Crimini di guerra e ferite aperte: la dottoressa che ha sfidato la segregazione israeliana

Alon Mizrahi

 12 settembre 2017,+972

In occasione dei suoi 80 anni, Ruchama Marton, la fondatrice di “Physicians for Human Rights-Israel”, parla delle atrocità di cui è stata testimone quando era soldatessa, del duraturo potere del femminismo e perché solo un aiuto dall’esterno ha la possibilità di porre fine al dominio militare israeliano sui palestinesi.

Ruchama Marton viene dalla generazione che si potrebbe chiamare 1.5 degli attivisti israeliani contro l’occupazione. Era un po’ troppo giovane per partecipare al piccolo gruppo di avanguardia che fondò la rivoluzionaria organizzazione socialista Matzpen negli anni ’60, ma abbastanza grande da aver preso lezioni da una testa calda, il professor Yeshayahu Leibowitz [grande intellettuale e teologo ebreo israeliano, molto critico con gli esiti del sionismo, ndt.] a Gerusalemme. Là, mentre frequentava la facoltà di medicina, ha rivoluzionato la procedura di ammissione per le studentesse, che portò all’abolizione delle quote di ammissione. E quando scoprì che nella facoltà di medicina c’era un bando contro le donne in pantaloni, si ribellò anche contro di esso.

Marton ha fondato “Physicians for Human Rights-Israel” [“Medici per i Diritti Umani – Israele”] durante la Prima Intifada, portando il termine “diritti umani” nel discorso politico israeliano. Nata in Israele, dove ha passato tutta la sua vita, è stata per più di 40 anni una psichiatra impegnata. Il suo rapporto con questo posto è complicato e doloroso, quasi impossibile.

Marton non modera le sue parole quando si tratta delle organizzazioni di sinistra e per la pace, che vede come una specie di “società umanitaria”, attribuendo scarsa importanza ad un attivismo che non faccia i conti direttamente con la violazione dei diritti umani, il cui nucleo centrale sono i diritti politici.

Per tutta la sua vita si è indignata per l’ingiustizia e la segregazione. Tra la lotta contro lo sciovinismo, il patriarcato e quella di tutta una vita contro l’occupazione, rifiuta di rimanere in silenzio.

Ho incontrato Marton per un’intervista nella sua casa di Tel Aviv in occasione dei suoi 80 anni. Avevo previsto che non mi sarebbe stato facile. Avevo ragione.

Come psichiatra con anni di esperienza voglio iniziare con quella che ritengo una grande domanda. Perché siamo così ossessivamente legati alla disumanizzazione degli arabi? Perché sembra che il maggior desiderio di questo posto sia negare ai palestinesi qualunque tipo di riconoscimento e di legittimazione? In fin dei conti a questo punto non ha uno scopo concreto, abbiamo già vinto.

Cosa intende con ‘non ha uno scopo concreto?’ Non ha senso. Serve agli interessi sionisti. A ogni singolo [interesse].

Mi spieghi

Innanzitutto, siamo colonialisti. Il sionismo è colonialista. E la prima cosa che un buon colonialista fa è spogliare. Spogliare di cosa? Di tutto quello che può. Di quello che è importante, di tutto quello che gli serve. Della terra. Delle risorse naturali. E, naturalmente, dell’umanità. Dopotutto è ovvio che per controllare qualcun altro devi portargli via la sua umanità.”

Ma questo progetto non è terminato? Non è che noi adesso siamo in guerra e stiamo per conquistare un nuovo territorio. La “Guerra di indipendenza” [denominazione sionista della guerra contro palestinesi ed arabi nel 1947-48, ndt.] è finita molto tempo fa. Abbiamo vinto. Abbiamo già tracciato dei confini. Perché abbiamo ancora bisogno di quella mentalità?

Quali confini? Non ci sono confini, non ci saranno confini, e non vedo che ci sia una qualunque intenzione di tracciarli ora. Ma, oltre a ciò, la spoliazione è un compito senza fine. Quel popolo occupato, quel popolo spogliato, che sia all’interno o all’esterno della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania fino alla guerra del ’67 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndt.], non è d’accordo. Non si arrende. Non accetta di essere spogliato della sua terra, della sua acqua, della sua umanità. Come ha detto Hannah Arendt: “Senza diritti politici non c’è essere umano. I diritti politici vengono prima di ogni altra cosa. Prima del diritto di proprietà, di movimento, di riunione e associazione. Quelli sono tutti molto belli, ma sono secondari. Senza diritti politici, tutto quello che fai è beneficienza. Senza diritti politici, non c’è niente.”

La famiglia di Ruchama è arrivata in Israele da una regione rurale della Polonia. Entrambi i suoi genitori sono cresciuti in famiglie religiose, come la maggioranza degli ebrei in quei tempi, sicuramente quelli che vivevano fuori dalle grandi città. Dice che suo padre era così affascinato dalle idee comuniste che per mesi risparmiò segretamente denaro per poter andare in Russia negli anni ’20.

La notte prima che se ne andasse,” racconta, “suo padre entrò nella sua stanza e disse: ‘So che hai risparmiato denaro e so per fare cosa. Voglio chiederti che tu mi prometta una cosa. Vuoi andartene? Vai. Vai in America, vai in Palestina. Promettimi solo che non andrai in Russia. Ti uccideranno.’ Mio padre fece la promessa e la mantenne.”

I suoi genitori si sono stabiliti nel quartiere di Geula a Gerusalemme. Lei è nata nel 1937. Si ricorda il Mandato britannico a Gerusalemme?

Certo. Ricordo i soldati australiani che pattugliavano le strade, e che camminavo verso il “Muro del Pianto” con mia nonna. Avremmo camminato attraverso la Città Vecchia, oltre il mercato arabo; non avevamo paura. Non c’era neanche una grande amicizia, ma non c’era paura.

A Gerusalemme ogni notte c’era il coprifuoco. Ricordo una notte in cui rimasi a dormire da un’amica fin dopo il coprifuoco, scesi in strada e iniziai a camminare verso casa. Un soldato australiano mi chiamò, ma non capii quello che mi stava dicendo, in quanto non parlavo inglese. Mi raggiunse e cercò di capire cosa stessi facendo là, dove stessi andando.

Era un gigante, probabilmente alto 2 metri. Non so come successe, ma mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Una ragazzina con un gigantesco soldato australiano.

La nonna che soleva portarmi con sé verso il Muro del Pianto venne uccisa da una bomba all’inizio della Guerra di Indipendenza. Uscì per prendere acqua con un secchio da un vicino che aveva bambini piccoli e venne colpita da una bomba sparata dagli arabi. Poco dopo ci spostammo a Tel Aviv, che era un mondo totalmente diverso.

Tel Aviv era molto diversa da Gerusalemme. Aveva un’atmosfera di stravaganza e di sfrenatezza. Vivevamo in una zona ai confini della città: c’erano pochissime case là. Era circondata da orti, da giardini arabi e da campi di canna da zucchero che crescevano lungo il fiume Yarkon [in arabo El-Auja, il “sinuoso”, ndt.]. Era un altro mondo.”

Aveva degli amici a Tel Aviv? Non deve essere stato facile.

Io non conoscevo nessuno lì, ovviamente. E genitori e figli di quella generazione difficilmente parlavano tra loro. Ma nella casa di fronte a noi, l’unica casa vicina, c’era una famiglia araba. Avevano un orto, un giardino e un piccolo gregge di pecore e capre.

Avevano due bambini, Zeidin, che aveva circa un anno meno di me, e Fatima, che era un po’ più grande di me. Erano i miei migliori amici. Eravamo soliti giocare insieme, passare insieme le giornate negli orti e in mezzo alla natura. Gli volevo bene.

Alla fine del 1947 arrivarono dei soldati e cacciarono la famiglia. Mi ricordo che stavo lì a guardare svolgersi quella scena. Caricarono i loro pochi averi e la vecchia nonna su un asino e partirono verso l’est. La loro casa esiste ancora – è stata trasformata in una sinagoga.”

Anche durante la guerra del Sinai del 1956 [combattuta da Francia, Inghilterra ed Israele contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, ndt.] lei ha assistito a scene che l’hanno profondamente segnata.

L’assassinio di prigionieri da parte dei soldati della mia unità, la ‘Givati’.”

Cosa successe lì?

Nei giorni che seguirono l’invasione israeliana della penisola del Sinai, i soldati egiziani continuavano ad arrendersi. Venivano fuori dalle dune di sabbia, a volte a piedi nudi, bruciati dal sole del deserto, sporchi e sudati, con le mani in alto.

I nostri soldati gli sparavano. A decine di loro, forse più. E’ proprio quello che ho visto. Scendevano dalle dune e i soldati prendevano i fucili e li uccidevano.”

E cosa ne facevano? Li lasciavano semplicemente lì sulla sabbia?

Sì. Questo mi fece stare male. Fisicamente male. Vomitai ed ero in uno stato terribile. Andai dal mio comandante e gli chiesi di andarmene. Gli raccontai che era a causa di quello che era successo. Non c’è bisogno di dirlo, lui “non sapeva” assolutamente di cosa stessi parlando. Ma mi autorizzò ad andarmene e chiesi un passaggio per tornare a casa.

Volevo parlare di quello che era successo. Volevo pubblicarlo, ma nessuno accettò. Mi dissero di lasciar perdere. Avevo amici che lavoravano per dei giornali, e pensai, ingenuamente, che avrebbero voluto pubblicarlo. Nessuno accettò di occuparsene. Quando avevo 19 anni sapevo già che quello che mi dicevano del sionismo e dell’esercito era un sacco di menzogne.”

Una ricerca su internet sull’uccisione di prigionieri durante la guerra del Sinai porta a una serie di siti, compresa un’intervista al generale Arieh Biro, che ammise che lui e i suoi soldati uccisero prigionieri egiziani durante la guerra. Posso solo presumere che le uccisioni che ebbero luogo furono molto più frequenti e gravi di quelle scoperte dall’ “inchiesta” ordinata da Shimon Peres nel 1995.

Dopo l’esercito lei è andata alla facoltà di medicina. All’epoca c’erano quote per le donne. 

Sì. C’era un numero stabilito e non volevano che molte donne diventassero medico. Per cui le limitavano a una quota del 10%. Ho condotto una lotta contro ciò insieme ad altri studenti e membri della facoltà, che portò alla cancellazione della quota. Da allora le donne sono ammesse alla facoltà di medicina in Israele in base ai loro titoli, proprio come gli uomini.”

Dopo tutti i suoi anni di lavoro con la psicologia umana e il conflitto, vede qualche cambiamento? Se ho capito bene [quello che lei ha detto], nonostante tutte le notevoli capacità propagandistiche che Israele ha sviluppato, nonostante il continuo lavaggio del cervello, da quanto sta dicendo sembra che fosse lo stesso negli anni ’50.

In primo luogo il sionismo e quello che un essere umano è sono due cose che non si incontrano. Ma qui non c’è stato un cambiamento essenziale. E’ sempre lo stesso. E’ vero che la macchina della propaganda sionista renderebbe orgogliosi i sovietici, ma l’essenza delle convinzioni su questioni fondamentali, sul trattamento degli arabi e sul loro posto – queste convinzioni non sono cambiate.”

Una salute mentale rivoluzionaria

A 80 anni Marton è ancora una psichiatra in attività. Nei suoi molti anni di professione ha sostenuto e fatto campagna per portare la cura della salute mentale fuori dagli ospedali psichiatrici e all’interno della società.

Sono rimasto molto sorpreso che ci fosse qualcuno in Israele che parlasse di cure psichiatriche come parte della comunità. Ciò significa davvero normalizzare la salute mentale.

Perché non ci dovrebbe essere un consultorio psichiatrico all’interno degli ambulatori di quartiere? Ci dovrebbero essere un optometrista, un otorinolaringoiatra e uno psichiatra. Esattamente nello stesso posto, allo stesso piano, nello stesso corridoio, in base allo stesso concetto.”

Lei ha creduto in questo fin dall’inizio della sua carriera e ha fatto passi concreti per realizzarlo.

Sono stata la prima persona in Israele che ha fatto una proposta al sistema sanitario – sono andata fin da Shimon Peres e da altri, ho detto loro che i consultori psichiatrici non devono essere all’interno degli ospedali psichiatrici. Non è altro che un disastro. Le persone hanno un terribile stigma che le scoraggia dall’entrare in un ospedale psichiatrico.

C’era un direttore, Davidson (il prof. Shamai Davidson, direttore dell’ospedale “Shalvata” dal 1973 al 1986. Arrivò in Israele da Dublino nel 1955), era veramente un santo, comprese veramente e appoggiò l’idea di cure psichiatriche inserite nella comunità. Il concetto di comunità è una cosa che si era portato dalla diaspora. Mi stette ad ascoltare con il cuore aperto e fu colui che portò avanti quella rivoluzione e che portò all’apertura di un ambulatorio per il trattamento psichiatrico a Morasha, e poi a Ramat Hasharon, e da lì si è diffuso.

A tutt’oggi il progetto non è stato completato. Ma abbiamo rotto quel muro iniziale.

Sa quante persone non chiedono un aiuto perché l’ambulatorio è situato all’interno di un ospedale psichiatrico? E quindi cosa succede? Crollano e vengono ospedalizzate. Grandioso! Abbiamo ottenuto quello che volevamo.”

Sto ascoltando quello che dice, e penso: c’è qualcosa di giustificato in merito al timore della gente nei confronti del sistema psichiatrico. Qualcosa riguardo alla percezione di se stesso e del paziente da parte del sistema – è qualcosa di insano.

E’ verissimo. Quello era ciò per cui stavo lottando. Ma oggi i miei giorni di lotta sono passati. Dopo 30 o 40 anni ne ho avuto abbastanza. Forse non sono riuscita in tutto, ma in alcune cose sì. Sono molto orgogliosa di questo.”

Lei pensa al conflitto israelo-palestinese o alla storia del sionismo in termini psicologici? La storia dell’uccisione di prigionieri, per esempio, simile a quello che ho sentito da persone a me vicine, mi riempie di profonda vergogna.

Sono affascinata dall’argomento della vergogna. E’ un sentimento su cui ho lavorato per la maggior parte degli anni. Credo che senza vergogna non ci sia speranza per il mondo – non ci sia essere umano. Senza vergogna una persona può fare qualunque cosa. Una delle cose che ci sono successe è che abbiamo perso ogni vergogna. I soldati che sparavano ai prigionieri non si vergognavano. E’ per questo che fecero quello che fecero.”

In quale altro posto lei vede esempi di questa mancanza di vergogna?

Nella mia professione. I palestinesi coinvolti nel terrorismo, o quanto meno accusati di questo, sono mandati ad un esame psichiatrico. Si sorprenderà di saperlo, ma semplicemente non ci sono palestinesi con problemi mentali – almeno non del tipo che gli impedisca di essere giudicati da Israele. I palestinesi non hanno il diritto di essere pazzi.”

Psichiatri israeliani esaminano imputati palestinesi e sanno che soffrono di vari problemi psichiatrici, eppure li dichiarano in grado di essere processati?

Certo che lo sanno. E come so che loro lo sanno? Perché dopo che sono stati giudicati e mandati in carcere, ricevono medicine per la schizofrenia. E non si tratta di errori dovuti all’ignoranza. Sto parlando di bravi medici. Ciononostante fanno diagnosi ridicole e sbagliate.

Ci sono andata ed ho visto con i miei occhi. Ho parlato ai prigionieri. All’epoca ho scritto di questo sul giornale. Sono stata sanzionata dall’ordine dei medici israeliani per aver fatto i nomi dei medici coinvolti in queste diagnosi. Avevano intenzione di denunciarmi, ma hanno deciso di lasciar perdere per non rendere noti tutti gli sporchi trucchi che si svolgono a porte chiuse. Allora sono stata obbligata a scrivere una lettera di scuse. Ho scritto la lettera, che includeva due righe di scuse, seguite da un resoconto completo delle cose che ho saputo, comprese le diagnosi sbagliate e quello che c’era dietro. Finora quella lettera non è mai stata pubblicata.”

Quella non è stata la fine dei problemi di Marton e “Physicians for Human Rights-Israel” (PHRI) con l’ordine dei medici israeliani e con le istituzioni israeliane. Nel 2009 l’ordine ha annunciato che avrebbe rotto i rapporti con “PHRI” dopo che l’organizzazione ha accusato dottori israeliani di partecipare alle torture. Inoltre l’amministrazione tributaria ha rifiutato di rinnovare lo status come associazione pubblica dell’organizzazione per fini fiscali, da quando ha pubblicato una dichiarazione secondo la quale l’occupazione è una violazione dei diritti umani – compreso il diritto alla salute. Secondo l’amministrazione tributaria, queste affermazioni sono ritenute “politiche”.

La medicina è una questione politica

Com’è nato “Medici per i Diritti Umani – Israele”?

Quando ho deciso di fare qualcosa di concreto, qualcosa di politico, ho utilizzato quello che avevo a disposizione: la medicina. Ho contattato un’organizzazione di medici palestinesi. Volontari palestinesi andavano sul terreno a curare le persone, e mi sono unita a loro.

In seguito ho iniziato ad organizzare volontari israeliani. Ho dovuto pregare persone di venire con me il sabato mattina. All’inizio sono riuscita a trovare due persone, che sembravano un grande risultato. Ora vanno (in Cisgiordania) circa 30 volontari con un ambulatorio mobile.

Ho stabilito io le regole dell’organizzazione: siamo sempre insieme noi e i palestinesi. Non è mai una delegazione di bianchi colonialisti che vanno a salvare i nativi. Lavoriamo insieme in pieno accordo con i nostri colleghi palestinesi: sono loro a dire dove hanno bisogno di noi e nell’assoluta maggioranza dei casi è lì che andiamo.”

E dove lavorate? Non è che abbiano ambulatori organizzati.

Ambulatori? C’è a malapena qualche ambulatorio in quei villaggi, e quelli che ci sono sono piccoli e inutilizzabili per gruppi numerosi come il nostro. Utilizziamo scuole e uffici delle amministrazioni locali. E non c’è bisogno di fare grandi annunci – la voce gira nel villaggio e in quelli vicini. La prima cosa il sabato mattina è che c’è già troppa gente.”

Che tipo di cure fornite?

Tutto quello che si può fare sul campo, compresi interventi chirurgici relativamente semplici. Portiamo con noi medicine regalate, e scriviamo prescrizioni per quelle che non abbiamo. Quando c’è la necessità di esami complicati li inviamo a diversi ospedali dell’Autorità Nazionale Palestinese e in Israele. Anche ciò ha implicato molti anni di lotta.”

Lo Stato di Israele non si è mai ritenuto responsabile della salute di quelli che occupa.

E’ vero. Ma fino a Oslo, o alla Prima Intifada, c’erano ospedali palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che dopo il 1967 erano diventati ospedali pubblici israeliani. C’era un bilancio molto ridotto per la salute, niente a che vedere con un Paese normale. Ma, per esempio, c’era uno stanziamento di fondi per le vaccinazioni. Paradossalmente nei campi dei rifugiati la situazione era molto migliore, dato che erano sotto la responsabilità dell’UNRWA [l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndt.].

Quando scoppiò la Prima Intifada una delle decisioni prese dall’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin fu di bloccare il bilancio dei servizi medici palestinesi. Quando lo venni a sapere mi precipitai a Londra e mi presentai agli uffici della BBC. Parlai loro della situazione nei territori occupati e inviarono un’equipe per fare un breve servizio sulla decisione e sulle sue conseguenze, ossia gente che moriva in casa per la mancanza di cure mediche. Il clamore convinse Rabin a ripristinare almeno una parte degli stanziamenti.”

Vai a casa, vestiti

Pochi giorni fa sul giornale c’era una foto del capo del Mossad che visitava la casa del consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Nella foto tutte le persone erano uomini. Sono molto contento di dire che una simile foto oggi mi sembra strana.

Ciò mi riporta all’argomento della segregazione. E’ così che alle persone si insegna a pensare di se stesse. Quella separazione, il fatto che ci sia una tribuna per le donne (nella sinagoga) ed ora vogliano la separazione [tra i sessi] anche nell’esercito e nelle università. La segregazione è la radice di ogni male.

Le mie prime battaglie non sono state sul problema palestinese. Sono state femministe, anche se all’epoca non le chiamavo così.

Lei è una donna orgogliosa.

Non abbastanza. Sono troppo orgogliosa per chiedere un riconoscimento e a volte sono piena di risentimento per non averlo ottenuto. Per esempio, sono stata la prima ad introdurre il concetto di “diritti umani” nel dibattito israeliano. Prima c’erano i “diritti civili”, ma i diritti umani come concetto politico sono stati merito mio.”

Eppure lei ancora non se la sente di chiedere che le venga riconosciuto.

E’ vero. Forse è il risultato della mia educazione femminile. Non femminista, femminile. Quella che insegna alle donne a non farsi notare. Ad essere gentili, a sorridere, a non essere arrabbiate. A non iniziare mai una frase con la parola “Io”. E’ così che sono educate le donne.”

Lei è indignata dallo sciovinismo [maschile]. Non è molto diverso dalla sua indignazione contro l’occupazione.

Per tutta la mia vita ho dovuto lottare contro stigmi e norme separate per le donne. Con il fatto che alle donne non fosse permesso mettersi i pantaloni nella facoltà di medicina nella fredda Gerusalemme. Quando mi sono presentata con i pantaloni una docente mi ha detto: ‘Tu, signorina, vai a casa, vestiti come si deve e torna indietro.’ Sono andata a casa e non sono tornata. Ho scatenato un putiferio ed alla fine ho vinto.”

Critiche a ogni parte

Lei è molto critica con la Sinistra israeliana e con il modo in cui si oppone all’occupazione.

Non c’è una Sinistra israeliana. Quello che dobbiamo fare è ricostruire da zero le organizzazioni dei diritti umani israeliane in modo che siano disposte a lottare per porre fine all’apartheid. Apartheid che distingue tra quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente. Quelli a cui è consentito tutto e quelli a cui tutto è proibito. Se non vogliono intraprendere questa lotta, per cosa stanno lottando? Per la loro stessa immagine.

Non puoi combattere contro il colonialismo, l’occupazione, l’apartheid – chiamalo come vuoi- avendo un ruolo alla corte del governo, in base al programma del governo. Devi rompere questi confini.”

Effettivamente il partito Laburista ha mantenuto l’occupazione per ben 10 anni e non ha fatto niente a questo proposito.

Non dica che il Mapai [il predecessore del partito Laburista, in cui è confluito nel 1968, ndt.] non ha fatto niente. Sono stati quelli che hanno fondato le colonie. Begin [fondatore del Likud e dal 1977 al 1983 primo capo del governo israeliano di destra, ndt.] è stato l’unico leader giusto che abbiamo avuto. Dico sul serio. Sotto il suo governo la tortura è stata totalmente vietata. Quando il capo dello Shin Bet andò da lui e gli chiese: ‘Signore, neanche uno schiaffo?’ disse: ‘No, neanche uno schiaffo.’”

Begin vietò di demolire case, vietò le espulsioni. E’ stato l’unico uomo giusto a Sodoma. Non c’è mai stato un solo uomo giusto né prima né dopo di lui.”

Ho sempre pensato, ed ancora penso, che la normale Destra revisionista [i seguaci della corrente di destra del sionismo, ndt.] moderata sia il campo con le migliori possibilità di trattare gli arabi in modo umano.

Non voglio un trattamento umano degli arabi. Voglio diritti politici. Poi puoi essere umano o quello che vuoi. Senza diritti politici continui ad essere un colonialista, un occupante, un sostenitore dell’apartheid.

Un’organizzazione dei diritti umani che non voglia lottare per questo sta ululando alla luna. E’ priva di senso.”

In un certo senso lei sta parlando anche di se stessa. E’ una resa dei conti personale.

E’ vero. Le sto parlando dopo 30 o forse 50 anni di lotta contro l’occupazione. Abbiamo bisogno di aiuto esterno. E sto parlando soprattutto di una cosa: il BDS [il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.].”

Lavorare per questa causa in Israele non è facile.

Ride. “E’ una questione che riguarda i traditori, e i traditori di oggi sono gli eroi di domani. Chiunque non voglia pagare quel prezzo non sa come lottare. Se non paghi un prezzo tu stai lottando solo per la tua bella immagine. Finché l’occupazione continuerà, finché continuerà l’apartheid, non importa se tu sei un po’ più o un po’ meno bello.”

Si ferma un momento a pensare.

Dobbiamo lottare contro l’idea della segregazione, perché è una separazione tra me e la politica, tra gli arabi e la loro terra, tra gli arabi e la loro dignità umana. La segregazione è la ferita. E’ l’asse attorno al quale girano le cose.”

Anche se gli ebrei portarono qui con sé l’idea della segregazione. In fin dei conti, c’è ogni sorta di segregazione tra gli stessi ebrei, in base a divisioni etniche, religiose e politiche.

Sicuramente qui c’è segregazione a tutti i livelli. Dopotutto, qui siamo divisi tra ebrei di prima e di seconda categoria, e sotto di loro ci sono i palestinesi cittadini di Israele, e i palestinesi in Cisgiordania sono ancora più in basso. E proprio in fondo alla scala ci sono i richiedenti asilo e i rifugiati (“Medici per i Diritti Umani” ha una “clinica aperta” che fornisce cure mediche ai rifugiati e ai richiedenti asilo).

La segregazione esiste all’interno della nostra società come un principio politico fondamentale. Se cancelliamo la segregazione, poi che succede? Sarà un disastro politico per il regime – non solo per la Destra.

Se penso a quello che la mia organizzazione ha fatto – ai viaggi a Gaza, alla distribuzione di medicinali per la solidarietà, al tentativo di infrangere la segregazione – quello è stato il nostro maggior risultato.”

Alon Mizrahi è uno scrittore e un blogger presso “Local Call” [“Chiamata locale, sito in ebraico di +972, ndt.], dove il suo articolo è stato per la prima volta pubblicato in ebraico. E’ stato tradotto dall’originale in ebraico da Shoshana London Sappir.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 29 agosto – 11 settembre 2017 (due settimane)

Un palestinese di 21 anni, colpito con arma da fuoco dalle forze israeliane il 9 agosto, durante gli scontri nel Campo Profughi di Ad Duheisha (Betlemme), è morto per le ferite riportate.

Le autorità israeliane hanno trattenuto il suo corpo per cinque giorni, prima di consegnarlo per la sepoltura. Sale così a 19 (sei i minori) il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane durante scontri violenti verificatisi in Cisgiordania dall’inizio del 2017.

Durante scontri con le forze israeliane sono stati feriti 64 palestinesi: 61 in Cisgiordania, 3 a Gaza; 11 i minori. Almeno 6 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 26 da proiettili di gomma e la maggior parte dei rimanenti da inalazione di gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico. La maggior parte degli scontri con feriti si sono verificati durante operazioni di ricerca-arresto (la più ampia si è svolta nella città di Al ‘Ezariya, Gerusalemme); nel contesto delle proteste settimanali contro le restrizioni di accesso, principalmente in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e presso la recinzione perimetrale israeliana di Gaza; e in concomitanza con l’ingresso di coloni Israeliani e di altri fedeli alla Tomba di Giuseppe a Nablus. Inoltre, le forze israeliane hanno ferito con armi da fuoco e successivamente arrestato una donna palestinese di 60 anni che, secondo quanto riferito, al posto di controllo di Ni’lin (Ramallah) aveva tentato di pugnalare i soldati; non è stato segnalato alcun ferimento di israeliani.

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo cui si riferisce questo rapporto, sono continuati i tagli di corrente per 18-20 ore/giorno, rendendo difficile la vita quotidiana e minando l’erogazione dei servizi di base. Nel mese di settembre, le Nazioni Unite hanno iniziato la distribuzione di circa 950.000 litri di combustibile di emergenza per consentire il funzionamento di oltre 200 strutture essenziali, tra cui centri sanitari ed impianti per il trattamento di rifiuti solidi ed acque reflue. Il finanziamento è stato sostenuto dal Fondo Umanitario per i Territori occupati (FF) e dal Fondo Centrale di Emergenza delle Nazioni Unite (CERF). Dall’Egitto, dopo due mesi di malfunzionamento, il 31 agosto due delle tre linee di alimentazione elettrica hanno ripreso a funzionare, incrementando la fornitura elettrica per la zona sud della Striscia di Gaza.

Il 31 agosto, il comandante militare israeliano per la Cisgiordania ha emesso un ordine militare che istituisce un nuovo organismo comunale per amministrare gli insediamenti di coloni israeliani che occupano il centro della città di Hebron. Dalla fine del 2015, questa zona è dichiarata “zona militare chiusa”, isolando così dal resto della città i circa 2.000 palestinesi che vi risiedono e sconvolgendo gravemente le loro condizioni di vita. Vi è il timore che questo recente sviluppo rafforzerà ulteriormente il contesto coercitivo che agisce sui residenti palestinesi, aumentando il rischio di un loro trasferimento forzato. Inoltre, sempre ad Hebron, durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno chiuso una stazione radio, sequestrato le apparecchiature di radiodiffusione e consegnato un ordine di chiusura per sei mesi.

Il 5 settembre, nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, dopo una lunga procedura giudiziaria, le forze israeliane hanno forzatamente sfollato dalla loro casa, dove vivevano dal 1964, una famiglia di otto rifugiati palestinesi, tra cui un minore e un anziano invalido. Subito dopo, la proprietà è stata consegnata a coloni israeliani che, sulla base di una legge israeliana appositamente emanata, ne reclamavano la proprietà da prima del 1948. A Gerusalemme Est, a causa di simili cause legali intentate presso i tribunali israeliani, in primo luogo da organizzazioni di coloni israeliani, oltre 800 palestinesi rischiano di essere sfrattati dalle loro case.

Nell’area C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione emessi da Israele – quasi impossibili da ottenere – sono state demolite o confiscate quattro strutture di proprietà palestinese, incluso un ricovero fornito come assistenza umanitaria. Conseguentemente, quattro persone sono state sfollate, tra cui tre minori, mentre altre 61 sono state diversamente colpite dal provvedimento. Presso due comunità di Hebron (Khalet Athaba’a e As Samu’), le autorità israeliane, contestandone l’utilizzo per “costruzioni illegali”, hanno sequestrato tre bulldozer che lavoravano su due progetti di ristrutturazione finanziati da donatori.

Sempre in Area C, in quattro comunità, le autorità israeliane hanno rilasciato almeno 25 ordini di demolizione e arresto lavori nei confronti di strutture abitative e di sostentamento. Due di questi ordini hanno riguardato Khirbet al Fakhit, una delle 46 comunità beduine palestinesi della Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato. Altre otto strutture destinatarie degli ordini si trovano nella comunità di Birin (Hebron) ed erano state fornite come assistenza umanitaria e finanziate dal Fondo Umanitario per i Territori palestinesi occupati.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno cinque occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso agricoltori e pescatori; pur non provocando feriti, ne hanno tuttavia interrotto le attività di sussistenza. In due distinte occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo all’interno di Gaza, lungo la recinzione perimetrale. Inoltre, al valico di Erez, le forze israeliane hanno arrestato un malato che viaggiava per cure mediche ed un docente universitario, in viaggio per partecipare ad un progetto scientifico.

Nel periodo cui si riferisce il presente rapporto, sono stati registrati quattro episodi in cui coloni israeliani hanno causato ferimenti di palestinesi o danni alle loro proprietà. Nel villaggio di Burqa, vicino allo sgomberato insediamento di Homesh (Nablus), un ragazzo palestinese di 15 anni, mentre stava giocando vicino a casa, è stato aggredito fisicamente, spogliato dei vestiti e ferito da un gruppo di circa 20 coloni Israeliani; il ragazzo è stato trovato in stato di incoscienza e condotto in ospedale. Nella zona H2 di Hebron controllata da Israele, una donna palestinese di 55 anni è stata colpita con pietre e ferita da coloni israeliani. Almeno 43 ulivi palestinesi sono stati vandalizzati, secondo quanto riferito, da coloni israeliani dell’insediamento di Rechelim (Nablus); il fatto è avvenuto in un’area prossima all’insediamento il cui accesso, per i palestinesi, richiede il coordinamento preventivo con le autorità israeliane. A Jalud (Nablus), coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, hanno spianato con buldozer un terreno coltivato di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, secondo le segnalazioni dei media israeliani, si sono verificati nove casi di lancio di pietre contro veicoli israeliani: non si sono avuti feriti, ma danni ad almeno quattro veicoli.

Durante le due settimane di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per tre giorni in entrata, consentendo a 2.055 pellegrini palestinesi di tornare nella Striscia di Gaza. Nel corso del 2017, il valico è stato parzialmente aperto per soli 26 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrati e in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Jewish Voice for Peace  invita i giovani ebrei a boicottare “Birthright Israel”

Allison Kaplan Sommer – 2 settembre 2017,Haaretz

La campagna #ReturnTheBirthright dichiara che “è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case”

Il discusso gruppo filo-palestinese “Jewish Voice For Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, ndt] ha lanciato una campagna per convincere giovani ebrei a non partecipare ai viaggi di “Birthright Israel”  [“Diritto di Nascita Israele”, ndt.], proprio mentre gli studenti dei college stanno tornando nei campus e riprendono le iscrizioni per le visite invernali.

Con lo slogan “#ReturnTheBirthright” [“Restituisci il diritto di nascita”], JVP sta lavorando per convincere ebrei dai 18 ai 26 anni, che possono essere scelti per un viaggio di 10 giorni gratis, a rifiutare l’allettante offerta.

Un “giuramento” sul suo sito web prende la forma di una petizione online in cui giovani ebrei dichiarano: “Non parteciperemo a un viaggio “Birthright” perché è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case. Ci rifiutiamo di essere complici di un viaggio di propaganda che maschera il razzismo sistematico e la quotidiana violenza che i palestinesi che vivono sotto un’occupazione senza fine devono affrontare. Il nostro ebraismo è fondato su valori di solidarietà e di liberazione, non di occupazione e di apartheid. Su queste basi restituiamo il “Birthright”, e chiediamo ad altri giovani ebrei di fare altrettanto.”

Birthright Israel” invia giovani adulti ebrei a fare un viaggio di dieci giorni in Israele con l’obiettivo di rafforzare l’identità ebraica e il rapporto con lo Stato ebraico. I viaggi sono finanziati attraverso una collaborazione tra lo Stato di Israele e un gruppo di donatori nordamericani. I primi finanziatori del progetto sono stati Michael Steinhardt e Charles Bronfman, ma negli ultimi anni Sheldon Adelson, miliardario delle case da gioco, grande donatore del partito Repubblicano e sostenitore del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha inondato il progetto con 250 milioni di dollari, diventando il suo principale benefattore.

Ben Lorber, responsabile di JVP per i campus, ha affermato che la nuova campagna nazionale è sorta da un certo numero di iniziative contro “Birthright Israel” in singoli campus, che hanno suggerito al gruppo di estendere il movimento ai campus di tutto il Paese.

E’ una cosa di cui gli studenti ebrei stanno discutendo e che stanno facendo da tempo,” ha detto Lorber. “E’ un’ingiustizia fondamentale che a noi, in quanto giovani ebrei, venga offerta la possibilità di questi viaggi gratis e che possiamo diventare cittadini di Israele se in seguito lo decidiamo, mentre ai nostri amici e compagni di classe palestinesi viene negata la stessa relazione con la terra da cui provengono i loro genitori o i loro nonni.”

La campagna, ha aggiunto, è rivolta, oltre che agli studenti, ai giovani adulti ebrei che hanno terminato l’università che potrebbero star pensando a viaggiare con “Birthright”. Lorber, che ha quasi trent’anni, ha detto di aver deciso per parte sua di non viaggiare con “Birthright” negli anni in cui poteva essere scelto.

E’ stata una decisione cosciente. Ero molto contrariato dall’annuncio pubblicitario che mi diceva: ‘Guarda questo bel viaggio gratis, puoi andare in spiaggia, fare un’escursione a Masada, metterti in rapporto con la tua patria,’ mentre i palestinesi che conosco hanno parenti che sono stati bombardati a Gaza, e non possono visitare Gerusalemme.”

Per contro, il capo di un’altra organizzazione studentesca ebraica, “J Street U”, che si definisce “filo-israeliana, per la pace”, ha detto di non credere che i giovani ebrei debbano essere dissuasi dal viaggiare in Israele grazie a “Birthright”.

Ben Elkind, direttore di “J Street U”, afferma che per lui fare un viaggio con “Birthright” è stato “una parte importante del mio impegno riguardo a Israele e al più generale conflitto israelo-palestinese” e di credere che “sia importante incoraggiare gli studenti a impegnarsi piuttosto che a non impegnarsi” sulla questione.

Mi sento profondamente coinvolto nelle questioni e nelle preoccupazioni” espresse dalla campagna di JVP, dice. “Penso che (gente come) Adelson non sia stata una forza produttiva nelle politiche su questo problema, e ritengo che ci siano ragioni per essere veramente preoccupati per la mancanza di libertà di movimento a danno dei palestinesi. Ma non sono sicuro che la risposta debba essere il boicottaggio di “Birthright”. Penso che potenzialmente ci siano iniziative alternative più utili.”

Elkind dice che “andare con “Birthright” non significa che la gente ne esca con le posizioni politiche di Sheldon Adelson.”

A questo scopo “J Street U” incoraggia i propri membri a rimanere in Israele oltre il periodo di viaggio con “Birthright” e ad approfittare del crescente numero di “programmi integrativi” in cui chi rimane dopo il tour con “Birthright” risulta “più profondamente impegnato nelle politiche della Cisgiordania.”

Mentre Lorber concorda con il fatto che  sia “uno sviluppo positivo” che alcuni dei giovani ebrei che vanno con “Birthright” prolunghino il proprio soggiorno con programmi alternativi e si informino ulteriormente sul dramma dei palestinesi, egli crede comunque che sia meglio rifiutare del tutto il viaggio. “Per noi si torna all’ingiustizia fondamentale. Accettando questo viaggio, diventi complice delle relazioni pubbliche di “Birthright” e sei parte di un viaggio che i palestinesi non possono fare.”

Il “manifesto” della campagna approfondisce con ulteriori dettagli queste ragioni: “Fare un viaggio di “Birthright” oggi significa giocare un ruolo attivo nell’aiutare la promozione da parte dello Stato del ‘ritorno’ degli ebrei, respingendo il diritto al ritorno dei palestinesi. Non è sufficiente accettare quest’offerta del governo israeliano e conservare una prospettiva critica durante il viaggio. Rifiutiamo l’offerta di un viaggio gratis da parte di uno Stato che non ci rappresenta, un viaggio che è ‘gratis’ solo perché è stato pagato con la spoliazione dei palestinesi.”

Il manifesto “supplica” i giovani ebrei di stare lontani da “un viaggio sponsorizzato da donatori reazionari e dal governo israeliano, dove la continua oppressione e l’occupazione dei palestinesi vi verranno nascoste, solo perché è gratis. Ci sono altri modi per noi di rafforzare la nostra identità ebraica, insieme con quelli che condividono i nostri valori.”

JVP si definisce contraria al “fanatismo e all’oppressione contro ebrei, islamici e arabi” e “chiede la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme est; sicurezza ed autodeterminazione per israeliani e palestinesi; una soluzione giusta per i rifugiati palestinesi basata sui principi stabiliti dalle leggi internazionali; la fine delle violenze contro i civili; pace e giustizia per tutti i popoli del Medio Oriente.”

Il gruppo è stato frequentemente e duramente criticato dalla maggior parte della comunità ebreo-americana per la sua partecipazione attiva alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Secondo l’“Anti-Defamation League” [“Lega contro la Diffamazione”, potente gruppo filo-israeliano statunitense, ndt.] “Jewish Voice for Peace (JVP) è il maggiore e più influente gruppo ebraico anti-sionista negli USA. Nonostante il tono neutrale del suo nome, JVP lavora per dimostrare l’opposizione ebraica allo Stato di Israele e per allontanare l’appoggio dell’opinione pubblica dallo Stato ebraico.”

Birthright Israel” non ha risposto alla richiesta da parte di Haaretz di una replica.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




La polizia israeliana attacca manifestanti e ne arresta 5 durante proteste a Sheikh Jarrah

Ma’an News

9 settembre 2017

Gerusalemme (Ma’an) – Venerdì la polizia israeliana ha arrestato almeno cinque manifestanti, tra cui due minorenni palestinesi, durante una protesta non violenta fuori dalla casa della famiglia Shamasna nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme est occupata, presa martedì da coloni israeliani, e nel contempo una madre è stata ferita mentre cercava di impedire l’arresto del figlio quattordicenne.

Testimoni hanno raccontato a Ma’an che la polizia israeliana ha aggredito e spinto dimostranti palestinesi durante una manifestazione a Sheikh Jarrah dopo che palestinesi avevano recitato le preghiere del venerdì fuori dalla casa di proprietà della famiglia Shamasna da 53 anni, con un’azione di protesta non violenta contro l’espulsione.

La famiglia è stata cacciata dalla casa durante un’espulsione unanimemente condannata dopo che coloni israeliani hanno sostenuto di esserne proprietari.

Durante la protesta le forze israeliane hanno arrestato Mutaz Mahmoud al-Sau, di 14 anni, e suo fratello Muhammad, di 12.

Mentre Mutaz stava per essere arrestato, sua madre ha tentato di impedirlo abbracciandolo e aggrappandosi a lui. Mahmoud, il padre del ragazzo, ha detto a Ma’an che sua moglie ha subito ferite sulla nuca dalla polizia israeliana che la spingeva via. E’ stata portata in ospedale per essere curata.

Mahmoud ha raccontato a Ma’an che la polizia israeliana ha rilasciato Mutaz senza condizioni. Tuttavia Muhammad è stato liberato a condizione che rimanga agli arresti domiciliari per cinque giorni. Ha anche il divieto di avvicinarsi per due settimane alla via della casa della famiglia Shamasna, nonostante viva a pochi metri di distanza.

Testimoni hanno detto a Ma’an che un attivista straniero è stato ferito alla testa dopo che le forze israeliane lo hanno spinto durante la protesta.

Salih Thiab, un attivista del posto, ha detto a Ma’an che le forze israeliane hanno arrestato lui e due militanti della solidarietà internazionale pochi minuti dopo che la manifestazione è stata allontanata [dalla casa dei Shamasna]. Ha aggiunto che qualche ora dopo lo hanno rilasciato, dopo essere stato interrogato come indagato per aver violato la legge. Anche a Thiab è stato vietato di recarsi nella parte occidentale di Sheikh Jarrah per due settimane.

I due attivisti stranieri, secondo Thiab, sono rimasti nel carcere israeliano dopo essere stati accusati di “aver attaccato la polizia israeliana e i coloni.”

Non è stato possibile contattare sul momento un portavoce della polizia israeliana per un commento.

I militanti locali hanno sottolineato che manifestazioni settimanali saranno organizzate ogni venerdì per protestare contro l’occupazione da parte dei coloni della casa degli Shamasna e contro altre espulsioni guidate dai coloni che sono in corso nel quartiere.

La famiglia Shamasna è stata l’ultima famiglia palestinese ad essere espulsa dal quartiere dal 2009 in base ad una legge israeliana che consente ad ebrei israeliani di rivendicare il possesso di proprietà che in precedenza erano di ebrei prima del 1948, quando in migliaia fuggirono da Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana.

Tuttavia questa legge non si estende ai palestinesi, centinaia di migliaia dei quali nel 1948 furono espulsi dalle loro terre e case in quello che oggi è Israele.

Sheikh Jarrah è diventato un obiettivo fondamentale per le rivendicazioni di proprietà degli ebrei, in quanto una volta il quartiere sarebbe stato la zona in cui viveva la comunità ebraica nel XIX° secolo.

Nel 2009 le famiglie Um Kamel al-Kurd, Ghawi e Hanoun sono state definitivamente espulse dalle loro case, mentre i coloni israeliani hanno in parte occupato la casa della famiglia al-Kurd, che da anni vive ancora di fianco a loro. Più di 60 palestinesi sono stati espulsi durante l’ondata di sgomberi del 2009.

Domenica altre sei famiglie palestinesi hanno ricevuto notifiche di fratto, che ordinano loro di lasciare le loro case entro 30 giorni a causa di reclami dei coloni israeliani sulle loro proprietà.

Secondo la comunità internazionale, ogni colonia israeliana costruita a Gerusalemme est occupata è illegale in base alle leggi internazionali, nonostante l’annessione de facto del territorio da parte di Israele.

L’ONU ha comunicato che 180 famiglie palestinesi – che comprendono 818 persone, 372 delle quali bambini – sono a rischio di sfratto forzato a Gerusalemme est a causa di espulsioni promosse dai coloni. L’UNRWA [l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] ha sottolineato che a Sheikh Jarrah il 60% delle persone a rischio di espulsione è composto da rifugiati palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Per Israele espellere i beduini è economicamente remunerativo

Jeff Halper 30 agosto 2017, Middle East Monitor

Quando si parla di occupazione, repressione, deportazione e controllo, si tende a guardare alle fonti più potenti ed evidenti della coercizione e dell’ingiustizia: eserciti, politiche governative, poliziesche e diplomatiche.

La decisione della pretura di Be’er Sheva che sei abitanti beduini del villaggio di Al-Araqeeb, nel Naqb/Negev, tutti cittadini israeliani, paghino circa 100.000 dollari allo Stato come indennizzo per le spese sostenute per la demolizione delle loro case dimostra l’efficacia di micro-meccanismi meno visibili per colpire questi obiettivi fondamentali. In questo caso dimostra in che modo la legge possa essere utilizzata come un’efficace arma di deportazione.

Quando la gente non può essere intimidita perché smetta di fare resistenza contro la demolizione delle proprie case, una popolazione povera come quella beduina può essere aggredita nel punto più vulnerabile: economicamente. Circa il 75% della popolazione beduina – 200.000 persone su un totale in tutto il Paese di circa 270.000– vive nel Naqab, rappresentando oltre il 30% della popolazione totale di quella regione. Circa il 65% di loro è stato finora confinato nelle sette township [termine che in Sudafrica indica le baraccopoli in cui vivono i neri, ndt.] che Israele ha costruito per loro, posti isolati carenti di infrastrutture e di posti di lavoro, da cui sono trasportati nelle comunità israeliane come lavoratori manuali. Tutte e sette sono tra le dieci località più povere di Israele. Un terzo dei loro residenti non ha accesso ai servizi elettrici ed idrici nazionali. Solo il 37% dei beduini in età lavorativa ha un’occupazione e il 90% di loro guadagna meno dello stipendio minimo. Il salario medio di un beduino maschio è di 1.200 dollari al mese, quello di una donna di 730 dollari.

Dal 2010 Al-Araqeeb è stato demolito dalle autorità e ricostruito dagli abitanti 116 volte, un caso veramente impressionante di resistenza popolare all’espulsione e allo sradicamento culturale. (Non avendo perso il loro acuto senso di amara ironia, le 500 persone di Al-Araqeeb hanno fatto domanda di essere incluse nel Guinness dei primati per aver superato il record nel numero di demolizioni). Cambiando tattica, lo Stato ha quindi deciso di perseguire ognuna delle famiglie beduine impoverite con ordini giudiziari per fargli pagare i costi della demolizione delle loro case.

Il Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) stima che più di 130.000 case di palestinesi (compresi i beduini) sono state demolite in tutto il Paese dal 1948. Come nel caso di molte demolizioni di case, l’obiettivo sotteso è di occupare terra araba e confinare la popolazione araba in angoli e nicchie ristretti del Paese. Gli “arabo-israeliani” rappresentano il 20% della popolazione israeliana, ma sono confinati dalle leggi, dalle politiche del territorio e dai piani regolatori solo sul 3,5% della terra.

Quasi metà della popolazione beduina, 90.000 persone, vive in “villaggi non riconosciuti”, come Al-Araqeeb. Dato che storicamente i beduini non registravano la proprietà della terra, sicuramente non come singoli proprietari privati, è stato facile per Israele sostenere in tribunale che non hanno la proprietà giuridica e che le loro terre tradizionali vengano restituite allo Stato. Ciononostante i beduini hanno lottato per i loro diritti sulla terra per anni nei tribunali israeliani, e il risultato finale deve ancora essere definito. Ciò rende le demolizioni delle case di Al-Araqeeb se non illegali (dato che non possono ottenere dallo Stato i permessi edilizi necessari), quanto meno ingiustificate e fatte in malafede, soprattutto dato che il vero motivo dello Stato non è la regolarizzazione della terra a beneficio di tutti i suoi cittadini, ma di impossessarsi delle terre dei beduini per le colonie ebraiche e per ragioni militari. Allontanata dalle proprie terre e dalla vita nomade, la popolazione beduina è quindi trasferita nelle township per languirvi in povertà.

Obbligare i palestinesi a pagare per la demolizione delle proprie case è una prassi comune anche in altre parti del Paese, compresa Gerusalemme est. Una variante di ciò è l’imposizione di pesanti sanzioni pecuniarie a famiglie che costruiscono “illegalmente” (anche se, di nuovo, non c’è modo in cui gli arabi possano ottenere da qualche parte permessi edilizi al di fuori di enclave approvate che non includono la grande maggioranza delle abitazioni e fattorie arabe) – multe che raggiungono i 15-20.000 dollari. Dato che la maggioranza delle famiglie arabe vive al di sotto del livello di povertà, possono essere obbligate dai tribunali a demolire esse stesse le proprie case in cambio di una riduzione dell’ammenda. L’ICAHD stima che l’autodemolizione, anche se non è stata rilevata, rappresenti un ulteriore terzo delle demolizioni di case.

Benché i diritti umani dovrebbero essere messi in pratica all’interno di Israele come nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), è molto più difficile che lo siano là, dato che i tribunali israeliani non riconoscono la loro applicazione all’interno di Israele o sentenziano (come nel caso di Al-Araqeeb) sulla base di tecnicismi giuridici, escludendo quindi considerazioni relative ai diritti umani. Nei TPO la situazione è diversa, e a Israele è stata contestata la violazione dei diritti umani – soprattutto della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta le demolizioni di case.

Sfortunatamente gli attivisti per i diritti umani e l’ANP non sono riusciti a fare in modo che i tribunali internazionali si occupino di questi casi, come hanno l’obbligo di fare in base alla giurisdizione universale. Il sistema legale israeliano sostiene che le Leggi Umanitarie Internazionali (IHL) non si applicano ai TPO perché non c’è un’occupazione. (Israele sostiene che c’è un’occupazione solo quando uno Stato sovrano conquista il territorio di un altro Stato sovrano e che nessuno ha mai avuto sovranità sui TPO, una posizione non accettata da nessuno nella comunità giuridica internazionale, ma efficace nell’intralciare il lavoro giuridico e politico). I tribunali israeliani, quindi, nei TPO decidono solo sulla base delle leggi israeliane. Ciò è doppiamente illegale – rappresenta un’estensione di fatto delle leggi israeliane in un territorio occupato, in violazione delle IHL, e ignora le protezioni che le IHL garantiscono ai palestinesi che vivono sotto occupazione.

Le sei famiglie non hanno ancora deciso se presentare appello. Nel frattempo altre comunità beduine lottano per conservare le proprie terre e il proprio modo di vita – Umm Al-Hiran, le cui terre Israele vuole per un insediamento militare (non si pensi che tutte le colonie sono nei TPO) –rappresentando il bersaglio più immediato – mentre gli abitanti delle township stanno lottando semplicemente per sopravvivere nel sottoproletariato di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La sorveglianza di Gerusalemme rivela una “nuova generazione” di coloni ebrei radicali

Yotam Berger – 27 agosto 2017, Haaretz

Una fonte dello Shin Bet dice che il punto di svolta è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, e il comportamento prudente dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora, attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati.

Fino a poco tempo fa l’avamposto di Baladim, nei pressi della colonia di Kochav Hashahar in Cisgiordania, preoccupava molto il servizio di sicurezza Shin Bet. Considerava Baladim il centro del terrorismo ebraico in Cisgiordania e attribuiva attacchi contro molti palestinesi, attivisti di sinistra e soldati alle poche decine di giovani che vi si stabilivano in modo saltuariamente.

Da quando è stato evacuato due mesi fa, Baladim è rimasto praticamente vuoto; la cosiddetta “gioventù della collina” [“Hilltop Youth”, gruppi di giovani estremisti ebrei molto violenti, ndt.] non era tornata. Ma lo Shin Bet afferma che questa quiete è ingannevole: negli ultimi mesi la frangia di estremisti si è in realtà rafforzata. Lo Shin Bet la definisce “la seconda generazione dell’infrastruttura della rivolta.”

La prima generazione è stata responsabile, tra le altre azioni, dell’uccisione della famiglia Dawabsheh nel villaggio palestinese di Duma nel 2015 [in cui morirono bruciati vivi un bambino di 18 mesi e i suoi genitori, ndt.] e di aver incendiato la chiesa dei Pani e dei Pesci lo stesso anno. Ora lo Shin Bet teme una nuova ondata di terrorismo ebraico.

Ma persone al corrente sia del lavoro dello Shin Bet che dei “giovani delle colline” considera esagerati i termini “infrastruttura” e “organizzazione terroristica”. Questa “seconda generazione” è solo un gruppo amorfo, sostengono, ed i suoi membri – poche decine di persone dai 16 ai 25 anni – non funzionano come un’organizzazione coordinata e gerarchica.

Sia lo Shin Bet che molti dei giovani delle colline descrivono Meir Ettinger, un nipote del rabbino Meir Kahane [estremista ebreo americano razzista e fondatore del partito “Kach, ndt.] come il leader della prima generazione. Lo stesso nome “la rivolta” viene da un documento che egli scrisse delineando piani per rovesciare il governo. Ma persone in contatto con i giovani delle colline dicono che la decisione dello Shin Bet di fare di Ettinger il bersaglio ebreo più ricercato era essenzialmente una profezia che si autoavverava.

Se avesse potuto avrebbe mandato fiori allo Shin Bet,” dice uno. “Sono loro che hanno fatto di lui una rockstar.”

Lo Shin Bet è orgoglioso di aver smantellato la “prima generazione”, cosa che ha fatto in parte ponendone alcuni membri in detenzione amministrativa, o prigione senza imputazione, e colpendo altri con divieti di ingresso in Cisgiordania. Pur ammettendo che alcune di queste persone non avevano rapporti con gravi crimini come gli assassinii di Duma, lo Shin Bet afferma che queste misure discutibili erano necessarie per smantellare la rete terroristica.

Ma la nascita di una seconda generazione mette in questione l’efficacia di queste tattiche. Il punto di svolta, afferma una fonte dello Shin Bet, è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona in febbraio, e specialmente il comportamento cauto dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati. Lo Shin Bet sostiene che i coloni estremisti veterani hanno iniziato a tornare in Cisgiordania ed altri nuovi si sono uniti alle loro fila.

Il servizio di sicurezza afferma che questo in realtà dimostra l’efficacia delle sue misure amministrative: l’incremento [degli attacchi] è iniziato quando i divieti di ingresso in Cisgiordania sono scaduti. Riguardo alla nuova generazione, non ha subito queste misure, per cui i suoi membri “non provano il timore e l’effetto dissuasivo di molti attivisti veterani,” sostiene il servizio di sicurezza.

Secondo lo Shin Bet la “seconda generazione” consiste in qualche decina di persone. Dall’inizio dell’anno l’esercito israeliano ha emanato 47 ordini amministrativi contro di loro, di cui 28 sono ancora effettivi. Cinque sospetti sono attualmente in arresto, soprattutto per aver violato tali ordini – per esempio, per aver preso contatto con qualcuno che gli ordini vietavano di contattare – e poi hanno rifiutato la libertà condizionata. L’unico detenuto amministrativo, Elia Nativ, è stato rilasciato lo scorso fine settimana.

Il diciannovenne Nativ, della colonia di Yitzahr, è stato arrestato a giugno perché sospettato di coinvolgimento nell’incendio di due villaggi palestinesi e nel tentativo di danneggiare automobili diplomatiche a Gerusalemme nei pressi del consolato spagnolo e una struttura dell’ONU. Ma quando un giudice ha ordinato di liberarlo subito dopo per insufficienza di prove, lo Shin Bet lo ha posto in detenzione amministrativa per due mesi.

In un’intervista con Haaretz, il padre di Nativ, Yitzhak, ha smentito voci di una “seconda generazione della rivolta,” affermando di non pensare che suo figlio “abbia mai parlato con Ettinger.”

Persino il giudice li ha liberati,” nota. “Un’organizzazione terroristica è un’organizzazione che commette attacchi, che intende uccidere persone. Non è qualche ragazzino che lancia qualcosa. Che lo Shin Bet sia addirittura coinvolto in questa faccenda mi sembra allucinante.”

Una retata notturna a Gerusalemme pesca nove sospetti

Nativ è stato arrestato con altri otto durante una retata notturna in un appartamento di Gerusalemme di proprietà di un attivista dell’estrema destra che era all’estero. L’appartamento era abitato saltuariamente da circa 10 persone considerate membri della seconda generazione. Ma di questi arrestati solo Nativ e Hanoch Rabin – che lo Shin Bet considera in realtà parte della prima generazione – erano sospettati di reati contro la proprietà. E Rabin, che in precedenza aveva abitato in vari avamposti illegali in Cisgiordania, è stato rilasciato pochi giorni dopo.

Gli altri sono stati sospettati solo di aver violato ordini amministrativi, e molti sono stati rapidamente rilasciati. Ma uno, Yisrael Meir Samany di Gerusalemme, è stato di nuovo arrestato pochi giorni dopo insieme ad altre due persone, mentre portavano attrezzi che secondo lo Shin Bet pensavano di usare per danneggiare proprietà palestinesi. Un ragazzo di 16 anni che è stato arrestato con Samany è stato rilasciato, ma di nuovo arrestato qualche giorno dopo per aver violato un ordine amministrativo.

Lo Shin Bet afferma che la seconda generazione ha legami con la prima. In base alla sorveglianza dell’appartamento di Gerusalemme prima della incursione notturna, Rabin non era l’unico attivista della prima generazione che vi passava del tempo.

Un altro arrestato quella notte è stato Moshe Shahor, diciannovenne di Ramle, un altro attivista coinvolto in avamposti illegali. Suo nonno, Dov Lior, è rabbino nella colonia di Kiryat Arba [nei pressi di Hebron, una delle colonie più estremiste dei Territori Occupati, ndt.]. Shahor è stato arrestato per la violazione di un ordine amministrativo ma ha rifiutato la libertà condizionata, per cui è rimasto in carcere.

In seguito Shahor ha scritto una lettera al capo del fronte interno dell’esercito israeliano che ha firmato l’ordine amministrativo contro di lui, che è circolata tra gli attivisti dell’estrema destra.

Neanche lei pensa che il caso di un adolescente che incontra un amico per mangiare una pizza per qualche minuto sia davvero un fatto in grado di mettere in pericolo la sicurezza della regione,” ha scritto. “Al contrario, ciò dimostra chiaramente che quest’ordine intendeva liquidare i giovani delle colline…Il giudice ha proposto che io sia liberato dopo essermi impegnato a rispettare l’ordine amministrativo e a non parlare con quelli con cui mi aveva proibito di parlare. Ma ho deciso che ne avevo abbastanza. Questa volta non voglio firmare.”

Un altro attivista veterano degli avamposti che ha rifiutato la libertà condizionata è David Chai Hasdai, 22 anni. “Per tre anni mi hanno dato ordini che mi hanno allontanato dai miei amici,” ha detto in tribunale, secondo amici che erano presenti. “Non voglio obbedire a questo ordine.”

Altre persone arrestate in quella retata erano di una generazione più giovane, compresi alcuni minorenni. Sono tutti religiosi. Molti, se non tutti, sono di colonie della Cisgiordania. La maggior parte, anche se non tutti, provengono da famiglie stabili.

L’avvocato Chaim Blaycher dell’organizzazione Honenu, che difende molti giovani delle colline, afferma che per la maggior parte sono “davvero bravi ragazzi”, che hanno più bisogno di assistenti sociali che del carcere – un’affermazione ripetuta da altri adulti che li conoscono. Un parente di uno degli adolescenti arrestati afferma che molti ad un certo punto hanno lasciato la scuola per impegnarsi in lavori agricoli o nell’allevamento in avamposti della Cisgiordania.

L’avvocato Itamar Ben-Gvir, un attivista veterano del partito di Kahane che difende anche lui molti giovani delle colline, smentisce allo stesso modo voci di una “rivolta” organizzata con la prima e la seconda generazione, affermando che ciò “nasce o dalla mancanza di comprensione della situazione nella zona o dal fatto che lo Shin Bet vuole finire in prima pagina.”

Blaycher sostiene inoltre che nessuno si sognerebbe di coinvolgere lo Shin Bet per un adolescente laico accusato di danneggiare automobili. Ben-Gvir condivide. Benché gli atti vandalici non siano stati chiariti, dice, “lo stesso Shin Bet ammette che questo gruppo, che chiama la ‘seconda generazione’, non ha attaccato esseri umani,” e gli atti vandalici non riguardano il lavoro dello Shin Bet. “Se la loro visione del mondo fosse diversa, lo Shin Bet non sarebbe coinvolto in questa faccenda,” aggiunge.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Gli israeliani che prendono molto sul serio la ricostruzione del Terzo Tempio

Ayelett Shani – 10 agosto 2017, Haaretz

Eran Tzidkiyahu, una guida per il conflitto israelo-palestinese, spiega perché gli attivisti del Tempio sono così determinati – e come la loro missione entra in conflitto con una parte fondamentale dell’identità palestinese.

Colloquio con: Eran Tzidkiyahu, 36 anni, ricercatore presso il “Forum per la Riflessione Regionale” e guida di percorsi “geopolitici”. Dove: ai piedi del Monte del Tempio. Quando: domenica [6 agosto]

Cosa vuol dire che lei è una “guida geopolitica”?

Significa che sono impegnato nel conflitto dalla prospettiva dei suoi aspetti geografici e politici. Essenzialmente, porto in giro le persone e mostro loro il conflitto sul campo – sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], nei territori, nelle colonie. In luoghi che sono sacri per gli ebrei, i cristiani e i musulmani.

Quali persone sono interessate a questo tipo di visite?

Rappresentanti di varie organizzazioni della società civile, studenti e docenti di università israeliani e del resto del mondo, ebrei americani, gruppi di rabbini. Non molto tempo fa ho guidato importanti funzionari del Mossad [servizio segreto israeliano, ndt.]

Stamattina presto siamo anche saliti sul Monte del Tempio. Il poliziotto all’entrata ha chiesto se volevamo una scorta, ci ha avvertito di non toccare niente, di non entrare nelle moschee. Ha detto che la situazione è delicata.

Penso che ci dobbiamo fermare un attimo e guardare questo posto da di fuori. Cerco di leggere lo spazio come se fosse un testo. Non sono interessato solo agli eventi principali che si stanno svolgendo, ma anche alle piccole cose che li circondano. La guardia, il rancore degli Haredim (ebrei ultra-ortodossi) che attendono sul ponte. Le conversazioni dei poliziotti.

Interessante. Cosa vede lei che io non posso vedere?

Per esempio, tutte le entrate al Muro del Pianto (Spianata) sono molto larghe. Solo l’entrata (per i non-musulmani) al Monte del Tempio è stretta e in disparte. Lo Stato non è interessato a che vi si entri, intenzionalmente non fa un ingresso in un terminal con 10 punti di controllo. No, è piccolo e gli ebrei che stanno lì vi vengono trattenuti per un bel po’ di tempo.

Prima che perquisissero la mia borsa, lei mi ha chiesto se avessi portato una copia del Libro dei Salmi. Lei ha detto che ci avrebbe potuto provocare più problemi del tablet e del registratore. Che cosa intende?

Gli ebrei non hanno il permesso di portare oggetti religiosi sul Monte del Tempio. La polizia impone lo status quo che vieta agli ebrei di praticare riti sul Monte. E se qualcuno non è al corrente di ciò ed è in possesso di un simile oggetto, il suo ingresso al Monte del Tempio sarà notevolmente ritardato.

Ma c’era un folto gruppo di ebrei haredim [ebrei ultra-ortodossi, ndt.] che aspettavano di salire. Non portavano siddurim (libri di preghiera)?

Per loro ci sono armadietti speciali in basso in cui sistemare i loro oggetti. Chiunque tiri fuori un libro ebraico sulla spianata del Monte del Tempio è immediatamente arrestato dalla polizia. Una novità che ho notato oggi per la prima volta è che hanno sistemato dei parasole lungo il percorso. Qualcuno ha preso la decisione di fare ombra a questa stretta e scomoda colonna di persone che aspettano in fila.

E lei cosa ne pensa?

Secondo me riflette un cambiamento di approccio da parte della polizia. Penso sia una prova del grande numero di pressioni esercitate sulle autorità responsabili del Monte del Tempio, da vari gruppi a favore del Tempio. Che questi gruppi stanno diventando sempre più potenti.

Forse mi potrebbe dire qualcosa di questi gruppi del Tempio.

Attualmente è un vero insieme di organizzazioni, gruppi ed individui che pongono il Monte del Tempio in cima ai loro programmi, sia che si tratti di ottenere diritti per salire e pregare sul Monte o per promuovere la costruzione del Terzo Tempio. Negli anni ’90 questi gruppi erano marginali, erano considerati fuori posto. Oggi una parte notevole delle loro richieste è entrata nell’opinione comune. In larga misura il (deputato del Likud) Yehudah Glick è il responsabile dell’unificazione di questi gruppi in un ente unico che agisce per promuovere strategicamente i suoi obiettivi. Insieme al (ministro della Sicurezza Pubblica) Gilad Erdan, al (ministro della Cultura e dello Sport) Miri Regev e al comandante del distretto di polizia di Gerusalemme, ha avuto successo nel raggiungere risultati concreti.

Specifichi i risultati.

Del Monte del Tempio si parla nei corridoi della Knesset e nell’ufficio del primo ministro. Il “Comitato per gli Affari Interni e l’Ambiente” guidato da Regev ha tenuto molte audizioni sul diritto degli ebrei di pregare sul Monte del Tempio. Il Murabitun ed il Murabitat (gruppi musulmani, il primo delle donne, il secondo degli uomini, che si considerano i guardiani del Monte del Tempio) sono stati dichiarati illegali. I gruppi di ebrei salgono al Monte del Tempio in numeri e frequenza in continuo aumento. Ma il risultato principale, come ho già detto, è la penetrazione nell’opinione generale. Oggi ogni israeliano laico può affermare che abbiamo diritti sul Monte del Tempio, e molti di loro appoggiano persino il diritto di pregarvi.

E’ un cambiamento nell’opinione pubblica.

Che si esprime anche in concreto. Dal livello di Gilad Erdan, che si esprime contro lo status quo che si suppone debba garantire, alla fuga di notizie dal governo in materia di metal detector, che dimostrano che la loro condotta non è limitata solo a ciò che è pratico e fattibile – che ci sono anche aspetti che riguardano la religione, l’identità, persino credenze messianiche; a cose che posso vedere con i miei occhi.

E’ la polizia che dovrebbe incaricarsi degli ebrei che salgono al Monte del Tempio. Di impedirlo, di ritardarlo, di ridurlo. I sostenitori del Tempio sono, ovviamente, in buoni rapporti con i poliziotti sul Monte del Tempio, e i poliziotti li riconoscono. Lo scorso anno ho visto emergere un evidente rapporto più stretto tra i poliziotti e i sostenitori del Tempo. Quest’anno, circa un mese prima dell’uccisione dei poliziotti drusi (il 14 luglio 2017), il generale della polizia Yoram Halevi è salito sul Monte con un gruppo di sostenitori del Tempio, dove è stato fotografato con loro. E’ il comandante del distretto ed ha ricevuto sul Monte la loro benedizione, che è stata fotografata e documentata. Questa è pura follia. Nel suo blog Arnon Segal, un attivista del Tempio, ha scritto che questa (specifica) salita al Monte del Tempio è stata una “salita dello Stato nazionale” dedicata alla memoria di Hallel Ariel, la ragazza uccisa [da un attentatore palestinese, ndt.] a Kiryat Arba (nel 2016). I suoi genitori sono attivisti estremamente entusiasti ed impegnati del Tempio. Sua madre parla continuamente di una consapevolezza del Tempio.

Che cosa vorrebbe dire “consapevolezza del Tempio?

Vivere la propria vita con la consapevolezza che il proprio scopo in questo Paese in quanto ebreo è di vivere in base ai comandamenti della Torah e che c’è un grande numero di comandamenti che non possono essere osservati senza il Tempio. Per cui si deve vivere con una totale dedizione verso di esso. Per esempio, lavora con donne nel cuocere il pane speciale che deve essere preparato per il Tempio. Per questa gente il Tempio è la ragione per cui sono qui.

A lei sembra una cosa sincera?

Certo. Sono persone interessanti e serie, e non ho nessuna intenzione di ignorarle. In parte per le potenziali ripercussioni di quello che stanno facendo, e in parte perché stiamo parlando di persone intelligenti che hanno una profonda coscienza religiosa e nazionale, alcune delle quali sono totalmente coinvolte anima e corpo. Più li guardo e li ascolto da vicino, più vedo questa esperienza come assolutamente sincera.

Capisco che lei è in stretto contatto con loro.

Li conosco tutti personalmente. Ho anche seguito tutto un corso per guide del percorso del Monte del Tempio tenuto dalla “Fondazione per il Patrimonio del Monte del Tempio”.

Cos’è un corso per guida del percorso del Monte del Tempio?

Alla luce del fatto che sempre più ebrei stanno salendo al Monte, le organizzazioni del Monte del Tempio hanno deciso di lanciare un’iniziativa: l’obiettivo è che ogni ebreo che va al Monte trovi un altro ebreo che lo accompagnerà, gli dirà cose su di esso e gli spiegherà la storia e la teologia.

Non riesco ad immaginare lei inserito in un corso come quello.

Quando mi sono unito al corso loro erano veramente molto preoccupati. Mi hanno chiesto quali erano le mie motivazioni, perché conoscono me e le mie opinioni. Quando ho detto che volevo solo capire, hanno accettato che partecipassi – a condizione, naturalmente, che non avrei scritto nessun post su Facebook né condiviso con qualcuno i contenuti del corso.

Ma c’è un progetto ovvio.

Certamente. Il corso è tenuto da importanti attivisti del Tempio. Lo stesso Yehudah Glick mi ha consegnato il certificato che ho completato il corso.

Qual era il contenuto del corso?

C’era un contenuto principalmente storico-religioso riguardante il Tempio e il Monte. Molta attenzione era dedicata alle dimensioni del Tempio. Una delle principali ragioni del divieto halachitico (diritto ebraico) per la salita al Monte del Tempio ha a che fare con la preoccupazione in merito all’ingresso in zone sacre proibite, per cui questo è estremamente importante per loro, in quanto vogliono sapere dove gli è permesso camminare e dove è proibito. Per loro la questione più interessante è dove si trovasse in realtà esattamente l’altare sulla piattaforma rialzata ad est della Cupola della Roccia [la Moschea di Omar, che si trova sulla Spianata delle Moschee, ndt.].

Perché?

Perché non c’è bisogno di un tempio per offrire sacrifici. Il sacrificio della Pasqua ebraica, per esempio. Loro dicono: “Perché non dovremmo entrare con un capretto e offrire il sacrificio della Pasqua sul Monte del Tempio?” Dopotutto, ciò non dovrebbe violare la santità per i musulmani. E’ consentito. E’ persino prescritto. Per questo è importante sapere dov’è l’altare.

Non posso neanche cominciare a dirle quanto mi risulta difficile identificarmi con tutto ciò.

Guardi, quando lei sta lì in piedi sul Monte, con quelle persone e sono in piedi sui gradini settentrionali e guardano la Cupola della Catena [piccola costruzione musulmana adiacente alla Cupola della Roccia, ndt.], loro non vedono quello che vede lei. Stanno vedendo il luogo dell’altare dei sacrifici. Il luogo del Tempio. Si trovano in un’altra dimensione.

Come in una specie di visione? E’ questo che lei ha sentito quando si trovava tra di loro?

Assolutamente. Loro sono al settimo cielo. Non vedono le cose che li circondano – la fila o i poliziotti o il Waqf [l’associazione musulmana che si occupa della gestione della Spianata delle Moschee, ndt.]. Vogliono andare subito su, e nel momento in cui attraversano le porte, alcuni di loro si inchinano e si prostrano. Ciò è consentito dall’ebraismo solo sul Monte del Tempio. Prostrazione totale, mani e piedi stesi a terra. In qualunque altro luogo ciò sarebbe considerato idolatria ed è vietato. Questa gente sta vedendo sul Monte un passato e un futuro mitologici, e non il presente.

Sì. Questo spiega decisamente molto.

Per quanto li riguarda, la costruzione del Tempio è un’idea logica e corretta. Guardi, dopotutto “Sion” non è costruire kibbutz. Se lei avesse chiesto ad un ebreo 200 anni fa quale fosse il significato del “Ritorno a Sion”, avrebbe risposto: “Tornare alla Terra Santa e ricostruire il Tempio.” Per questo la gente prega ed è dove la consapevolezza “sionista” era diretta – fino all’avvento del Sionismo. Il Sionismo è essenzialmente un ripudio di questo discorso, un tentativo di secolarizzarlo, di renderlo nazionalista. Il sionismo ha tentato di sfuggire a questa idea del Tempio, ed ora lo stiamo vedendo tornare.

Sta tornando o è stato ripreso dal Sionismo religioso?

Essenzialmente è rientrato in gioco come risposta alla possibilità di un compromesso territoriale. La gente di “Gush Emunim” [organizzazione dei coloni israeliani, ndt.] non è concentrata sul Tempio. [Gli accordi di] Oslo sono stati la crisi che ha portato settori più ampi dell’opinione pubblica sionista religiosa a dimostrare interesse per il Monte del Tempio. Nel marzo 1996 il consiglio rabbinico “Yesha” (che rappresenta i rabbini dei coloni) emanò un appello per salire al Monte del Tempio. Era al culmine del mese di Ramadan, e il venerdì seguente la diffusione dell’appello 250.000 palestinesi si recarono a pregare lì. Questa è la dinamica nelle due parti [in conflitto]. Pochi mesi dopo, scoppiarono gli scontri del tunnel del Muro del Pianto e il Movimento Islamico (israeliano) decise di impegnarsi a pieno nella questione di Al-Aqsa.

Lo status quo, gli accordi non scritti tra le autorità e il Waqf, che avevano retto per 30 anni crollarono. Essenzialmente sia il consiglio rabbinico “Yesha” che i dirigenti del Movimento Islamico in Israele sono uniti attorno allo stesso luogo sacro. Non si tratta di una coincidenza. E’ impossibile parlare del Monte del Tempio come guida dell’identità ebraica senza parlare di Al-Aqsa (con cui i musulmani si riferiscono a tutta la Spianata) come guida dell’identità palestinese. Allo stesso modo in cui questa idea è sorta in un momento in cui c’era un tentativo di raggiungere un compromesso e forse porre fine al conflitto, la stessa cosa è successa dal lato palestinese. Non si tratta di una questione accademica o di un argomento filosofico: si tratta di un dato di fatto per tutti i palestinesi.

Ne è convinto?

Poco prima che ci incontrassimo, un vecchio palestinese nel quartiere musulmano mi ha detto: “In quanto palestinese, sono obbligato a proteggere questo luogo: le parlo col cuore e non con la testa.” Non è che ogni palestinese di Jenin [in Cisgiordania, ndt.] o di Umm al-Fahm [cittadina arabo-israeliana, ndt.] stia pensando tutto il tempo ad Al-Aqsa, ma al centro dell’identità palestinese, a cosa li differenzia dal mondo arabo e islamico attorno a loro c’è il loro rapporto con Al-Aqsa ed il senso della missione eterna di proteggerla nel corso della storia contro la conquista degli eretici. E’ un messaggio palestinese nazionale non meno che islamico religioso. Nello stesso modo in cui gli ebrei vedono come santo il periodo del Secondo Tempio, l’etica di Masada e di Hanukkah, l’ultimo periodo di sovranità ebraica, così l’Islam in questo Paese si unisce attorno all’idea della protezione dei luoghi santi di Gerusalemme -“Al-Aqsa, il cui luogo su cui sorge noi benediciamo” (dalla Surah 17:1 del Corano) – come il terzo luogo più sacro per l’Islam, là stiamo proteggendo i luoghi sacri dell’Islam dai pericoli che incombono. Queste sono le basi molto profonde dell’identità palestinese qui.

Non vogliamo ripercorrere tutta la lunga storia di scontro sul Monte del Tempio, ma quello che li accomuna tutti, penso, è una dinamica di reazione. Una parte vi viene trascinata in seguito alle azioni della parte avversa.

Le persone, sia da parte palestinese che da quella israeliana, la vedono come se “l’altra parte stia facendo ciò a noi,” mentre in effetti la situazione è come la descrive lei, c’è un flusso continuo di risposte e contr-risposte.

Forse potrebbe descrivermi questo luogo attraverso gli occhi dei palestinesi. Attraverso gli occhi dei singoli che vengono qui sul Monte per pregare cinque volte al giorno.

Il Monte del Tempio non è solo il terzo luogo più sacro per i musulmani in Israele, è il parco più grande di Gerusalemme est, lo spazio aperto più grande in una zona che per il resto è un disastro urbanistico. E’ l’unico luogo in cui c’è un certo livello di libertà e di indipendenza per i palestinesi, perché è il posto in cui la sovranità israeliana non è totale e l’occupazione israeliana è meno presente. Pertanto si possono vedere famiglie riunite per fare un picnic, persone che l’attraversano senza una ragione speciale in pieno giorno, solo per starci, per pregare, per mangiare. Questo fenomeno è gradualmente cambiato negli ultimi anni, e questo è proprio quello che i palestinesi sentono che stanno perdendo – non solo il loro simbolo nazionale, ma anche il proprio spazio di libertà personale a cui sono legati non solo al livello religioso ma anche a quello individuale. Di nuovo, si deve capire – non ci sono parchi, non ci sono giardini, c’è solo il Monte del Tempio. I ricordi dell’infanzia di molti di loro sono radicati in questo luogo. Alla luce del rapporto di forze in questo spazio, interpretano tutto quello che succede da parte israeliana come un tentativo di privarli del loro spazio qui.

Riguardo alla sovranità, ieri ho letto una vecchia citazione dello storico Shlomo Ben-Ami, che sosteneva che più abbiamo il controllo sul Monte del Tempio, più ne siamo ostaggi.

Ha ragione. Siamo ostaggi della questione della sovranità sul Monte del Tempio. La nostra sovranità qui è il problema e non la soluzione.

Ogni volta che c’è un esplosione di proteste, quando viene messa a dura prova, scopriamo che in realtà non abbiamo la sovranità [sul Monte del Tempio].

Secondo me questo è vero per tutta Gerusalemme. Lo Stato di Israele crede che la soluzione a Gerusalemme sia nel mettere in pratica la sovranità, ma sono già 50 anni che la sovranità a Gerusalemme si è manifestata solo come potere, ed ogni bambino che frequenta un corso preparatorio in scienze politiche può affermare che più si usa la forza fisica, meno tu possiedi realmente un vero potere istituzionale. Una sovranità che si esprime attraverso battaglioni di poliziotti di frontiera non è una sovranità profonda, e non ci sarà una soluzione per il Monte del Tempio finché parleremo in termini di sovranità assoluta. Chi è il proprietario “riconosciuto” del Monte del Tempio? Importa realmente? Il processo giuridico è desiderabile per la gestione di questa faccenda? In fin dei conti non abbiamo la sovranità né sul Monte del Tempio né su Gerusalemme est, e questa è la realtà. Non siamo neanche in grado di sistemarvi dei metal detector.

Qualcuno fa riferimento alla sensazione di successo tra i palestinesi in seguito a questo recente ciclo (di violenze). Lei che cosa ha sentito dire?

Ho sentito amici palestinesi, anche del tutto laici, parlare con assoluto entusiasmo del potere e dell’organizzazione comunitaria. Dicono di non essersi mai sentiti così. Se erano stati bambini durante al Seconda Intifada, o nati dopo, non sono mai stati abituati a questa sensazione di comunità; hanno conosciuto solo la sopravvivenza giorno per giorno, spaventati da chiunque vedessero. Improvvisamente si sono sentiti legati, una sensazione di comunità, una speranza che potesse cambiare. I media palestinesi sono pieni di appelli a trarre le conclusioni da questa vittoria. La prima conclusione è che Israele non può opporsi ad azioni organizzate di massa non violente.

Di chi è stata l’idea che i fedeli musulmani rifiutassero di entrare sulla Spianata (finché fossero rimasti sul posto i metal detector)? Delle preghiere di sfida fuori dalle porte?

Non lo so. Stavo seduto qui qualche giorno da con degli amici, esperti di Gerusalemme, tra loro dei palestinesi, e non riuscivamo a trovare una risposta su chi abbia iniziato tutto questo – i leader religiosi, il Waqf o gli abitanti. Dopotutto, il Waqf non avrebbe potuto sapere che gli abitanti lo avrebbero appoggiato.

Come appare sul campo?

Un sacco di gente nelle strade. Le donne della città gli hanno portato una grande quantità di cibo. Stiamo parlando di cinque preghiere al giorno, che è praticamente tutto il giorno. Gente che arriva da ogni parte del Paese. Il giorno prima ero a Baka al-Gharbiyeh [cittadina a maggioranza araba in Israele, ndt.], dove ho incontrato intellettuali arabi molto noti che stavano dicendo – domani andremo su ad Al-Aqsa, tutta la famiglia. Abbiamo una missione qui, abbiamo un dovere. La polizia ha messo sbarramenti su una strada. Di notte hanno controllato ogni macchina per cercare di scoraggiare la gente dal cercare di attraversarli, ma ciononostante decine di migliaia lo hanno fatto.

Qual è esattamente il ruolo che il Waqf ha giocato nella vicenda dell’organizzazione spontanea?

Quello che è successo qui nelle ultime due o tre settimane è sorto dalla piazza palestinese di Gerusalemme est. A Gerusalemme non c’è una dirigenza. Semplicemente non esiste. C’è il Waqf. E’ l’istituzione più vasta e più influente. In seguito a questi avvenimenti, il Waqf e la piazza si sono incontrati. Un’istituzione ben organizzata con potere, danaro e gerarchia ha incontrato una piazza che stava desiderando ardentemente una dirigenza e un’azione collettiva. Gli interessi convergevano – il Waqf ha guadagnato dalla piazza un rinnovato potere, e la piazza ha guadagnato una dirigenza. A un certo livello, è la stessa piazza di Gerusalemme che si è preoccupata per anni di Al-Aqsa.

Quando (il re di Giordania) Abdullah e Bibi (Netanyahu) si sono messi d’accordo sull’installazione di telecamere nel 2015, la piazza semplicemente non lo ha permesso. Ora la piazza è di nuovo entrata sulla scena. Secondo me c’è stato un cambiamento profondo nella concezione delle attività organizzate a Gerusalemme est. Stanno emergendo nuove strutture, un nuovo modus vivendi. E’ ragionevole ipotizzare che qui sorgeranno nuovi dirigenti. Qui è successo qualcosa di molto importante – un’organizzazione popolare non violenta che ha obbligato Israele a cedere. L’internet palestinese si sta già occupando dell’argomento.

Cosa vede lei? Cosa stanno scrivendo?

“Siamo riusciti ad incidere su Israele e dobbiamo continuare così.” Questa opinione pubblica, che ha sempre subito accordi sulla propria testa, è ora l’opinione pubblica che ha guidato gli avvenimenti, e (il presidente turco) Erdogan e (il presidente USA) Trump e re Adbullah e Bibi possono solo rimanere ai margini. La piazza di Gerusalemme sta attualmente riscoprendo la propria forza.

Pensa che Netanyahu l’abbia capito?

Non lo so. Sulla questione del Monte del Tempio, Netanyahu si è costantemente nascosto dietro poliziotti di basso rango.

Cosa pensa di Yoram Halevi, il comandante del distretto di Gerusalemme, di cui abbiamo parlato prima?

Non lo conosco. A giudicare solo dal suo risultato, è un disastro. Yoram Halevi sale sul Monte del Tempio con gli attivisti del Tempio, cambia il loro status, si esprime in modo arrogante in materia di metal detector, come se si trattasse dell’ingresso in un supermercato. Stiamo parlando di una mancanza di professionalità e di comprensione del terreno. E’ questa idea di voler impartire una lezione, di agire in modo inflessibile, tanto da scatenare la protesta popolare.

Voleva “evitare che i palestinesi avessero l’impressione della vittoria.”

E’ quello che ha detto. E alla fine ha perso. Se è davvero un professionista serio, è apparentemente motivato da altre considerazioni.

La conclusione di questa conversazione è davvero sconfortante.

In realtà sono ottimista. Penso che se togliamo dall’equazione la questione della sovranità, sarà possibile pensare a soluzioni creative. A un discorso di cooperazione. Quando saremo uguali, non ci sarà la differenza nell’equilibrio di forze che esiste attualmente: potremmo proseguire questo dialogo, e gli ebrei potrebbero pregare sul Monte del Tempio come fanno i musulmani.

Non ci conterei molto.

Perché no? E’ successo in Irlanda, con gli accordi del Venerdì Santo. Anche là c’era un conflitto di secoli, con un aspetto religioso. E’ un lungo percorso, e spetta a noi tentare e prendere quel percorso – o soccombere al pessimismo. Non possiamo cambiare il corso della storia, possiamo solo scegliere il nostro percorso.

Sa, sono tornato qui, dopo tre anni in Francia, nel mezzo dell’operazione “Margine protettivo” (nel 2014). Dalla tranquilla Strasburgo proprio dentro alle sirene dell’allarme aereo. Non è stata una cosa semplice, ma non dubito di aver fatto la scelta giusta. Sento che la mia vita è ricca di valori e di senso, nonostante le sfide e le preoccupazioni sul futuro dei bambini.

Strasburgo mi ha ispirato. Dopotutto è stata al centro del conflitto tra Francia e Germania per secoli ed è diventata un simbolo della riconciliazione europea. C’è un grande numero di coppie franco-tedesche che vivono lì e che non sono in grado di comprendere come qualcuno possa aver combattuto per questo, così come i bambini nati dopo la riconciliazione in Irlanda.

Se c’è una cosa che ho imparato è che devi essere umile quando si tratta di storia e non dire che qualcosa non accadrà perché può sempre succedere. Un bambino nato un minuto dopo la firma degli accordi sarà incapace di capire come noi abbiamo potuto pensare o vivere in modo diverso.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 18 – 31 luglio 2017 ( due settimane)

Tre israeliani e tre presunti aggressori palestinesi sono stati uccisi durante cinque attacchi e presunti attacchi palestinesi; nel corso di tali episodi sono stati feriti altri quattro israeliani e un palestinese.

Il 21 luglio, nell’insediamento colonico israeliano di Halamish (Ramallah), un palestinese 19enne ha fatto irruzione in una casa e ha pugnalato e ucciso tre israeliani, (due uomini e una donna) ed ha ferito un’altra donna; le vittime erano tutti membri della stessa famiglia. L’autore è stato colpito e ferito da un soldato israeliano, quindi arrestato. Il 18 luglio, presso il raccordo stradale Beit ‘Einoun (Hebron), un palestinese ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani ferendone due; subito dopo è stato colpito e ucciso. Due palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane all’ingresso del villaggio di Tuqu (20 luglio) e vicino all’incrocio di Gush Etzion (28 luglio). Secondo quanto riferito, avrebbero tentato di uccidere soldati israeliani; non sono state segnalate vittime israeliane. Infine, secondo i resoconti di media israeliani, il 24 luglio, nella città di Petach Tikva (Israele) un palestinese ha accoltellato e ferito un israeliano ed è stato successivamente arrestato.

Le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Kobar (Ramallah), dove abitava il responsabile dell’attacco condotto nell’insediamento colonico di Halamish [vedere paragrafo precedente], ed hanno bloccato tutti gli ingressi (il blocco è ancora in atto al termine del periodo di riferimento di questo Rapporto). Ad esclusione dei casi umanitari preventivamente concordati, ai circa 5.000 residenti è stato impedito l’accesso ai servizi e ai luoghi di lavoro. Durante l’irruzione, le forze israeliane hanno confiscato veicoli, documenti e soldi nella casa dell’aggressore; si sono anche verificati scontri con i giovani del villaggio e 24 palestinesi sono rimasti feriti.

Gli scontri in corso tra palestinesi e forze israeliane in Gerusalemme Est e nel circondario, hanno provocato la morte di cinque palestinesi, nonché il ferimento di 1.015 palestinesi, di cui almeno 34 minori, e di due poliziotti israeliani. La maggior parte degli scontri sono seguiti ai numerosi assembramenti di fedeli che pregavano in strada in segno di protesta contro l’installazione di metal detector agli ingressi del Complesso Haram ash Sharif / Monte del Tempio; l’installazione aveva fatto seguito all’attacco del 14 luglio in prossimità del Complesso. Due dei morti (18 e 21 anni) sono stati uccisi il ​​21 luglio nelle aree di Ras al ‘Amud e At Tur; uno di essi da un colono israeliano. Altri due palestinesi (18 e 23 anni) sono stati uccisi durante gli scontri avvenuti nella città di Abu Dis, il 21 e 22 luglio. Un altro (28 anni) è morto per le ferite riportate il 24 luglio in analoghi scontri avvenuti nel villaggio di Hizma. 19 dei feriti palestinesi sono stati colpiti da armi da fuoco; la maggior parte degli altri feriti sono stati colpiti da pallottole di gomma o hanno necessitato di trattamento medico per inalazione di gas lacrimogeno. Due dei feriti palestinesi, un minore e un uomo, hanno perso un occhio. Il 24 luglio le autorità israeliane hanno rimosso i metal detector, riducendo notevolmente il livello di tensione e gli scontri.

Il 21 luglio, poliziotti di frontiera israeliani hanno fatto irruzione con la forza nell’ospedale di Al Maqased a Gerusalemme Est, secondo quanto riferito, alla ricerca di manifestanti feriti in quello stesso giorno, ed hanno interrotto l’assistenza medica di emergenza. È stato riferito che i poliziotti hanno molestato alcuni operatori dell’ospedale e, uscendo dall’ospedale, hanno sparato una bomboletta di gas lacrimogeno ai palestinesi che si erano riuniti nel cortile dell’ospedale. Una incursione analoga, nello stesso ospedale, era stata registrata il 17 luglio.

Ulteriori scontri, verificatisi in varie località dei Territori occupati, anche in connessione con gli accadimenti di Gerusalemme Est, hanno provocato un altro morto palestinese e 535 feriti palestinesi. Il 28 luglio, un ragazzo di 15 anni è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane durante scontri vicino alla recinzione perimetrale di Gaza, ad est del Campo Profughi di Al Bureij; in questo ed in episodi analoghi verificatisi lungo la recinzione della Striscia di Gaza sono stati feriti altri 34 palestinesi. Il maggior numero di ferimento occorsi in Cisgiordania, al di fuori della zona di Gerusalemme, sono stati registrati durante scontri presso i checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah) e di Huwwara (Nablus).

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) in terra e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, o diretto, in almeno 15 occasioni, senza causare feriti. In alcuni casi, il lavoro degli agricoltori e dei pescatori palestinesi è stato interrotto. In altre quattro occasioni, le forze israeliane hanno effettuato spianature del terreno e scavi all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale.

Riguardo alla crisi elettrica di Gaza non sono stati registrati sviluppi; permangono i tagli di corrente per 18-20 ore al giorno, con gravi ricadute sulla fornitura dei servizi essenziali. PNGO, la rete delle ONG palestinesi, ha riferito che le prolungate mancanze di energia elettrica colpiscono particolarmente le oltre 44.000 persone affette da disabilità, tra cui alcune dipendenti da dispositivi elettrici che forniscono ossigeno e supporto alla mobilità.

Sono stati segnalati cinque attacchi di coloni che hanno causato ferimenti di palestinesi o danni alla proprietà. Due minori palestinesi sono stati feriti, in due distinti casi di lancio di pietre, al raccordo stradale di Beit ‘Einoun (Hebron) e ad ‘Asira al Qibliya (Nablus), mentre vicino al checkpoint di Za’tara (Nablus) un uomo palestinese è stato ferito da un cane sguinzagliato da coloni. Nei villaggi di Jalud e Madama, entrambi nel governatorato di Nablus, sono stati registrati due casi di incendio di terra palestinese, a quanto riferito, ad opera di coloni israeliani; ne sono risultati danneggiati una struttura agricola e reti di irrigazione.

Il 25 luglio coloni israeliani hanno occupato un appartamento in un edificio situato nella zona H2 della città di Hebron, violando un ordine israeliano che dichiarava quella parte dell’edificio come area militare chiusa. Una famiglia palestinese (16 persone, la metà delle quali minori), residente in un altro appartamento dello stesso edificio, ha riferito di limitazioni all’accesso ed intimidazioni dopo l’occupazione [effettuata dai coloni]. Una istanza che contestava i diritti di proprietà dei coloni, presentata tre anni fa dalla famiglia palestinese ad un tribunale israeliano, è ancora in sospeso.

Secondo resoconti di media israeliani, nei pressi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme, tre coloni israeliani tra cui un minore sono stati feriti e almeno cinque veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi.

Nell’Area C della Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato quattro strutture di proprietà palestinese, compromettendo i mezzi di sussistenza di circa 250 persone. Le strutture in questione includevano una roulotte per uso commerciale nel villaggio di Battir (Betlemme), due chioschi commerciali nella città di Ar Ram (Gerusalemme) ed un tratto di strada per il collegamento della Comunità di Wadi Sneysel alla Strada n° 1. Quest’ultima è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato. Le autorità hanno altresì emesso almeno 17 ordini di demolizione e blocco-lavori contro strutture residenziali e di sostentamento in tre comunità dell’Area C, nel sud di Hebron; tra queste, quattro strutture finanziate da donatori e fornite come assistenza umanitaria alla Comunità di Al Bowereh.

Il Valico di Rafah, controllato dall’Egitto, durante il periodo di riferimento è rimasto eccezionalmente aperto, ma solo per l’ingresso di combustibile, primariamente destinato alla Centrale Elettrica, mentre è rimasto chiuso al transito delle persone. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. L’ultima volta in cui il valico venne aperto al transito di persone fu il 9 maggio. Nel 2017, fino ad ora, il valico è stato aperto per 16 giorni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Ancora in attesa di un Gandhi palestinese? Lei/lui c’è già

Zaha Hassan – 30 luglio 2017, Haaretz

Ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks. Ogni prigioniero che fa lo sciopero della fame è un Mandela, e ogni gazawi che sopravvive nonostante le condizioni disumane è un Gandhi palestinese.

La seconda domanda (dopo “Dov’è la Palestina?”) più frequentemente posta a un palestinese-americano è: “Dov’è il Gandhi palestinese?”

Gli americani vogliono sapere perché i palestinesi non utilizzano tattiche non-violente per porre fine ai loro decenni di oppressione e di colonizzazione della loro terra.

Ovviamente in questa domanda è implicita la premessa, coltivata dalla rappresentazione mediatica dell’ “arabo infuriato” e del musulmano nichilista, così come da campagne lautamente finanziate di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che coinvolgono gruppi di lobbysti ed i centri di studio ad essi associati che dipingono tutto il Medio oriente come un covo ribollente di odio contro l’Occidente cristiano, che i palestinesi siano geneticamente predisposti alla violenza.

La verità è che, se un premio Nobel fosse assegnato a un intero popolo per la moderazione che ha dimostrato e per l’ostinata caparbietà a sopravvivere, a perseverare e a costruire un domani migliore nonostante i sistematici tentativi di eliminarlo – persino tentativi di negare addirittura la sua esistenza, come fece Golda Meir [nel 1969 in un’intervista l’allora primo ministro di Israele affermò che i palestinesi non esistevano, ndt.] – esso dovrebbe andare al popolo palestinese.

Perché, dove esiste un precedente dell’imprigionamento di 2.2 milioni di persone che sono stati resi deliberatamente dipendenti per il cibo, l’acqua e l’energia durante un intero decennio, mentre la narrazione continua a dire che è tutto giustificato dalla “sicurezza” di Israele, come nel caso delle attuali sofferenze di Gaza?

Dove c’è un precedente di sette milioni di persone a cui viene negato il diritto di tornare alle proprie case e proprietà confiscate settant’anni fa, solo perché sono della religione sbagliata, mentre nuovi insediamenti illegali si espandono freneticamente nel pezzo di terra della Cisgiordania che dovrebbe essere parte del loro Stato ancora da creare?

Dove c’è un precedente di Stati e istituzioni incaricati di difendere le leggi e la legalità internazionali che chiedono a un popolo occupato sempre più concessioni e di negoziare per legittimare crimini di guerra e per normalizzare l’esistenza dell’occupante?

La verità è che ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks [la donna di colore che nel 1955 in Alabama si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco e diede inizio alla lotta per i diritti civili dei neri negli USA, ndt.]. Ogni prigioniero che mette in pericolo la propria vita per settimane intere facendo lo sciopero della fame per lottare contro la propria incarcerazione e le condizioni di detenzione è un Mandela, e ogni persona che oggi vive a Gaza e che sopravvive nonostante le privazioni disumane, è un Gandhi palestinese.

Quante altre migliaia di tappetini da preghiera devono essere srotolati nelle strade di Gerusalemme prima che la resistenza non violenta palestinese sia non solamente riconosciuta ma anche appoggiata e incoraggiata? Quante altre proteste del venerdì devono aver luogo a Bi’lin e in altri villaggi in Cisgiordania? Quante tende della pace devono essere erette e demolite a Gerusalemme e nel Naqab [Negev in arabo, ndt.]?

La vera questione, tuttavia, non è quantificare le proteste, ma garantire che altri le conoscano.

Gandhi lo sapeva. Martin Luther King, Jr lo sapeva. E il governo israeliano, l’AIPAC [l’associazione ebraica filo-israeliana più potente negli USA, ndt.] e quanti sono interessati a mantenere il dominio di Israele sulla terra palestinese lo sanno. E questa è la ragione per cui vergognosi esempi di legislazione come la legge 720 del Senato contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.] stanno circolando nelle aule del Congresso. La legge, stilata con la collaborazione dell’AIPAC, lo farebbe diventare un reato punibile fino ad un massimo di 20 anni di carcere e una multa fino a 1 milione di dollari per il fatto di sostenere l’uso di metodi economici non violenti contro Israele.

Potete immaginare Rosa Parks che sconta 20 anni di prigione per aver organizzato il boicottaggio degli autobus segregati? O Martin Luther King Jr. obbligato a pagare un milione di dollari per aver boicottato ristoranti razzisti con posti separati?

Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che punire il diritto di espressione che ha lo scopo di porre fine a un’ingiustizia è sbagliato. Quando si vedono i fatti, gli americani lo capiscono. E lentamente ma inesorabilmente alcuni membri del Congresso che inizialmente erano stati co-promotori della legge con un tipico riflesso condizionato, una deferenza cieca verso l’AIPAC, stanno vedendo chiaro, come la senatrice Gillibrand, che, quando è stata messa in guardia dall’ACLU [American Civil Liberties Union, Unione Americana per le Libertà Civili, organizzazione non governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA, ndt.] sulle preoccupazioni relative al diritto di parola e a problemi di incostituzionalità della legge e sfidata da elettori durante un’assemblea comunale, ha espresso la sua volontà di riconsiderare il suo appoggio [alla legge].

Così, mentre CNN e Fox News [due importanti reti televisive statunitensi, ndt.] possono non informare sulle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno pregato nelle strade di Gerusalemme la scorsa settimana, protestando contro il tentativo mascherato di Israele di esercitare la propria sovranità sulla Spianata delle Moschee, questi accaniti tentativi legislativi da parte dei difensori di Israele per porre fine all’appoggio alla resistenza non violenta nei territori occupati o all’estero stanno accendendo riflettori da stadio di football sui problemi.

Attivisti del movimento progressista si rendono drammaticamente conto di come le loro libertà civili vengano minacciate in nome della protezione dell’occupazione di Israele sui palestinesi. Allo stesso modo, quando le linee aeree USA hanno messo in atto la legislazione israeliana che impedisce ai difensori dei diritti umani di viaggiare in Israele (compresi ebrei-americani, uno dei quali è un rabbino), gli americani hanno visto il rapporto tra questo fatto e gli abominevoli divieti di viaggio [si riferisce alla proibizione di ingresso negli USA dei passeggeri provenienti da alcuni Paesi musulmani, ndt.] perseguiti dall’amministrazione Trump

I palestinesi ed i loro sostenitori dovrebbero sperare (e pregare nelle strade) che Israele continui a rivelare la natura della sua oppressione contro di loro, e al contempo continuare a perseguire metodi collaudati e non violenti per riportare la giustizia e lo stato di diritto, perché si giunga ad una vera comprensione delle cause e delle soluzioni del conflitto israelo-palestinese.

Non c’è un modo più efficace per mettere in luce un’ingiustizia e per modificare la percezione sbagliata ad essa associata che attraverso lo stesso oppressore. Rosa Parks, Dr. King e Gandhi lo sapevano e lo sanno anche i palestinesi e quelli che solidarizzano con loro.

Zaha Hassan è una giurista per i diritti umani e studiosa del Medio Oriente al New America [prestigioso centro studi indipendente di politica ed economia, ndt.], con sede a Washington. In precedenza è stata coordinatrice e consulente esperta del gruppo negoziatore palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele sotto tiro per gli attacchi a giornalisti palestinesi ed agenzie di informazione

30 luglio 2017, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Nei giorni scorsi le forze israeliane sono state oggetto di una severa condanna per attacchi a giornalisti palestinesi e agenzie di informazione, in seguito ad un’incursione nella notte di sabato contro una società di produzione mediatica a Ramallah ed a molteplici attacchi a giornalisti che informavano sulle proteste di massa nei territori palestinesi occupati contro le misure di sicurezza, ora ritirate, alla Moschea di Al-Aqsa.

In un raid all’alba di sabato le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di PalMedia, una società di produzione nel settore dei media, che fornisce servizi di trasmissione a parecchi organi di informazione, tra cui Russia Today, al-Mayadeen, al-Manar e al-Quds News, hanno messo a soqquadro gli uffici e distrutto attrezzature, con l’accusa di presunta “istigazione”.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha denunciato il raid in una dichiarazione in cui ha affermato che “le politiche israeliane di violenza e repressione sono un palese tentativo di spezzare la risolutezza del popolo palestinese” e configurano una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani relativamente alla libertà di espressione.

Israele si sta chiaramente impegnando in una costante politica che prende di mira deliberatamente i mezzi di comunicazione ed i giornalisti palestinesi che lavorano con coraggio per rappresentare la narrazione umana palestinese e che informano sull’ occupazione militare israeliana e le sue permanenti politiche di apartheid e di pulizia etnica,” ha detto.

Queste politiche israeliane di violenza e repressione, come anche i recenti attacchi contro esponenti della stampa palestinese all’interno e intorno a Gerusalemme est occupata, sono un palese tentativo di spezzare la tenacia del popolo palestinese.”

Ha invitato la comunità internazionale ad agire immediatamente per “frenare la continua violazione da parte di Israele delle leggi e delle convenzioni internazionali e per sostenere i nostri sforzi nonviolenti e diplomatici per chiedere giustizia e protezione per il popolo palestinese in tutte le sedi giuridiche internazionali.”

Anche il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) domenica ha rilasciato una dichiarazione in risposta al raid contro PalMedia ed a ciò che ha definito un palese incremento degli attacchi contro giornalisti “che svolgono il proprio lavoro informando circa i sit-in pacifici organizzati da abitanti di Gerusalemme.”

La grande quantità di violenti attacchi indiscriminati contro media e giornalisti conferma la persistenza delle violazioni e dell’aggressione dell’occupazione israeliana alle libertà dei mezzi di comunicazione con diversi mezzi violenti”, ha dichiarato l’ONG con sede a Ramallah.

Mada considera questi incidenti come mezzi per impedire che si diffonda al resto del mondo la vera immagine di ciò che sta avvenendo sul terreno e le politiche messe in atto contro i palestinesi, ed inoltre insiste sull’urgente necessità di perseguire i responsabili di tali attacchi, che sono tuttora impuniti.”

Mada ha affermato che, nelle ultime due settimane, ha osservato decine di violazioni commesse dalle forze israeliane nei confronti di giornalisti a Gerusalemme.

Questi attacchi erano di diverso tipo, ma comprendevano arresti, pestaggi, minacce, confisca e distruzione di attrezzature, impedimento di trasmettere gli avvenimenti, interrogatori ed il fatto di prendere di mira giornalisti con pallottole vere e lacrimogeni.”

Il 22 luglio la corrispondente televisiva di Ma’an Mirma al-Atrash è stata colpita da un candelotto di gas lacrimogeno e lievemente ferita al viso durante una protesta nella città di Betlemme, in Cisgiordania.

Mada ha sottolineato il violento arresto, filmato, del fotogiornalista Fayez Abu Rmeila durante una protesta il 25 luglio, aggiungendo che egli è stato sottoposto a due interrogatori dopo che è stato spinto e picchiato da un poliziotto che gli ha anche confiscato la carta di identità e la memory card.

Abu Rmeila ha detto a Mada che “a causa di una disputa insorta tra me ed il poliziotto, lui mi ha aggredito e minacciato di spaccarmi la testa se avessi parlato in malo modo.” In seguito ha detto di essere stato nuovamente picchiato, insultato ed ingiuriato nel centro di detenzione.

Il rapporto di Mada elenca almeno altri 11 giornalisti, inviati di organi locali ed internazionali come la Reuters, aggrediti a Gerusalemme da poliziotti israeliani.

Anche l’Ong “Reporter Senza Frontiere” ha condannato gli ostacoli posti dalle forze israeliane alla copertura mediatica nel corso della crisi di Al-Aqsa, azione che era già stata ampiamente denunciata dal sindacato palestinese dei giornalisti, dal ministero dell’Informazione palestinese, dal “Comitato di Protezione dei Giornalisti” e da altri.

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa ha accusato le forze israeliane di fare uso di “intimidazione, divieto di accesso, violenza ed arresti per limitare o impedire la copertura mediatica delle manifestazioni e degli scontri scatenati dall’introduzione di ulteriori misure di sicurezza intorno alla Moschea di Al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme.”

In seguito ad un precedente raid contro l’ufficio di PalMedia tre anni fa, “Reporter Senza Frontiere” ha affermato che il raid “si è aggiunto al lungo elenco di violazioni dei diritti dei mezzi di informazione palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane, attraverso continue minacce, arresti ed operazioni militari.”

Israele è stato accusato di etichettare qualunque mezzo di informazione critico nei confronti di Israele e delle sue politiche nelle comunità palestinesi come “istigazione”, allo scopo di reprimere le critiche alle politiche discriminatorie di Israele, alla sua perdurante occupazione della Cisgiordania giunta al suo cinquantesimo anno e al suo decennale assedio della Striscia di Gaza, che ha precipitato quel territorio in una interminabile crisi umanitaria.

Nel bel mezzo delle proteste a Gerusalemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anche accusato la rete televisiva satellitare Al Jazeera, con sede in Qatar, di aver “incitato deliberatamente alla violenza” ad Al-Aqsa attraverso la sua informazione sugli eventi, ed ha chiesto che gli organi competenti israeliani chiudano i suoi uffici in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)