi. L’evoluzione dei partiti israeliani – e la loro convergenza sul nazionalismo. Gli eccessi anche dell’Olp e del Fplp. Il sostegno di Israele ai Fratelli Musulmani, contro i più aggressivi laici. La nascita di Hamas; il cambiamento di politica di Israele nei suoi confronti; la guerra intestina a Gaza. L’origine e lo sviluppo delle due intifade; l’occupazione del Libano e Sabra e Chatila; l’uccisione di Rabin e la vittoria degli estremisti in Israele, fino alla vittoria di Netanyahu e alla situazione attuale, dominata da partiti estremisti, ultranazionalisti e religiosi.

Il punto di vista degli autori

Ho definito equilibrata ed accurata la ricostruzione degli autori. Nessuno ha la competenza per garantire l’oggettività e la completezza di una storia così intricata. Intendo dire che gli autori si sono messi dal punto di vista degli uomini, delle donne, dei bambini, presenti sul territorio tra il Giordano ed il mare e che non hanno trascurato di raccontare strumentalità e violenze da ambedue le parti. Non hanno idealizzato né i partiti e i dirigenti palestinesi né quelli israeliani. Anche per Gaza, che è un campo di concentramento a cielo aperto, e per Gerusalemme, che è un simbolo per mezzo mondo, per ambedue le parti in conflitto, hanno guardato alle condizioni degli abitanti, non sostenuto la santità dei guerrieri o la giustezza delle decisioni dei leader.

Naturalmente, per quel che riguarda la completezza, anche un non professionista può citare episodi che lo hanno toccato da vicino o che hanno avuto un’eco importante in Italia e di cui il libro non parla o che nomina appena.

Il sequestro dell’Achille Lauro, l’uccisione di Klinghoffer, ebreo ed invalido, il confronto armato di Sigonella, è noto a tutti quelli che hanno l’età per ricordarlo. Le due stragi di Fiumicino, del 1973, la più grave, con una trentina di morti, e quella dell’85, mi sono ben presenti, perché nella prima morì bruciato un mio vecchio collega in partenza per Teheran; la rappressaglia israeliana per la strage di Monaco mi è ben presente perché uno dei presunti complici uccisi era molto amico di vari redattori del Manifesto che erano sicuri della sua innocenza e ne parlavano. Ma se si dovesse parlare dei singoli morti di questa come di altre guerre contemporanee ci vorrebbe un’enciclopedia.

Gli autori cercano di dare un quadro generale, e registrano la sconfitta, l’impossibilità di usare la forza, da parte dei palestinesi. E sostengono che non avere la forza non vuol dire non avere ragioni, se non addirittura ragione, sul punto fondamentale della libertà dall’occupazione.

Francesco Ciafaloni

Francesco Ciafaloni, nato il primo agosto 1937 a Teramo, ha lavorato come ingegnere del petrolio per l’Agip dal 1961 al 1966. E’ stato redattore di Paolo Boringhieri dal ’66 al ’70 e poi di Giulio Einaudi dal ’70 alla crisi dell’inizio degli anni ’80. Da allora ha lavorato soprattutto coi migranti, prima alle dipendenze della Cgil, poi come volontario. Ha lavorato per il “Comitato oltre il razzismo”. Attualmente collabora con i mensili “Una città” e “Gli asini” e con il sito “Workingclass”.




L’ambasciatore di Trump in Israele esce dai ranghi

Maureen Clare Murphy

29 settembre 2017,Electronic Intifada

Qual’è la politica di Donald Trump riguardo ad Israele e i palestinesi? Nessuno all’interno dell’amministrazione del presidente sembra in grado di dirlo.

In un’intervista ad un sito di informazioni israeliano, David Friedman, ambasciatore di Trump a Tel Aviv, ha avanzato ipotesi in contraddizione con decenni di politica statunitense e con le posizioni sostenute dall’amministrazione.

La risposta del Dipartimento di Stato ai suoi commenti dà ulteriormente l’impressione di una politica estera in totale confusione.

Alla domanda sulle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, Friedman ha risposto a ‘Walla! News’[portale di notizie israeliano legato al gruppo editoriale di Haaretz, ndt.]:

Penso che le colonie siano parte di Israele. Penso che ci si aspettasse questo quando fu adottata la risoluzione 242 nel 1967.”

Friedman, a lungo avvocato fallimentare di Trump, si riferiva ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che, di fatto, sottolinea “l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra” e chiede il ritiro di Israele dal territorio occupato nella guerra del 1967.

L’interpretazione di Friedman contraddice direttamente diverse successive risoluzioni che riaffermano esplicitamente l’illegalità delle colonie israeliane in Cisgiordania.

Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione civile in un territorio che occupa è una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e quindi è un crimine di guerra.

Friedman, tra l’altro, è un importante finanziatore di una di quelle colonie.

Cambiamento radicale

L’ambasciatore ha minimizzato l’importanza delle colonie, affermando: “Voglio dire, stanno semplicemente occupando il 2% della Cisgiordania.”

Era totalmente fuori strada.

La realtà è che Israele dispone di un massiccio sistema di colonie da insediamento in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Più della metà della Cisgiordania è stata confiscata per le colonie o interdetta in altro modo ai palestinesi.

Per decenni la politica USA è stata di considerare le colonie come un ostacolo ad uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E lo scorso dicembre gli USA hanno permesso che il Consiglio di Sicurezza approvasse una risoluzione che riaffermava l’illegalità di tutte le colonie.

Ma l’opposizione a parole degli Stati Uniti alle colonie non ha mai coinciso con i fatti: le diverse amministrazioni hanno continuato a staccare assegni in bianco ad Israele, mentre gli insediamenti continuavano ad espandersi. I commenti di Friedman rappresentano un cambiamento radicale di quella politica, per quanto inefficace possa essere stata.

Alla domanda di ‘Walla!’ se sarebbe mai arrivato a pronunciare forte e chiaro le parole “soluzione dei due Stati”, Friedman ha detto che l’espressione ha perso ogni significato perché “significa cose differenti per gente diversa.”

Quanto al significato che ha per lui, ha glissato. “Non ha significato, non ho certezze. Per quanto mi riguarda, non mi interessano le etichette, mi interessano le soluzioni”, ha detto.

E’ uscito dai ranghi?”

Nella conferenza stampa di giovedì la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert ha faticosamente cercato di riconciliare quanto detto da Friedman con la politica dell’amministrazione che rappresenta.

Le sue affermazioni – e intendo essere estremamente chiara su questo punto – non devono essere lette come un modo per pregiudicare l’esito di qualunque negoziato che gli Stati Uniti possano avere con israeliani e palestinesi. Non devono neanche segnalare un mutamento nella politica USA”, afferma Nauer.

E’ uscito dai ranghi?”, chiede un giornalista.

E’ almeno la seconda volta che da questa tribuna lei ha dovuto in qualche modo smentire le notazioni dell’ambasciatore Friedman, quando ha tirato fuori la ‘presunta occupazione’”, dice un altro giornalista, riferendosi ad un recente commento di Friedman al giornale di destra Jerusalem Post, in cui insinuava che gli Stati Uniti non considerano Cisgiordania e Gaza occupate da Israele.

E aggiunge: “Anche se non si tratta di un cambio di posizione, la sensazione che l’ambasciatore in Israele sia di parte relativamente a questo conflitto sta creando problemi agli USA?”.

Abbiamo alcuni dirigenti e rappresentanti del governo USA molto efficienti, compresi Jason Greenblatt e Mr. Kushner, che dedicano un’enorme quantità di tempo alla regione”, risponde Nauert, riferendosi a due dei consiglieri di Trump.

Il giornalista dell’Associated Press Matt Lee sottolinea che “il problema nasce dal fatto che Friedman è l’ambasciatore confermato dal Senato. Né Greenblatt né Kushner lo sono…

Si presume che gli ambasciatori in qualunque Paese parlino in nome e con l’autorità del presidente degli Stati Uniti. Non pensa che questo generi confusione?”

Ambasciatore di chi?

Bella domanda. Durante l’intervista Friedman si è comportato come se fosse l’ambasciatore di Israele negli USA, invece che l’ambasciatore degli USA in Israele.

Ha ribadito che l’amministrazione Trump trasferirà l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme – un’altra rottura rispetto a decenni di politica statunitense e consenso internazionale. Si trattava di una promessa fatta durante la campagna elettorale di Trump, ma su cui poi egli ha fatto marcia indietro, una volta entrato in carica.

Alla domanda se l’ambasciata verrà trasferita nel corso della presidenza Trump, Friedman ha risposto: “Sicuramente lo spero. Questo era uno degli impegni del presidente e lui è un uomo che mantiene la parola…La questione non è se, ma quando.”

Friedman ha affermato che un accordo di pace potrebbe essere raggiunto entro alcuni mesi, ma che non avrebbe fornito alcun dettaglio sui criteri dei presunti negoziati di pace.

Riguardo alla sfiducia da parte palestinese a causa dei suoi finanziamenti alle colonie, l’ambasciatore si è vantato di aver incontrato Majid Faraj, il capo della polizia segreta del leader dell’ANP Mahmoud Abbas, ed il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat.

Penso che comprendano il mio punto di vista,” ha detto Friedman, aggiungendo: “Non credo sia un problema di diffidenza, credo che abbiano avuto a che fare in precedenza con persone che hanno quelle idee.”

Benché dica che è Trump che prende le decisioni nella sua cerchia ristretta, il riferimento di Friedman al “mio punto di vista” suggerisce che l’ambasciatore stia lavorando a briglia sciolta. Ma si comporta ancora come avvocato di Trump.

Sulla questione posta da Walla! circa la molto criticata difesa da parte di Trump di una mobilitazione di nazionalisti bianchi a Charlottesville il mese scorso, che ha causato la morte di una contro-manifestante, Friedman ha detto: “Non ho dubbi che lui non sia minimamente in nessun modo ed in nessuna forma, razzista, misogino, antisemita, omofobo, o qualunque altro aggettivo possiate inventare. Quello non è lui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Un attacco a mano armata in una colonia illegale lascia un bilancio di un palestinese e tre israeliani morti

Ma’an News

26 settembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Martedì mattina le forze israeliane hanno ucciso un palestinese dopo che il trentasettenne aveva sparato all’ingresso della colonia israeliana illegale di Har Adar nella Cisgiordania occupata, uccidendo due guardie della sicurezza e un ufficiale della polizia di frontiera.

Secondo il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld, l’attacco è stato perpetrato da un palestinese del villaggio di Beit Surik, nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania, in seguito identificato come Nimr Mahmoud Ahmed Jamal.

Luba al-Samri, portavoce in arabo della polizia israeliana, ha aggiunto che Jamal era arrivato alla colonia insieme a un gruppo di lavoratori palestinesi. Quando i palestinesi hanno iniziato ad entrare nel posto di blocco israeliano all’ingresso della colonia, le forze di polizia israeliane gli hanno chiesto di fermarsi dopo essersi insospettite del palestinese, che allora ha estratto un’arma e ha sparato agli agenti.

Dopo un scambio a fuoco, Jamal è stato colpito a morte, mentre tre degli agenti sono stati uccisi. Nel contempo anche un altro israeliano, il coordinatore della sicurezza della colonia, è stato ferito gravemente. Rosenfeld ha confermato che il palestinese ucciso era in possesso di un permesso di lavoro israeliano.

Al-Samri ha informato che l’agente israeliano ucciso è il ventenne Soloman Gabariya. In seguito all’attacco la polizia israeliana ha chiuso la zona nei pressi della colonia. Il quotidiano israeliano “Haaretz” ha identificato le due guardie di sicurezza come Yussef Utman, abitante del villaggio di Abu Gosh, nei pressi di Gerusalemme, e Or Arish, 25 anni, di Har Adar. Secondo la documentazione di Ma’an, Jamal è diventato il cinquantaseiesimo palestinese ucciso dagli israeliani dall’inizio dell’anno durante attacchi, presunti attacchi, scontri o incursioni mortali per operare arresti.

Dall’inizio del 2017 sedici israeliani, quasi tutti agenti in uniforme o israeliani che vivevano nelle colonie israeliane in violazione delle leggi internazionali, sono stati uccisi da palestinesi. Spesso i palestinesi hanno citato le frustrazioni quotidiane e la continua violenza dei soldati israeliani, imposta dalla quasi cinquantennale occupazione israeliana del territorio palestinese, come i principali moventi degli attuali attacchi politici contro israeliani.

In seguito all’attacco Husam Badran, portavoce del movimento Hamas, ha rilasciato un comunicato che definisce “eroico” l’attacco, aggiungendo che esso è un segno che l’intifada sta continuando – in riferimento all’incremento di violenze nei territori palestinesi occupati e in Israele che è scoppiato per la prima volta due anni fa.

La resistenza intende porre fine all’oppressione e all’occupazione della terra palestinese (da parte di Israele),” ha detto nel comunicato. I palestinesi “continueranno con ogni mezzo di liberazione e resistenza, non importa con quanto sacrificio,” ha aggiunto.

Nel contempo anche Munir al-Jaghoub, un funzionario di Fatah, ha rilasciato una dichiarazione, affermando che “solo Israele è responsabile delle reazioni palestinesi ai crimini dell’occupazione, e se continua con le sue aggressioni contro il popolo palestinese.”

Ha aggiunto che Israele “deve essere ben consapevole delle conseguenze della sua continua spinta verso la violenza, della politica di demolizione delle case, delle espulsioni degli abitanti di Gerusalemme e del susseguirsi di incursioni di coloni nel complesso della moschea di Al Aqsa.”

Al-Jaghoub ha detto che, se gli israeliani credono nella pace, devono porre fine “alla violenza e alle quotidiane umiliazioni dei palestinesi” e cessare la loro continua violazione delle leggi e degli accordi internazionali, che hanno portato alla prosecuzione dell’espansione delle colonie israeliane sul territorio palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come Israele sta silenziosamente trasferendo palestinesi da Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

25 settembre 2017,Mondoweiss

Jabal Mukaber, Gerusalemme est occupata – A poche centinaia di metri dalla casa di Manwa al-Qanbar c’è il muro di separazione che divide Gerusalemme est occupata dal resto della Cisgiordania occupata.

La sessantunenne al-Qanbar potrebbe essere presto espulsa dall’altro lato del muro, ma si rifiuta di pensare a questa possibilità.

“Dove potrei andare? Puoi lasciare la tua casa dopo averci vissuto per 35 anni? Io non me ne andrò”, ha detto al-Qanbar a Mondoweiss tenendo in braccio la sua nipotina appena nata.

A gennaio suo figlio Fadi di 28 anni è stato colpito a morte dopo aver lanciato il suo furgone su un gruppo di soldati israeliani nella colonia ebraica illegale di Talpiot est, uccidendone quattro.

Due giorni dopo al-Qanbar ha ricevuto dal ministero dell’Interno israeliano l’informazione che intendevano revocarle lo status di residenza permanente. Anche altri dieci membri della famiglia allargata di Fadi, compresi due minori di otto e dieci anni, hanno ricevuto avvisi che i loro permessi sarebbero stati revocati.

La residenza permanente di al-Qanbar è stata revocata nel gennaio 2017, segnando la prima volta in cui Israele ha punito con la revoca del permesso di residenza un membro della famiglia di un aggressore.

Il tribunale d’appello ha emesso un ordine temporaneo di sospensione della “deportazione” e i membri della famiglia sono ora in causa presso la corte per rimanere con i loro familiari a Jabal Mukaber.

“D’ora in poi chiunque trami, pianifichi o prenda in considerazione di condurre un attacco saprà che la sua famiglia pagherà un pesante prezzo per il suo atto”, ha dichiarato in un comunicato il ministro dell’Interno Arye Deri.

“Le conseguenze saranno gravi e di vasta portata, come la decisione che ho preso nei confronti della madre e dei parenti del terrorista (Fadi al-Qanbar), che ha compiuto l’attacco nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme.”

Le organizzazioni della società civile sostengono che con la revoca punitiva delle residenze, Israele si sta impegnando in “una silenziosa deportazione e colonizzazione” dei palestinesi allo scopo di conservare una maggioranza ebrea a Gerusalemme.

Israele ha cercato di conservare il suo dominio mantenendo un equilibrio demografico del 60% di ebrei e 40% di palestinesi a Gerusalemme, in base al suo progetto complessivo.

“Fa parte della politica generale dell’occupazione israeliana ottenere una maggioranza demografica ebrea attraverso mezzi illegali”, ha detto Nada Awad, responsabile della difesa del “Centro di Azione della Comunità” dell’università di Al Quds.

“Con il pretesto della sicurezza, Israele sta deportando palestinesi da Gerusalemme est occupata… Se non vengono fermate, queste misure di punizione collettiva costituiranno preoccupanti precedenti che condurranno alla deportazione di palestinesi per atti compiuti da un membro della loro famiglia allargata.”

Bassam Alam, genero della sorellastra di Fadi, è uno dei membri della famiglia il cui permesso a rischio. Originario della Cisgiordania, ha ottenuto il permesso di vivere a Gerusalemme con la procedura di ricongiungimento familiare, dato che sua moglie Susan è di Gerusalemme est.

Nel corso dell’audizione del 10 settembre l’avvocato difensore, Murad al-Khatib, ha chiesto perché a membri della famiglia allargata che non hanno mai incontrato Fadi vengano revocati i permessi.

“Lo Shabak [agenzia di intelligence interna israeliana, nota anche come Shin Bet, ndt.] ha detto che hanno cercato di revocare la residenza del marito della sorellastra di Fadi. Ma Susan (la moglie di Bassam) non è nemmeno la sorellastra di Fadi: sono parenti molto più alla lontana, non si sono mai incontrati; non sono neanche della stessa famiglia”, ha detto al-Khatib.

Al-Khatib ha inoltre sostenuto che, mentre il ministero dell’Interno ha l’autorità di revoca di ogni permesso di residenza se la persona costituisce una minaccia alla sicurezza o è coinvolta in attività criminali, nel caso di Susan e Bassam Alam non è presente nessuna delle due ipotesi.

Al-Qanbar aveva ottenuto il suo status di residenza permanente attraverso il matrimonio. Rischia di essere trasferita a forza sulla base del fatto che il suo matrimonio durato 35 anni era presumibilmente poligamico, illegale secondo la legge israeliana. Lei dice che suo marito era già divorziato quando lo ha sposato.

E’ diventato sempre più difficile per i palestinesi stabilirsi e vivere con la famiglia a Gerusalemme est. In base all’”ordine temporaneo” entrato in vigore nel 2003, i palestinesi della Cisgiordania che sposano un cittadino israeliano (compresi quelli di Gerusalemme est) non possono ottenere la cittadinanza o la residenza israeliana. Possono ricevere solo “permessi temporanei” secondo rigidi criteri, che devono essere rinnovati ogni anno. I permessi di ricongiungimento familiare per le coppie di residenti a Gerusalemme e a Gaza sono stati completamente eliminati nel 2008.

Tra il 2000 e il 2013 è stato respinto il 43% delle richieste di ricongiungimento familiare, il 20% per motivi di sicurezza.

Più di 14.500 palestinesi si sono visti revocare lo status di residenti a partire dall’occupazione israeliana di Gerusalemme nel 1967, illegale secondo le leggi internazionali. Da allora i palestinesi sono stati trattati come immigrati nel loro stesso Paese e gli è stato dato uno “status di residenza permanente”. In pratica, secondo le organizzazioni della società civile, lo status non è permanente, ma è piuttosto una “concessione revocabile”, invece che un “diritto pieno”.

Da ottobre 2015 Israele ha intensificato l’uso della punizione collettiva come strumento di deportazione dei palestinesi da Gerusalemme est.

Il governo israeliano punisce abitualmente l’aggressore emettendo un ordine di demolizione per la sua casa, ma nei giorni seguenti all’attacco da parte di Fadi le autorità israeliane hanno bloccato tutte le strade principali e consegnato avvisi di demolizione a 81 case a Jabal Mukaber, con il pretesto di aver costruito senza la licenza edilizia.

“Hanno punito tutti quelli del quartiere. Il giorno dopo l’attacco hanno interrotto l’acqua e l’elettricità in tutte le case e bloccato tutti gli ingressi al quartiere. Hanno addirittura distrutto le tende per le pecore”, ha detto al-Qanbar.

La moglie di Fadi con i quattro bambini si è trasferita nella casa vicina alla loro, quella di al-Qanbar, dopo che gli israeliani hanno sigillato col cemento la sua casa, fin quasi al soffitto. Il cemento caldo e compresso ha presto dato fuoco alla casa, con un costo di 100.000 shekel [circa 24.000 €, ndt.] di danni per la ristrutturazione, come ha spiegato al-Qanbar.

Anche i servizi sanitari e sociali sono stati revocati ad al-Qanbar, ma lei continua a sperare di poter mantenere la sua residenza.

Dice: “Gli avvocati con cui ho parlato hanno detto che legalmente loro non hanno il diritto di togliermela…Ho vissuto qui da quando mi sono sposata ed ho sempre pagato le tasse per gli spazi in cui abito; ho pagato le bollette dell’elettricità e dell’acqua. Perciò perché dovrebbero togliermi la residenza? Me la stanno togliendo a causa di mio figlio.”

Mersiha Gadzo è una giornalista multimediale. Ha scritto articoli per Al Jazeera, CBC, Canadian Dimension e Middle East Eye. Il suo indirizzo twitter è: @MersihaGadzo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il giro d’Italia deve stare lontano da Israele

Tamara Nassar

22 settembre 2017,  Electronic Intifada

I palestinesi stanno chiedendo agli organizzatori del Giro d’Italia di annullare il progetto che vedrebbe partire da Gerusalemme la corsa di ciclismo del 2018.

Israele è stato annunciato come Paese ospite del più prestigioso avvenimento ciclistico dopo il Tour de France.

Secondo un post di appello alla mobilitazione del comitato nazionale del BDS palestinese, il gruppo dirigente per la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per i diritti dei palestinesi, ospitare uno degli eventi sportivi più seguiti al mondo “servirà ad Israele come indice di approvazione dell’oppressione israeliana dei palestinesi.”

L’appello alla mobilitazione invita gli attivisti a dire agli organizzatori della competizione: “Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia iniziare dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è inaccettabile iniziare la corsa da qualunque luogo sotto il controllo israeliano.”

E’ previsto che la corsa inizi a Gerusalemme, e poi si allontani in due direzioni, una da Haifa a Tel Aviv e l’altra da Bir al-Saba a Eilat. Questa sarà la prima volta che il Giro d’Italia inizierà fuori dall’Europa.

L’evento intende celebrare i 70 anni dell’”indipendenza israeliana” ed è stato coordinato dal magnate canadese-israeliano del settore immobiliare Sylvan Adams.

La corsa inizierà solo 10 giorni prima della commemorazione della Nakba, che segna i 70 anni da quando le forze sioniste espulsero 750.000 palestinesi, svuotando o distruggendo in questo processo centinaia di città, cittadine e villaggi.

Aperto a tutti?

Yariv Levin, il ministro israeliano del Turismo, ha affermato che ciò è parte degli sforzi per “trasformare radicalmente” Israele in una normale “destinazione per lo svago ed il turismo”.

Non è la prima volta che avvenimenti sportivi sono stati utilizzati per mascherare i crimini di Israele, distrarre dall’occupazione militare e normalizzarne l’immagine.

Questi tentativi sono anche intesi a rafforzare le pretese di Israele su Gerusalemme.

Il sindaco israeliano di Gerusalemme Nir Barkat, che sovrintende alla continua distruzione delle case palestinesi e all’espulsione forzata di palestinesi per far posto ai coloni ebrei, è comparso con altre personalità israeliane ad un evento per annunciare i progetti per il Giro d’Italia 2018.

Il nostro messaggio al mondo è chiaro: Gerusalemme, la capitale dello Stato di Israele, è aperta a tutti,” ha dichiarato, sottolineando che egli vede il Giro d’Italia come un sostegno alle rivendicazioni politiche di Israele.

Tuttavia Gerusalemme non è aperta a tutti. Le milizie sioniste occuparono la parte occidentale della città nel 1948, espellendo i residenti palestinesi e impossessandosi delle loro proprietà. Non venne loro consentito di tornare. Israele occupò la parte orientale nel 1967, e da allora ha continuato a costruirvi colonie in violazione delle leggi internazionali.

Israele ha obbligato migliaia di palestinesi di Gerusalemme ad andarsene dalla città come parte di quello che Human Rights Watch descrive come “il tentativo di consolidare una maggioranza ebraica a Gerusalemme” da parte di Israele.

Le limitazioni israeliane significano anche che frequentemente ai palestinesi che vivono altrove nella Cisgiordania occupata viene impedito di visitare la città.

Anche a malati di Gaza sono state spesso negate dalle autorità israeliane cure mediche negli ospedali di Gerusalemme.

La demolizione da parte di Israele delle case in Cisgiordania – ed anche a Gerusalemme est sotto la supervisione di Barkat – ha raggiunto un nuovo record nel 2016.

Finanziamenti israeliani

Il governo israeliano ha dato un forte sostegno all’evento ciclistico. Parte del percorso porterà i corridori in giro a visitare il parlamento israeliano, la Knesset, l’Alta Corte israeliana, il museo di Israele e la Città Vecchia di Gerusalemme.

Il governo israeliano ha anche detto che sta mettendo in atto la più grande operazione di sicurezza nella storia di Israele.

Sta anche coprendo i costi totali per ospitare il Giro d’Italia, che ammontano a circa 14 milioni di dollari per l’evento, circa un terzo dei quali arriveranno direttamente al gruppo mediatico RCS per i diritti di ospitalità.

Il gruppo mediatico RCS è l’impresa italiana che organizza la corsa.

L’investimento israeliano nell’avvenimento è parte dei tentativi di promuovere la propria immagine pubblica. Dall’attacco israeliano del 2014 contro Gaza, l’industria turistica israeliana è andata declinando, nonostante gli sforzi promozionali che godono di abbondanti finanziamenti.

Un recente sondaggio della BBC ha classificato Israele come uno dei quattro Paesi meno apprezzati al mondo.

Respingere

Sharaf Qutaifan, della PACBI, la “Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel” [“Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele”, ndt.], ha ricordato le continue violenze nei confronti degli atleti palestinesi e la distruzione di impianti sportivi da parte di Israele.

Sostenere che questa corsa in qualche modo “unirà” è risibile ed è un affronto per i palestinesi, obbligati per decenni ad intraprendere una letale corsa ad ostacoli fra bombe, pallottole, posti di blocco, interruzioni di strade e muri,” ha affermato.

Ma il direttore del Giro d’Italia Mauro Vegni ha sostenuto che qualunque difficoltà l’evento possa incontrare sarà esclusivamente logistico e non politico.

Attivisti palestinesi hanno lanciato la #RelocatetheRace campaign [“Campagna per spostare la corsa”, ndt.] per protestare contro gli organizzatori del Giro d’Italia, ricordando loro le violazioni dei diritti umani da parte di Israele lungo il percorso previsto e invitandoli a tenere l’evento altrove.

L’ambasciata italiana a Tel Aviv ed il gruppo della lobby dei cristiani sionisti “Christians United for Israel” [“Cristiani uniti per Israele”, ndt.] hanno plaudito alla decisione di iniziare la corsa a Gerusalemme.

Nonostante l’ostilità dei leader italiani verso il movimento di solidarietà con la Palestina, attivisti italiani sono tra quanti in Europa hanno intensificato il proprio impegno per lottare contro la complicità con l’apartheid israeliano e i tentativi di nascondere i suoi crimini.

Tamara Nassar è vice-redattrice di “The Electronic Intifada”.

(traduzione di Amedeo Rossi)