Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




La verità che sta dietro la propaganda israeliana sull’ “espulsione’ degli ebrei arabi

Joseph Massad

15 dicembre 2020 – Middle East Eye

La vergognosa montatura di Israele riguardo all’immigrazione degli ebrei arabi in Israele negli anni ’40 e ’50 è un tentativo di mascherare le ingiustizie inflitte ai palestinesi

La propaganda israeliana riguardo all’“espulsione” di ebrei arabi da Paesi arabi alla fine degli anni ’40 e all’inizio dei ’50 prosegue senza sosta. Secondo un articolo di Ynet [sito di notizie del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, ndtr.] all’inizio di questo mese l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan ha informato il segretario generale dell’ONU Antonio Gutterres di aver intenzione di “sottoporre una bozza di risoluzione in cui si chiede all’istituzione internazionale di tenere ogni anno una commemorazione delle decine di migliaia di ebrei esiliati da Paesi arabi a causa della creazione dello Stato di Israele.”

Le falsificazioni israeliane riguardo all’immigrazione di ebrei arabi in Israele sono talmente vergognose che ogni anno il 30 novembre il Paese tiene una commemorazione. Questa data, guarda caso, coincide con la pulizia etnica della Palestina da parte delle bande sioniste, iniziata il 30 novembre 1947, il giorno dopo che l’Assemblea generale dell’ONU adottò il piano di partizione [della Palestina, ndtr.]. La scelta della data intende coinvolgere gli ebrei arabi nella conquista della Palestina, mentre la maggioranza di loro non ebbe nessun ruolo in essa.

Erdan sostiene che, dopo la fondazione della colonia di insediamento israeliana, i Paesi arabi “lanciarono un attacco generalizzato contro lo Stato di Israele e contro le fiorenti comunità ebraiche che vivevano nel mondo arabo.” Le falsità israeliane, con cui Israele spera sempre di obbligare gli Stati arabi a pagare a Israele miliardi di dollari, hanno un altro importante obiettivo: assolvere Israele dal suo peccato originale per aver espulso i palestinesi nel 1948 e aver rubato le loro terre e proprietà.

Tranelli ideologici

Nel dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ordinò che ai rifugiati palestinesi venisse consentito di tornare alle loro case e che venissero compensati per la distruzione e il furto delle loro proprietà da parte di Israele. Israele non solo vuole tenersi tutte quelle terre, ma anche estorcere ad alcuni Paesi arabi il pagamento di altri miliardi.

È un’ulteriore ironia degli intrighi israeliani: Israele ha sempre insistito che la Palestina, e in seguito Israele, sono la patria dell’ebraismo mondiale, sostenendo nel contempo che gli ebrei arabi che immigrarono in Israele siano “rifugiati”. La definizione giuridica e universalmente accettata di rifugiato, tuttavia, è una persona che è stata espulsa o è scappata dalla propria patria, non che vi è “tornata”.

A parte questo sotterfugio ideologico, la storia dell’emigrazione degli ebrei arabi in Israele non  riguarda l’espulsione da parte dei regimi arabi, ma piuttosto le azioni criminali israeliane che obbligarono gli ebrei di Yemen, Iraq, Marocco, Egitto e di altri Paesi ad andarsene in Israele.

Nel 1949 il governo israeliano stava lavorando assiduamente con le autorità coloniali britanniche ad Aden e con funzionari yemeniti per organizzare un ponte aereo verso Israele. Secondo il libro dell’illustre storico israeliano Tom Segev “1949: i primi israeliani”, mentre la Lega degli Stati arabi aveva deciso di vietare l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele fin dal febbraio 1949, con l’aiuto degli emissari sionisti e di mazzette israeliane per i governanti provinciali yemeniti l’imam dello Yemen consentì agli ebrei di andarsene.

Alcuni dei governatori provinciali chiesero che almeno 2.000 ebrei rimanessero, in quanto era un dovere religioso dei musulmani proteggerli, ma l’emissario sionista insistette che per loro era un “comandamento” religioso ebraico andare nella “Terra di Israele”. Secondo Segev ed altre fonti, il fatto che il primo ministro israeliano dell’epoca fosse David Ben Gurion suggerì anche a molti che Israele “fosse il regno di David”. Decine di migliaia di ebrei vennero spinti ad abbandonare le proprie case e ad andare in Israele.

Discriminazione istituzionalizzata

Riguardo agli ebrei che scelsero di rimanere, l’emissario ebreo ad Aden, Shlomo Schmidt, chiese il permesso di proporre che le autorità yemenite li espellessero, ma esse non lo fecero.

Secondo Segev ed altre fonti, alcuni dei bagagli degli ebrei che partirono, compresi antichi rotoli della Torah, gioielli e indumenti ricamati, che erano stati incoraggiati a portare con sé, sparirono lungo il tragitto e misteriosamente “finirono nei negozi di antichità e souvenir in Israele.”

Dal 1949 e il 1950 circa 50.000 ebrei yemeniti vennero sostanzialmente portati via dallo Yemen dagli israeliani e in Israele dovettero affrontare la discriminazione istituzionalizzata da parte degli ashkenaziti [ebrei di origine europea e classe dirigente in Israele, ndtr.]. Ciò incluse la sottrazione di centinaia di bambini yemeniti ai loro genitori, a cui venne detto che erano morti. A quanto pare i bambini furono poi affidati in adozione a coppie ashkenazite.

I sionisti si attivarono anche per mettere in atto l’emigrazione degli ebrei marocchini in Israele. All’epoca il Marocco era sotto occupazione militare francese, per cui l’Agenzia Ebraica dovette trovare un accordo con il governatore francese del Marocco per organizzare l’emigrazione degli ebrei marocchini, che secondo Segev e altre fonti dovettero affrontare terribili condizioni sulle navi israeliane. Secondo l’inviato dell’Agenzia Ebraica, alcuni dei 100.000 ebrei che se ne andarono dovettero essere di fatto “presi a bordo delle navi con la forza.”

Nel contempo il governo irakeno di Nuri al-Said, uomo forte dei britannici nel Medio oriente arabo, venne ingiustamente accusato dalla propaganda israeliana di perseguitare gli ebrei, mentre in realtà si trattava di invenzioni israeliane. Agenti sionisti iniziarono a svolgere attività in Iraq, facendo passare clandestinamente ebrei in Israele attraverso l’Iran, il che portò a procedimenti giudiziari contro un pugno di sionisti.

Poi iniziarono gli attacchi contro gli ebrei iracheni, compreso quello presso la sinagoga Masuda Shemtov di Baghdad, in cui vennero uccisi 4 ebrei e un’altra decina venne ferita. Alcuni ebrei iracheni credettero che questo fosse il lavoro di agenti del Mossad, inteso a spaventare gli ebrei fino a fargli lasciare il Paese. Le autorità irachene accusarono e giustiziarono attivisti dei gruppi clandestini sionisti.

Tra la campagna globale di Israele per fare pressione sull’Iraq perché consentisse agli ebrei di andarsene, che portò ai tentativi israeliani di bloccare i crediti della Banca Mondiale all’Iraq, e le pressioni americane e britanniche, il parlamento iracheno cedette ed emanò una legge che consentiva agli ebrei di andarsene. Agenti sionisti in Iraq telegrafarono al loro responsabile a Tel Aviv: “Stiamo portando avanti la nostra solita attività per far passare la legge più rapidamente.” I 120.000 ebrei iracheni vennero quindi rapidamente trasferiti in Israele.

Prendere di mira interessi europei

Nella relativamente ridotta comunità ebraica egiziana un numero ancora più esiguo era composto da ashkenaziti (per lo più alsaziani e russi), arrivati fin dagli anni ’80 dell’Ottocento. Ma la comunità più numerosa era composta da ebrei sefarditi che erano arrivati nello stesso periodo da Turchia, Iraq e Siria, oltre ad una piccola comunità di ebrei karaiti [originari della Crimea, ndtr.]. In tutto erano meno di 70.000, metà dei quali non aveva la nazionalità egiziana.

L’attivismo sionista tra la piccola comunità di ebrei ashkenaziti in Egitto portò alcuni ad andare in Palestina prima del 1948, tuttavia fu dopo la fondazione di Israele che molti ebrei della classe alta egiziana iniziarono a andarsene verso la Francia, non in Israele. Ciononostante la comunità rimase essenzialmente intatta fino a quando nel 1954 Israele intervenne, reclutando ebrei egiziani per una cellula terroristica che piazzò bombe in cinema egiziani, nella stazione ferroviaria del Cairo e in strutture educative e biblioteche americane e britanniche.

Gli israeliani speravano che, prendendo di mira interessi occidentali in Egitto, avrebbero potuto guastare gli allora amichevoli rapporti tra il presidente egiziano e gli americani.

L’intelligence egiziana scoprì la cellula terroristica israeliana e processò gli imputati in un’udienza pubblica. Secondo il libro di David Hirst The Gun and the Olive Branch [Il fucile e il ramo d’ulivo] ed altre fonti, gli israeliani montarono una campagna internazionale contro l’Egitto e il presidente Gamal Abdel Nasser, che venne definito l’“Hitler del Nilo” dalla stampa israeliana ed internazionale, mentre agenti israeliani spararono contro il consolato egiziano a New York.

Unita alla nuova campagna socialista e nazionalista di egittizzazione degli investimenti nel Paese, molti ricchi uomini d’affari iniziarono a vendere le proprie attività economiche e ad andarsene.

Nel momento in cui, alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60 iniziò la nazionalizzazione, la maggior parte delle attività nazionalizzate era di fatto di proprietà di egiziani musulmani e cristiani, non ebrei. Fu in questo contesto e in quello dell’ira dell’opinione pubblica contro Israele che molti ebrei egiziani ebbero paura e se ne andarono dopo il 1954 negli USA e in Francia, mentre i poveri finirono in Israele (come raccontato nel libro di Joel Beinin Dispersion of Egyptian Jewry [La dispersione degli ebrei egiziani]).

Quando Israele si unì alla cospirazione franco-britannica per invadere l’Egitto nel 1956 [la guerra per il canale di Suez, ndtr.] e dopo la sua occupazione militare della penisola del Sinai, ne seguì un’ondata di rabbia contro la colonia di insediamento. Secondo Beinin, il governo egiziano arrestò circa 1.000 ebrei, metà dei quali cittadini egiziani, e la piccola comunità ebraica egiziana iniziò ad andarsene in massa. Nel 1967, all’epoca della seconda invasione dell’Egitto, nel Paese rimanevano solo 7.000 ebrei.

Inviti formali

Nonostante la responsabilità israeliana nel provocare l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi, il governo israeliano continua ad accusare i governi arabi. Riguardo alle loro proprietà, in effetti, essi devono tornarne in possesso e/o essere indennizzati, non in conseguenza di una qualche narrazione di espulsioni inventate che serve agli interessi dello Stato di Israele, ma a causa del loro reale diritto di proprietà.

Contrariamente alla propaganda israeliana secondo cui si trattò di uno scambio di popolazione, è significativo che, mentre agli ebrei europei ed arabi che emigrarono in Israele vennero date gratis terre e proprietà di palestinesi espulsi, secondo lo storico israeliano Benny Morris e altre fonti, i palestinesi non ottennero le proprietà degli ebrei arabi che emigrarono in Israele.

Certamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che nel 1947 venne riconosciuta dalla Lega Araba e dall’ONU come “l’unica legittima rappresentante del popolo palestinese”, era ben consapevole di questa strategia israeliana. Conscia del fatto che l’emigrazione degli ebrei arabi in Israele era stato un vantaggio per il colonialismo di insediamento israeliano, in un memorandum del 1975 molto pubblicizzato dai governi arabi la cui popolazione ebraica era andata in Israele, l’OLP chiese che essi emettessero inviti formali e pubblici perché gli ebrei arabi tornassero alle loro case.

Cosa rilevante, nessuno dei governi e regimi del 1975 lo era al potere quando gli ebrei se ne erano andati, tra il 1949 e il 1967. Inviti pubblici ed espliciti vennero puntualmente emanati dai governi di Marocco, Yemen, Libia, Sudan, Iraq ed Egitto perché gli ebrei arabi tornassero, soprattutto alla luce delle discriminazioni razziste istituzionalizzate degli ashkenaziti che avevano subito in Israele. Né Israele né le comunità ebraiche arabe risposero a questi inviti.

Crimini ricompensati

A parte tutto ciò, c’è la questione degli incessanti tentativi di Israele di equiparare le perdite finanziarie degli ebrei arabi con quelle dei rifugiati palestinesi. Una prudente stima ufficiale israeliana che confronta le perdite di proprietà palestinesi con quelle degli ebrei arabi dà una differenza di 22 a 1 a favore dei palestinesi, nonostante la notevole sovrastima delle perdite degli ebrei arabi e una sottostima persino superiore delle perdite palestinesi.

Stime prudenti delle perdite dei rifugiati palestinesi ammontano a più di 300 miliardi di dollari [245 miliardi di euro, ndtr.] in prezzi del 2008, escludendo i danni per pene e sofferenze psicologiche, che incrementerebbero in modo notevole la somma totale. Ciò esclude le perdite in terre e proprietà subite dai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 e quelle dei palestinesi nella Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est, occupate dal 1967.

Mentre nessuno dei regimi arabi del periodo in cui gli ebrei arabi emigrarono in Israele è attualmente al potere, lo stesso regime israeliano di colonialismo di insediamento che espulse il popolo palestinese e architettò l’esodo degli ebrei arabi dai loro Paesi lo è ancora.

Eppure nella sua lettera Erdan lamenta che “fa rabbia vedere che l’ONU celebra un giorno speciale e dedica molte risorse alla questione dei ‘rifugiati palestinesi’, mentre abbandona ed ignora centinaia di migliaia di famiglie ebraiche deportate da Paesi arabi e dall’Iran.” L’ironia della lettera di Erdan è che chiede che il regime israeliano venga economicamente e moralmente risarcito per i crimini che ha commesso negli ultimi 70 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’uccisione di un beduino è un’arma della guerra di Netanyahu per sopravvivere

Edo Konrad

9 settembre 2020 – +972 magazine

Netanyahu sta utilizzando l’uccisione colposa di Yacoub Abu al-Qi’an come clava per attaccare le autorità che lo accusano di corruzione.

Le ultime 24 ore hanno fatto comprendere nel dettaglio il profondo cinismo con cui i dirigenti israeliani trattano i cittadini palestinesi del Paese. Martedì notte il primo ministro Benjamin Netanyahu ha finalmente chiesto scusa alla famiglia di Yacoub Abu al-Qi’an, un beduino abbattuto a fucilate dalla polizia israeliana nel gennaio 2017 durante un’incursione nel villaggio non riconosciuto di Umm al-Hiran, nel deserto del Naqab/Negev.[vedi su questo argomento zeitun]

Le scuse di Netanyahu giungono dopo più di tre anni di tentativi da parte della polizia di calunniare Abu al-Qi’an e la sua famiglia; una presunta inchiesta sull’incidente e prove incontrovertibili dimostrano senza ombra di dubbio che Abu al-Qi’an oggi dovrebbe ancora essere vivo.

Per anni la versione ufficiale, sostenuta dalla polizia e a livello politico, è stata che la sparatoria era giustificata. Improvvisamente, poiché deve affrontare una crescente indignazione sulla gestione della crisi di COVID-19 e un processo penale che minaccia il suo futuro politico, Netanyahu ha trovato il modo di utilizzare un beduino assassinato che è stato senza mezzi termini dipinto e condannato come un terrorista.

Nel 2017 Umm al-Hiran era impegnato in una lotta per la sopravvivenza. Per circa due decenni Israele aveva progettato di radere al suolo il villaggio e di sostituirlo con la città ebraica di Hiran, in base al fatto che le case dei beduini erano state costruite su terra demaniale (negli anni ’50il governo militare israeliano aveva ordinato alla tribù di Abu al-Qi’an di spostarsi su questa terra).

Durante un’incursione avvenuta nelle prime ore del mattino dell’unità speciale della polizia incaricata di far applicare le leggi sulla costruzione e la pianificazione, i poliziotti israeliani spararono e uccisero Yacoub Abu al-Qi’an, che si era appena messo alla guida della sua macchina nelle vicinanze delle demolizioni. Poi Yacoub finì per sbandare uccidendo l’ufficiale della polizia israeliana Erez Levy.

Al momento degli spari, l’allora capo della polizia Roni Alsheikh e l’ex ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan definirono l’uccisione di Levy “un attacco indiscutibilmente terroristico.” I principali mezzi di informazione israeliani ripresero senza metterla in dubbio questa menzogna. Riguardo alla sparatoria il dipartimento di Indagini Interne della polizia iniziò un’inchiesta preliminare, ma nel maggio 2018 i pubblici ministeri israeliani chiusero il caso, affermando che non ci fossero basi per un procedimento penale contro i poliziotti coinvolti.

Al funerale dell’agente Levy il capo della polizia Alsheikh ripeté l’affermazione senza fondamento che Abu al-Qi’an fosse un violento radicale islamista. Per più di un anno e mezzo dopo l’uccisione, e nonostante prove video e testimonianze del contrario, Erdan continuò a sostenere che Abu al-Qi’an era un terrorista. Erdan poi chiese allo Shin Bet di riaprire l’inchiesta “per dimostrare” che l’incidente era stato un attacco terroristico.

Lentamente iniziarono ad accumularsi prove che smentivano le affermazioni della polizia, compresa un’inchiesta preliminare da parte del centro di ricerche londinese Architettura Forense [organizzazione che ricostruisce con metodi scientifici avvenimenti controversi, fondata dall’architetto israeliano Eyal Weizman, ndtr.] e le testimonianze oculari presentate alla Corte Suprema e consegnate ai media, che confutavano nei fatti il racconto della polizia.

Poi lunedì notte il telegiornale israeliano più seguito, su Canale 12, ha rivelato che l’ex- procuratore generale Shai Nitzan era intervenuto per evitare un’inchiesta sulla condotta del capo della polizia Alsheikh nel caso, nonostante un importante funzionario delle forze dell’ordine avesse affermato che Alsheikh aveva fatto filtrare alla stampa materiale delle indagini.

In una mail inviata nel 2018, Nitzan affermava che mettere in evidenza le divergenze tra la polizia e l’ufficio della procura generale avrebbe “fatto del bene solo a quanti vogliono fare del male alle forze dell’ordine.” Sembra che la decisione di Nitzan di frenare l’inchiesta fosse motivata dal timore che le malefatte della polizia potessero danneggiare l’immagine delle forze dell’ordine e del sistema penale mentre stavano indagando Netanyahu per corruzione. Ora siamo a due giorni da questa rivelazione e la destra israeliana ci va a nozze.

“Hanno detto che era un terrorista,” ha sottolineato Netanyahu in un discorso in televisione martedì notte. “Ieri è risultato chiaro che non lo era. Ieri è risultato chiaro che pubblici ministeri esperti e la polizia lo hanno trasformato in terrorista per proteggere se stessi.”

Nel contempo il deputato del partito di estrema destra Yamina Bezalel Smotrich, che ha descritto il tasso di natalità dei beduini come una “bomba” che deve essere disinnescata e che sostiene la segregazione razziale nei reparti di maternità, si è scusato per aver definito Abu al-Qi’an un terrorista. Smotrich inizialmente ha negato di averlo mai detto, finché un utente di twitter gli ha rinfrescato la memoria con delle schermate.

Anche Regavim, l’organizzazione dei coloni fondata da Smotrich per promuovere la demolizione di case e l’espulsione dei palestinesi, ha inviato scuse per il comunicato emesso dopo l’uccisione, in cui il gruppo definiva Abu al-Qi’an un “terrorista assassino” incitato da organizzazioni di sinistra, elementi estremisti islamici e membri della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.].

Il ministro della Giustizia Amir Ohana, uno dei più strenui sostenitori di Netanyahu e il cui ministero è competente per la polizia, ha chiesto una revisione delle risultanze della polizia. Questa è la prima volta che un funzionario del governo mette pubblicamente in discussione rapporti della polizia riguardo agli avvenimenti occorsi a Umm al-Hiran.

Come ha scritto martedì Oren Ziv su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.], Netanyahu ha ragione a chiedere scusa alla famiglia di Abu al-Qi’an, ogni altro funzionario coinvolto nella sua morte deve fare altrettanto ed essere chiamato a risponderne. Ma non c’è alcuna ragione per lasciare che il primo ministro se la cavi così facilmente. Se Netanyahu non è interessato ad utilizzare l’uccisione di Abu al-Qi’an solamente per trarne dei vantaggi personali contro la polizia e la procura, dovrebbe andare molto al di là di semplici scuse.

Potrebbe iniziare, per esempio, scusandosi con le 170 famiglie di Umma al-Hiran che sono state obbligate a firmare un accordo di ricollocamento prima della demolizione del loro villaggio. Potrebbe chiedere scusa ai beduini del Naqab per gli incessanti tentativi del suo governo di rinchiuderli in township [quartieri in cui venivano costretti a vivere i neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] per poter costruire al posto dei loro villaggi nuove città ebraiche.

Poi potrebbe scusarsi di aver incitato all’odio contro i cittadini palestinesi di Israele, una pratica che ha raggiunto l’apice negli ultimi cinque anni. E infine potrebbe chiedere scusa alle innumerevoli famiglie di palestinesi erroneamente uccisi per mano delle forze di sicurezza israeliane.

Ma Netanyahu non vuole fare niente di tutto questo. Yacoub Abu al-Qi’an si è trasformato in una preziosa clava per il primo ministro, un’occasione d’oro in cui la morte di un innocente, che risulta anche appartenere a una comunità regolarmente etichettata come “terrorista”, si trasforma in un’arma della sua guerra personale.

Ovviamente c’è qualcosa di fondamentalmente marcio nelle forze di sicurezza israeliane e nel loro sistema di controllo interno. I palestinesi, sia cittadini di serie B dentro Israele che sottoposti alla dittatura militare e all’assedio in Cisgiordania e a Gaza, lo hanno sempre saputo. La recente uccisione da parte della polizia di Iyad al-Hallaq, un palestinese di Gerusalemme est affetto da autismo, ne è ulteriore prova.

Ma la guerra di Netanyahu contro la polizia e la procura non ha niente a che vedere con la giustizia per le vittime della violenza della polizia. Al contrario, ha molto a che fare con la sua lotta per rimanere il più possibile sul trono. Lo stesso trono costruito con il sangue di quanti sono stati colpiti proprio dalle autorità che giurano di proteggerli.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Residente a Tel Aviv, in precedenza ha lavorato come redattore di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La corte israeliana approva l’uso di corpi palestinesi come moneta di scambio

Maureen Clare Murphy

19 settembre 2019 Electronic Intifada

Una famiglia palestinese del villaggio di al-Eizariya, dalle parti di Gerusalemme, non ha potuto seppellire il figlio quattordicenne, che è stato ucciso dalla polizia israeliana il mese scorso.

La famiglia di Nassim Abu Rumi ha presentato una istanza all’alta corte israeliana perché venga disposta la restituzione delle sue spoglie che, secondo quanto riferito, verranno trasferite venerdì. Israele restituirà anche i resti di Omar Younis, morto in un ospedale israeliano ad aprile dopo essere stato ucciso dalle forze di occupazione ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Israele detiene i resti di oltre una decina di palestinesi recentemente uccisi durante presunti ed effettivi attacchi contro le forze di occupazione e contro civili.

Questo mese, in seguito ad una petizione da parte di diverse famiglie dei cui congiunti Israele è ancora in possesso delle spoglie mortali, la corte suprema del Paese ha decretato la sua decisione politica.

Come ha riportato The Times of Israel, la corte ha stabilito che l’esercito israeliano ha “il diritto legale di trattenere i corpi dei terroristi uccisi per usarli come leva in futuri negoziati con i palestinesi”.

Nel dicembre 2017, la corte ha dichiarato che Israele non ha l’autorità legale di detenere i corpi “fino a quando non venga dato il consenso a determinate disposizioni funebri” da parte della famiglia della vittima palestinese.

Israele, hanno dichiarato i giudici all’epoca, “non può trarre vantaggio dai cadaveri ai fini di negoziati dal momento che non esiste una legge specifica e chiara che gli consenta di farlo”.

L’anno successivo il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una legge che consente alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi nella circostanza in cui presumibilmente stiano compiendo un attacco contro israeliani.

Secondo The Times of Israel la legge autorizza i comandanti di polizia a trattenere un corpo se viene stabilito che il funerale della persona uccisa “potrebbe essere utilizzato per compiere un attacco o per fornire una occasione per esaltare il terrorismo”.

“Non ne abbiamo bisogno”

Il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, che sovrintende alla polizia israeliana, ha dichiarato al momento dell’approvazione della legge che “il governo non vuole avvantaggiarsi di questi corpi. Per quanto ci riguarda, i cadaveri di questi maledetti terroristi marciranno. Non ne abbiamo bisogno.”

La sentenza della corte suprema israeliana di questo mese, tuttavia, mostra che lo Stato intende utilizzare i corpi come moneta di scambio per proteggere i soldati israeliani ancora trattenuti dai palestinesi.

Le organizzazioni per i diritti umani confutano l’affermazione dell’alta corte secondo cui il rifiuto di restituire i corpi dei palestinesi sia consentito dal diritto internazionale umanitario, che regola i conflitti armati.

Adalah, una organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, ha affermato che la sentenza è stata tra le “più eccessive” mai emesse dalla corte, “in quanto mina i principi più elementari dell’umanità universale”.

L’organizzazione per i diritti ha aggiunto che la sentenza del tribunale è la prima al mondo che consente alle autorità statali di detenere corpi in modo che possano essere utilizzati come moneta di scambio.

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “La pratica di trattenere i cadaveri equivale a una politica di punizione collettiva”, che è proibita dal diritto internazionale.

Trattenere i corpi, ha aggiunto Al-Haq, è anche “contrario al divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.

Le famiglie che hanno presentato la petizione alla corte hanno dichiarato che “prevedono di ricorrere ai tribunali internazionali nel tentativo di fare tutto il possibile per recuperare i corpi dei loro cari”.

Lasciato morire dissanguato

Un video mostra Nassim Abu Rumi mentre viene ucciso pochi istanti dopo che lui e un altro minore palestinese, il 15 agosto, si sono lanciati con in mano dei coltelli da cucina contro gli agenti di polizia israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Gli agenti hanno deciso di aprire il fuoco contro i ragazzi come prima istanza, senza usare mezzi meno letali per bloccarli.

L’altro ragazzo è stato gravemente ferito ed è stato accusato di tentato omicidio. Uno spettatore palestinese è stato ferito durante l’incidente e un agente è stato leggermente ferito dai giovani.

I video dell’episodio non mostrano alcun tentativo di prestare un soccorso immediato a nessuno dei ragazzi, una volta colpiti dalla polizia. Un video mostra un agente mentre riceve delle cure.

Una organizzazione per i diritti umani sta richiedendo un’indagine da parte del ministero della Sanità israeliano su un altro caso in cui un sospetto aggressore palestinese è stato lasciato morire dissanguato, anche se un medico della polizia era sul posto.

Yaqoub Abu al-Qiyan è stato ucciso dalla polizia durante quello che ritenevano fosse un tentativo di attentato con l’auto tramite speronamento, durante un raid contro Umm al-Hiran, un villaggio beduino nel sud di Israele non riconosciuto dallo Stato.

L’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca britannico Forensic Architecture indica che, contrariamente a quanto affermato dai leader israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, Abu al-Qiyan quando, nel gennaio 2017, la polizia ha aperto il fuoco sul suo veicolo, non stava tentando nessun attacco.

I risultati di Forensic Architecture indicano che Abu al-Qiyan, un cittadino israeliano-palestinese, stava guidando lentamente e il suo veicolo ha solo accelerato dopo essere stato colpito dalla polizia, il che suggerisce che egli abbia perso il controllo della sua auto.

Un’indagine interna della polizia, conclusa di recente, ha assolto il medico della polizia [dall’accusa] di negligenza.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che l’incapacità del medico della polizia di prestare le prime cure ad Abu al-Qiyan “non è una carenza specifica, ma un problema sistemico”.

I Physicians for Human Rights-Israel (I Medici per i diritti umani – Israele, n.d.tr.) hanno dichiarato che “Le procedure imprecise sulla presa in cura delle persone ferite in episodi interpretati come attacco terroristico consentono situazioni in cui le persone ferite, ritenute responsabili, non ricevano assistenza”.

“I medici non possono agire in qualità di giudici e di giurie”, ha aggiunto l’associazione. “I medici e l’altro personale sanitario devono trattare tutti i feriti secondo le regole del triage”.

Nella sua indagine su una serie di uccisioni illegali di palestinesi da parte delle forze israeliane, Amnesty International ha dichiarato che le inadempienze nella prestazione delle prime cure – “in particolare l’omissione intenzionale – violano il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, disumani e degradanti”.

L’organizzazione per i diritti umani ha aggiunto che “In quanto tale, la mancata prestazione di assistenza medica dovrebbe essere indagata come crimine”.

Mercoledì scorso, una donna palestinese è stata colpita dalle forze israeliane ad un posto di blocco in Cisgiordania e lasciata sanguinare a morte per strada.

Testimoni oculari hanno affermato che alla donna è stato negato il soccorso immediato. La Palestine Red Crescent Society ha affermato che le forze israeliane hanno impedito ai paramedici di raggiungerla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele istiga a minacciare di morte i difensori dei diritti umani

Ali Abunimah

1 agosto 2019 – Electronic Intifada

La propaganda governativa israeliana istiga a minacciare con violenza i difensori dei diritti umani.

Sulla pagina Facebook per il sito web 4IL i visitatori hanno scritto commenti che invitano a uccidere Shawan Jabarin, direttore dell’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq.

Tra queste [minacce] figuravano: “Quando gli piantiamo una pallottola in testa?”, “Perché gente simile respira ancora?” e “Perché non è stato ancora fatto fuori?”

4IL è un organo di propaganda del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Il ministero, guidato da Gilad Erdan, conduce la campagna israeliana di diffamazione e sabotaggio contro le associazioni per i diritti umani e il movimento mondiale di solidarietà con la Palestina.

Al-Haq definisce questi commenti “discorsi di incitamento all’odio”.

Le associazioni per i diritti umani dicono che l’aumento delle minacce di morte si è verificato dopo che 4IL ha pubblicato un articolo che accusava Jabarin, un difensore dei diritti umani che ha meritato riconoscimenti e premi internazionali, di “terrorismo”.

Il governo israeliano ha pubblicato l’articolo che diffama Al-Haq dopo che l’organizzazione ha tenuto un evento per festeggiare il suo 40esimo anniversario, a cui hanno partecipato accademici, diplomatici e dirigenti, anche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

Secondo Al-Haq “l’attacco è l’ultimo di una campagna su larga scala contro organizzazioni della società civile palestinesi e altre, che lavorano per promuovere e difendere lo stato di diritto e gli standard dei diritti umani per il popolo palestinese”.

La settimana scorsa la rete internazionale per i diritti umani FIDH ha diffuso un allarme per condannare la campagna di diffamazione e le minacce di morte contro Jabarin e chiedere a Israele di “porre immediatamente fine ad ogni atto di aggressione contro di lui, contro Al-Haq e contro tutti i difensori dei diritti umani.”

Al-Haq è stata presa di mira in modo particolare da parte di Israele a causa del suo ruolo nel raccogliere prove di crimini israeliani contro i diritti umani per la Corte Penale Internazionale.

In Olanda, dove ha sede la Corte, alcuni organi competenti si sono messi a fare indagini sulle minacce di morte nei confronti di un avvocato che lavora con Al-Haq.

Secondo un giornalista israeliano esperto di intelligence, la campagna di aggressione contro l’avvocato è probabilmente opera del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Un obbiettivo centrale della campagna di diffamazione è costringere i governi a interrompere i finanziamenti alle associazioni per i diritti umani collegandole al “terrorismo”.

Il mese scorso l’UE ha detto di essere “al corrente delle accuse” contro Al-Haq, ma che la verifica dei rappresentanti dell’organizzazione con le liste delle persone sottoposte a sanzioni dall’ONU e dall’UE non hanno rivelato alcun problema.

Mercoledì Amnesty International ha chiesto che le autorità israeliane “indaghino urgentemente sulle minacce di morte nei confronti di tre organizzazioni della società civile, compresa la sezione israeliana di Amnesty International a Tel Aviv.”

L’organizzazione ha detto che minacce di morte anonime sono state scritte con lo spray fuori dagli uffici di Amnesty International Israele e di ASSAF, un’organizzazione che lavora con rifugiati e richiedenti asilo.

Amnesty Israele ha postato su Facebook una foto del graffito in ebraico fuori dal suo ufficio.

Vi è scritto: “Le persone malvagie moriranno per i loro peccati” – una citazione dalla Bibbia.

Inoltre una scatola contenente minacce di morte ed un topo morto è stata lasciata all’ingresso del Centro di attività per i rifugiati Elifelet.

Amnesty ha sottolineato che negli ultimi anni “il clima per i difensori dei diritti umani sia in Israele che nei territori palestinesi occupati è rapidamente peggiorato.”

“Le autorità israeliane hanno preso misure per restringere indebitamente i diritti di libertà di espressione e di associazione all’interno di Israele, con funzionari che intimidiscono i difensori dei diritti umani che criticano il governo e approvano leggi per mettere a tacere il dissenso”, ha aggiunto Amnesty.

Come Al-Haq, Amnesty è stata vittima di aggressioni e rappresaglie da parte dei pubblici poteri per aver documentato le violazioni israeliane.

Ali Abunimah

Co-fondatore di ‘The Electronic Intifada’ e autore di ‘La lotta per la giustizia in Palestina’, in uscita per Haymarket Books.

Ha anche scritto ‘Un solo Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese’.

Le opinioni sono esclusivamente dell’autore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Confermato il ruolo del Mossad nella guerra di Israele contro il BDS

Asa Winstanley

14 giugno 2019 – Electronic Intifada

Questa settimana il giornale israeliano “Haaretz” ha confermano una cosa su cui “The Electronic Intifada” ha informato da anni.

Il Mossad, secondo l’opinione generale la più spietata e violenta agenzia di spionaggio israeliana, è coinvolto nella guerra contro il BDS, il movimento non violento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

Il rapporto ufficiale per il 2018 di Erdan [ministro israeliano per la Sicurezza Pubblica del governo uscente, ndtr.], ottenuto attraverso una richiesta per la libertà di informazione, secondo quanto rivelato dal giornale mostra che si è incontrato con il capo del Mossad Yossi Cohen per discutere della “lotta contro il boicottaggio”.

Come ha informato lo scorso anno “The Electronic Intifada”, un incontro tra Erdan e il capo del Mossad era già stato confermato in almeno un’altra occasione – nel 2016 – insieme ad incontri con i capi di altre agenzie di spionaggio.

Dal 2015 il ministero degli Affari Strategici è stato in realtà il ministero israeliano contro il BDS. È in gran parte formato da veterani delle agenzie di spionaggio, soprattutto dell’intelligence militare.

Sima Vaknin-Gil, la funzionaria responsabile di condurre le attività quotidiane del ministero, ha lavorato per 20 anni nell’intelligence dell’aviazioni militare israeliana e conserva ancora il suo grado come riservista.

Questo ministero è coinvolto in una campagna globale di quelle che un giornalista israeliano ha chiamato “operazioni segrete” contro militanti palestinesi, difensori dei diritti umani e attivisti solidali [con i palestinesi].

Pur avendo investito decine di milioni di dollari in questa guerra contro gli attivisti della società civile che lavorano per la giustizia e l’uguaglianza, in privato le forze israeliane contro il BDS ammettono che la loro campagna non sta funzionando.

Un rapporto segreto del 2017 di una commissione legata al ministero ammette candidamente l’incapacità da parte di Israele di arginare l’“impressionante crescita” e i “significativi successi” del BDS. Ottenuto da “The Electronic Intifada”, il rapporto afferma che, nonostante la crescente spesa contro il BDS, incrementata di 20 volte, “i risultati rimangono fantomatici.”

La lotta contro il boicottaggio”

L’articolo di Haaretz conferma in modo autonomo le precedenti informazioni di “The Electronic Intifada” e aggiorna il quadro generale.

Il giornale ha ottenuto il rapporto ufficiale grazie ad una richiesta sulla libertà di informazione da parte di “Hatzlaha”, la stessa organizzazione israeliana per la trasparenza che ha ottenuto il rapporto di Erdan del 2016.

Il nuovo articolo di “Haaretz” conferma anche che l’incontro di Erdan con il Mossad riguardava esplicitamente la lotta contro il BDS.

Il rapporto del 2016 non elencava l’argomento di discussione tra Erdan e il capo del Mossad – benchè, data la sintesi di Erdan, difficilmente si è trattato di qualcosa di diverso dal BDS.

Il ministero di Erdan mette in atto quella che chiama la “battaglia” contro il BDS attraverso gruppi d’assalto e di sostegno in tutto il mondo, soprattutto negli USA, in Gran Bretagna e altri Paesi occidentali.

Il ministro, stretto alleato del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha ammesso di lavorare attraverso “enti in tutto il mondo che non vogliono evidenziare il proprio rapporto con lo Stato.”

Menzogne e assassinii

Nel 2017 “The Electronic Intifada” ha rivelato che il rapporto di Erdan del 2016 ha anche enumerato una serie di incontri con parlamentari britannici e importanti personalità della lobby filo-israeliana, compresi Eric Pickles e Stuart Polak – entrambi membri non eletti della camera alta britannica, la Camera dei Lord, e leader di “Amici Conservatori di Israele”.

A causa del coinvolgimento del Mossad in molti brutali assassinii e rapimenti nel corso degli anni, gli attivisti del BDS devono essere molto preoccupati di questi sviluppi.

I bersagli del Mossad hanno incluso combattenti della resistenza palestinese, poeti, scrittori e attivisti disarmati.

Il leggendario scrittore comunista palestinese Ghassan Kanafani è stato ucciso insieme alla sua nipote Lamis da un’auto bomba del Mossad in Libano nel 1972.

Pare anche che un agente infiltrato del Mossad fosse dietro la morte non chiarita del famoso vignettista palestinese Naji al-Ali a Londra nel 1987.

Questo specifico assassinio e il rifiuto da parte di Israele di collaborare con l’inchiesta della polizia portò il governo conservatore di Margaret Thatcher ad espellere tre diplomatici israeliani e a chiudere per breve tempo la sede del Mossad a Londra.

La lista dei crimini del Mossad è lunga, ma in ultima analisi non sono riusciti a spegnere la fiamma della resistenza palestinese.Le sue prospettive di estirpare il movimento BDS non sono molto più promettenti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un palestinese in sciopero della fame: ‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Fayha Shalash e Ramzy Baroud

23 aprile 2019,  Al Jazeera

Ingiustizia e violenza hanno spinto molti prigionieri palestinesi a disperati e rischiosi scioperi della fame.

Uno dei tanti modi in cui Israele cerca di opprimere e controllare la popolazione palestinese è incarcerare chi guida la resistenza contro l’occupazione e il progetto coloniale di insediamento.

In Palestina un prigioniero palestinese in un carcere israeliano viene definito “aseer”, cioé recluso, perché lui o lei non è un criminale. Ciò che conduce i palestinesi nelle carceri israeliane sono atti di resistenza – dallo scrivere una poesia sulla lotta contro l’occupazione al compiere un’aggressione contro soldati israeliani nella terra palestinese occupata. Per l’occupazione israeliana, comunque, ogni atto di resistenza o provocazione palestinese è catalogato come una forma o di “terrorismo” o di “incitamento” [all’odio], che non può essere tollerata.

Attualmente ci sono 5.450 prigionieri nelle carceri israeliane, 205 dei quali sono minori e 48 donne. In base ad alcune stime, dall’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza nel giugno 1967, oltre 800.000 palestinesi sono stati imprigionati nelle carceri israeliane.

Superfluo dirlo, come Israele cerca di mantenere tutta la popolazione palestinese in continua miseria e oppressione, lo stesso fa nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Nei mesi scorsi le già terribili condizioni in queste carceri sono ulteriormente peggiorate dopo che il governo israeliano ha annunciato che avrebbe adottato rigide misure nelle prigioni come tecnica di “deterrenza” – una iniziativa che in Israele è stata vista come propaganda elettorale.

“Compaiono in continuazione immagini irritanti di persone che cucinano nelle sezioni dei terroristi. Questa festa è finita”, ha detto a inizio gennaio il ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan. I suoi progetti comprendono limitazioni all’uso dell’acqua da parte dei prigionieri, il divieto di cucinare in cella e l’installazione di dispositivi di interferenza per bloccare il presunto uso di cellulari entrati di contrabbando.

Quest’ultima misura, in particolare, ha provocato l’indignazione dei prigionieri, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a gravi dolori alla testa, svenimenti e disturbi duraturi.

A fine gennaio il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) ha compiuto nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, un raid che ha provocato il ferimento di oltre 140 prigionieri palestinesi, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri.

A fine marzo anche le prigioni di Naqab, Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel sono state oggetto di incursioni, che hanno causato molti feriti tra i prigionieri palestinesi. La rabbia è esplosa e il 7 aprile centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno lanciato uno sciopero della fame di massa che è terminato otto giorni dopo in seguito a un accordo tra i prigionieri palestinesi e l’IPS.

In mezzo al baccano preelettorale in Israele, questa notizia è stata ampiamente ignorata dai media internazionali, che si sono invece focalizzati sulla dichiarazione del presidente USA Donald Trump sulle Alture del Golan e sulla promessa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere la Cisgiordania.

Invece per i palestinesi, la maggior parte dei quali soffre per avere un parente nelle carceri israeliane, tenuto in condizioni che violano i requisiti minimi del diritto internazionale e umanitario, questo è stato un grave motivo di preoccupazione e anche di rabbia. I palestinesi sanno che dietro ai numeri e alla propaganda israeliana che definisce questi uomini, donne e minori come “terroristi” vi sono tragiche storie umane di sofferenza e tenacia.

Una di queste storie è quella del giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, marito della coautrice di questo articolo, Fayha Shalash.

Al-Qiq lavorava come corrispondente della rete di informazioni saudita Al-Majd, occupandosi della Cisgiordania. I suoi reportage televisivi relativi all’esecuzione da parte dell’esercito israeliano di presunti aggressori palestinesi nel corso di quella che è stata chiamata la rivolta di Al-Quds hanno ricevuto molta attenzione in tutto il Medio Oriente e gli hanno procurato molta ammirazione tra i palestinesi.

A causa del suo lavoro è stato giudicato una “minaccia” dallo Stato israeliano e nel novembre 2015 è stato arrestato. Questa è la sua storia.

Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Sabato 21 novembre 2015, un mese e mezzo dopo l’inizio della rivolta di Al- Quds, i soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra. Hanno sfondato la porta d’ingresso della nostra modesta casa e sono entrati. È stata la scena più spaventosa che si possa immaginare. Nostra figlia di un anno, Lour, si è svegliata e ha incominciato a piangere. Mentre Mohammed veniva bendato e ammanettato, Lour continuava ad abbracciarlo e accarezzarlo.

Per fortuna Islam, che allora aveva tre anni, dormiva ancora. Sono felice di questo perché non volevo che vedesse suo padre portato via dai soldati in un modo così violento.

Al mattino ho dovuto dirgli che suo padre era stato portato via; mentre cercavo di spiegargli, gli tremavano le labbra e il suo viso aveva una smorfia di paura e di dolore che nessun bambino dovrebbe mai provare.

Era la quarta volta che Mohammed veniva arrestato. Il primo arresto fu nel 2003, quando è stato detenuto per un mese; poi nel 2004 è stato nuovamente arrestato e detenuto per 13 mesi e nel 2008 è stato condannato da un tribunale israeliano a 16 mesi di prigione per le sue attività politiche e per il suo impegno nel Consiglio studentesco dell’università di Birzeit.

Poi Mohammed è stato portato nel famigerato centro di detenzione Al-Jalameh per l’interrogatorio. Non gli è stato permesso di vedere un avvocato fino al ventesimo giorno di detenzione. È stato torturato fisicamente e psicologicamente e gli è stato ripetutamente chiesto di firmare una falsa confessione [in cui ammetteva] di essere impegnato in “istigazione attraverso mezzi di informazione”, cosa che ha rifiutato di fare.

Abbiamo saputo che la sua detenzione è stata prorogata diverse volte, ma non avevamo nessun’altra notizia da lui. Le nostre richieste di visita in quanto familiari sono state respinte e tutto ciò che potevamo fare era aspettare e pregare.

A inizio dicembre mi sono imbattuta in una notizia riportata online, secondo cui mio marito aveva iniziato uno sciopero della fame. Ho immediatamente telefonato all’Associazione dei Prigionieri, una Ong nata nel 1993 per sostenere i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, e per pura fortuna sono riuscita a contattare un avvocato di nome Saleh Ayoub che aveva visto Mohammed in tribunale. Mi ha detto che mio marito veniva processato a porte chiuse, il che significa che né la sua famiglia né il suo avvocato erano stati informati del processo.

Mentre Mohammed veniva riportato in cella, si è avvicinato a Ayoub ed è riuscito a dirgli queste parole: “Sono il prigioniero Mohammed al-Qiq. Dite alla mia famiglia e ai media che sto facendo uno sciopero della fame. Attualmente sono in arresto a Al-Jalameh.”

Quando ho sentito ciò, mi sono molto spaventata. Nella mia famiglia non abbiamo mai fatto questa esperienza. Non comprendevo del tutto le conseguenze di una tale decisione, ma ho deciso di appoggiare mio marito. 

Per mesi ho seguito ogni associazione per i diritti umani che potesse aiutarmi a ottenere qualche informazione sulla salute mentale e fisica di Mohammed. Gli israeliani non avevano prove contro di lui, ma continuavano a trattenerlo, nonostante la sua salute andasse peggiorando. Quando ha incominciato ad avere emorragie e a non reggersi più in piedi è stato trasferito all’ospedale del carcere di Ramleh.

A nessuno è stato permesso di visitarlo nell’ospedale del carcere, né a noi né alla Croce Rossa. Il caso di Mohammed non è l’unico, in quanto Israele consente il completo isolamento di ogni prigioniero che faccia uno sciopero della fame.

Mohammed è diventato ancor più determinato a portare avanti il suo sciopero della fame quando il tribunale israeliano lo ha condannato a sei mesi di “detenzione amministrativa”, che significa che loro non avrebbero potuto sostenere le accuse contro mio marito con alcuna prova tangibile, ma rifiutavano di liberarlo. L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile fino a tre anni.

Per me è stata una corsa contro il tempo. Dovevo fare in modo che il mondo mi ascoltasse, ascoltasse la storia di mio marito, perché si facesse sufficiente pressione su Israele perché lo liberasse. Temevo che potesse essere troppo tardi, che Mohammed morisse prima che quel messaggio risuonasse in tutta la Palestina e nel mondo.

Dato che la sua salute continuava a peggiorare, è stato portato all’ospedale di Afouleh, dove hanno cercato di alimentarlo a forza. Lui si è rifiutato. Quando hanno tentato di alimentarlo con una flebo, si è strappato l’ago dal braccio e lo ha gettato a terra. Conosco mio marito, per lui la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta.

Dopo un mese di sciopero della fame Mohammed ha cominciato a vomitare bile gialla e sangue. Il dolore al ventre e alle articolazioni e le continue emicranie erano insopportabili. Nonostante tutto questo, continuavano a legarlo al letto d’ospedale. Il suo braccio destro ed entrambi i piedi erano bloccati agli angoli del letto da pesanti ferri. È stato lasciato così per tutto il tempo.

Sentivo che Mohammed stava per morire. Ho cercato di spiegare a mio figlio che suo padre rifiutava il cibo per lottare per la sua libertà. Islam continuava a ripetere: “Quando crescerò, lotterò contro l’occupazione”. Lour sentiva la mancanza del padre ma non capiva niente. Quando combattevo per la libertà del loro papà, non avevo altra scelta che stare lontana da loro per lunghi periodi. La nostra famiglia era spezzata.

Il 4 febbraio 2016 Mohammed è entrato nel 77mo giorno di sciopero della fame. In seguito alla pressione popolare ed internazionale, ma soprattutto a causa dell’irremovibile volontà di Mohammed, l’occupazione israeliana è stata costretta a sospendere l’ordine di “detenzione amministrativa”. Ma per Mohammed non era abbastanza.

Con questa mossa, l’occupazione israeliana intendeva mandare un segnale che la crisi era stata scongiurata, nel tentativo di ingannare i media e il popolo palestinese. Ma Mohammed non ne voleva sapere, voleva essere lasciato libero, perciò ha proseguito lo sciopero per altre settimane.

In quel momento mi è stato dato il permesso di fargli visita, ma ho deciso di no, per non dare l’impressione che tutto adesso andasse bene, giocando inavvertitamente a favore della propaganda israeliana.

È stata la decisione più difficile che abbia mai dovuto prendere, stare lontana dall’uomo che amo, dal padre dei miei figli. Ma sapevo che se lui avesse visto me o i bambini si sarebbe troppo emozionato, o peggio ancora avrebbe potuto avere un crollo fisico ancor più grave. Ho mantenuto l’impegno di sostenerlo nella sua decisione fino alla fine.

A un certo punto ho pensato tra me che Mohammed non sarebbe mai più tornato e sarebbe morto in prigione.

Era così legato ai nostri figli. Li amava con tutto il cuore e cercava di passare il maggior tempo possibile con loro. Giocava con loro, li portava entrambi a passeggiare intorno alla casa o nei dintorni. Perciò quando la sua morte è diventata una reale possibilità, mi sono chiesta che cosa avrei detto loro, come avrei risposto alle loro domande quando fossero cresciuti senza un padre e come avrei potuto andare avanti senza di lui.

Quando è arrivato all’ottantesimo giorno di sciopero della fame, il suo corpo ha cominciato ad avere convulsioni. Ho saputo in seguito che questi spasmi involontari erano molto dolorosi. Ogni volta che sopraggiungevano, lui recitava la Shahada [la professione di fede nell’Islam, ndtr.] – “Non c’è altro dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – in previsione della sua morte.

Consapevole di ciò che sembrava essere la sua inevitabile morte, Mohammed ha scritto un testamento di cui io non ero a conoscenza. Mi è crollato il mondo addosso quando ho ascoltato le parole del suo testamento lette in televisione:

“Mi piacerebbe vedere mia moglie e i miei bambini, Islam e Lour, prima di morire. Voglio solo essere sicuro che stiano bene. Vorrei anche che l’ultima preghiera per il mio corpo fosse recitata nella moschea Durra. Per favore seppellitemi nella tomba di mia madre, in modo che lei possa prendermi in braccio come faceva quando ero bambino. Se questo non si può fare, per favore seppellitemi il più vicino possibile a lei.”

Durante il suo sciopero della fame le fotografie dei bambini sono rimaste accanto al letto d’ospedale di Mohammed. “I miei bambini si ricordano di me?”, soleva chiedere a chiunque lo andasse a trovare.

Alla fine, la sua determinazione si è dimostrata più forte dell’ingiustizia dei suoi aguzzini. Il 26 febbraio 2016 è stato annunciato che era stato raggiunto un accordo tra il Comitato dei Prigionieri Palestinesi che rappresentava Mohammed e l’amministrazione penitenziaria israeliana. Mio marito sarebbe stato rilasciato il 21 maggio dello stesso anno.

Mohammed ha ottenuto la libertà dopo 94 giorni di sciopero della fame. Ha dimostrato al mondo di non essere un terrorista come sostenevano gli israeliani e di essere stato punito per aver semplicemente informato il mondo delle sofferenze del suo popolo. Grazie alla sua inflessibile resistenza le autorità militari israeliane sono state costrette a cancellare tutte le accuse contro di lui.

L’incarcerazione di Mohammed rimane un ricordo doloroso, ma anche una grande vittoria per i palestinesi di ogni luogo. Quando è entrato in carcere Mohammed pesava 99 chili; quando ha terminato lo sciopero della fame ne pesava solo 45. Il suo corpo era ridotto a pelle ed ossa. La sua struttura atletica era collassata su sé stessa, ma il suo spirito ha continuato a crescere, come se più fisicamente debole si sentisse, più diventasse forte la sua volontà.

Quando sono andata a trovarlo coi nostri figli una settimana dopo la fine del suo sciopero, non l’ho riconosciuto. Ho pensato di essere entrata nella stanza sbagliata, ma quando mi sono avvicinata ho visto i suoi begli occhi amorevoli, l’ ho abbracciato e ho pianto.

Mohammed è stato rilasciato alla data concordata, ma è stato nuovamente arrestato otto mesi dopo. Ha immediatamente iniziato un altro sciopero della fame che è durato 33 giorni.

Oggi Mohammed è libero, ma parla ancora della prigione e la nostra famiglia non ha ancora superato il trauma che abbiamo subito. Islam è preoccupato che suo padre possa essere nuovamente arrestato di notte. Gli dico di non preoccuparsi, ma io stessa sono terrorizzata da quella possibilità. Sogno il giorno in cui non avrò più paura di poter perdere mio marito.

Rivivo anche quella straziante esperienza tutte le volte che un prigioniero palestinese inizia un altro sciopero della fame. So che non è una decisione facile mettere in gioco la propria vita, rischiare tutto per ciò in cui si crede. Gli scioperi della fame non comportano solo un alto prezzo per i corpi e le menti dei prigionieri. Anche le loro famiglie e le loro comunità devono sopportare gran parte di quel pesante fardello.

Mi sento accanto a tutti loro e prego dio che tutti i nostri prigionieri vengano presto liberati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Fayha Shalash è una giornalista palestinese che vive nella città di Birzeit in Cisgiordania.

Ramzy Baroud è un giornalista noto a livello internazionale, consulente di media e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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L’infinita guerra di Gaza: quel che Netanyahu spera di guadagnare attaccando i prigionieri

Ramzy Baroud

11 aprile 2019, Ma’an News

Le violenze che stanno prendendo di mira i detenuti nelle prigioni israeliane sono iniziate il 2 gennaio. E’ stato allora che il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dichiarato che “la festa è finita”.

“Ogni tanto compaiono esasperanti fotografie di detenuti che cucinano nei bracci riservati ai terroristi. Questa festa sta per finire”, questa la citazione di Erdan sul Jerusalem Post.

Quindi la cosiddetta Commissione Erdan ha raccomandato diverse misure volte a porre termine alla presunta “festa”, che hanno incluso la limitazione dell’uso dell’acqua per i prigionieri, il divieto di cucinare nelle celle e l’installazione di dispositivi di disturbo per bloccare il presunto utilizzo di telefoni cellulari fatti entrare illegalmente.

In particolare quest’ultima misura ha suscitato l’indignazione dei detenuti, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a forti emicranie, svenimenti ed altri sintomi protratti.

Erdan ha fatto seguire alla sua decisione la promessa di “usare tutti i mezzi a disposizione (di Israele)” per controllare qualunque protesta dei prigionieri in risposta alle nuove restrizioni.

Il Sistema Penitenziario Israeliano (SPI) “continuerà ad agire con estrema durezza” contro “sommosse” nelle carceri, ha detto, come riportato dal Times of Israel.

Quella “estrema durezza” è stata dispiegata il 20 gennaio nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, in Cisgiordania, dove una serie di incursioni israeliane ha provocato il ferimento di oltre 100 prigionieri, molti dei quali mostravano ferite da proiettile.

Anche le prigioni di Nafha e Gilboa sono state bersaglio degli stessi metodi violenti.

I raid sono proseguiti, causando ulteriori violenze nel carcere di Naqab il 24 marzo, questa volta da parte delle forze dell’SPI note come unità Metzada.

Metzada è una squadra dell’SPI “per operazioni speciali di recupero ostaggi” ed è nota per le sue tattiche molto violente contro i prigionieri. Il suo attacco a Naqab ha provocato il ferimento di molti prigionieri, di cui due in condizioni critiche. I prigionieri palestinesi hanno reagito, secondo quanto riferito, pugnalando due agenti penitenziari con oggetti acuminati.

Il 25 marzo sono stati compiuti altri raid simili, sempre da parte di Metzada, che hanno riguardato le prigioni di Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel.

In risposta, la leadership dei prigionieri palestinesi ha adottato diverse misure, compreso lo scioglimento dei comitati di regolamentazione e di ogni altra forma di rappresentanza dei detenuti all’interno delle prigioni israeliane.

Il decentramento delle azioni palestinesi nelle prigioni israeliane renderà molto più difficile per Israele controllare la situazione e consentirà ai prigionieri di attuare qualunque forma di resistenza che ritengano adeguata.

Ma perché Israele sta provocando questi scontri, quando i prigionieri palestinesi sono già sottoposti alla più orribile esistenza e a numerose violazioni del diritto internazionale?

E, altrettanto importante, perché adesso?

Il 24 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu, sotto attacco, ed altri leader del governo israeliano di destra hanno sciolto la Knesset (il parlamento) e indetto elezioni anticipate per il 9 aprile.

Una delle migliori strategie per i politici israeliani in periodi come questo è normalmente aumentare le ostilità contro i palestinesi nei Territori Occupati, compresa la Striscia di Gaza assediata.

E’ senza dubbio esploso un festival dell’odio, che ha coinvolto molti dei principali candidati di Israele, alcuni dei quali hanno invocato la guerra contro Gaza, altri il dare una lezione ai palestinesi annettendo la Cisgiordania, e così via.

Solo una settimana dopo l’annuncio della data delle elezioni sono iniziati i raid nelle prigioni. Per Israele, è stato come un esperimento politico in totale sicurezza e sotto controllo. Le immagini video delle forze israeliane che picchiano sventurati prigionieri, accompagnate da dichiarazioni rabbiose rilasciate da alti ufficiali israeliani, hanno catturato le fantasie di una società militante decisamente di destra.

E questo è esattamente ciò che è inizialmente successo. Tuttavia, il 25 marzo una fiammata di violenza a Gaza ha condotto ad una guerra circoscritta e non dichiarata.

Una vera e propria guerra israeliana contro Gaza sarebbe un grave azzardo in un periodo elettorale, soprattutto perché eventi recenti indicano che il tempo delle guerre facili è finito. Mentre Netanyahu ha vestito i panni del leader decisionista, molto determinato a schiacciare la resistenza di Gaza, in realtà le sue opzioni sul terreno sono molto limitate.

Anche dopo che Israele ha accettato i termini mediati dall’Egitto del cessate il fuoco con le fazioni di Gaza, Netanyahu ha continuato a usare parole dure.

“Posso dirvi che siamo pronti a fare molto di più”, ha detto, riferendosi all’attacco israeliano a Gaza, in un discorso video inviato ai suoi sostenitori a Washington il 26 marzo.

Ma per una volta non ha potuto farlo e questo insuccesso, da un punto di vista israeliano, ha dato fiato agli attacchi verbali dei suoi rivali politici.

Netanyahu ha “perso la presa sulla sicurezza”, ha proclamato il capo del partito ‘Blue and White’ Benny Gantz.

L’accusa di Gantz è stata solo un altro insulto in una montagna di simili attacchi al vetriolo che mettono in dubbio la capacità di Netanyahu di controllare Gaza.

Infatti, un sondaggio condotto dal canale TV israeliano Kan il 27 marzo, ha rilevato che il 53% degli israeliani ritiene che la risposta di Netanyahu alla resistenza di Gaza sia “troppo debole”.

Impossibilitato a contrattaccare con maggiore violenza, almeno per ora, il governo Netanyahu ha reagito aprendo un altro fronte, questa volta nelle prigioni israeliane.

Attaccando i prigionieri, soprattutto quelli legati ad alcune fazioni di Gaza, Netanyahu spera di inviare un messaggio di forza e di rassicurare il suo nervoso elettorato sulla propria prodezza.

Consapevole della strategia israeliana, il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha messo in relazione il cessate il fuoco alla questione dei prigionieri.

“Siamo pronti a qualsiasi scenario”, ha detto Haniyeh in una dichiarazione.

In verità, la guerra di Netanyahu e Erdan contro i prigionieri palestinesi è folle e impossibile da vincere. E’ stata scatenata sul presupposto che una guerra di questo genere avrebbe rischi limitati, dato che i prigionieri sono, per definizione, isolati e incapaci di controffensiva.

Al contrario, i prigionieri palestinesi hanno dimostrato senza alcun dubbio la propria tenacia e capacità di trovare modi di resistenza all’occupante israeliano nel corso degli anni. Ma, cosa ancor più importante, questi prigionieri non sono affatto isolati.

Di fatto, i quasi 6000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane rappresentano una parvenza di unità tra i palestinesi che trascenda le fazioni, le politiche e l’ideologia.

Considerando l’impatto diretto della situazione nelle prigioni israeliane sulla psicologia collettiva di tutti i palestinesi, qualunque ulteriore mossa avventata da parte di Netanyahu, Erdan e dei loro sgherri del Sistema Penitenziario Israeliano avrà come risultato una più ampia resistenza collettiva, una lotta che Israele non può soffocare facilmente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Passata in prima lettura alla Knesset una legge per l’espulsione di famiglie di palestinesi accusati di aggressione

Yumna Patel 

20 dicembre 2018, Mondoweiss

Mercoledì [19 dicembre 2018], nonostante la netta opposizione dell’intelligence e di comandanti dell’esercito, la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha approvato in prima lettura una legge per la deportazione di famiglie di palestinesi coinvolti in attacchi contro israeliani.

La legge, presentata dal partito di estrema destra “Casa Ebraica”, è stata approvata con 69 voti a favore e 38 contrari.

Se accolta, comporterebbe che entro una settimana da un attacco o tentativo di attacco verrebbe consentito al comando centrale dell’esercito israeliano di espellere i familiari degli aggressori palestinesi dalle loro città d’origine verso altre zone della Cisgiordania.

Permetterebbe anche alle forze israeliane di delimitare un’area in cui la famiglia non potrebbe entrare.

Il voto ha seguito di pochi giorni l’approvazione della legge da parte del Gabinetto per la Sicurezza di Israele e della Commissione Legislativa Ministeriale.

Durante la sessione tre parlamentari palestinesi, Jamal Zahalka, Ahmad Tibi e Masud Ganaim, sono stati espulsi dall’aula.

Secondo l’Anadolu Agency [agenzia di stampa del governo turco, ndtr.] il parlamentare israeliano del partito “Casa Ebraica” Moti Yogev ha definito “terroristi” i suoi colleghi arabi, mentre il deputato della “Lista Unitaria” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ahmad Tibi gli ha gridato: “Puoi uccidere i palestinesi, ma non puoi opprimere un intero popolo.”

I firmatari del progetto di legge hanno sostenuto che la misura servirebbe come “deterrente” per quanti pensino di prendere di mira israeliani con attacchi con armi da fuoco o all’arma bianca. “L’espulsione di famiglie di terroristi,” afferma la legge, “è un collaudato deterrente che ha il potere di ridurre gli attacchi terroristici e di salvare vite.”

All’inizio di questa settimana Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato che il direttore dello Shin Bet, il servizio israeliano di intelligence interna, si è opposto alla legge affermando che sarebbe praticamente impossibile metterla in pratica e che “porterebbe al risultato opposto alla deterrenza, dato che la sua applicazione determinerebbe tensioni.”

Haaretz cita un importante ufficiale della sicurezza che sostiene che la legge è stata promossa in seguito a pressioni dell’opinione pubblica dopo una serie di attacchi che hanno preso di mira coloni israeliani, non per una reale necessità operativa o di sicurezza. “Come si suppone esattamente che lo facciamo? Prendere famiglie e sbatterle sulle colline di Hebron? E poi cosa? Tenerle d’occhio in modo che non si spostino? Inseguirle ogni volta che tornano indietro al loro villaggio e poi ricacciarle fuori?”, afferma l’anonimo ufficiale.

Per anni il governo israeliano ha messo in atto una serie di queste cosiddette misure di “deterrenza”, compresa la demolizione delle case di familiari di presunti aggressori, chiudendo interi villaggi da cui sarebbero provenuti sospetti assalitori, effettuando operazioni di arresti massicci che prendono di mira la famiglia e gli amici degli accusati e revocando permessi di lavoro israeliani a parenti vicini e lontani di assalitori.

Gruppi per i diritti umani hanno criticato le politiche del governo in quanto punizioni collettive e ufficiali dell’esercito israeliano hanno già dato indicazioni al governo che prassi come le demolizioni di case non evitano gli attacchi.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha condannato la pratica delle demolizioni punitive di case come “vendetta sanzionata da tribunali”, condotta contro membri di una famiglia che non hanno commesso reati, che rappresenta una punizione collettiva.

La nuova legge, che intende espellere le famiglie di assalitori dalle loro case, potrebbe rappresentare un trasferimento forzato – un crimine di guerra in base alle leggi internazionali.

B’Tselem ha così affermato riguardo a questa pratica: “Il trasferimento forzato – con violenza fisica diretta o creando un contesto coercitivo che faccia in modo che gli abitanti lascino le proprie case – è un crimine di guerra. Ogni persona responsabile di ciò – compresi il primo ministro ed il ministro della Difesa – ne sono personalmente responsabili.”

  • Su Yumna Patel

  • Yumna Patel è una giornalista multimediale che risiede a Betlemme, Palestina.

Includiamo alcune citazioni di esponenti politici israeliani, tra cui ministri, tratte da un blog di commento all’articolo di Mondoweiss e che indicano il clima in cui avviene il dibattito su questa legge.

Un importante parlamentare israeliano chiede “l’uccisione di tutti i palestinesi”

Il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ha affermato che “il numero di [manifestanti palestinesi pacifici] uccisi non importa perché comunque sono solo dei nazisti.”

Il presidente della Commissione Difesa del parlamento israeliano Avi Dichter ha invocato l’uccisione di tutti i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Mentre stava commentando le proteste pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che hanno luogo lungo la barriera orientale della Striscia di Gaza, ha detto: “L’esercito israeliano ha abbastanza pallottole per ogni palestinese.”

Dichter è un importante membro del partito di governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il Likud, che è di destra.

Ex direttore del servizio di sicurezza interna, lo Shin Bet, e ministro della Sicurezza Interna, Dichter ha detto che l’esercito israeliano è pronto ad usare ogni mezzo, compresa la forza letale, per scoraggiare i manifestanti palestinesi.

Dal 31 marzo migliaia di manifestanti palestinesi pacifici hanno protestato lungo la barriera orientale della Striscia di Gaza, chiedendo di togliere l’assedio israeliano di dodici anni e ribadendo il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle proprie case.

Il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ha ripetutamente fatto riferimento ai manifestanti uccisi a Gaza come “nazisti”, affermando che non c’erano dimostrazioni, solo “odio nazista”.

Ha aggiunto: “Il numero [di manifestanti palestinesi pacifici] uccisi non importa niente perché comunque sono solo nazisti.”

2.

Parlamentare israeliano: “La nostra vita è più preziosa di quella dei palestinesi” Days of Palestine, 20 dic. 2018

Commentando l’attentato incendiario [in cui morirono un bambino di 18 mesi e il padre, ndtr.] di qualche anno fa contro una famiglia palestinese in Cisgiordania ha detto: “Bruciare una famiglia palestinese non è un’azione terroristica.”

Bezalel Smotrich, membro di estrema destra della Knesset, ha chiesto ai coloni ebrei illegali di attaccare i palestinesi, affermando che “la vita degli ebrei è più importante di quella dei palestinesi.”

Sul suo account twitter Smotrich ha scritto: “Chiedo ai miei eroici amici [coloni] e pionieri di uscire stanotte e di chiudere agli spostamenti dei veicoli arabi la Route 60 su tutta la sua lunghezza.”

Se ci dovessero essere attacchi (della resistenza palestinese contro coloni ebrei illegali), non ci saranno arabi per le strade. Le nostre vite sono più importanti della qualità della loro vita.”

In conseguenza di ciò l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiesto l’apertura di un’inchiesta contro il politico di “Casa Ebraica” in quanto egli ha twittato un appello alla violenza dei coloni contro i palestinesi.

L’organizzazione ha presentato una richiesta ufficiale al procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit, chiedendogli di aprire un’inchiesta penale contro l’appello di Smotrich a favore della violenza contro i palestinesi.

I coloni ebrei illegali hanno risposto al tweet di Smotrich, riunendosi nelle strade principali e attaccando i palestinesi.

Yesh Din afferma che, nelle 24 ore successive al tweet di Smotrich, ha rilevato 25 attacchi condotti dai coloni contro i palestinesi.

Gli attacchi hanno incluso colpi di proiettili veri contro case palestinesi nei vicini villaggi di Ein Yabrud e di Beitin e il lancio di pietre contro auto palestinesi agli incroci di Huwara e Kfar Qaddum, nei pressi di Ofra [colonia israeliana, ndtr.] sulla Route 60 nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)