Testo integrale della risoluzione UNESCO sulla Palestina occupata

Traduzione da http://www.globalist.it/world/articolo/207146/unesco-ecco-il-testo-integrale-della-risoluzione-quot-palestina-occupata-quot.html [con alcune modifiche e correzione dei refusi da parte dei redattori di Zeitun].

Testo originale : http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002462/246215e.pdf

Di seguito il testo della risoluzione “Palestina Occupata”, approvata dalla commissione dell’Unesco con 24 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astensioni

Voti a favore: Algeria, Bangladesh, Brasile, Chad, Cina, Repubblica Domenicana, Egitto, Iran, Libano, Malesia, Marocco, Mauritius, Messico, Mozambico, Nicaragua, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Sud Africa, Sudan e Vietnam.

Voti contrari: Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.

Astenuti: Albania, Argentina, Cameron, El Salvador, Francia, Ghana, Grecia, Guinea, Haiti, India, Italia, Costa d’Avorio, Giappone, Kenya, Nepal, Paraguay, Saint Vincent e Nevis, Slovenia, Korea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Togo, Trinidad e Tobago, Uganda e Ucraina.

Assenti: Serbia e Turkmenistan.

Comitato Esecutivo

Sessione n. 200

Commissione programma e relazioni esterne (PX)

Oggetto 25: PALESTINA OCCUPATA

Discussione

Proposta da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

IA Gerusalemme

Il comitato esecutivo,

  1. 1. Avendo esaminato il documento 200EX/25,

  1. 2. Richiamandosi alle quattro disposizioni della convenzione di Ginevra (1949) ed ai relativi protocolli (1977), alle regolamentazioni del Tribunale dell’Aia in territori di guerra, alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954) ed ai relativi protocolli, alla Convenzione sui mezzi per proibire ed impedire l’importazione, l’esportazione ed il trasferimento illegale di beni culturali (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura tra i siti Patrimonio Culturale dell’Umanità (1972) e tra i siti del Patrimonio a Rischio (1982), oltre che alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale, così come alle risoluzioni e decisioni dell’UNESCO in riferimento a Gerusalemme, richiamandosi anche alle precedenti risoluzioni UNESCO in materia di ricostruzione e sviluppo di Gaza ed alle risoluzioni UNESCO relative ai siti palestinesi di Al-Kahlil/Hebron e Betlemme,

  1. 3, Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme,

  1. 4, Condanna fermamente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO riguardanti Gerusalemme, in particolare il punto 185 EX/Ris. 14, sottolineando come non sia stata rispettata la propria richiesta al Direttore Generale di nominare, il prima possibile, un rappresentate permanente di stanza a Gerusalemme Est per riferire regolarmente quanto riguarda ogni aspetto di competenza UNESCO, né lo siano state le reiterate richieste successive in tal senso;

  1. 5. Condanna fortemente il mancato rispetto da parte di Israele, potenza occupante, della cessazione dei continui scavi e lavori a Gerusalemme Est ed in particolare all’interno e nei dintorni della Città Vecchia, e rinnova la richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutti questi lavori in base ai propri obblighi disposti da precedenti convenzioni e risoluzioni UNESCO;

  1. 6. Ringrazia il Direttore Generale per gli sforzi compiuti nel cercare di rendere effettive le precedenti risoluzioni UNESCO per Gerusalemme e nel cercare di mantenere e rinnovare tali sforzi;

IB Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif e dintorni

IB1 Al-Aqsa Mosque/Al-Ḥaram Al-Sharif

  1. 7. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di ripristinare lo status quo precedente al settembre 2000, in base al quale il dipartimento giordano “Awqaf ” (Fondazione religiosa) esercitava senza impedimenti autorità esclusiva sulla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif ed il cui mandato si estendeva a tutte le questioni riguardanti l’amministrazione della moschea Al- Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, inclusi il mantenimento, il restauro e la regolamentazione degli accessi;

  1. 8. Condanna fortemente le sempre maggiori aggresioni israeliane e le misure illegali nei confronti dell’ Awqaf e del suo personale, e nei confronti della libertà di culto e dell’accesso dei musulmani alla loro moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status quo storico e di porre fine immediatamente a dette misure;

  1. 9. Deplora fermamente le continue irruzioni di estremisti israeliani di destra e delle forze armate alla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a mettere in atto le misure necessarie a prevenire violazioni provocatorie che non rispettino la santità e l’integrità della Moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif;

  1. 10. Denuncia fermamente le continue aggressioni israeliane nei confronti dei civili, tra cui figure religiose e sacerdoti islamici, denuncia l’ingresso con la forza nelle varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif da parte di funzionari israeliani, compresi quelli delle cosiddette “Antichità Israeliane” [IAA, l’autorità israeliana delle antichità, che dipende dal ministero della Cultura. Ndtr], l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di guardie dell’Awqaf, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a queste aggressioni ed agli abusi che alimentano le tensioni sul terreno e tra le religioni;

  1. 11. Disapprova le limitazioni imposte da Israele all’accesso alla Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’Eid Al-Adha del 2015 e le conseguenti violenze, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di cessare ogni sorta di abusi contro la Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 12. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO incaricati del progetto UNESCO presso il “Centro per i Manoscritti Islamici” di Al-Aqsa /Al-Ḥaram Al-Sharif, e chiede ad Israele di concedere il visto agli esperti UNESCO senza alcuna restrizione;

  1. 13. Condanna i danni provocati dalle forze di sicurezza israeliane, specialmente a partire dall’agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e a tale proposito riafferma l’obbligo da parte di Israele di rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio culturale della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, come stabilito dallo status quo tradizionale, in quanto sito islamico di preghiera e parte del patrimonio culturale mondiale;

  1. 14. Esprime la propria profonda preoccupazione per il blocco israeliano ed il divieto di ristrutturare l’edificio della porta di “Al-Rahma”, una delle porte della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a riaprire tale porta e porre fine agli ostacoli posti per la realizzazione dei necessari lavori di restauro, per poter riparare i danni apportati dalle condizioni meteorologiche, specialmente dalle infiltrazioni d’acqua all’interno delle stanze dell’edificio.

  1. 15. Chiede inoltre ad Israele, la potenza occupante, di consentire la messa in opera immediata di tutti i 18 progetti hashemiti [del re di Giordania. Ndtr.] di ristrutturazione di Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 16. Deplora la decisione israeliana di costruire una funivia a doppio cavo a Gerusalemme Est ed il cosiddetto progetto “Liba House” nella Città Vecchia, cosi come la costruzione del cosiddetto “Kedem Center”, un centro per visitatori nei pressi del lato sud della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, la costruzione dell’edificio “Strauss” ed il progetto di un ascensore nella Piazza Al-Buraq “Plaza del Muro occidentale”, e invita Israele, la potenza occupante, a rinunciare ai progetti sopra citati e a fermare i lavori in conformità con i propri obblighi in base alle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO;

IB2 La salita alla scalinata “Mughrabi” nella moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif

  1. 17. Ribadisce che la scalinata “Mughrabi” è parte integrante ed inseparabile del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;

  1. 18. Prende atto del sedicesimo verbale di monitoraggio e di tutti i verbali precedenti, insieme alle relative aggiunte preparate dal World Heritage Center, e dei verbali sullo stato di conservazione inoltrati al World Heritage Center dal regno di Giordania e dallo Stato di Palestina;

1. 19. Deplora le continue misure e decisioni unilaterali da parte israeliana in merito alla scalinata, inclusi gli ultimi lavori realizzati alla porta “Mughrabi” nel febbraio 2015, l’installazione di una copertura all’entrata e la creazione di una tribuna di preghiera ebraica a sud della scalinata nella piazza “Al-Buraq, o “piazza del Muro occidentale”, e la rimozione dei resti islamici del sito, e riafferma che nessuna misura unilaterale israeliana dovrà essere presa, conformemente al proprio status e agli obblighi derivanti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati.

  1. 20. Esprime inoltre la propria forte preoccupazione riguardo alla demolizione illegale di resti omayyadi, ottomani e mamelucchi, così come per altri lavori e scavi intrusivi attorno al percorso della porta “Mughrabi” e inoltre chiede ad Israele, la potenza occupante, di fermare tali demolizioni, scavi e lavori e di attenersi ai propri obblighi in base alle disposizioni dell’UNESCO menzionate nel paragrafo precedente;

  1. 21. Rinnova i propri ringraziamenti alla Giordania per la sua cooperazione e sollecita Israele, la potenza occupante, a cooperare con il servizio giordano dell'”Awqaf”, in conformità con gli obblighi imposti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati, e di agevolare l’accesso al sito da parte degli esperti giordani con i propri strumenti e materiali per permettere l’esecuzione del progetto giordano per la scalinata della porta “Mughrabi” in base alle disposizioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale”, in particolare del 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4 and 39 COM/7A.27;

  1. 22. Ringrazia il direttore generale per l’attenzione riservata alla delicata situazione in oggetto, e le chiede di intraprendere le adeguate misure per permettere la messa in pratica del progetto giordano;

IC Missione di monitoraggio attivo dell’UNESCO nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura ed incontro degli esperti UNESCO in merito alla scalinata “Mughrabi” 

  1. 23. Sottolinea ancora una volta l’urgenza della messa in pratica della missione di monitoraggio attivo nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

  1. 24. A questo proposito ricorda la disposizione 196 EX/Dec. 26 che ha deciso, in caso di mancata realizzazione, di prendere in considerazione altri mezzi per garantirne la messa in pratica in conformità con le leggi internazionali;

  1. 25. Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha rispettato nessuna delle 12 risoluzioni del comitato esecutivo né le 6 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , che richiedono la realizzazione della missione di monitoraggio nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura.

  1. 26. Segnala il continuo rifiuto da parte di Israele di agire in accordo con le decisioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” che chiedono un incontro con gli esperti UNESCO in merito alla missione di monitoraggio della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;

  1. 27. Invita il Direttore Generale ad intraprendere le misure necessarie per mettere in pratica il succitato monitoraggio in base alla disposizione 34 COM/7A.20 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , prima della prossima riunione del comitato esecutivo, ed invita tutte le parti in causa ad adoperarsi per agevolare la missione e l’incontro con gli esperti;

  1. 28. Chiede che il verbale e le raccomandazioni evidenziate dalla missione di monitoraggio ed il verbale dell’incontro tecnico riguardante la scalintata “Mughrabi” siano presentati a tutte le parti coinvolte;

  1. 29. Ringrazia il direttore generale per i continui sforzi a sostegno della succitata missione di monitoraggio congiunto dell’UNESCO e delle decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito;

II RICOSTRUZIONE E SVILUPPO DI GAZA

  1. 30. Condanna gli scontri militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili da essi provocati, compresi l’uccisione ed il ferimento di migliaia di civili palestinesi, tra cui bambini, ed il continuo impatto negativo nel campo di competenza dell’ UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altri edifici culturali ed educativi, incluse le trasgressioni all’inviolabilità delle scuole dell’ “United Nations Relief” [UNRRA, organizzazione ONU per il soccorso alle popolazioni vittime di conflitti. Ndtr.] e della “Works Agency for Palestine Refugees” in Medio Oriente (UNRWA) [organizzazione dell’ONU che si occupa dei profughi palestinesi. Ndtr.];

  1. 31. Condanna fortemente il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che condiziona pesantemente il libero flusso di personale e degli aiuti umanitari, così come l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle scuole e ad altri edifici educativi e culturali, e la negazione del diritto all’istruzione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre immediatamente fine al blocco;

  1. 32. Rinnova la richiesta al direttore generale di ripristinare, il prima possibile, la presenza dell’UNESCO a Gaza per poter assicurare la rapida ricostruzione di scuole, università, siti culturali, istituzioni, centri di comunicazione e luoghi di culto che sono stati distrutti o danneggiati nelle successive guerre contro Gaza;

  1. 33. Ringrazia il direttore generale per l’incontro informativo tenutosi nel marzo 2015 sull’attuale situazione a Gaza riguardo alle competenze dell’UNESCO e per il risultato dei progetti condotti dall’UNESCO nella Striscia di Gaza-Palestina, e la invita ad organizzare, al più presto, un nuovo incontro informativo sulle stesse questioni;

  1. 34. Ringrazia inoltre il direttore generale per le iniziative che sono già state portate avanti a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura, dei giovani e per la sicurezza dei reporter, ed auspica che continui il coinvolgimento attivo nella ricostruzione dei siti culturali ed educativi di Gaza;

III I DUE SITI PALESTINESI DI AL-ḤARAM AL IBRĀHĪMĪ/TOMBA DEI PATRIARCHI AD AL-KHALĪL/HEBRON E DELLA MOSCHEA BILĀL IBN RABĀḤ /TOMBA DI RACHELE A BETLEMME

  1. 35. Riafferma che i due siti in oggetto, situati ad Al-Khalil/Hebron ed a Betlemme sono parte integrante della Palestina;

  1. 36. Condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i due siti sono importanti dal punto di vista religioso per ebraismo, cristianesimo e islam;

  1. 37. Disapprova fortemente l’attuale prosecuzione di scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni da parte di Israele e di un muro di separazione all’interno della  città vecchia di Al-Khalil/Hebron, che danneggia l’integrità del sito, e condanna il conseguente impedimento alla liberta di movimento e di accesso a luoghi di preghiera. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tali violazioni in base alle disposizioni delle importanti convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO.

  1. 38. Deplora profondamente il nuovo ciclo di violenza, iniziato nell’ottobre 2015, nel contesto di una costante aggressione da parte dei coloni israeliani e di altri gruppi estremisti verso i residenti palestinesi, inclusi studenti, e chiede ad Israele di impedire tali aggressioni;

  1. 39. Denuncia l’impatto visivo del muro di separazione nel sito della Moschea Bilal Ibn Rabaḥ Mosque/Tomba di Rachele a Betlemme, così come l’assoluto divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede alle autorità israeliane di riportare il paesaggio all’aspetto originale e rimuovere il divieto di accesso;

  1. 40. Condanna decisamente il rifiuto da parte di Israele di dare compimento alla disposizione 185 EX/Dec. 15, che impone ad Israele di rimuovere i due siti palestinesi dal proprio patrimonio nazionale e chiede alle autorità israeliane di agire in base a tale decisione;

IV

  1. 41. Decide di includere questi argomenti di discussione sotto il titolo di “Palestina Occupata” nell’agenda della 201° sessione, ed invita il direttore generale a sottoporre ad essa un rapporto aggiornato sulla situazione a riguardo.




L’ “israelizzazione” di Gerusalemme non ha funzionato

L’ “israelizzazione” di Gerusalemme è un progetto che non ha funzionato. L’ultimo attacco lo testimonia.

Meron Rapoport

Middle East Eye – martedì 11 ottobre.

 

Israele sostiene di aver convinto i palestinesi di Gerusalemme a preferire il suo dominio. L’attacco di domenica, ampiamente appoggiato dalla maggior parte dei palestinesi, dimostra il contrario.

Via Haim Bar Lev, la strada a più corsie meglio nota come “Strada n. 1”, collega la città vecchia di Gerusalemme ai suoi quartieri settentrionali. Corre per lo più parallela al confine precedente al 1967, prima che Israele occupasse ed annettesse le zone palestinesi della città, allora sotto controllo giordano.

Costruita 20 anni fa, è stata parte dei tentativi di integrare il centro di Gerusalemme con i nuovi quartieri ebraici costruiti sulla “Linea Verde” [il confine tra Israele e Giordania precedente al 1967. Ndtr.], con lo scopo di circondare i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord e consolidare l’idea di una Grande Gerusalemme sotto il perenne dominio ebraico-israeliano.

La metropolitana leggera, costruita un decennio fa, era stata pensata come un altro tentativo di “unificare” Gerusalemme, mettendo in collegamento gli estesi quartieri annessi, in cui vivono circa 100.000 israeliani, al cuore della città, passando attraverso i quartieri densamente abitati dai palestinesi. Il percorso della metropolitana leggera corre lungo la “Strada n.1”, associando i vecchi tentativi di “unificazione” con quelli nuovi.

Progetto fallito

Cosa abbastanza interessante, Misbah Abu Sbeih, un attivista islamista del quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, ha iniziato il suo attacco a mano armata di domenica in una stazione della metropolitana leggera situato sulla “Strada n.1”, uccidendo un’ebrea sessantenne e, in seguito, un ufficiale di polizia israeliano.

Non era la prima volta che sia la metropolitana leggera che la “Strada n.1” sono state il bersaglio di attacchi palestinesi. Dopo il brutale assassinio del giovane Muhammed Abu Khdeir [bruciato vivo dai suoi rapitori. Ndtr.] da parte di estremisti ebrei due anni fa, i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord sono esplosi con rabbia.

Molte delle azioni violente dell’attuale haba (“sfogo” in arabo) o “Intifada dei coltelli” palestinese, iniziata esattamente un anno fa a Gerusalemme, hanno avuto luogo in vari punti lungo la “Strada n.1”. I veri e propri simboli dei tentativi di unificare e “israelizzare” Gerusalemme sono diventati i luoghi caldi della violenza e della morte.

Nonostante la sua pretesa di rappresentare Gerusalemme, con le zone annesse, come una città unificata, per molti anni Israele ha ignorato Gerusalemme est, forse nella speranza che i suoi abitanti avrebbero preferito emigrare, rafforzando così il controllo di Israele su quelle aree. Ciò è stato molto evidente nelle restrizioni sulle costruzioni palestinesi in città. Almeno un terzo delle unità immobiliari di Gerusalemme est sono state costruite senza permessi.

Pur rappresentando circa il 40% degli 830.000 abitanti della città, i quartieri palestinesi ricevono solo il 10% del bilancio municipale, a volte anche meno, determinando il più alto livello di povertà in Israele, un impressionante 75.3% di popolazione sotto il livello di povertà a Gerusalemme est.

L’attuale sindaco, Nir Barkat, eletto otto anni fa, ha apparentemente tentato di cambiare questa situazione. Barkat, strenuo oppositore di ogni concessione politica ai palestinesi di Gerusalemme, ha sostenuto che solo migliorando le condizioni di vita nei quartieri palestinesi Israele avrebbe potuto affermare la propria sovranità indiscutibile sulla città.

Durante il mandato di Barkat gli investimenti a Gerusalemme est sono aumentati e la stampa israeliana si è riempita di articoli sul processo di “israelizzazione” attraverso il quale molti palestinesi gerosolimitani sono stati formati e poi assunti.

Una ricerca condotta dal “Washington Institute” [centro studi statunitense sulla politica in Medio Oriente. Ndtr.] nel 2011 – che ha rilevato che il 40% dei palestinesi di Gerusalemme avrebbe preferito la cittadinanza israeliana piuttosto che quella palestinese – è stata vista come una prova che questo processo di “israelizzazione” era in corso. Un recente sondaggio ha dato persino un dato più alto, il 52%, che sceglierebbe di essere israeliano se Gerusalemme fosse divisa tra Israele e un futuro Stato palestinese.

Gerusalemme instabile

Che i sondaggi siano giusti o sbagliati, è assolutamente evidente che questo presunto processo di “israelizzazione” è stato molto limitato. Come ha dimostrato Aviv Tartasky, un ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani “Ir Amim” a Gerusalemme, le autorità israeliane non sono realmente pronte a “pagare il prezzo” di un vero e significativo coinvolgimento dei palestinesi nella vita cittadina di Gerusalemme.

Ogni tentativo dei palestinesi di chiedere pari diritti, persino legittimando implicitamente la sovranità israeliana in questa città contesa, è stato liquidato o persino umiliato.

Nonostante questo presunto processo di “israelizzazione”, o forse a causa di ciò, Gerusalemme è il luogo più instabile di tutte le zone palestinesi. Nel luglio 2014 Shu’afat e altri quartieri di Gerusalemme nord hanno iniziato la loro mini-intifada dopo l’uccisione del giovane Abu Khdeir.

Nell’ottobre 2015 un accoltellamento nella Città Vecchia è stato il segnale d’inizio dell'”Intifada dei coltelli”, che continua tuttora a fasi alterne. Proprio il luogo che Israele voleva “israelizzare” è diventato la culla dell’attuale ondata di violenza.

Questa è stata di nuovo una sorpresa per le autorità israeliane. Solo un mese fa, Barkat si è vantato con attivisti del Likud [il suo partito, di destra e al governo nazionale. Ndtr.] che Israele era riuscito a ripristinare la tranquillità a Gerusalemme est grazie alla sua politica ” del bastone e della carota”, riferendosi alla chiusura e ad altre punizioni collettive inflitte ai quartieri palestinesi dopo la prima ondata di accoltellamenti.

“Gli abitanti cattivi ora capiscono..che non conviene stare dalla parte del male,” ha detto, secondo quanto citato da Haaretz.

Il suo vice, Meir Turgeman, che è anche a capo della commissione edilizia locale, è stato ancora più esplicito: “Abbiamo sempre vissuto con la falsa speranza che se avessimo aiutato questo popolo (i palestinesi), esso avrebbe cambiato il suo comportamento animalesco,” ha detto Turgeman dopo gli omicidi di domenica, “ora risulta che non è servito.”

Come risposta all’aggressione, Turgeman ha anche annunciato che bloccherà ogni permesso di costruzione per i palestinesi.

Sogni rinviati

Ohad Hemo, corrispondente di “Canale 2″ [televisione privata. Ndtr.] israeliano, ha sostenuto che l’ascesa di Hamas e di altri gruppi islamisti a Gerusalemme è, in buona misura, prodotta da Israele. Secondo Hemo, il fatto che Israele abbia espulso l’Autorità Nazionale Palestinese da Gerusalemme est, un processo che è iniziato con la chiusura dell'”Orient House” [sede dell’OLP a Gerusalemme. Ndtr.] nel 2001, ha determinato un vuoto in cui Hamas si è infiltrato.

Abu Sbieh, l’aggressore di domenica, era attivo in varie organizzazioni islamiste. Era noto in tutta Gerusalemme est come il “leone di Al-Aqsa”, per la sua partecipazione in vari incidenti con poliziotti israeliani e attivisti di destra ebrei all’interno ed attorno a quello che i musulmani chiamano ” Haram a-Sharif” [la Spianata delle Moschee. Ndtr.] e che gli ebrei chiamano “Il Monte del Tempio”.

L’identificazione come difensore di Al-Aqsa contro i tentativi israeliani di modificare lo status del luogo sacro ad entrambi – sicuramente la questione più delicata per i palestinesi a Gerusalemme ed altrove – spiega l’ampio appoggio che l’azione di Abu Sbieh ha ricevuto a Gerusalemme est. Se c’è stato sconcerto tra l’opinione pubblica palestinese riguardo al coinvolgimento di palestinesi molto giovani, a volte persino bambini di 12 anni, in episodi di accoltellamento, questo non è il caso di Abu Sbieh.

Abu Sbieh. 39 anni, è lontano dal profilo medio dei palestinesi che hanno partecipato agli attacchi, reali o presunti, contro forze di sicurezza o civili israeliani. Il fatto che abbia usato un fucile automatico F16 può indicare che non si sia trattato solo di un altro attacco improvvisato e spontaneo. E’ più simile a quelli della Seconda Intifada che a quello cui abbiamo assistito lo scorso anno.

E’ troppo presto per dire se l’incidente di domenica segnerà davvero un punto di svolta verso uno scontro più violento tra israeliani e palestinesi. Persistono illazioni sui suoi reali motivi.

Ma ancora una volta Gerusalemme ha dimostrato che, soggetta all’attuale politica israeliana, ci sono molte più probabilità che possa diventare teatro di violenze, minacciando si espandersi in altri territori palestinesi, piuttosto che un laboratorio di “israelizzazione” forzata.

Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 20 settembre- 3 ottobre

Il 25 settembre, in una prigione israeliana, dopo 13 anni di detenzione è morto un detenuto palestinese di 40 anni, originario del villaggio di Ya’bad (Jenin). Secondo fonti ufficiali palestinesi, la morte sarebbe da attribuire al peggioramento dello stato di salute ed alla mancanza di cure mediche;

tale versione viene contestata dalle autorità israeliane. Il 29 settembre, a Beit Hanoun (Striscia di Gaza), un trentenne componente di un gruppo armato palestinese è morto e altri tre sono rimasti feriti, secondo quanto riferito, in conseguenza di un incidente verificatosi in una galleria sotterranea. Il 27 settembre, nella città di Nablus, nel corso di una operazione di ricerca-arresto, le forze di sicurezza palestinesi hanno ucciso un palestinese e ne hanno ferito altri tre.

Il 30 settembre, al checkpoint di Qalandia, a nord di Gerusalemme, un palestinese ha aggredito con un coltello le forze israeliane, ferendo un soldato. L’autore (28 anni), proveniente dalla città di Kafr ‘Aqab (Gerusalemme), è stato ucciso nel corso dell’episodio. Nelle due settimane di riferimento sono stati registrati altri tre presunti attacchi palestinesi contro israeliani: un 16enne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, ad un posto di blocco volante all’entrata del villaggio di Bani Na’im (Hebron), dopo un presunto tentativo di accoltellamento di un soldato israeliano; altri due ragazzi palestinesi (14 e 15 anni) sono stati feriti, uno al checkpoint di Jaljoulia (Qalqiliya) e l’altro presso l’insediamento colonico di Kiryat Arba (Hebron), secondo quanto riferito, dopo aver tentato di compiere aggressioni con il coltello. In entrambi i casi non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 75 palestinesi, soprattutto durante scontri tra palestinesi e forze israeliane. Due soldati israeliani, a quanto riferito, sono stati feriti da una bottiglia incendiaria durante scontri nel campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). Inoltre, in un episodio verificatosi nei pressi della Scuola Al Khalil, nella zona H2 di Hebron controllata da Israele, 40 studenti hanno inalato gas lacrimogeno, subendo lesioni che hanno richiesto l’intervento medico.

Nella Striscia di Gaza, durante scontri con lancio di pietre da parte palestinese, le forze israeliane hanno ferito con armi da fuoco dieci civili palestinesi; gli scontri erano scoppiati nei pressi della recinzione perimetrale tra Israele e Gaza, nel corso di quattro diverse proteste. Inoltre, in almeno 28 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso persone presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno condotto quasi 200 operazioni di ricerca ed hanno arrestato circa 300 palestinesi, tra cui 18 minori; alcune delle operazioni hanno innescato scontri violenti. Nei governatorati di Betlemme, Hebron e Gerusalemme sono stati registrati i più alti numeri di operazioni e di arresti. A Gerusalemme, la polizia israeliana ha emanato ordini di interdizione all’ingresso nel Complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio per 19 palestinesi: sei mesi per cinque di loro, due settimane per i rimanenti.

Il 22 settembre, al checkpoint di Gilbert, nella città di Hebron, le forze israeliane hanno impedito a 23 studentesse di attraversare per recarsi a scuola. Inoltre, dopo una presunta aggressione con coltello vicino al checkpoint, le forze israeliane hanno dichiarato l’area “zona militare chiusa” e, per dieci giorni, hanno negato a due famiglie l’accesso alle loro case. Le forze israeliane hanno anche chiuso gli ingressi principali di sette villaggi ed impedito l’accesso veicolare alla strada 60 a più di 40.000 persone, soprattutto nel tratto compreso tra i checkpoint di Huwwara e di Za’atara (Nablus).

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 46 strutture, 16 delle quali erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni; fra esse un’aula scolastica e un parco giochi nella comunità beduina di Abu Nuwar (governatorato di Gerusalemme). Le demolizioni hanno comportato lo sfollamento di 56 palestinesi, tra cui 25 minori, mentre altre 185 persone sono state coinvolte in modi diversi. Due terzi di queste strutture sono state demolite tra il 26 e il 28 settembre presso nove comunità palestinesi. L’episodio più grave si è verificato a Khirbet Tell el Himma (Tubas), mentre 10 delle 16 demolizioni hanno avuto luogo nel governatorato di Gerusalemme.

Il 23, 29 e 30 settembre, 14 famiglie palestinesi (73 persone, tra cui 30 minori) della comunità Humsa al Bqai’a nella Valle del Giordano settentrionale (Tubas) sono state evacuate dalle loro case per cinque ore al giorno, per dare spazio ad esercitazioni militari israeliane. L’Amministrazione Civile israeliana aveva consegnato a queste famiglie gli ordini di evacuazione il 22 settembre.

In Al ‘Isawiya, zona di Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, l’Amministrazione Civile israeliana ha consegnato nove ordini di demolizione nei confronti di nove edifici, ponendo 40 famiglie palestinesi sotto minaccia di sfollamento. Altri dieci ordini di arresto lavori sono stati emessi a Khirbet ad Deir (Betlemme), Khallet Al Hajar (Hebron), e nei villaggi di Al Funduq e Jinsafut, entrambi in Qalqiliya.

Sono stati registrati cinque presunti attacchi di coloni israeliani che hanno provocato danni a proprietà palestinesi. In particolare: ulivi palestinesi nei villaggi di As Sawiya e Yatma (Nablus); altri 20 ulivi in Jinsafut (Qalqiliya); incendi di terreni coltivati nel villaggio di Yanun e di materiali da costruzione nel villaggio di Burin, entrambi in Nablus. Secondo i media israeliani, si sono verificati anche tre episodi di lancio di pietre da parte palestinese contro veicoli israeliani, con lievi danni alla metropolitana leggera di Gerusalemme e ad altri due veicoli: uno vicino al villaggio di Beit Liqya sulla strada 443, l’altro nei pressi della Barriera di sicurezza dell’insediamento colonico di Psagot, entrambi in Ramallah.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (21-23 settembre) in una sola direzione, secondo quanto riferito, principalmente per consentire il rientro a Gaza di 2.290 pellegrini. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 27.000 persone sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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Elor Azaria sta affrontando un processo Dreyfuss dei nostri giorni

di Odeh Bisharat

Haaretz – 26 settembre 2016

Perchè l’ex vice capo di stato maggiore Uzi Dayan non dichiara coraggiosamente solo che chiunque colpisca palestinesi è innocente?

Nel gennaio 1898, quattro anni dopo che Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese, fu condannato come spia a favore della Germania, lo scrittore Emile Zola scrisse una lettera aperta intitolata “J’accuse”. Nel testo Zola accusò il comando francese di aver falsificato i documenti per incriminare Dreyfus. Oggi stiamo assistendo a un processo simile. Il moderno Dreyfus è rappresentato dal soldato israeliano Elor Azaria, con l’ex- vice capo di stato maggiore Uzi Dayan che interpreta Zola.

L’Emile Zola originario attaccò l’esercito francese, mentre l’attuale sta attaccando i comandanti dell’esercito israeliano che hanno osato mettere sotto processo un soldato ebreo. Il primo sosteneva che i documenti erano stati falsificati, mentre lo Zola attuale sta affermando che nel passato sono successe cose peggiori e “i soldati non sono mai stati processati”.

Ora, se a Gerusalemme ci fosse una qualche forma di giustizia, lo stesso Dayan dovrebbe essere processato. Dayan ha esplicitamente detto: “Ho avuto a che fare con un incidente ancora più grave, molto più grave, perché cinque palestinesi sono stati uccisi da paracadutisti all’incrocio di Tarqumiya..era gente che stava tornando dal lavoro in Israele..Ho detto: – ora formi una commissione di inchiesta per tre giorni…- i soldati non sono neanche stati processati.”

C’è un’affermazione più inequivocabile di questa? Dayan sta dichiarando che i soldati erano colpevoli di aver ucciso cinque palestinesi innocenti, e non ha fatto niente per perseguirli.

L’Emile Zola di oggi continua dicendo: “La presunzione di innocenza di Azaria è stata calpestata.” Queste cose sono state dette in un’udienza pubblica, con un imputato a cui è consentito di andare a casa sua, è difeso da una schiera di avvocati, con un primo ministro che simpatizza per lui e un ministro della Difesa che è ancora più solidale.

Pensandoci bene, Dayan ha ragione. Seriamente, perché non dare semplicemente al soldato una nota di merito?

In teoria il processo ad Azaria dovrebbe essere semplice. Un soldato è ripreso mentre spara a un aggressore palestinese ferito che non rappresenta una minaccia per lui né per chiunque altro. Eppure molti nella destra israeliana (non tutti, naturalmente) sono accorsi in sua difesa. Ci sono quelli che sostengono che forse c’è qualcosa di nascosto che non si può vedere a occhio nudo. Che c’erano altre cose che stavano succedendo e che la camera da presa non ha ripreso. (Forse il video era truccato. Vale la pena verificare).

Dopo tutto ciò ho evitato di mordere l’affascinante mela messa davanti a me. Forse non era affatto una mela. Forse l’ho creata io con il mio ego soggettivo. Ma con questa quantità di acrobazie della destra, il processo ad Azaria sarà studiato nelle facoltà di filosofia per esaminare se la sparatoria è davvero avvenuta o se esiste solo nell’ego soggettivo di ognuno di noi. Dopotutto, Immanuel Kant ha già stabilito che non possiamo distinguere tra le nostre percezioni di qualcosa e la cosa in sé. Spero solo che questa filosofia favorevole venga applicata anche ai prigionieri palestinesi.

Dayan ora è l’amministratore delegato della lotteria nazionale Mifal Hapayis, la seconda maggiore agenzia governativa responsabile della cultura in Israele dopo lo stesso ministero della Cultura e dello Sport. Sarebbe d’uopo che smettessimo di maltrattare la ministra della Cultura Miri Regev perché non conosce Checov, mentre il miglior figlio della cultura occidentale è orgoglioso di aver evitato il processo a soldati che hanno ucciso cinque arabi.

Durante il primo processo Dreyfuss l’ingiustizia gridava vendetta ai cieli, in quanto era stato tramato un complotto contro un ufficiale dell’esercito solo perché era ebreo. Il secondo processo Dreyfuss, tuttavia, sarà la notizia finale per la celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’occupazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Comitato: Oltre 1000 minori palestinesi detenuti da Israele nel 2016 fino ad ora

24 settembre 2016,

Maanews Agency

RAMALLAH (Ma’an) —

Sabato il Comitato Palestinese per le questioni dei prigionieri ha detto che oltre 1000 minori palestinesi sono stati imprigionati dalle forze israeliane dall’inizio dell’anno, registrando un incremento rispetto al 2015.

Il Comitato ha dichiarato che almeno 1000 minori palestinesi, di età compresa tra 11 e 18 anni, sono stati imprigionati da Israele dallo scorso gennaio, inclusi circa 70 bambini di Gerusalemme est occupata, che sono stati posti agli arresti domiciliari.

Un avvocato del Comitato, Hilba Masalha, ha citato parecchi casi in cui i minori palestinesi hanno subito abusi e torture durante la detenzione.

Uno dei ragazzi, il diciassettenne Nidal del quartiere Issawiya di Gerusalemme est, è stato arrestato in giugno e tenuto per 20 giorni nel famigerato “Russian compound” [stazione di polizia nell’omonimo quartiere, così chiamato perché ospita una grande chiesa ortodossa, ndt], prima di essere trasferito alla prigione di Megiddo. Secondo Masalha, Nidal ha riferito di essere stato sistematicamente picchiato brutalmente ed anche insultato, mentre si trovava nel “Russian compound”.

Ha citato in particolare un’occasione in cui una decina di guardie carcerarie lo hanno trascinato dalla sua cella in una stanza senza videocamere di sicurezza e lo hanno brutalmente picchiato per un’ora mentre era ammanettato. Una delle guardie, ha detto Nidal, ha preso un secchio dell’immondizia e glielo ha messo sulla testa, mentre il gruppo rideva e lo scherniva.

Pure Ahmad, un sedicenne anch’egli di Issawiya, arrestato in aprile, è stato portato nel “Russian compound”, dove gli hanno ordinato di stare in ginocchio a testa bassa per tre ore. Prima dell’ interrogatorio, un poliziotto ha tagliato con un coltello il cappio usato per ammanettare Ahmad, ferendolo.

Ahmad ha detto che il profondo taglio sulla sua mano non è stato curato durante l’interrogatorio di tre ore da parte di cinque inquirenti israeliani, che gli urlavano contro e lo hanno picchiato diverse volte anche sulla testa, sostenendo che si stava comportando in modo “irritante”.

Masalha ha anche citato il caso del diciassettenne Umran del distretto di Tulkarem in Cisgiordania, arrestato in maggio mentre camminava per strada. Umran sarebbe stato ripetutamente picchiato mentre era detenuto.

I soldati lo hanno portato da un posto all’altro dal pomeriggio alla sera dopo il suo arresto, lo hanno condotto fino al muro di separazione israeliano e là gli hanno scattato fotografie con in mano la sua carta d’identità, tra le risate. Infine al mattino Umran è stato portato in una struttura di sicurezza prima di essere trasferito in una prigione israeliana.

In agosto il Comitato Palestinese per le questioni dei prigionieri ha dichiarato che le forze israeliane avevano arrestato 560 ragazzi a Gerusalemme est occupata dall’inizio del 2016.

Secondo il Comitato le forze israeliane hanno imprigionato 30 ragazzi palestinesi nel mese di agosto, alcuni dei quali tredicenni, ed hanno incassato 65.000 shekels ( circa 15 dollari) di multa dalle loro famiglie, mentre la maggior parte dei detenuti ha detto di essere stato picchiato e torturato durante la detenzione e l’interrogatorio e di essere stati trasportati da un centro di detenzione all’altro.

Negli ultimi mesi le forze israeliane hanno operato un giro di vite nei confronti dei ragazzini a Gerusalemme est, dal momento che le comunità palestinesi nella città occupata hanno incominciato a risentire delle conseguenze della legislazione approvata tra il 2014 e il 2015, che aumenta le pene per chi lancia pietre, consentendo che siano loro comminate condanne a 20 anni nel caso sia provata l’intenzione di ferire, e fino a 10 anni in caso contrario.

L’associazione per i diritti ‘Defense for Children International-Palestina (DCIP)’ ha citato in un rapporto di luglio molti casi di minori palestinesi che hanno ricevuto condanne al carcere per periodi dai 12 ai 39 mesi, con fino a tre anni di libertà vigilata.

I diffusi arresti fanno luce sugli abusi ampiamente documentati di ragazzi palestinesi da parte delle forze israeliane e sulle dure prassi di interrogatorio utilizzate per estorcere confessioni, che sono da tempo oggetto di critica da parte della comunità internazionale.

Secondo il DCIP, i minori di Gerusalemme, benché in teoria abbiano maggiori diritti dei ragazzi palestinesi nella Cisgiordania occupata, che sono soggetti ad un draconiano sistema di detenzione militare, tuttavia “non godono dei diritti che gli spetterebbero” all’interno del sistema giudiziario civile israeliano.

Su 65 casi documentati dal DCIP nel 2015, “più di un terzo dei ragazzi di Gerusalemme è stato arrestato di notte (38,5%), la grande maggioranza (87,7%) è stata legata durante l’arresto e solo un’esigua minoranza di ragazzi (10,8%) ha potuto avere la presenza di un familiare o un avvocato durante l’interrogatorio.”

Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di responsabilizzazione del DCIP, è stato citato nel rapporto con queste parole: “Le modifiche del codice penale e delle linee guida politiche a partire dal 2014 sono discriminatorie e hanno come obbiettivo i palestinesi, specificamente i ragazzi. Israele è firmatario della Convenzione per i Diritti dell’Infanzia e facciamo appello perché rispetti le proprie responsabilità.”

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, gli interrogatori dei ragazzini palestinesi possono durare fino a 90 giorni, durante i quali, oltre ad essere picchiati e minacciati, sono spesso riportati casi di violenza sessuale e detenzione in isolamento per ottenere confessioni, mentre i verbali delle confessioni che sono costretti a firmare sono in ebraico – lingua che la maggior parte dei minori palestinesi non parla.

Secondo Addameer, fino ad agosto risultavano essere stati detenuti nelle prigioni israeliane 7000 palestinesi, 340 dei quali erano minori.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La “S” di BDS: Lezioni da trarre dalla campagna contro la Elbit Systems (III parte)

Da: Al-Shabaka

09 Settembre 2016

In questo editoriale politico di Al-Shbaka Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcuni sviluppi che il complesso militare industriale di Israele deve affrontare, con una particolare attenzione alla campagna contro Elbit Systems. L’editoriale analizza i momenti difficili che l’industria si trova di fronte, il mito della superiorità tecnologica di Israele, i cambiamenti locali e globali dell’industria e le alleanze emerse per opporsi alla militarizzazione ed alle tendenze sicuritarie nelle varie società. In base a questa analisi delineano indicazioni preziose ed identificano percorsi da seguire per il movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Fare causa comune contro la militarizzazione

L’appello per un totale embargo militare verso Israele non si basa soltanto sulla richiesta palestinese di porre termine all’impunità di Israele e alla complicità di tutto il mondo con il suo regime di apartheid. Fa anche parte di una lotta globale contro le guerre e la repressione e contro la militarizzazione e gestione sicuritaria della società. C’è una crescente consapevolezza delle modalità attraverso cui le esportazioni israeliane militari e “per la sicurezza interna” contribuiscono a queste prassi con nuove tecnologie e metodologie sviluppate nel processo di occupazione militare, apartheid e pulizia etnica del popolo palestinese. A loro volta, la militarizzazione e la gestione sicuritaria contribuiscono a sostenere l’industria militare israeliana e le politiche contro i palestinesi.

Parallelamente al crescente ruolo di Israele in questa militarizzazione, i movimenti in tutto il mondo stanno facendo causa comune con il movimento BDS contro la repressione e la discriminazione da parte delle forze militari e di polizia. La campagna contro la compagnia israeliana “di sicurezza interna” International Security and Defense Systems (ISDS) ne è un importante esempio. La ISDS è stata fondata nel 1982 da ex-agenti del Mossad. Giornalisti di inchiesta e ex-membri di giunte militari riferiscono che ISDS ha addestrato gli squadroni della morte in Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua ed ha preso parte a golpe e a tentativi di colpo di stato in Honduras e Venezuela.

Attualmente ISDS addestra la famigerata forza di polizia militare BOPE a Rio de Janeiro, ammettendo con orgoglio che la polizia nelle favelas utilizza le stesse tecniche che Israele usa a Gaza. ISDS ha anche ottenuto un contratto che le ha fatto molta pubblicità con i Giochi Olimpici di Rio del 2016. Movimenti palestinesi come Stop the Wall (Fermare il Muro, ndt) e il Comitato Nazionale del BDS (BNC) hanno unito le loro forze a quelle dei movimenti popolari di Rio che lavorano per i diritti umani nelle favelas, in una campagna denominata “Giochi Olimpici senza apartheid”, per ottenere la cancellazione del contratto.

Analoghi rapporti sono stati instaurati tra il movimento di solidarietà palestinese e gli attivisti neri negli USA, che nel 2015 hanno emesso una dichiarazione di solidarietà sostenuta da oltre 1000 attivisti ed intellettuali neri, che afferma che “l’uso massiccio da parte di Israele della detenzione e dell’arresto dei palestinesi evoca l’incarcerazione di massa del popolo nero negli USA, inclusa la detenzione politica dei nostri rivoluzionari” e fa appello alla lotta comune contro la compagnia di sicurezza G4S. Inoltre nell’agosto 2016 il movimento “Black Lives Matter” (la vita dei neri è importante, ndt) ha appoggiato il movimento BDS.

Il muro al confine tra USA e Messico è un altro luogo che vede la lotta comune tra attivisti della solidarietà palestinesi e il popolo indigeno colpito dalla messa in pratica delle metodologie e tecnologie israeliane nella loro terra, in cui la Elbit Systems ricopre un ruolo centrale.

La campagna nell’UE per sospendere i finanziamenti alla Elbit Systems e ad altre compagnie militari israeliane riguarda un maggiore coinvolgimento per ogni cittadino europeo. Con un budget di 80 miliardi di euro (circa 88 miliardi di dollari al tasso di cambio di fine 2015), l’attuale programma di finanziamento dell’UE per la ricerca e lo sviluppo Horizon 2020 è tra i maggiori progetti di finanziamento al mondo. Ridistribuisce il denaro dei contribuenti soprattutto a istituzioni aziendali ed accademiche che sviluppano ricerche al servizio di grandi business, compresa la cooperazione con le imprese militari israeliane. I progetti di ricerca con le imprese militari israeliane spesso sviluppano tecnologie a doppio uso (sia militare che civile) in aperta violazione delle norme dell’UE e contribuiscono alla militarizzazione ed alla deriva sicuritaria delle società europee. La maggioranza degli europei, se sapesse come è stato usato il suo denaro, probabilmente concorderebbe sul fatto che l’UE nuoce non solo ai palestinesi, ma anche ai suoi stessi cittadini spendendo denaro in guerre che creano nuovi rifugiati ed in tecnologie che controllano, discriminano per razza ed opprimono gli europei invece di andare incontro alle loro necessità.

Prendere di mira i punti deboli delle forze armate israeliane

La nota informativa ha cercato di fornire una panoramica del complesso militare industriale di Israele e di identificare delle possibilità d’azione che permettano di ridurre i profitti industriali e poi portino ad un embargo delle armi finché non vengano ottenuti i diritti dei palestinesi. Si tratta indubbiamente di un impegno importante: il complesso industriale militare comprende imprese potenti, propaganda e sistemi di promozione e vendita spudorati, impianti di difesa globale che spesso sono lontani dal discorso e dalla portata degli attivisti della solidarietà. Eppure non è solo un’esigenza etica per i paesi quella di interrompere le relazioni militari con Israele finché esso non rispetti il diritto internazionale; è anche una campagna che può essere vinta. Sicuramente, sulla base dell’esperienza fino ad ora e alla luce della precedente analisi, ci sono diverse possibilità da prendere in considerazione per gli attivisti.

Al livello più basilare, sono indispensabili l’educazione dell’opinione pubblica e la mobilitazione. La maggior parte delle persone comprende intuitivamente che i rispettivi governi non dovrebbero mantenere relazioni militari con una potenza di occupazione che sferra sistematici attacchi militari contro la Striscia di Gaza sotto assedio ed altri paesi vicini, così come compie incursioni, raid, demolizioni di case ed altre violazioni di diritti umani contro la Cisgiordania e Gerusalemme est occupate – soprattutto poiché questi atti non soltanto infrangono il loro codice morale, ma anche le leggi dei loro paesi e le leggi internazionali. Il numero dei difensori dei diritti umani che si impegnano nel boicottaggio e disinvestimento è in aumento; è solo questione di tempo perché il numero di coloro che spingono per le sanzioni, e soprattutto per le sanzioni militari, cresca fino a raggiungere una massa critica.

La solidarietà con la Palestina da parte di comunità anch’esse colpite dalla militarizzazione e messa in sicurezza ha una lunga storia, soprattutto in America Latina, dove Israele ed i suoi agenti privati per decenni hanno appoggiato ed addestrato gli squadroni della morte e le dittature. La consolidata collaborazione tra i neri americani, i latini e i popoli indigeni negli USA, a fronte della militarizzazione esponenziale delle metropoli europee, significa che una vasta ed organizzata rete di attivisti ha il potenziale per svilupparsi anche in occidente. Nel caso della UE, una pressione dell’opinione pubblica potrebbe essere utilizzata per sostenere le argomentazioni tecniche per contestare il finanziamento di Horizon 2020 alle forze armate israeliane – e ad altri enti – complici dell’occupazione.

Nelle loro campagne gli attivisti dovrebbero anche evidenziare che la tecnologia militare israeliana non è né così efficace né così scevra da problemi come pretende la propaganda. I gravi problemi con la produzione di droni israeliani e le questioni relative a Iron Dome (sistema di difesa antimissile, ndt) sono solo due esempi. Ancor più convincente è il fatto che Israele sta minando la capacità dei paesi di gestire la propria difesa, sottraendo loro la capacità industriale a favore di Israele ed usando i suoi sistemi di sicurezza per fare spionaggio nei confronti dei paesi clienti, con l’effettivo risultato della perdita della loro sovranità ed indipendenza nazionale.

La Elbit Systems, grande com’è, è particolarmente vulnerabile alle azioni degli attivisti.

E’ l’unica impresa militare privata israeliana di queste dimensioni ed è perciò più vulnerabile alle crisi, ai rischi di speculazione finanziaria e alla ristrutturazione economica. La Elbit Systems è gravemente indebitata ed ha bisogno di garantirsi un continuo flusso di liquidità per onorare il debito. La sua presenza sempre più globale rende più facile agli attivisti in diversi paesi attaccare la Elbit o le sue filiali. Inoltre anche la crescente dipendenza dell’industria militare dagli aiuti del bilancio statale israeliano la rende vulnerabile, accrescendo anche la vulnerabilità dello stato.

Gli attivisti dovrebbero anche trarre lezione dall’esperienza: Israele si mette sempre in grado di trarre vantaggio quando arrivano al potere nuovi governi o si implementano nuove politiche nazionali. Anche gli attivisti dovrebbero mettersi in grado di sviluppare programmi adeguati alla situazione del momento per affrontare i cambiamenti di governo. E’ la chiave per garantirsi, dove possibile, impegni o leggi da parte di governi amici contro il commercio militare con Israele o per trarre vantaggio da circostanze in cui governi ostili applicano politiche contrarie agli interessi di Israele. Fare leva sulle dinamiche interne in tali circostanze è un fattore essenziale di successo.

Se si vogliono attuare sanzioni militari contro Israele, la società civile palestinese e gli attivisti dovranno lavorare sodo per fare pressione sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché usino i loro contatti diplomatici e qualunque potere di persuasione di cui dispongano sia nei confronti di singoli stati che delle Nazioni Unite. In particolare, dovrebbero assicurarsi che OLP/ANP usino ogni mezzo possibile per impedire e contrastare il commercio di armi tra gli stati del Golfo ed Israele.

Non c’è modo di prevedere quando il vento cambierà. Ma le lotte popolari contro la repressione, la guerra e l’apartheid, rafforzate da una crescente percezione negativa del complesso industriale militare israeliano, potrebbero colpire al cuore un’industria che da un lato sostiene l’aggressione israeliana e dall’altro prospera grazie ad essa. Il mito della tecnologia militare israeliana si sta lentamente sgretolando e un’industria militare israeliana più privatizzata è altrettanto esposta ai rischi del mercato globale quanto lo sono altre imprese. L’appello per sanzioni militari può iniziare a far presa anche prima che i governi siano pronti ad attuare un embargo a pieno titolo.

Fonte: Ma’an News Agency

Al- Shabaka è un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è educare e rafforzare la discussione pubblica sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia




Israele legalizza alla chetichella gli avamposti pirata in Cisgiordania.

di ISABEL KERSHNER
The New York Times, 30 agosto 2016
Gli insediamenti illegali costellano la cima delle colline in Cisgiordania, ma i Palestinesi e le organizzazioni anti-insediamenti sostengono che la loro legalizzazione retroattiva è un sistematico tentativo di sovvertire la mappa della regione.ragazzi

Ragazzi fotografati questo mese nell’avamposto di Mitzpe Danny, nella Cisgiordania occupata. Mitzpe Danny fa parte di un’estesa rete di circa 100 avamposti creati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa. Uriel Sinai per il NYT.

MITZPE DANNY, Cisgiordania –  Una sera nell’autunno del 1998, un autoproclamatosi “imprenditore di avamposti” portò tre caravan sulla cima di un’aspra collina nella Cisgiordania occupata da Israele e fondò il suo primo insediamento pirata.
Dozzine di giovani sostenitori arrivarono per dar man forte all’imprenditore, Simon Riklin, che fu raggiunto pochi giorni dopo dalla moglie, un bambino e un neonato. Una seconda famiglia seguì il loro esempio. All’inizio furono sorpresi che nessuno dall’esercito o dal governo venisse ad allontanarli. “Dopo sei mesi,” ha detto Rifkin in una recente intervista, “ho capìto che l’affare era fatto.”
Chiamarono il loro avamposto Mitzpe Danny, dal nome di un immigrato britannico che era stato accoltellato a morte da un Palestinese nell’insediamento che si trova dall’altra parte dell’autostrada. Nei mesi successivi contribuirono a fondare Mitzpe Hagit e poi Neve Erez che si trova a pochi minuti di auto. “Saltavo da una collina all’altra”, ha detto Riklin.
Oggi più di 40 famiglie di Ebrei ortodossi vivono a Mitzpe Danny, che fa parte di una catena di avamposti su un crinale strategico che a sud-ovest ha viste mozzafiato fino al Monte degli Ulivi di Gerusalemme, mentre ad est la vista arriva fino alla Giordania. Fanno parte di una vasta rete di circa 100 avamposti, fondati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa.
Almeno un terzo di questi avamposti sono stati legalizzati retroattivamente, oppure -come nel caso di Mitzpe Danny- è in corso quello che secondo gli osservatori anti-colonie è un tentativo silenzioso ma metodico da parte del governo di cambiare la mappa della Cisgiordania (ormai nel suo 50esimo anno di occupazione israeliana) rafforzando gli avamposti che si stanno estendendo sul territorio come le dita di una mano.
In un momento in cui il processo di pace israelo-palestinese è “in sonno” e la comunità internazionale è sempre più scettica circa l’effettivo impegno del governo di destra israeliano per la formazione di un futuro stato palestinese, gli avamposti vengono occupati proprio per dimostrare che è impossibile sbrogliare il conflitto. Nel suo rapporto di luglio, il cosiddetto Quartetto per il Medio-Oriente (formato da Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia) ha visto questi sviluppi come qualcosa che “mette in pericolo la fattibilità della soluzione a due stati.”
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che era al suo primo mandato quando fu fondata Mitzpe Danny, ha in seguito avallato l’idea di uno stato palestinese a fianco di Israele e ha detto che il suo governo non avrebbe costruito nuovi insediamenti né espropriato altra terra per quelli esistenti. Ma Ziv Stahl, direttrice di ricerca di Yesh Din, uno dei gruppi di difesa della sinistra, ha detto che “li stanno autorizzando mascherandoli in qualche modo.”
Secondo Ziv Stahl, Israele cerca di evitare la condanna internazionale registrando gli avamposti del tipo di Mitzpe Danny come “sobborghi” di insediamenti già costituiti, anche se alcuni sono molto distanti e funzionano come comunità separate.

Gli avamposti in Cisgiordania
mappa avamposti
Dei 100 avamposti fondati per lo più negli ultimi venti anni, circa un terzo sono stati o saranno legalizzati retroattivamente. By Rudy Omri/New York Times

Quanto ad altri provvedimenti di Israele, tra cui la demolizione di costruzioni palestinesi non autorizzate in Cisgiordania, Ziv Stahl aggiunge: “Vediamo tutto ciò come una manovra molto graduale verso l’annessione.”
A una domanda sulla legalizzazione degli avamposti (con le relative critiche internazionali), il portavoce di Netanyahu, David Keyes, non ha risposto direttamente, ma ha girato la domanda sulla posizione dei leader palestinesi secondo cui -in un eventuale accordo futuro- nessun insediamento potrebbe rimanere in Cisgiordania.
“La pretesa così spesso ripetuta dai Palestinesi di far pulizia etnica degli Ebrei nel loro futuro stato,” ha detto Keyes in una email, “è scandalosa, immorale e antitetica all’idea di pace.”
Prima illegali, poi legali
Gli avamposti sono disposti strategicamente a fianco degli oltre 120 insediamenti ufficialmente approvati da Israele e ospitano una parte  dei 350.000 coloni ebrei della Cisgiordania.
Un gruppo si estende a est di Shilo, come una catena di perle: Shvut Rahel, Adei Ad, Ahiya, Kida, Esh Kodesh. Questi avamposti dominano le colline che separano villaggi palestinesi come Qusra, Jalud, Al-Mughayyer e Duma. Quest’ultimo è il villaggio in cui l’anno scorso è avvenuto l’attentato incendiario mortale per cui un giovane Israeliano è stato accusato di omicidio e un altro di complicità.
Rabbah Hazameh, un Palestinese la cui famiglia possiede oliveti e campi coltivati nella zona, dice che i coloni hanno impedito a lui e ai suoi familiari di lavorare la loro terra vicino ad Adei Ad ed hanno danneggiato e avvelenato gli alberi. Dice che suo zio, nel corso degli anni, ha presentato 86 denunce alla polizia, ma poi “non è successo niente.”
Mentre nella maggior parte del mondo questi insediamenti sono visti come una violazione della legge internazionale, Israele, per parte sua, fa delle distinzioni, a seconda che si trovino o meno su proprietà private palestinesi e a seconda che abbiano avuto o meno l’approvazione governativa a costruire.
Un’indagine del 2005 che il governo aveva affidato a Talia Sasson, un ex procuratore dello stato, contò almeno 105 avamposti che si erano insediati “in flagrante violazione della legge” e chiese che fossero presi “drastici provvedimenti,” tra cui l’immediata rimozione di quelli costruiti su proprietà private.
Ma nel 2012 Netanyahu aveva insediato un’altra commissione che era giunta a conclusioni del tutto diverse.
Presieduta da Edmund Levy, un ex giudice della Corte Suprema israeliana, la commissione concluse che la Cisgiordania non è veramente occupata (anche perché i precedenti 19 anni di governo da parte della Giordania non hanno mai avuto riconoscimento internazionale) e che non c’erano ostacoli all’approvazione di avamposti che fossero costruiti su terreni di proprietà dello stato e che avessero quello che veniva definito “l’implicito consenso” di alti funzionari israeliani. Tuttavia, il rapporto Levy confermò il criterio israeliano secondo il quale gli insediamenti su proprietà private palestinesi sono illegali.
Sotto la pressione internazionale, Israele si è ripetutamente impegnata ad eliminare gli avamposti non autorizzati. Ma allo stesso tempo ha cercato di salvarne alcuni, anche se costruiti su proprietà private, come quello di Amona, che per ordine della Corte Suprema Israeliana dovrebbe essere demolito entro il 25 dicembre. Gli abitanti di un altro avamposto di questo tipo, Migron (costruito anche questo con l’aiuto di Simon Riklin), sono stati trasferiti nel 2012 in abitazioni provvisorie su un suolo pubblico vicino.
Nel 2011 il governo di Netanyahu aveva già silenziosamente introdotto quella che chiamava una nuova “regolamentazione combinata.” L’idea era che Israele avrebbe smantellato gli insediamenti costruiti su proprietà private palestinesi, ma nelle zone dichiarate da Israele come proprietà dello stato avrebbe invece “regolarizzato il piano del progetto”, ossia -in altre parole- avrebbe legalizzato a posteriori le costruzioni.
il colono simon
Simon Riklin fotografato questo mese a Mitzpe Danny, che l’autoproclamato “imprenditore di avamposti” ha fondato nell’autunno 1998. Uriel Sinai for The New York Times

Un processo cauto e ambiguo
I primi sintomi di un cambiamento di status di un dato avamposto emergono di solito dalle risposte del governo israeliano alle cause legali avanzate dai gruppi anti-insediamenti.
Come, ad esempio, l’anno scorso, quando la Corte Suprema Israeliana ha respinto una istanza di demolizione per una costruzione illegale a Mitzpe Danny, dopo che lo stato aveva comunicato che era in atto un procedimento per autorizzare l’avamposto.
La Corte ha citato una decisione dell’ottobre 2015 di un comitato di pianificazione israeliano inteso a promuovere un vecchio piano generale per la crescita della popolazione ebrea nella zona.
In questo piano, Mitzpe Danny è definito un “sobborgo” di Ma’ale Michmash, l’insediamento originario al di là dell’autostrada, anche se una parte dell’avamposto si trova fuori dai confini più esterni dell’insediamento. Secondo il piano, nel 2040 Mitzpe Danny dovrebbe contenere 189 abitazioni permanenti.
L’avamposto non ha un piano urbanistico dettagliato come sarebbe richiesto per ottenere la piena autorizzazione da Israele, e anche la Corte ha riconosciuto che la pianificazione procedeva a rilento. Tuttavia Peace Now, un altro gruppo anti-insediamenti, riferisce che almeno 20 avamposti hanno già completato la pianificazione o hanno piani dettagliati in via di realizzazione e già approvati dal ministro della difesa, mentre altri 14 sono in fase di sviluppo.

Mitzpe Danny, dal 2001 al 2015
foto aerea di Mitzpe Dannyfoto aerea di Mitzpe Danny 2011

foto aerea di Mitzpe Danny 2015
Fotografie aeree da Peace Now
By Rudy Omri/The New York Times

Hagit Ofran, direttore del programma di monitoraggio degli insediamenti realizzato da Peace Now, dice che il messaggio del governo è “costruite e poi noi sistemiamo tutto a cose fatte.”
Il Ministero della Difesa e l’Amministrazione Civile (che è il ramo dell’esercito israeliano che si occupa degli affari civili in Cisgiordania) hanno rifiutato di parlare degli avamposti o di fornire alcun dato circa il loro status. Anche i leader dei coloni dicono che hanno tentato di avere informazioni su quanti avamposti stiano per essere legalizzati. “Non ho capito se è un terzo o la metà o il 100 per cento,” ha detto Oded Revivi, il principale delegato agli esteri dello Yesha Council che rappresenta i coloni.
La maggior parte delle procedure di legalizzazione avviene con cautela e con una certa dose di ambiguità. Simon Riklin, il fondatore di Mitzpe Danny e degli avamposti vicini, lo ha descritto come un gioco “tutto gatto e topo” tra Netanyahu e il presidente Obama, il quale ha detto ripetutamente che qualunque espansione degli insediamenti rappresenta un ostacolo alla pace.
Yigal Dilmoni, il vice amministratore delegato del comitato dei coloni, ha detto che gruppi come Peace Now hanno in realtà fatto un favore ai coloni quando hanno fatto causa allo stato, perché spesso questo costringe lo stato a prendere una posizione. Dopo che un procedimento giudiziario si era concluso con l’autorizzazione governativa per un edificio illegale di un insediamento e per un avamposto, il comitato dei coloni mandò un mazzo di fiori a Peace Now. Il biglietto di accompagnamento diceva: “Saremo lieti di proporre il nome ‘Peace Now’ per una strada del nuovo quartiere.”
Uscire dal recinto
Nel 1998, quando era ministro degli esteri, Ariel Sharon aveva esortato i coloni a “correre ad impossessarsi” delle colline della Cisgiordania. Ma non c’era niente di improvvisato nel progetto degli avamposti.
L’indagine della Sasson del 2005 ha descritto come i funzionari dei ministeri dell’edilizia, della difesa e altri lavorassero in modo sistematico per stabilire la localizzazione dei nuovi insediamenti, per finanziarli e per aiutarli a procurarsi le infrastrutture.
All’inizio degli anni 1990, gruppi di coloni avevano disegnato i primi progetti per Mitzpe Danny che, come molti avamposti, secondo il rapporto Sasson, si estende sia su terreni pubblici che terreni privati. Si trova al di sopra di una strada tortuosa che prende il nome da Yigal Allon, generale israeliano e uomo politico del Labor Party che, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, era a favore di un ritiro di Israele dalla maggior parte delle zone della Cisgiordania che erano densamente popolate da Palestinesi, mentre suggeriva di mantenere il territorio strategico lungo la Valle del Giordano.
colonia di Micmash
By Rudy Omri/The New York Times

Simon Riklin e altri attivisti cominciarono il loro lavoro mentre Netanyahu, al suo primo mandato, stava negoziando un accordo del 1998 con cui cedeva alla neonata Autorità Palestinese altri territori della Cisgiordania che Israele aveva sottratto alla Giordania nel guerra del 1967.
Riklin, che ha ora 53 anni ed è una voce forte nei media israeliani a favore dei coloni, dice (riferendosi alla Cisgiordania col suo nome biblico): “Ho pensato che in Giudea e Samaria non c’erano abbastanza coloni per garantire il futuro degli insediamenti,” e aggiunge: “Abbiamo sentito che dovevamo uscire dal recinto.”
Daniel Frei, l’immigrante inglese assassinato che ha dato il nome all’avamposto, era stato il vicino di casa di Riklin a Ma’ale Michmash. Era un ingegnere informatico di 28 anni e fu ucciso nella sua casa mentre la figlia di 18 mesi stava dormendo.
Un paio di settimane dopo che Riklin e i suoi amici si erano impadroniti della collina, il Binyamin Council (l’autorità governativa regionale che conta attualmente 50 colonie e avamposti nella zona) fornì loro generatori elettrici e autocisterne d’acqua. Riklin dice che arrivò anche il ministro dell’edilizia e gli chiese di cosa aveva bisogno. C’era insomma un’atmosfera che definisce di “euforia.”
Ora l’avamposto ha dozzine di caravan, oltre ad alcune spaziose case rivestite in pietra e un nuovo campo di pallacanestro in un avvallamento che è poco visibile dall’autostrada. C’è un asilo e un parco giochi che pochi giorni fa avevano un soldato a far la guardia. Tra i residenti c’è un avvocato, un architetto e alcuni insegnanti.
In un punto panoramico vicino, un sistema audio descrive l’insediamento ebraico nella zona come l’adempimento della profezia di Geremia: “I tuoi figli torneranno dentro i loro confini.”
Riklin, il fondatore dell’avamposto, è poi rimasto ad abitare a Ma’ale Michmash. L’attuale leader dell’avamposto ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.
Yehuda Naamad, 30 anni, lavora in una drogheria e due anni fa si è trasferito a Mitzpe Danny da Gerusalemme “per lo spazio”, come dice lui. Questo mese si è trasferito di nuovo in un’altra caravan nell’insediamento di Hemdat nella Valle del Giordano, dove i progetti di costruzione sono stati recentemente approvati dopo esser stati bloccati per 19 anni.
”Credo che questa sia la nostra terra” ha detto riferendosi alla Cisgiordania, e ha aggiunto: “Dio ci ha fatto tornare. Dio scrive la nostra storia.” E riferendosi ai Palestinesi ha detto: “Chiunque ci accetta può vivere qui tranquillamente.”
Non si mostrava preoccupato per la lunga attesa di una casa definitiva. “È scritto che la redenzione si sviluppa lentamente: come la natura, come un albero di olivo.”
Isabel Kershner si può seguire su Twitter @IKershner.
Una versione a stampa di questo articolo è comparsa il 31 agosto 2016 a pagina A1 della edizione di New York col titolo: Israel Legalizes Outposts in the West Bank, Step by Quiet Step.

Traduzione di Donato Cioli
A cura di Assopace Palestina




La crisi idrica di Israele non è finita:

i livelli del Mar Morto, del lago Kinneret e delle falde acquifere sono tutti bassi

Di Nir Hasson, Noa Shpigel, Ido Efrati e Zafrir Rinat

Haaretz 6 settembre 2016|

La desalinizzazione ha alleviato la scarsità d’acqua, ma la prolungata siccità, l’eccessivo pompaggio e le esigenze di una popolazione in crescita stanno facendo scempio dell’ecologia del paese.

La maggior parte dell’opinione pubblica crede che la desalinizzazione abbia aiutato Israele a superare la sua cronica crisi idrica, ma gli esperti affermano che non è affatto vero e mettono in guardia contro l’autocompiacimento.

Il rapporto mensile di agosto, pubblicato dal Servizio Idrologico dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, quest’estate mostra una diminuzione più grave del solito del livello del Lago Kinneret [il lago di Tiberiade, nel nord del paese, ndt], del Mar Morto, dei corsi d’acqua nel nord e di tutti gli acquiferi sotterranei. Peggio ancora, le stime nazionali ed internazionali prevedono che almeno la prima metà dell’inverno sarà senza precipitazioni. Se queste previsioni verranno confermate, il Kinneret quest’anno scenderà al suo livello più basso degli ultimi 10 anni.

Benché gli impianti israeliani di desalinizzazione soddisfino una crescente quantità del consumo di acqua del paese, a livello locale la crisi attuale potrebbe causare gravi danni all’agricoltura ed all’ambiente.

Secondo il rapporto dell’Autorità per l’Acqua, il mese scorso il livello del Lago Kinneret è sceso di 26 cm., fino a 32 cm. al di sotto della linea rossa di minima – il livello in cui inizia il danno all’equilibrio ecologico e la qualità dell’acqua peggiora. Questo è il livello più basso registrato il 1 settembre negli ultimi 6 anni, benché il pompaggio dell’acqua del lago a beneficio dell’acquedotto nazionale sia stato significativamente ridotto.

Intanto il livello del Mar Morto è sceso di 13 cm. in agosto. Dall’inizio dell’anno idrologico (che comincia in ottobre) il livello del Mar Morto è sceso di 103 cm., il 22% in più rispetto al periodo corrispondente del precedente anno idrologico. Nel corso degli ultimi 25 anni, il livello del Mar Morto è diminuito di quasi 25 metri. Attualmente non riceve quasi più acqua dal fiume Giordano, le cui acque sono deviate per fornire acqua potabile a Giordania, Siria, Libano ed Israele.

E’ stata rilevata anche una forte diminuzione nei bacini acquiferi montani e costieri del paese, anche se restano al di sopra della linea rossa. Però il bacino acquifero della Galilea occidentale, un’importante sorgente d’acqua per quella regione, è sceso sotto la linea rossa.

L’ultima grave crisi idrica in Israele risale al 2008, quando il governo lanciò un’importante campagna per il risparmio dell’acqua e accelerò la costruzione degli impianti di desalinizzazione, da aggiungere a quello già operativo ad Ashkelon. Le strutture di desalinizzazione a Palmahim, Hadera, Nahal Sorek e Ashdod sono diventate velocemente operative; nello scorso anno hanno prodotto 500 milioni di metri cubi d’acqua, il 40% dell’acqua del paese. Per il prossimo anno si prevede di arrivare a 600 milioni di metri cubi.

‘Problema risolto’

“Israele ha risolto il problema dell’acqua”, dichiara il portavoce dell’Autorità per l’Acqua, Uri Shor. “Oggi più della metà di tutta la fornitura d’acqua è prodotta dall’uomo (incluso il trattamento delle acque reflue, N.H.). Ciò assicura stabilità ed un approvvigionamento sostenibile”.

Gli esperti concordano sul fatto che il problema della fornitura d’acqua è stato alleviato dalla desalinizzazione, ma dipingono un quadro più complesso, in cui la desalinizzazione gioca un ruolo solo parziale.

“Per costruire un impianto di desalinizzazione ci vogliono tre anni”, dice il prof. Daniel Kurtzman del Volcani Center [centro israeliano di ricerche agronomiche, ndt.], “ma costruire l’infrastruttura atta a trasportare l’acqua su lunghe distanze implica molti anni. Hanno iniziato a costruire il quinto acquedotto per Gerusalemme nel 2003, e ci vorranno ancora molti anni per completarlo.” Così, le zone distanti dagli impianti di desalinizzazione devono continuare a contare sulle sorgenti d’acqua naturale e patiranno durante un periodo di siccità, nonostante gli impianti di desalinizzazione di Israele.

“La siccità è soprattutto un dramma ecologico; in un anno di siccità vediamo come i corsi d’acqua del Golan ed il lago Hula [nel nord di Israele. ndt] si prosciugano, e non ci possiamo fare niente; è un disastro,” dice Amon Sofer, professore emerito di geografia e scienze ambientali all’università di Haifa.

“Poi c’è il più ampio impatto sull’estetica del paesaggio, della flora e della fauna, ed addirittura sulla sopravvivenza derivante dal turismo dei kayak,” dice Sofer.

“Ci sono zone in Israele che non sono rifornite dalla desalinizzazione – per esempio le alture del Golan, dove esiste un grave problema idrico,” dice Kurtzman.

“Non dovete pensare che le alture del Golan necessitino di soluzioni idriche del tipo che oggi immaginiamo; ma quelle sono soluzioni adatte al deserto di Arava [a sud di Israele, dal golfo di Aqaba alle sponde meridionali del mar Morto, ndt], non al Golan.”

Certamente gli agricoltori del Golan, che contano soprattutto sui bacini di superficie, sono le principali vittime della situazione attuale. Negli anni di siccità questi bacini si riempiono poco e si svuotano velocemente.

Ora nel Golan ci sono impianti per scavare pozzi profondi, che destano preoccupazione tra le organizzazioni ambientaliste.

“Stanno iniziando a parlare di perforare lo strato di basalto per fornire acqua potabile e per l’agricoltura, qualcosa che non è mai stata fatta,” dice Yehoshua Shkedy, capo ricercatore dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. “Il problema è che una simile perforazione prosciugherà le sorgenti e gli affluenti, che sono la linfa vitale delle alture del Golan.”

Shkedy poi aggiunge: “Un altro anno così e non ho idea di che cosa faremo. Stiamo parlando di un possibile prosciugamento del Banias [affluente del Giordano, che scorre in Siria e in Israele, ndt], per cui sarà impossibile scendere in kayak per il fiume Giordano.”

Intanto, se vi state chiedendo perché negli ultimi anni sembra che cada più pioggia nel sud che nel nord [di Israele, ndt], non siete i soli. Gli esperti fanno fatica a spiegare perché l’area delle piogge sembra essersi fermata a Netanya [sulla costa centro settentrionale di Israele, ndt.].

Cambiamenti globali

Uno studio di Amir Givati, capo della gestione delle acque di superficie dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, punta il dito su un cambiamento climatico globale che colpirà la regione in futuro. Lo studio sostiene che le classiche depressioni barometriche dell’inverno israeliano, che si spostano da nord a sud, si sono indebolite e sono state sostituite da piogge che arrivano piuttosto dal sud.

Gli scienziati ottimisti però dicono che alcuni anni di siccità non sono sufficienti per stabilire una regola.

“Io sono relativamente ottimista”, dice Kurtzman. “Nel 2001 abbiamo raggiunto la linea nera nel lago Kinneret, che sembrava proprio quanto di peggio ci potesse essere, e poi il 2002-2003 è stato un anno molto piovoso, e l’umore è cambiato. In base alla mia esperienza, è possibile che ci siano dei cicli ampi di 30 o 40 anni. Tra il 1965 e il 1995 abbiamo avuto un periodo di piogge, e dal 1995 abbiamo un periodo di piogge più scarse. Ci possono essere dei cambiamenti.”

Traduzione di Cristiana Cavagna

 




Rapporto OCHA della settimana 19 – 25 luglio 2016

Il 19 luglio, durante scontri vicino all’ingresso settentrionale della città di Ar Ram (Gerusalemme), le forze israeliane (a quanto riferito, si trattava di agenti della polizia di confine) hanno colpito con un proiettile di gomma un ragazzo palestinese di 12 anni, uccidendolo.

Dal 12 luglio, Ar Ram è stata un luogo critico di operazioni militari e scontri. Il caso sopraccitato porta a 76, di cui 22 minori, il numero totale dei palestinesi uccisi nel 2016 dalle forze israeliane nei Territori occupati; 18 di questi sono stati uccisi durante proteste e scontri.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 74 palestinesi, tra cui 15 minori. La maggior parte degli scontri, e dei feriti (46), sono stati registrati durante le proteste tenutesi nella città di Abu Dis (Gerusalemme), in solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, e nel corso della manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Gli altri scontri sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la più ampia delle quali ha avuto luogo a Jayyus (Qalqiliya), dove si sono registrati dieci feriti. Nel complesso, durante la settimana, sono stati registrati 135 operazioni di ricerca-arresto; 150 i palestinesi arrestati, la quota più alta (21%) nel governatorato di Gerusalemme.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno dieci occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi, causando il ferimento di un agricoltore palestinese che stava lavorando la sua terra nei pressi della recinzione perimetrale. In un caso, verificatosi in mare, quattro pescatori, tra cui un 17enne, sono stati arrestati; in un altro caso, un pescatore è stato costretto a nuotare verso l’imbarcazione militare israeliana. Nelle ARA di terra, in tre circostanze, le forze israeliane hanno spianato il terreno ed effettuato scavi. Analogamente a quanto avvenuto per i pescatori, l’operato delle forze israeliane ha sconvolto il sostentamento di centinaia di agricoltori i cui terreni sono vicini alla recinzione.

A Gerusalemme Est, in quattro casi, per mancanza di permessi edilizi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito sette strutture palestinesi, sfollando una persona e coinvolgendone, in modi diversi, altre 71, tra cui 19 minori.

Il 20 luglio, nel villaggio di Duma (Nablus), ignoti hanno appiccato il fuoco ad una casa palestinese. Gli occupanti sono riusciti a fuggire, ma il padre è stato intossicato dal fumo ed ha avuto bisogno di cure mediche. A causa dei danni subiti dall’abitazione, i cinque membri della famiglia, tra cui tre minori, sono stati costretti allo sfollamento. Nello stesso villaggio di Duma, nei mesi di luglio 2015 e marzo 2016, coloni israeliani praticarono due attacchi incendiari simili, nel primo dei quali morì un bambino ed entrambi i suoi genitori. Sull’accaduto le autorità palestinesi e israeliane hanno avviato separate indagini.

Nel governatorato di Hebron l’esercito israeliano ha riaperto al traffico palestinese otto importanti snodi stradali che, dall’inizio del mese, erano stati bloccati in seguito a due attacchi palestinesi verificatisi nella zona. L’apertura ha notevolmente facilitato l’accesso delle persone ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Tuttavia, permane ancora una serie di blocchi, imposti nella stessa circostanza, che costringono i residenti a ricorrere a lunghe deviazioni; tra i più colpiti, i villaggi di Ad Dahriyya, Karma, Deir Razeh e Ar Ramadin (circa 44.500 persone).

Coloni israeliani armati hanno fatto irruzione in una zona agricola vicino alla città di Al-Khader e all’insediamento colonico di El’azar (Betlemme); hanno sparato in aria e costretto i contadini palestinesi, intenti a coltivare la terra, a lasciare la zona; nella circostanza uno dei contadini è stato aggredito fisicamente e ferito. Nella stessa area, in altri due episodi, secondo quanto riferito ad opera di palestinesi, un veicolo israeliano è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco e un altro da pietre; entrambi i veicoli hanno riportato danni.

Il 19 luglio, nella Striscia di Gaza, un uomo è stato condannato a morte. Altre due condanne a morte, emesse in precedenza, sono state convalidate da un tribunale militare palestinese; tutte le condanne sono state emesse per “collaborazione con Israele”.

A Gaza circa 600.000 persone sono colpite da una significativa riduzione nella fornitura di acqua corrente. Questa riduzione è stata provocata dall’aumento delle interruzioni di energia elettrica in programma dal 14 luglio; interruzioni dovute ad un parziale spegnimento dell’unica Centrale elettrica di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli quattordici giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 30.000 persone, con esigenze urgenti, sono registrate ed in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 luglio, nel villaggio di Surif (Hebron), nel corso di una operazione di ricerca-arresto, a quanto riferito dopo uno scambio di colpi di arma da fuoco, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese sospettato di aver effettuato, il 1° luglio, un’aggressione con arma da fuoco, nel corso della quale fu ucciso un colono israeliano. Durante l’operazione, i soldati hanno bombardato l’edificio di tre piani in cui l’indagato si era nascosto, distruggendolo completamente e sfollando tre famiglie.

Il 26 luglio, a causa della mancanza di permessi di costruzione, in una sezione del villaggio di Qalandiya che rientra nei confini municipali israeliani di Gerusalemme, ma dai quali la Barriera la separa, le autorità israeliane hanno demolito 15 strutture; in conseguenza delle demolizioni sei persone sono state sfollate e altre 180 circa sono state in vario modo colpite.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Secondo un sopravvissuto il ragazzino palestinese stava festeggiando la visita di amici prima di essere ucciso dall’esercito

Ma’an News

22 giugno, 2016

Ramallah (Ma’an) – Dopo mezzanotte di lunedì cinque adolescenti palestinesi stavano tornando a casa dopo aver passato il pomeriggio in una piscina del villaggio di Beit Sira, a ovest di Ramallah, per festeggiare il recente arrivo dal Qatar di alcuni amici che erano venuti a passare l’estate nella loro cittadina d’origine, Beit Ur al-Tahta.

Tuttavia la loro allegria è finita quando un soldato israeliano ha cominciato a sventagliare l’auto con proiettili veri, uccidendo il quindicenne Mahmoud Raafat Badran e ferendo gravemente altri quattro ragazzi, uno dei quali ha raccontato a Ma’an lo svolgimento degli eventi che ha portato alla morte del ragazzino.

Uno dei feriti, il sedicenne Dawood Issam Abu Hassan, ha raccontato a Ma’an che sono stati “sorpresi da un uomo vestito di nero in borghese che è saltato fuori da una Toyota bianca ed ha iniziato a sparare contro di loro.” Il soldato è stato in seguito identificato dai media israeliani come appartenente alla brigata Kfir.

Dawood ha detto che lui e un altro ragazzino che era in auto hanno tentato di scappare dal veicolo dopo che è stato colpito per la prima volta e si sono nascosti sotto un ponte lì vicino per evitare altri colpi di arma da fuoco.

Nel frattempo Mahmoud è stato colpito a morte dalle fucilate e anche due fratelli sono rimasti seriamente feriti nell’episodio. Due dei feriti sono stati identificati da Ma’an come Majdi Badran, 16 anni, che arrivava dal Qatar, ed è stato colpito al torace, e Khaled Badran, in gravi condizioni.

Secondo Dawood le forze israeliane sono arrivate rapidamente ed hanno immediatamente iniziato a sfasciare l’auto palestinese, che si era schiantata contro il guardrail.

I genitori dei ragazzi, appena arrivati dal Qatar, hanno raccontato a Ma’an che stavano viaggiando in un’auto che seguiva quella in cui si trovavano i loro figli e sono stati obbligati ad assistere all’episodio che si è svolto davanti a loro e che hanno definito un “crimine israeliano”.

Gli operatori delle ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese hanno detto che i soldati israeliani hanno impedito ai soccorritori di raggiungere i palestinesi feriti per oltre un’ora e mezza.

Il padre di Mahmoud lavora come ambasciatore per il ministero degli Esteri palestinese in Arabia Saudita da parecchi anni, e fino al 1999 ha scontato una condanna a 15 anni nelle prigioni israeliane.

L’esercito israeliano ha ammesso di avere “erroneamente” aperto il fuoco contro passanti innocenti dopo che giovani palestinesi avrebbero lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani in quella zona. I mezzi di informazione israeliani inizialmente hanno comunicato che Mahmoud e i suoi amici che viaggiavano nell’auto erano “terroristi”.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che al momento dell’incidente alcuni giovani palestinesi avevano lanciato pietre e bottiglie molotov contro automobili di coloni israeliani in circolazione sulla strada 443 a ovest di Ramallah, aggiungendo che “le forze israeliane hanno agito per proteggere altri veicoli dal pericolo immediato, hanno sparato contro i sospetti e i passanti sono stati erroneamente colpiti.”

La strada è la principale via di collegamento tra Gerusalemme e le colonie israeliane illegali nella Cisgiordania occupata, il che la rende una posizione privilegiata per i giovani palestinesi che lanciano pietre in quella zona.

Ai palestinesi è stato totalmente vietato l’uso della strada 443 – denominata “la strada dell’apartheid” dai palestinesi del luogo – fino al 2009, quando una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito che il divieto al transito da parte dei palestinesi dovesse essere tolto. Tuttavia le forze israeliane continuano a limitare fortemente l’accesso dei palestinesi alla strada con il posizionamento di checkpoint dove i palestinesi sono obbligati a sottoporsi a pesanti misure di sicurezza per ottenere il permesso di passare.

Martedì l’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’uccisione. Tuttavia, secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, solo il 3% delle indagini intraprese dall’esercito israeliano hanno portato all’incriminazione contro soldati, cosa che lascia ai palestinesi ed ai gruppi per i diritti umani pochissime speranze che l’indagine possa avere effettive conseguenze.

Mercoledì il membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Taysir Khalid, del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha denunciato l’assassinio.

“Il fatto che le truppe israeliane sparino frequentemente agli incroci ed ai checkpoint militari in tutta la Cisgiordania è il risultato naturale dell’educazione prevalente e dell’incoaraggiamento da parte dei circoli militari e politici israeliani,” ha detto Khalid.

Ha aggiunto che prendere di mira giovani palestinesi riflette il “cieco razzismo” che permea la società israeliana.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha duramente condannato l’omicidio dicendo: “Questo assassinio a sangue freddo riconferma la nostra richiesta al relatore speciale ONU in merito alle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie, perché inizi un’immediata e ampia indagine sulle uccisioni extragiudiziarie israeliane contro i palestinesi, soprattutto bambini,” afferma il comunicato.

“La comunità internazionale ha la responsabilità di smettere di concedere l’impunità ad Israele per i crimini che commette contro la terra e le persone della Palestina occupata.”

Tuttavia il ministro degli Esteri israeliano ha detto in risposta all’omicidio: “Se non fosse per la difficile situazione della sicurezza, che è interamente il risultato dell’istigazione e del terrorismo palestinese, Israele non sarebbe obbligato ad utilizzare la forza per proteggere i propri civili,” nonostante l’ammissione da parte dell’esercito israeliano che Badran non aveva niente a che vedere con il lancio di pietre.

Mahmoud è uno degli oltre 220 palestinesi che sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni da quando un’ondata di ribellione politica ha travolto i territori palestinesi e Israele in ottobre. Benché un numero notevole di palestinesi siano stati uccisi in scontri con le forze israeliane, per la maggior parte sono stati colpiti a morte dopo presunti attacchi e tentativi di attacco contro israeliani, con circa 30 israeliani uccisi durante lo stesso periodo.

Gruppi per i diritti umani hanno contestato la narrazione israeliana, sostenendo che le uccisioni di palestinesi da parte delle forze israeliane rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”, in quanto sono state messe in atto anche quando non c’erano minacce di immediato pericolo [per i soldati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)