Israele teme la presenza al suo interno degli ebrei ‘del deserto’

Countercurrents —di Jonathan Cook —23 giugno 2016

La scorsa settimana, con una mossa poco pubblicizzata, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha vietato l’ingresso in Israele di un funzionario vicino al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Mohammed Madani è accusato di “attività sovversive” e “terrorismo politico.”

Vale la pena di riflettere sui suoi delitti, come li ha definiti Lieberman. Essi suggeriscono che il conflitto di Israele con i palestinesi sia radicato non tanto nei problemi di sicurezza, quanto piuttosto nel colonialismo europeo.

Nel suo ruolo di presidente del comitato palestinese per l’interazione con la società israeliana, Madani ha ovviamente utilizzato le sue visite in Israele per incontrare ebrei israeliani, ma ha scelto quelli sbagliati.

Ha tentato di iniziare un dialogo con quelli che in Israele sono noti come i “mizrahim”, israeliani discendenti dagli ebrei che sono emigrati dagli Stati arabi in seguito alla creazione di Israele nel 1948. Oggi questi ebrei arabi rappresentano circa la metà della popolazione di Israele. E’ noto che Abbas è intenzionato a stringere rapporti con loro.

La maggior parte dei dirigenti del Paese si identificano come ebrei europei, o ashkenaziti. Fin dall’inizio, questa elite europea ha diffidato degli ebrei arabi, visti come una popolazione “arretrata” che avrebbero potuto compromettere la pretesa di Israele di essere un avamposto dell’Occidente civilizzato in Medio oriente.

Ma, più specificamente, gli ashkenaziti temevano che un giorno gli ebrei arabi potessero fare un’alleanza politica con la popolazione nativa, i palestinesi. Allora gli ashkenaziti si sarebbero trovati in minoranza. I mizrahi, che provengono da Paesi tanto diversi come Marocco ed Iran, avevano molte più cose in comune con i palestinesi che con gli europei, arrivati di recente.

Originariamente i fondatori di Israele non avevano intenzione di includere gli ebrei arabi nel loro progetto di costruzione della Nazione. Furono obbligati a riconsiderare la questione solo perché il genocidio di Hitler in Europa li privò di un numero sufficiente di ebrei ‘civilizzati’.

Gli archivi rivelano che Israele organizzò buona parte dell’emigrazione degli ebrei arabi, inducendoli con false promesse o mettendo in atto attentati interni per fomentare sospetti nei loro confronti nei loro Paesi d’origine. Erano visti come manodopera a buon mercato, per sostituire i palestinesi che erano stati espulsi.

David Ben Gurion, un polacco che diventò il primo capo del governo, descrisse i mizrahi in termini esclusivamente negativi, come “gentaglia” e “polvere umana”. Essi erano “un prodotto del deserto.” Gli immigranti mizrahi furono sottoposti ad un programma di “de-arabizzazione”, la loro presunta arretratezza venne trattata non diversamente dalle malattie che si supponeva si portassero dietro. Furono ricoperti di DDT sui voli verso Israele.

I documenti mostrano che l’esercito discuteva animatamente se i nuovi coscritti ebrei arabi fossero mentalmente ritardati, facendone casi senza speranza, o semplicemente primitivi, una condizione che avrebbe potuto essere sradicata con il tempo.

Secondo Ben Gurion, la lotta di Israele era “contro lo spirito del Levante, che corrompe individui e società…Non vogliamo che gli israeliani diventino arabi,”

Questa missione era diventata più ardua perché, nonostante una campagna aggressiva di espulsione nel 1948, Israele includeva ancora una significativa popolazione di palestinesi che erano diventati cittadini.

Israele li tenne separati dai mizrahi attraverso la segregazione, comunità e sistemi educativi separati. Ai bambini mizrahi venne proibito di parlare arabo nelle loro scuole ebraiche, e si fece in modo che si vergognassero dell’arretratezza dei loro genitori.

Ci furono sempre quelli che resistettero agli stereotipi negativi. Negli anni ’70 alcuni organizzarono persino una versione locale delle “Pantere nere”, prendendo il nome dal gruppo militante afro-americano negli Stati uniti e riecheggiando le loro richieste per un cambiamento rivoluzionario.

Oggi è una storia vecchia. Un piccolo numero di mizrahi si è unito nell'”Arcobaleno democratico”, che si concentra sulla giustizia sociale per gli ebrei arabi. Altri hanno trovato conforto nel fondamentalismo religioso.

Molti altri ancora hanno interiorizzato l’odio per se stessi coltivato nei loro confronti dallo Stato. Molti ora votano per l’estrema destra, compreso il Likud di Benyamin Netanyahu, il rivale ufficiale dei padri fondatori del partito laburista.

Il programma zelantemente antipalestinese del Likud ha dimostrato di essere attraente. L’allarme di Netanyahu durante le elezioni, secondo cui “gli arabi stanno andando in massa a votare”, ha mobilitato i votanti mizrahi attorno al Likud e probabilmente lo hanno riportato al potere.

Mizrahi che odiano i palestinesi e che scandiscono “Morte agli arabi” si vedono ogni fine settimana sulle gradinate del principale club di pallone di Gerusalemme.

Uno di loro, Elor Azaria, un medico militare israeliano, ha messo in pratica lo slogan dei tifosi. In marzo è stato ripreso da una videocamera in una via di Hebron mentre giustiziava un palestinese steso a terra ferito. Netanyahu e Lieberman gli hanno offerto il loro appoggio.

Tuttavia ashkenaziti più “moderati, compreso il comandante dell’esercito, hanno preso le distanze da Azaria, temendo il danno che la sua azione molto pubblicizzata avrebbe potuto causare alle credenziali “occidentali” di Israele.

Ma il loro odio nei confronti di tutto ciò che è arabo non è meno intenso di quello dei fondatori del Paese.

La scorsa settimana un gruppo di ex-generali dell’esercito e politici ashkenaziti che appoggiano la soluzione dei due Stati ha diffuso un video. Hanno ipotizzato lo “scenario da incubo” dei palestinesi che mettono via le loro armi e vanno ai seggi per eleggere uno di loro come sindaco di Gerusalemme.

E’ stato proprio questo tipo di “terrorismo politico” che ha portato la scorsa settimana Lieberman a bandire Madani da Israele. Con gli ebrei arabi dalla parte dei palestinesi, al conflitto con Israele si potrebbe porre fine nelle cabine elettorali. Ora che potrebbe essere veramente sovversivo.

Jonathan Cook ha vinto il premio speciale “Martha Gellhorn per il giornalismo” [premio inglese per i giornalisti che scrivono in lingua inglese. Ndgr.]. I suoi ultimi libri sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti di Israele nella disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione di Amedeo Rossi)

** Per un approfondimento della questione si veda il libro  di Ella Shoat “Le vittime ebree del sionismo”  a cura di Cinzia Nachira , 2015 edizione Q, Roma

 




Che cosa ci fanno i coloni alla “Marcia per l’Uguaglianza”?

+972 – 20 giugno 2016

di Haggai Matar

I coloni israeliani godono di bilanci preferenziali e sussidi, e giocano un ruolo fondamentale in un sistema di segregazione e espropriazione. Chi gli ha permesso di unirsi alla “Marcia per l’Uguaglianza” con le comunità di Israele più trascurate e svantaggiate?

Questa settimana attivisti sociali israeliani e dirigenti di amministrazioni locali hanno iniziato una marcia verso Gerusalemme, la “Marcia per l’Uguaglianza”, per chiedere uguaglianza nei finanziamenti pubblici per i servizi sociali ed educativi nelle loro trascurate comunità delle aree economicamente e geograficamente periferiche di Israele.

Mentre i manifestanti avanzavano lungo la strada dal deserto del Negev verso Gerusalemme, sono stati raggiunti da alcuni membri della Knesset [il Parlamento israeliano. Ndtr. ], dal capo del più importante sindacato del Paese e da altri.

La lotta in merito ai finanziamenti per l’educazione ed il sistema di welfare destinati alle comunità svantaggiate di Israele è importante e giusta. Anche l’idea di una manifestazione inclusiva, che promuova l’unità tra residenti di comunità periferiche disperse, è ottima. Una tale lotta merita tutto il nostro appoggio.

C’è solo un problema: la partecipazione dei coloni. Tra i partecipanti all’iniziativa, che comprende i sindaci di due delle città israeliane più impoverite, Rahat e Netivot (rispettivamente, un Comune beduino e una cittadina in maggioranza composta da mizrahi [ebrei di origine araba. Ndtr.]), c’erano i dirigenti dei governi locali delle colonie Binyamin, Gush Etzion e delle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. I dirigenti delle colonie non sono arrivati per esprimere solidarietà con le più deboli comunità israeliane, ma piuttosto per cercare e trovare spazio per loro stessi dietro lo striscione impugnato dalle città ignorate e oppresse della periferia israeliana.

La loro partecipazione solleva tre domande inquietanti: in primo luogo, di quale discriminazione nella destinazione dei fondi pubblici soffrono le colonie della Cisgiordania? (Non parlo degli insediamenti degli ortodossi. Le colonie degli ultra-ortodossi effettivamente patiscono di gravi carenze nei finanziamenti). Solo ieri il governo ha approvato il trasferimento di ulteriori 82 milioni di shekel [ quasi 19 milioni di €] agli insediamenti della Cisgiordania, oltre ai 340 milioni [più di 78 milioni di €] che sono stati promessi come parte di un accordo di coalizione.

E si tratta di un’integrazione al bilancio normalmente destinato alle colonie. Questa settimana l’istituto di ricerca “Molad” [gruppo di analisti israeliano di tendenza progressista. Ndtr.] ha evidenziato che i servizi pre-scolastici nelle colonie delle colline di Hebron ricevono per bambino migliaia di shekel in più rispetto a quanti sono destinati ad Ashkelon e ad Ashdod, città all’interno della Linea Verde (confine tra Israele e Cisgiordania prima del ’67. Ndtr.] considerate periferiche. Molad nota che i fondi del governo per lo sviluppo, l’alimentazione e l’agricoltura sono più consistenti negli insediamenti, e in generale il governo investe il 28% in più per un colono della Cisgiordania che per un residente in Galilea [nel nord di Israele. Ndtr.] ( e ciò escludendo i costi aggiuntivi per le spese della sicurezza negli insediamenti della Cisgiordania).

Un altro esempio: il centro Adva [centro indipendente di studi politici di Tel Aviv. Ndtr.] ha scoperto che nel 2014 la spesa pro capite di un’amministrazione locale nelle colonie non ortodosse della Cisgiordania è stata superiore a quanto è stato speso nei 15 Comuni considerati economicamente più importanti all’interno della Linea Verde.

Come ha ripetutamente evidenziato Dani Gutwein [professore di storia ebraica all’università di Haifa, Ndtr.], anche nella sua serie video “Il piatto d’argento” [documentari della rete televisiva israeliana “Canale 8”. Ndtr.], gli insediamenti sono un’alternativa, che Israele ha creato al di fuori dei propri confini, allo Stato sociale. Negli insediamenti le case costano meno, gli investimenti pubblici nell’edilizia e nello sviluppo sono molto più alti e i servizi fondamentali, come i trasporti pubblici, sono sovvenzionati ad un livello significativamente superiore. I servizi pubblici che stanno scomparendo all’interno di Israele abbondano dall’altra parte della Linea Verde.

Uguaglianza sotto un regime militare

A livello più basilare, se prendiamo in considerazione la situazione al di fuori del contesto, ci dovremmo rallegrare che il governo stia ancora investendo nei settori tipici dello Stato sociale, ma questo ci porta alla seconda domanda: quale posto hanno, in una manifestazione per l’uguaglianza, i dirigenti di una classe privilegiata in un regime militare separato in base alla “razza”*? Unendosi alla marcia, i dirigenti delle colonie stanno cercando di rendere normale la propria posizione nella società israeliana, per presentare se stessi semplicemente come un qualunque governo locale delle comunità israeliane, che per caso si trova fuori dai confini dello Stato ed è illegittimo in base alle leggi internazionali. Cercano di eliminare il fatto che la loro stessa esistenza gioca un ruolo attivo nella quotidiana espropriazione dei palestinesi e nella perpetuazione di sistemi giuridici paralleli, uno per gli ebrei e uno per gli arabi.

Mentre i sindaci delle città ebraiche del Negev potrebbero voler marciare insieme a quelli delle vicine cittadine arabe di Hura e Rahat, non si vedrebbero i capi del consiglio dei coloni delle colline a sud di Hebron marciare insieme agli abitanti palestinesi di Susya, sottoposti al regime militare israeliano, in cui loro giocano un ruolo attivo. In virtù della loro partecipazione, i rappresentanti dei coloni hanno apposto un piccolo asterisco sullo striscione della marcia per l’uguaglianza, una nota a pié di pagina che dice: “Uguaglianza, ma non per i palestinesi dei territori occupati.”

Il capo del consiglio regionale dell’insediamento di Shomron, Yossi Dagan, ha enunciato molto chiaramente questo approccio discriminatorio in un editoriale di “Ynet” [sito web di notizie del giornale israeliano “Yedioth Aharonot’. Ndtr.] del lunedì, edizione in ebraico: “Un bambino è un bambino e merita le stesse opportunità, che sia nato a Tel Aviv, a Karnei Shomron o a Taibe.” (Karnei Shomron è una colonia in Cisgiordania, Taibe è una città araba all’interno di Israele).

Certo, ci dovrebbe essere parità di diritti per i bambini di Tel Aviv, Karnei Shomron e Taibe, per quel che riguarda Dagan; ma non per i bambini di Burkin, Nablus o Deir Istiya, città e villaggi palestinesi che soffrono quotidianamente a causa dell’esistenza dell’insediamento che lui guida – per qualche ragione loro rimangono esclusi. E’ qui che Dagan traccia il limite, e si porta dietro tutta la manifestazione per l’uguaglianza.

Perciò, cosa ci fanno i coloni alla manifestazione? Cercano una legittimazione per se stessi. Si stanno ritagliando alleanze con attivisti sociali e sindaci di comunità che effettivamente sono prive di servizi e discriminate, infiltrandosi in una lotta sociale nel tentativo di annullare le differenze tra loro e la reale periferia economica e sociale in Israele.

E questo ci porta alla nostra terza domanda: perché lasciare che si uniscano alla manifestazione? Perché il sindaco di Sakhnin, una grande città araba in Israele, è disposto ad andare insieme a loro? Perché il sindaco di Yerucham, un pacifista del partito laburista, è d’accordo? Perché il “movimento delle periferie” sta marciando con loro, mano nella mano?

Non auguro altro che il successo per la “marcia per l’uguaglianza”, ma fatela senza i coloni.

*i traduttori di Zeitun non condividono l’uso del termine “razza”, ma per rispettare l’opinione dell’autore hanno deciso di mantenere la definizione originale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA sulla settimana 7 – 13 giugno 2016

L’8 giugno, due 21enni palestinesi provenienti dalla città cisgiordana di Yatta (Hebron) hanno ucciso tre israeliani e ne hanno feriti altri sette in un centro commerciale a Tel Aviv (Israele).Nella stessa circostanza un’altra israeliana è morta, secondo i media israeliani, per crisi cardiaca.

La polizia israeliana ha arrestato i due aggressori, uno dei quali era stato precedentemente ferito. Il Segretario generale dell’ONU ha decisamente condannato l’attacco. Questo episodio porta a nove il numero di israeliani uccisi in attacchi compiuti da palestinesi della Cisgiordania a partire dall’inizio del 2016; negli ultimi quattro mesi del 2015 le uccisioni furono 23.

nota (nel testo originale): Altri tre israeliani sono stati uccisi nel mese di gennaio 2016, e uno nel mese di ottobre 2015, durante attacchi perpetrati da due cittadini palestinesi di Israele, anch’essi rimasti uccisi.

Dopo questo attacco, le forze israeliane hanno chiuso, per tre giorni, tutte le vie di accesso a Yatta, impedendo ogni movimento in entrata e in uscita dalla città, ad eccezione dei casi umanitari preventivamente concordati. Inoltre, per tutta la settimana, è stato impedito l’ingresso in Israele, o nell’area chiusa posta oltre la Barriera (la “Seam Zone “), a circa 350 titolari di permesso aventi il medesimo cognome del sospetto autore di un tentativo di accoltellamento avvenuto il 2 giugno nella zona di Tulkarem, nel corso del quale il presunto attentatore venne ucciso.

Nello stesso contesto, le autorità israeliane hanno sospeso i permessi rilasciati, per il Ramadan, ad oltre 83.000 palestinesi della Cisgiordania e ad alcune centinaia di abitanti della Striscia di Gaza; permessi utilizzati soprattutto per visite a familiari residenti in Israele. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, oltre a condannare l’attacco, ha espresso preoccupazione per la cancellazione dei permessi, fatto che può configurarsi come una punizione collettiva.

Inoltre, dal 10 al 12 giugno, in occasione di una festa ebraica (Shavuot), le autorità israeliane hanno imposto una chiusura della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, precludendo ai titolari di permesso l’ingresso in Israele e a Gerusalemme Est, ad eccezione degli operatori umanitari, del personale delle organizzazioni internazionali e dei titolari di permesso di ricongiunzione familiare.

Nonostante le misure di cui sopra, durante il primo venerdì del Ramadan (10 giugno), almeno 30.000 palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati autorizzati ad entrare a Gerusalemme Est per la preghiera. Ciò è dovuto principalmente alla già annunciata rinuncia, da parte di Israele, ad esigere alcuni requisiti per consentire l’ingresso [a Gerusalemme Est] dei palestinesi della Cisgiordania; in particolare, nell’annuncio precedente, si autorizzavano ad entrare gli uomini di età superiore ai 45 anni, i ragazzi al di sotto dei 12 anni e le donne di tutte le età.

L’11 giugno, a Beit ‘Amra (Hebron), le forze israeliane hanno distrutto la casa di famiglia di un 15enne palestinese, attualmente accusato dell’accoltellamento e uccisione di una donna israeliana verificatosi nel gennaio 2016 nell’insediamento colonico di ‘Otni’el. In seguito alla demolizione, sei persone, tra cui un minore, sono state sfollate. Dal quando, nel luglio 2014, questa pratica è stata ripristinata, le autorità israeliane hanno demolito o sigillato 48 case per motivi punitivi, sfollando 288 persone, tra cui 133 minori. Nel mese di novembre 2015, Robert Piper, coordinatore umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha invitato le autorità israeliane a fermare questa pratica, che è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale.

Al checkpoint di ‘Awarta (Nablus), nel corso di un presunto tentativo di accoltellamento, le forze israeliane hanno gravemente ferito con arma da fuoco un palestinese mentalmente disabile; nessun soldato israeliano è rimasto ferito. È stato riferito che l’uomo sarebbe stato lasciato a terra sanguinante per circa un’ora, fino a quando un’ambulanza israeliana lo ha prelevato per le cure mediche. In Cisgiordania, in vari episodi, le forze israeliane hanno ferito complessivamente 15 palestinesi, tra cui due minori. Ciò rappresenta, dall’inizio del 2016, una riduzione dell’82% della media settimanale di palestinesi feriti.

L’8 giugno, le forze della Sicurezza palestinese hanno ferito cinque palestinesi durante scontri scoppiati nel corso di una protesta contro l’ingresso di israeliani in un santuario nella città di Nablus (la Tomba di Giuseppe); queste visite avevano già portato a scontri con le forze israeliane: il 6 giugno, era stato ucciso un giovane palestinese. Una protesta simile si era verificata il 4 giugno, con scontri tra manifestanti e forze palestinesi: dieci persone avevano subito lesioni causate dalla inalazione di gas lacrimogeno.

Durante una operazione di ricerca nella città di Qalqiliya, le forze israeliane hanno lanciato razzi illuminanti: almeno 50 alberi di ulivo hanno preso fuoco e sono rimasti danneggiati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno condotto 87 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 128 palestinesi; circa il 30% degli arresti hanno avuto luogo nel governatorato di Hebron.

Nella zona (H2) della città di Hebron, sotto controllo israeliano, coloni israeliani hanno spruzzato liquido al peperoncino in faccia ad un 13enne palestinese. Inoltre, ci sono stati almeno cinque attacchi di coloni israeliani con conseguenti danni a proprietà palestinesi: 13 alberi di ulivo vandalizzati in Turmus’ayya (Ramallah); lanci di pietre ed atti vandalici contro almeno 21 veicoli in due episodi accaduti nelle zone di Gerusalemme Est e Nablus; 1.500 mq di terra spianati ad Al-Khader (Betlemme); 30 pecore di proprietà palestinese investite ed uccise nel villaggio di Az Zubeidat (Jericho).

Secondo quanto riferito dai media israeliani, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, in quattro distinti episodi di lanci di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, cinque israeliani, tra cui un minore, sono stati feriti e un veicolo è stato danneggiato.

Nella Striscia di Gaza, durante la settimana, in dieci occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare; non sono stati registrati feriti. In uno degli episodi, una barca da pesca è stata danneggiata e tre palestinesi sono stati arrestati.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Dall’inizio del 2016, il valico è stato parzialmente aperto per soli nove giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza oltre 30.000 persone sono registrate ed in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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Il futuro di Israele è terrificante: la “moralità” inquietante di Moshe Yaalon e di Israele

1 giugno 2016

Ma’an news

di Ramzy Baroud

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico.

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico. Che Israele sia ora governato dal “governo di destra più estrema della sua storia” è passato nel giro di pochi anni dall’essere un’affermazione fondata ad un vuoto luogo comune.

Infatti quella stessa argomentazione è stata utilizzata nel maggio del 2015 quando il primo ministro di destra Benjamin Netanyahu ha formato il suo governo con una risicata maggioranza di esponenti della destra con idee simili, con fanatici religiosi e ultranazionalisti. Lo stesso concetto, praticamente con le medesime parole viene nuovamente adottato, quando Netanyahu ha allargato la sua coalizione imbarcando l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Così mercoledì 25 maggio Lieberman è diventato anche il ministro della difesa d’Israele. Tenendo conto della sua politica facinorosa e violenta, come ha dimostrato nei suoi due incarichi come ministro degli esteri (dal 2009 al 2012 e di nuovo dal 2013 al 2015), con lui come ministro della difesa del “governo di destra più estrema della storia” ci si aspetta ogni tipo di terrificante futuro”.

Mentre molti commentatori ricordano opportunamente le passate provocazioni di Lieberman e le [sue ] rozze affermazioni, per esempio, la sua dichiarazione del 2015 in cui minacciava di decapitare con un’ascia i cittadini palestinesi d’Israele se non avessero manifestato piena lealtà nei confronti di Israele; in cui propugnava la pulizia etnica dei palestinesi d’Israele; il suo ultimatum [con minaccia] di morte all’ex primo ministro palestinese Ismail Haniyeh e così via, al suo predecessore, Moshe Yaalon è stata risparmiata gran parte delle critiche.

Peggio, l’ex ministro della difesa Yaalon è stato additato da alcuni come un esempio di professionalità e di moralità. Egli è “ben stimato”, ha scritto William Booth sul Washington Post, paragonato a Lieberman “ un ribelle divisivo”. Ma “stimato bene” da chi? Dalla società israeliana la cui maggioranza appoggia l’assassinio a sangue freddo di palestinesi?

Israele si è attenuto per un lungo periodo a una definizione sua propria della terminologia politica. Il suo “socialismo” di prima maniera era una combinazione di vita in comune resa possibile dai massacri dei militari e basata sul colonialismo. La sua attuale definizione di “sinistra”, “destra” e “centro” è relativa, valida solo per Israele.

Yaalon è ora un esempio di livello di ragionevolezza e di moralità grazie a Lieberman, l’ex immigrato russo , buttafuori nei club trasformatosi in politico che sta organizzando costantemente il milione circa di ebrei russo- israeliani in base al suo programma politico sempre più violento.

Infatti, la citazione riportata numerose volte dai media sulle ragioni delle dimissioni di Yaalon è che ha perso fiducia “nella capacità decisionale di Netanyahu e nella sua moralità”.

Moralità? Analizziamo la realtà.

Yaalon ha partecipato a ogni importante guerra israeliana fin dal 1973 e il suo nome è stato più tardi associato alle più atroci guerre ed ai massacri israeliani prima in Libano e dopo a Gaza.

La sua “moralità” non gli ha mai impedito di ordinare alcuni dei più indicibili crimini di guerra perpetrati contro la popolazione civile, sia a Qana in Libano(1996) sia a Shujayya ,Gaza (2014).

Yaalon si è rifiutato di collaborare con qualsiasi inchiesta internazionale organizzata dalle Nazioni Unite o da qualsiasi altra organizzazione sulla sua violenta condotta. Nel 2005 è stato portato in giudizio in un tribunale degli Stati Uniti dai sopravissuti al massacro di Qana dove centinaia di civili e di operatori delle forze di pace delle Nazioni Unite sono stati uccisi e feriti dalle incursioni militari israeliane in Libano. In questo caso, non è prevalsa né la moralità israeliana né quella americana, e la giustizia deve ancora fare il suo corso.

Yaalon, che ha ricevuto l’addestramento militare all’inizio della sua carriera presso il British Army’s Camberley Staff College dell’esercito inglese [scuola di guerra inglese di origine coloniale e che ha formato molti ufficiali superiori israeliani, tra cui Rabin, ndtr], ha continuato ad avanzare di grado nell’esercito fino al 2002 quando è stato nominato capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [IDF]. Rimasto per quasi tre anni in tale veste di conseguenza ha ordinato l’assassinio di centinaia di palestinesi e ha sovrainteso a diversi massacri che sono stati perpetrati dall’esercito israeliano durante la seconda intifada.

L’allora ministro della difesa, Shaul Mofaz, l’ha sollevato dal suo incarico nel 2005. Anche in questo caso è stata l’immoralità, non la moralità che ha giocato un ruolo nel conflitto tra lui e i suoi superiori. Yaalon era e rimane un fervente sostenitore della colonizzazione illegale del territorio palestinese. Nel 2005 egli si è opposto con forza al cosiddetto trasferimento dalla Striscia di Gaza dalla quale poche migliaia di coloni illegali sono stati ricollocati in colonie ebraiche nella Cisgiordania.

Nel 2006 in Nuova Zelanda fu raggiunto[da un ordine di cattura] per i suoi crimini di guerra riguardo all’assassinio di un comandante di Hamas, Saleh Shehade, insieme a 14 membri della sua famiglia e ad altri civili. L’ ordine di arresto fu emesso ma revocato in seguito, dopo pesanti pressioni politiche, permettendo a Yaalon di scappare dal paese.

È tornato alla guida dell’esercito nel 2013, giusto in tempo per intraprendere la guerra devastante contro Gaza nel 2014 nella quale furono uccisi 2.257 palestinesi in 51 giorni. L’OCHA , l’agenzia delle Nazioni Unite per il monitoraggio della situazione [nei territori occupati], ha calcolato che oltre il 70% degli uccisi fossero civili, tra cui 563 bambini.

La distruzione di Shujayya, in particolare, era una strategia preordinata concepita dallo stesso Yaalon. In un incontro nel luglio del 2013 con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, Yaalon informò il capo dell’ONU che avrebbe bombardato l’intero quartiere in caso di guerra. L’ha fatto.

Nel maggio del 2015 non si era ancora pentito. Parlando a una conferenza a Gerusalemme, ha minacciato di ammazzare civili nel caso di un’altra guerra contro il Libano. “ Noi colpiremo i civili libanesi comprese le famiglie con bambini” ha detto.

Abbiamo discusso molto approfonditamente. Lo abbiamo fatto allora, lo abbiamo fatto nella Striscia di Gaza e lo rifaremo in futuro in qualunque altro conflitto”, ha detto. Ha anche parlato implicitamente di sganciare una bomba nucleare sull’Iran.

Yaalon ha più volte dato via libera all’esercito israeliano di occupazione perché metta in pratica la politica di “sparare per uccidere” i palestinesi per contrastare la “tensione” in aumento nei Territori Occupati.

Queste sono le parole [pronunciate]da Yaalon durante una visita alla base militare di Gush Etzion nel novembre del 2014:[prima colonia costruita dagli israeliani in Cisgiordania, ndtr.]

Deve essere chiaro che chiunque viene per uccidere ebrei deve essere eliminato. Qualunque terrorista che usa un’arma, un coltello o una pietra, che prova a investire o in qualsiasi modo attaccare ebrei deve essere ammazzato.”

Centinaia di palestinesi sono stati uccisi nei mesi scorsi nella Gerusalemme Est occupata e in Cisgiordania. Molte delle vittime sono ragazzi che tiravano le pietre per fronteggiare i veicoli dell’esercito israeliano e migliaia di coloni ebrei felici di premere il grilletto.

Nella sua prima dichiarazione publica dopo le dimissioni, Yaalon ha accusato “una minoranza chiassosa” in Israele di attaccare “i valori fondamentali” del paese, affermando che si sono persi i “punti di riferimento morali” del paese .

La cosa preoccupante è che molti israeliani sono d’accordo con Yaalon. Considerano come un esempio di moralità e un difensore di principi fondamentali l’uomo che è stato accusato di aver commesso crimini di guerra per la maggior parte della sua carriera.

Mentre Lieberman ha dimostrato di essere una mina vagante e di essere politicamente irresponsabile, Yaalon ha parlato pubblicamente di colpire i bambini e più volte ha mantenuto le sue promesse.

Quando i “mi piace” per Yaalon , un uomo dal passato sanguinario, diventa il volto della moralità in Israele, si può comprendere perché c’è poca speranza per il futuro di quel Paese, specialmente adesso che Lieberman ha portato il suo partito “Israele è Casa Nostra” nel terrificante covo di partiti politici[del governo] di Netanyahu.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Duecento ex ufficiali della sicurezza presentano un piano per porre fine alla situazione di stallo

Associated Press, Ynet

28/05/2016

Generali dell’IDF e loro pari grado di Mossad, Shin Bet [rispettivamente servizi segreti e servizio di sicurezza interna di Israele. Ndtr] e polizia chiedono il congelamento della costruzione nelle colonie, l’accettazione dell’iniziativa di pace araba [proposta di un accordo di pace con Israele formulata dall’Arabia Saudita ed accolta dalla Lega Araba nel 2002. Ndtr.] e il riconoscimento che Gerusalemme est dovrebbe fare parte del futuro Stato palestinese; gli ex ufficiali della sicurezza invocano anche il completamento della barriera di sicurezza [o Muro di separazione. Ndtr.].

Venerdì [27 maggio] un gruppo di oltre 200 militari ed ufficiali dell’intelligence hanno criticato il governo per la sua inazione nella soluzione del conflitto israelo-palestinese ed hanno presentato un piano dettagliato che secondo loro potrebbe porre fine alla situazione di stallo. La pubblicazione del rapporto segue di poco la nomina del leader del partito Yisrael Beytenu [partito ultranazionalista. Ndtr], Avigdor Lieberman, a ministro della Difesa.

Con i colloqui di pace completamente bloccati, venerdì il piano dei “Comandanti per la Sicurezza di Israele” ha indicato le “condizioni di garanzia” per negoziare con i palestinesi. Chiede un complesso di iniziative politiche e per la sicurezza insieme alla contestuale concessione di miglioramenti economici per i palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

 Auspica un congelamento della costruzione di colonie, l’accettazione in linea di massima dell’ “Iniziativa di Pace Araba” e il riconoscimento che Gerusalemme est debba essere parte di un futuro Stato palestinese “quando ciò sia stabilito come parte di un futuro accordo.”

Il leader del gruppo, Amnon Reshef, un ex-generale dell’IDF, ha detto che il piano “smentisce i venditori di paura” che sostengono che attualmente non ci sia una controparte palestinese per la pace o che le condizioni non sono adeguate per i negoziati. Ha affermato che questo argomento, comune in Israele dopo anni di conflitto e di fallimenti dei negoziati, “non dovrebbe essere una scusa per la passività e l’inazione.”

Reshef ha messo in guardia:”L’attuale status quo è un’illusione” che danneggia una soluzione dei due Stati del conflitto.

Il piano chiede anche alle autorità di completare la costruzione del Muro di sicurezza, in modo tale da non impedire la soluzione dei due Stati. In particolare, invita le autorità a completarne la costruzione attorno a Gush Etzion, Ma’ale Adumim [due colonie nei pressi di Gerusalemme, in Cisgiordania. Ndtr.]e nel sud della Cisgiordania.

Reshef ha detto che il suo gruppo intende garantire le condizioni per futuri colloqui di pace con i palestinesi ottimizzando nel frattempo la sicurezza nazionale di Israele e le relazioni regionali e internazionali. ” Sappiamo per esperienza che non puoi sfidare il terrore solo con mezzi militari, devi migliorare la qualità della vita dei palestinesi,” ha affermato.

Il gruppo di veterani militari ha detto di sperare che il piano sia preso in considerazione dai decisori politici e dall’opinione pubblica in Israele e negli USA, dove la prossima settimana verrà lanciata una campagna con l’ ong “Israel Policy Forum” [organizzazione statunitense di ricerca, studio e formazione impegnata per la realizzazione della soluzione dei due Stati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA sulla settimana 17- 23 maggio 2016

Una 17enne palestinese è stata uccisa dalla polizia di frontiera israeliana mentre si avvicinava al checkpoint di Beit Iksa, a nord di Gerusalemme. Secondo i media israeliani, prima di essere colpita, la ragazza aveva sollevato un coltello e non aveva rispettato l’ordine di fermarsi.

Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Dall’inizio del 2016, nel corso di aggressioni e presunte aggressioni, le forze israeliane hanno ucciso 52 palestinesi sospetti aggressori, mentre, nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, ne furono uccisi 89. Le circostanze di molti episodi hanno creato preoccupazione per l’uso eccessivo della forza.

Le autorità israeliane hanno restituito alle loro famiglie i cadaveri di cinque palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Vengono tuttora trattenuti i corpi di altri nove palestinesi. Il 24 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che avrebbero sospeso la consegna dei cadaveri, a causa di un episodio di presunta violazione delle condizioni concordate per lo svolgimento dei funerali.

In Cisgiordania almeno 49 palestinesi, tra cui quattro minori e una donna, sono stati feriti dalle forze israeliane, in prevalenza durante scontri; la maggior parte dei ferimenti si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, in riferimento ai fatti del 1948, i palestinesi definiscono “Al-Nakba” [la Catastrofe]: in particolare ad Al ‘Eizariya e Silwan (Gerusalemme) e a Ni’lin (Ramallah). Altri feriti si sono avuti nelle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya); a Deir Isitya (Salfit), durante una protesta contro la recinzione di una strada principale che impedisce l’accesso alla terra e durante alcune delle 82 operazioni di ricerca-arresto svoltesi nella settimana. Il lancio di lacrimogeni in uno degli scontri verificatisi nel campo profughi di Al Fawwar (Hebron) ha appiccato il fuoco e bruciato 45 ulivi e viti. A Gaza, durante le manifestazioni presso la recinzione, due palestinesi sono stati feriti con armi da fuoco.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 13 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) lungo la recinzione perimetrale e in mare. In uno di questi casi un contadino è stato ferito, mentre dieci pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni delle forze navali israeliane, dove sono stati arrestati. Pur mancando una comunicazione ufficiale o una delimitazione, le aree fino a 300 metri dalla recinzione perimetrale sono considerate zone “vietate”, fatta eccezione per gli agricoltori che possono avvicinarsi fino a 100 metri; tuttavia fino a 1.000 metri le aree sono considerate ad alto rischio, e ciò ne scoraggia la coltivazione.

Il 22 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato la revoca del divieto di importazione di cemento per il settore privato nella Striscia di Gaza. Il divieto, in vigore dal 3 aprile 2016, era motivato dalla preoccupazione israeliana per il possibile dirottamento di materiali da costruzione verso gruppi armati e dalla scoperta di un tunnel sotterraneo sotto il confine tra Gaza ed Israele.

Le forze israeliane hanno bloccato temporaneamente due delle strade principali per il villaggio Hizma (Gerusalemme), impedendo l’accesso veicolare a circa 7.000 persone. Ciò ha fatto seguito alla esplosione, verificatasi la settimana precedente al checkpoint di Hizma (che controlla l’accesso a Gerusalemme Est), di un ordigno artigianale che ferì un soldato.

A Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre case palestinesi ed un locale per la preghiera, sfollando 26 persone, tra cui nove minori, e coinvolgendone altre otto. Dall’inizio del 2016, a Gerusalemme Est sono state demolite 72 strutture (di cui tre per motivi punitivi), rispetto alle 79 dell’intero anno 2015.

Il 18 maggio, un tribunale israeliano si è pronunciato a favore di una organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà di tre appartamenti e due negozi nella zona di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, ordinandone lo sgombero entro il 10 giugno 2016. Quattro famiglie sono a rischio imminente di sfollamento. A Gerusalemme Est, la creazione di insediamenti israeliani nel cuore dei quartieri palestinesi ha inasprito le tensioni e compromesso le condizioni di vita dei palestinesi residenti.

Nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano, un gruppo di coloni israeliani è entrato in una casa palestinese ed ha aggredito fisicamente e ferito un 16enne palestinese e suo padre. Le forze israeliane sono intervenute e, in base alle affermazioni dei coloni israeliani che sostenevano di essere stati antecedentemente aggrediti dai due, hanno arrestato il ragazzo e suo padre.

Secondo i media israeliani, un bus israeliano che transitava vicino al villaggio di Tuqu ‘(Betlemme) e la metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni: il primo per uno sparo e la seconda per il lancio di una bottiglia, presumibilmente ad opera di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah è stato chiuso sul lato egiziano. L’ultima volta è stato aperto l’11 e il 12 maggio, dopo 85 giorni consecutivi di chiusura. Secondo le autorità palestinesi, almeno 30.000 persone, di cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, sono registrate e in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah solo per cinque giorni su 144.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 26 aprile- 2 maggio

Il 27 aprile, una 23enne palestinese, madre ed incinta, e il fratello 16enne sono stati uccisi vicino al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), secondo quanto riferito da personale della società di sicurezza privata israeliana che presidia il checkpoint.

Le circostanze sono controverse: secondo fonti israeliane, i due portavano dei coltelli e non hanno obbedito all’alt impartito dalle forze israeliane; testimoni oculari palestinesi hanno riferito che il personale di sicurezza ha aperto il fuoco sulla donna che era entrata per errore nella corsia del checkpoint riservata ai veicoli e, successivamente, hanno sparato al fratello accorso per aiutarla. Le autorità israeliane trattengono ancora i loro corpi, insieme a quelli di 16 palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi [contro israeliani] negli ultimi sei mesi.

Nel villaggio di Beit Ur al Foqa (Ramallah), una 16enne palestinese è stata ferita con arma da fuoco durante un presunto tentativo di aggressione contro soldati israeliani. I media israeliani hanno riferito che lei e la sua amica portavano un coltello, una siringa e un biglietto d’addio. Entrambe le ragazze sono state arrestate e non sono stati segnalati feriti tra i soldati israeliani. Secondo i media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un colono israeliano 60enne è stato accoltellato e ferito da un palestinese; è stato inoltre riferito che il presunto aggressore è fuggito, ma è stato successivamente arrestato.

Durante la settimana, vicino alla colonia di Efrata (Betlemme), un bambino israeliano è stato ferito sull’auto su cui viaggiava, colpita da pietre; inoltre, a Gerusalemme Est, la metropolitana leggera è stata danneggiata da una pietra (o bottiglia), si sospetta, lanciata da palestinesi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 85 palestinesi, tra cui 20 minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) che, da sola, registra 43 feriti; ad Abu Dis (Gerusalemme) e al Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah) contro la recente uccisione di palestinesi; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. In un caso, nei pressi della Al Khader School (Betlemme), un ragazzo di 10 anni è stato urtato e ferito da una jeep israeliana.

In Cisgiordania, a seguito dell’ingresso di coloni e di altri gruppi israeliani in vari siti religiosi in occasione della Pasqua ebraica, sono stati registrati parecchi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane. I siti coinvolti includono: il Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio a Gerusalemme Est; il villaggio di Al Karmel nel sud di Hebron; le Piscine di Suleiman presso il villaggio di Al Khader (Betlemme); il villaggio Sebastiya (Nablus); la Tomba di Giuseppe a Nablus. In quest’ultima località, le forze israeliane hanno ferito, con arma da fuoco, un 17enne palestinese. La polizia israeliana ha vietato a quattro palestinesi, per due settimane, l’ingresso nel Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio e, in un altro caso, secondo quanto riferito, ne ha allontanato otto visitatori israeliani.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 21 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, ed hanno arrestato due pescatori dopo averli costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni israeliane, dove sono stati tratti in arresto. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 45 operazioni di ricerca-arresto arrestando 93 palestinesi: il governatorato di Gerusalemme registra la quota più alta di arresti (65, tra cui 10 minori), per la maggior parte effettuati nella moschea di Al Aqsa.

Per la prima volta in sette anni, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno iniziato ad aprire, per due ore al giorno, il cancello sulla Barriera a Dahiyat al Barid, consentendo ai possessori di documenti di identificazione di Gerusalemme, l’utilizzo di un percorso più breve tra Ramallah e le comunità vicine. Le forze israeliane hanno anche riaperto un cancello stradale, chiuso da ottobre 2015, all’ingresso orientale del villaggio di ‘Ein Yabrud (Ramallah), consentendo a circa 11 comunità il transito veicolare verso la strada 60. Un altro cancello stradale, che conduce al villaggio Jamma’in (Nablus), è stato chiuso questa settimana, costringendo i residenti ad una lunga deviazione.

Per mancanza dei permessi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture di sussistenza ed hanno confiscato due serbatoi per l’acqua in un settore dell’Area C della città di Qalqiliya. Il provvedimento interessa 10 famiglie di rifugiati palestinesi, tra cui 32 minori.

In questa settimana non sono stati segnalati attacchi di coloni con vittime o danni [a palestinesi]. Tuttavia, a sud di Yatta (Hebron), coloni israeliani hanno impedito a contadini palestinesi di accedere ai loro terreni che si trovano oltre la Barriera.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 77 giorni il periodo di chiusura ininterrotta; il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Dal 4 maggio la tensione lungo il confine tra Gaza e Israele è in aumento, concretizzata in una serie di attacchi fra gruppi armati palestinesi ed esercito israeliano. Secondo le prime notizie dei media, una palestinese è stata uccisa ed altri quattro civili palestinesi (di cui tre minori) e un soldato israeliano sono rimasti feriti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Hamas e l’Irgun? Come oso metterli a confronto…

Per tutti coloro che soffrono di amnesia volontaria ecco solo alcuni degli episodi salienti di violenza dell’Irgun  degna di Hamas.

di B. Michael – 2 maggio 2016 Haaretz

Così ha parlato Benjamin Netanyahu poche ore dopo l’esplosione il 18 aprile di una bomba su un autobus a Gerusalemme, rivendicata in seguito da Hamas: “Troveremo chiunque abbia preparato questo ordigno esplosivo, prenderemo chiunque ci sia dietro e faremo i conti con questi terroristi.” – affermazioni nette e determinate. E dove ha proferito queste ferme parole? Durante una commemorazione degli 85anni dalla fissazione dell’anno della fondazione dell’Irgun, o Etzel, la milizia clandestina pre-statale diretta da Menachem Begin.

Purtroppo Netanyahu ha dimenticato di specificare a quali “terroristi” si riferisse: quelli di cui stava celebrando l’85mo compleanno, o quelli che hanno fatto saltare in aria un autobus quel giorno al mattino presto?

Ma come potrei osare metterli a confronto.

Pochi giorni più tardi, Moshe Arens si è unito a Netanyahu. In un editoriale (Haaretz, 26 aprile) anche lui ha mostrato la sua quota di memoria selettiva e di concreta ipocrisia. Nel suo tentativo di compiacere il deputato Zouheir Bahloul (dell’Unione Sionista), Arens ha spiegato la fondamentale differenza tra “i gruppi clandestini ebrei” e “le organizzazioni terroristiche palestinesi”. I combattenti per la libertà ebrei, si è vantato l’ex membro dell’Irgun, attaccavano i soldati del mandato britannico [sulla Palestina. Ndtr.], non i civili, mentre i terroristi palestinesi prendono di mira principalmente i civili. “Questa è l’essenza del terrorismo – uccidere civili,” ha scritto Arens.

Per risvegliare la memoria di Arens e di chiunque altro soffra di amnesia volontaria, qui di seguito c’è un piccolo campione, una goccia nell’enorme bacino di lodevoli imprese realizzate dagli eroi dell’Irgun e del Lehi (la milizia guidata da Yitzhak Shamir e nota come la Banda Stern). Tutte provengono da fonti ufficiali revisioniste [cioè della destra sionista. Ndtr.]:

14 novembre 1937 – Uomini armati dell’Irgun a Gerusalemme mettono in atto un “attacco a colpi di arma da fuoco” uccidendo due passanti arabi a Rehavia. Più tardi, cecchini sparano a un autobus arabo, uccidendo tre passeggeri e ferendone otto. Bravo, Irgun!

17 aprile 1938 – Per la prima volta (ma non per l’ultima) l’Irgun lancia una bomba in un caffè arabo, con risultati modesti: una persona uccisa, sei ferite.

5 aprile 1938 – Una serie di attacchi terroristici contro passanti a Jaffa, Tel Aviv e Gerusalemme. Bombe e spari contro gli autobus. I risultati migliorano: muoiono 11 arabi, 22 rimangono feriti.

6 luglio 1938 – L’Irgun colloca un ordigno esplosivo in un mercato all’aperto di Haifa, al di fuori di “motivazioni politiche”. L’ordigno è composto da alcuni bidoni del latte di metallo, riempiti di esplosivi e di chiodi: 18 arabi uccisi, 38 feriti.

16 luglio 1938 – Un ordigno dello stesso tipo nel suk arabo di Gerusalemme: 10 morti, 31 feriti.

26 luglio 1938 – Di nuovo ad Haifa e un altro ordigno esplosivo dell’Irgun: 27 arabi rimangono uccisi, 46 feriti.

26 agosto 1938 – Questa volta il suk di Jaffa: “Un potente ordigno” come hanno detto. L’Irgun rivendica: muoiono 24 arabi, 35 sono feriti.

29 maggio 1939 – L’Irgun fa saltare in aria un cinema di Gerusalemme: 5 spettatori uccisi, 18 feriti.

20 giugno 1939 – Un’operazione contro un suk particolarmente riuscita: 78 arabi (e un asino) sono uccisi da un’esplosione in un mercato all’aperto di Haifa. L’asino era carico di esplosivo.

Tra il giugno e il luglio del 1939 l’Irgun ha ucciso dozzine di persone in tutto il Paese. L’unica colpa delle vittime era il fatto di essere arabi. Neppure l’Irgun sostiene il contrario.

Seguono alcuni anni relativamente tranquilli, ma verso la fine del Mandato Britannico queste gloriose operazioni di combattimento riprendono la loro frenesia.

4 dicembre 1947 – Bombe nei caffè, un barile di esplosivo in una stazione degli autobus, lancio di granate, sparatorie: dozzine di arabi sono uccisi.

29 dicembre 1947 – Una bomba dell’Irgun alla Porta di Damasco della Città Vecchia di Gerusalemme: 17 vittime.

30 dicembre 1947 – Membri dell’Irgun attaccano un gruppo di manovali arabi nella baia di Haifa, uccidendone 6 e ferendone 40.

4 gennaio 1948 – Un’auto-bomba del Lehi a Jaffa uccide 70 arabi.

7 gennaio 1948 – L’Irgun tenta di emulare il suo “piccolo fratello” con una bomba alla Porta di Jaffa nella Città Vecchia di Gerusalemme. Solo 24 arabi uccisi.

18 febbraio 1948 – Una bomba nel mercato di Ramle uccide 37 arabi.

E per concludere – 9 aprile 1948: l’Irgun entra a Deir Yassin, nei dintorni di Gerusalemme, e massacra 245 abitanti del villaggio. Sei giorni dopo, una folla di arabi attacca un convoglio medico diretto al Monte Scopus di Gerusalemme, massacrando 36 persone. ( Chiunque tiri frettolose conclusioni in merito alla relazione tra questi due eventi non è altro che un maledetto post-sionista).

I successivi massacri ed atrocità sono messi a segno dall’esercito del nascente Stato, piuttosto che dai gruppi clandestini che hanno aderito alla purezza-delle-armi [autorappresentazione dell’esercito israeliano, che si definisce “il più morale al mondo.” Ndtr.].

(Ho il piacevole dovere di elogiare ancora una volta Menachem Begin, di santa memoria, che dopo aver preso il comando dell’Irgun, fece il possibile per limitare questo terrorismo sfrenato. Dal 1944 fino alla fine del 1947 l’Irgun lottò puntualmente solo contro l’occupante britannico).

Questa è solamente una manciata di rimembranze. Ci sono molti più esempi di simili atti umani, con centinaia di civili innocenti che sono stati uccisi.

Se qualcuno, Dio non voglia, tenta ancora di paragonare le atrocità degli assassini arabi con le glorie dei combattenti ebrei (solo per il fatto che entrambi hanno commesso azioni assolutamente identiche), spiegheremo ancora una volta che la differenza tra il terrorismo ismaelita e i combattenti per la libertà ebrei è la stessa che passa tra i riccioli ebrei e il codino dei cinesi. Anche un bambino sa che un boccolo dell’ uomo ebreo è il culmine di bellezza e di purezza mentre un codino cinese è semplicemente disgustoso.

Non c’è davvero confronto.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha della settimana 19-25 aprile 2016

Durante la settimana non sono state registrate uccisioni di palestinesi o israeliani. Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 70 palestinesi, tra cui 11 minori.

La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: ad Abu Dis (Gerusalemme), contro la recente uccisione di palestinesi; a Ni’lin (Ramallah), contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. I numeri di questa settimana includono sette palestinesi feriti in scontri con le forze israeliane durante una demolizione punitiva.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 26 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, ferendo un pescatore e arrestandone altri sette, confiscando una barca e distruggendone un’altra. Due degli arrestati sono stati costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, sulle quali sono stati trattenuti in detenzione preventiva.

Le autorità israeliane trattengono ancora i corpi di 16 palestinesi uccisi nel corso di episodi verificatisi negli ultimi sei mesi. Secondo i media israeliani, nel marzo 2015, il Primo Ministro israeliano, ha dato istruzioni alle autorità competenti di fermare, fino a nuova comunicazione, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 74 operazioni di ricerca-arresto; il maggior numero nel governatorato di Hebron (20 operazioni). In totale sono stati arrestati 132 palestinesi; la quota più alta di arresti è stata registrata nel governatorato di Gerusalemme: 66, tra cui 19 minori, soprattutto nella città vecchia di Gerusalemme (23 arresti) e nel quartiere di Al ‘Isawiya (23 arresti, tra cui 15 minori).

Durante la settimana, le forze israeliane hanno chiuso il checkpoint di Al Jalama (Jenin), impedendone l’attraversamento a piedi ai lavoratori palestinesi; il checkpoint è tuttavia rimasto aperto per il movimento dei veicoli. Per diverse ore è stata chiusa anche la strada tra Azzun (Qalqiliya) e Jit (Nablus) mentre era in corso una marcia di coloni israeliani, tenutasi tra gli insediamenti di Karnei Shomron e Kedumim. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di polizia e ordini giudiziari che vietano, per 15 giorni, a 24 palestinesi di entrare nella Spianata delle Moschee/Monte del Tempio; ad altri cinque è stato vietato, fino a 10 giorni, di entrare a Gerusalemme. I provvedimenti sono motivati dal fatto che gli interessati sono stati implicati in proteste contro l’ingresso nel Complesso di coloni israeliani e di altri gruppi israeliani. Secondo i media israeliani, in seguito a presunte violazioni delle prescrizioni imposte da Israele, a due israeliani è stato proibito l’ingresso nel Complesso ed almeno altri 13 ne sono stati allontanati.

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le autorità israeliane hanno effettuato una demolizione punitiva contro la casa di famiglia di un palestinese sospettato di aver ucciso, il 25 gennaio 2016, una colona israeliana. Di conseguenza, è stata sfollata una famiglia di otto persone, di cui cinque minori. Nel mese di novembre 2014, il coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale”. Inoltre, nella zona di Sur Bahir di Gerusalemme Est, per la mancanza di un permesso di costruzione rilasciato da Israele, le autorità israeliane hanno costretto una famiglia ad auto-demolire un ampliamento della loro casa.

Questa settimana sono stati registrati due attacchi di coloni con conseguenti danni materiali: ad Husan (Betlemme), il danneggiamento di circa 7 ettari di terra agricola palestinese inondata da acque di scolo, pompate dall’insediamento colonico di Betar Illit; a Far’ata (Qalqiliya), il furto di attrezzi agricoli. Segnalato inoltre, non incluso nel conteggio, il ferimento di due palestinesi, di cui uno in modo grave, investiti da veicoli con targa israeliana. In uno dei due casi si trattava di un minore al quale le forze israeliane hanno prestato i primi soccorsi.

Una carrozza della metropolitana leggera, nell’attraversamento del quartiere di Shu’fat, a Gerusalemme Est, è stata colpita e danneggiata da una pietra (o bottiglia) lanciata, si sospetta, da palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, continua a restare chiuso in entrambe le direzioni da ormai 70 giorni consecutivi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare 30.861 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 aprile, una 23enne madre di due figli e il fratello 16enne sono stati uccisi dalle forze israeliane al checkpoint di Qalandiya a Gerusalemme, in circostanze poco chiare. I corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli