“È l’inferno”: l’incubo burocratico dei palestinesi di Gerusalemme est

Dall’inviato di MEE – Wadi Al-Joz

Mercoledì 24 luglio 2019 – Middle East Eye

Secondo gli abitanti e i loro avvocati, i funzionari dell’ufficio del ministero degli Interni israeliano ritardano deliberatamente le pratiche per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme

Il quartiere di Wadi al-Joz (“valle delle Noci”) a Gerusalemme est occupata ospita un ufficio dell’autorità del ministero degli Interni israeliano che si occupa della popolazione e dell’immigrazione.

Registrare una nascita o un decesso? Chiedere un passaporto o una carta d’identità? È il solo luogo che offre questi servizi a circa 300.000 abitanti palestinesi di Gerusalemme est.

Nella maggior parte dei Paesi questi servizi di base sarebbero forniti senza problemi – o almeno non troppi. Ma per i palestinesi di Gerusalemme est ottenere dei servizi essenziali è una dura lotta.

Secondo gli abitanti e i loro avvocati i funzionari israeliani dell’ufficio ritardano deliberatamente le cose per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme.

È l’inferno. È proprio l’inferno”, confessa Erez Wagner, coordinatore di “HaMoked: Center for the Defence of the Individual” [Centro per la Difesa dell’Individuo], un’organizzazione di Gerusalemme che all’inizio di quest’anno si è presentata davanti alla Corte Suprema israeliana per cercare di migliorare delle condizioni che giudica “disumane”.

Il tribunale ha stabilito che gli uffici del ministero a Gerusalemme ovest dovrebbero fornire alcuni servizi ai palestinesi di Gerusalemme est; tuttavia, spiega, anche questa concessione non ha provocato che pochi cambiamenti concreti sul terreno.

Le sfide che gli abitanti devono affrontare nell’ufficio non sono che una tessera del più vasto mosaico dell’occupazione israeliana che da decenni fa della vita dei palestinesi a Gerusalemme est un incubo burocratico.

A causa dell’occupazione israeliana, in atto dal 1967, ogni palestinese nato a Gerusalemme est non beneficia che dello status di residente temporaneo, il che fa sostanzialmente di lui un apolide.

Eppure persino restare aggrappati a questo status temporaneo rappresenta una sfida. Tra gli altri ostacoli giuridici, i palestinesi di Gerusalemme devono provare in continuazione che la città è il “centro della loro vita”, presentando decine di documenti, soprattutto contratti di affitto, buste paga, bollette dell’elettricità e dell’acqua, ma anche versando delle imposte.

I bambini devono essere registrati come abitanti di Gerusalemme est per poter frequentare le scuole locali e beneficiare di un’assicurazione sanitaria, mentre i matrimoni devono essere registrati perché le coppie possano vivere insieme a Gerusalemme est.

Tutti questi servizi sono disponibili unicamente nell’ufficio, il che pone i palestinesi decisi a restare a Gerusalemme est di fronte a una scelta difficile: assumere un avvocato o fare la coda.

Umiliazione

Sotto a un torrido sole o alla pioggia battente, a Wadi al-Joz lunghe code di persone di ogni età, tra cui neonati, anziani e disabili, si snodano regolarmente davanti alle porte dell’ufficio del ministero.

Non è previsto niente per fare ombra e non c’è a disposizione nessun posto a sedere o gabinetto. Molti preferiscono andarci prima dell’alba per prendere posto nella coda, e non è raro vedere persone che svengono. Secondo HaMoked, persone malate che non possono rimanere in piedi per ore rinunciano a servizi essenziali.

Ma, spiega Fida Abbasi, che vive nel quartiere di Silwan a Gerusalemme est, le ore d’attesa, spesso passate vicino a guardie che tendono a umiliare quelli che fanno la coda, non sono che la punta dell’iceberg.

Una volta all’interno [dell’ufficio], i palestinesi devono poi attraversare porte metalliche dove uomini e donne vengono separati. In seguito le guardie israeliane li chiamano uno alla volta per passare sotto al metal detector e sottoporli a una minuziosa perquisizione delle borse. Se una persona ha una bottiglia d’acqua, ne deve bere un sorso davanti alle guardie.

È come una base militare. Non si può fare nessuna foto e a volte le guardie confiscano la nostra bottiglia d’acqua o altri oggetti”, dice Fida Abbasi a Middle East Eye.

Nel 2018 il governo israeliano ha lanciato un’applicazione telefonica in ebraico e ha obbligato i palestinesi a usare questa procedura per prendere appuntamento per ottenere ogni tipo di servizio al ministero.

Ma gli unici appuntamenti disponibili sono proposti in un periodo di tempo da sei mesi a un anno, spiegano gli abitanti a MEE. Nel contempo, quelli che cercano di entrare senza appuntamento sono bloccati dalle guardie alle porte d’ingresso.

Nell’agosto 2018 sono stati arrestati quattro impiegati dell’ufficio di Wadi al-Joz sospettati di aver intascato varie centinaia di migliaia di shekel [unità di moneta israeliana, ndtr.] in cambio di tempi di attesa più corti. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli investigatori hanno scoperto che gli impiegati avevano prenotato centinaia di appuntamenti e li avevano venduti a parecchie centinaia di shekel l’uno.

Nell’impossibilità di ottenere un appuntamento in tempo utile o di utilizzare l’applicazione per l’incapacità di capire l’ebraico, numerosi palestinesi fanno ricorso a un’assistenza giuridica e pagano fino a 500 dollari per essere assistiti per il semplice fatto di prendere un appuntamento o compilare dei moduli. 

Quelli che hanno i mezzi per incaricare un avvocato pagano circa 5.000 dollari per recuperare il proprio status di residenti e circa 10.000 dollari per registrare vari bambini.

Una lotta infinita

Per quelli che non possono pagare a Gerusalemme est occupata esistono delle organizzazioni come il “Community Action Center” [Centro per l’Azione Comunitaria], che offrono aiuto giuridico gratuito ai palestinesi. 

Mohammad al-Shihabi, che dirige il centro, può elencare innumerevoli esempi di persone venute a cercare aiuto per delle pratiche burocratiche israeliane rese intenzionalmente difficili.

Spiega che la maggior parte dei casi riguarda la registrazione di bambini e “ricongiungimenti familiari”, una pratica imposta da Israele ai palestinesi di Gerusalemme est che sposano una persona palestinese della Cisgiordania o di un’altra nazionalità.

Sostiene che all’ufficio del ministero dell’Interno a Wadi al-Joz i palestinesi sono sottoposti a un esame minuzioso, sono interrogati come se fossero di fronte ad agenti dei servizi di intelligence e sono vittime di un trattamento autocratico.

Due persone titolari dello status di residenti a Gerusalemme aiutate da Mohammed al-Shihabi hanno avuto un bambino in Cisgiordania per ragioni indipendenti dalla loro volontà; tuttavia i funzionari del ministero hanno respinto la richiesta di registrazione del bambino presentata dalla coppia. La loro risposta alla madre in lacrime è stata la seguente: “Chi è responsabile di questo errore merita il peggio.”

Cita anche l’esempio di una donna di Gerusalemme est che fino al loro divorzio nel 1994 ha vissuto a Gaza con suo marito gazawi. Quando è tornata a Gerusalemme con uno dei suoi figli, i funzionari israeliani si sono rifiutati di concederle il diritto di residenza perché aveva vissuto a Gaza.

Ora vive in città senza carta d’identità né conto bancario né assistenza sanitaria, nonostante sia proprietaria di due alloggi a Gerusalemme e vi abbia vissuto senza interruzione per 25 anni.

MEE ha cercato di intervistare parecchi palestinesi che vivono a Gerusalemme est in merito alle loro difficoltà con il ministero degli Interni, ma sono stati molti quelli che hanno rifiutato per timore di rappresaglie.

Il ministero degli Interni in cifre

Rami Saleh, responsabile del “Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center” [Centro per l’Aiuto Giuridico e i Diritti Umani di Gerusalemme], riferisce che, secondo le cifre che gli sono state fornite dal ministero, tra il 2013 e il 2018 su un totale di 9.966 richieste di dichiarazioni di nascita presentate all’ufficio di Wadi al-Joz ne sono state approvate 7.236.

Le altre, gli è stato spiegato, sono ancora all’esame. E su un totale di 3.236 richieste di ricongiungimento familiare, solo 1.534 sono state approvate. Saleh si è rivolto al ministero per chiedere perché un solo ufficio serva parecchie centinaia di migliaia di palestinesi, mentre i residenti israeliani di Gerusalemme possono recarsi in un qualunque ufficio del Paese e ricevere rapidamente il servizio.

Gli è stato risposto che gli impiegati dell’ufficio del ministero a Wadi al-Joz sono più abituati ad avere rapporti con i residenti temporanei.

All’inizio di quest’anno le autorità israeliane hanno aperto un altro ufficio del ministero al check point militare di Qalandia, che separa Gerusalemme dalla città di Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia i servizi forniti sono ridotti e sono a disposizione solo in giorni e orari specifici.

Una portavoce del ministero degli Interni israeliano ha dichiarato a MEE che sono al corrente dei problemi dell’ufficio di Wadi al-Joz e che nel corso degli ultimi due anni hanno cercato di migliorare la situazione, soprattutto fornendo servizi all’ufficio di Qalandia e autorizzando la prenotazione di appuntamenti attraverso l’applicazione che, ha precisato, fornisce le opzioni di appuntamento entro un lasso di tempo di qualche settimana e non di parecchi mesi.

Ha aggiunto che il ministero stava pensando di aprire un altro ufficio a Gerusalemme est. “Ci preoccupiamo davvero di questo problema e lavoriamo per trovare delle soluzioni perché gli abitanti di Gerusalemme est possano beneficiare di un servizio migliore, più rapido”, ha affermato la portavoce in un’e-mail.

Tuttavia Erez Wagner, l’avvocato di HaMoked, dichiara che i cambiamenti apportati non hanno eliminato la maggior parte degli ostacoli contro i quali si scontrano i palestinesi di Gerusalemme est.

Sottolinea che ogni palestinese che va all’ufficio di Qalandia deve attraversare il check-point per due volte – e anche in quel caso viene fornita solo una serie limitata di servizi.

A Gerusalemme ovest, continua, dove ci sono degli uffici del ministero meno affollati e dove la Corte Suprema ha ordinato al ministero di fornire dei servizi ai palestinesi di Gerusalemme est, gli uffici non hanno ancora apportato delle modifiche sostanziali.

La maggior parte dei servizi, compresi il rinnovo dei permessi di soggiorno e le dichiarazioni di nascita, non viene fornita, gli impiegati non parlano arabo e molti di loro, ignorando l’ordine del tribunale, finiscono per rispedire i palestinesi all’ufficio di Wadi al-Joz.

Il fatto che, nonostante i tentativi del tribunale, non sia cambiato niente sul terreno non stupisce Rami Saleh.

Non sorprende che rifiutino le richieste che cercano di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi,” dichiara.

Abbiamo a che fare con un’entità colonialista che cerca di stremare gli abitanti palestinesi di Gerusalemme e non di allentare le restrizioni che sono loro imposte.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Proseguono gli scioperi della fame dei prigionieri

Alessandra Mincone

20 giugno 2019, Nena News

Dalla prigione di Ashqelon a quella di Damon i detenuti palestinesi, uomini e donne, portano avanti questa forma di protesta che riesce a frenare abusi e restrizioni attuate dalle autorità carcerarie israeliane

Dopo sabato 15 giugno, quando le celle della prigione centrale di Ashqelon, “Shikma”, sono state prese d’assalto dalle guardie carcerarie, più di quaranta detenuti hanno minacciato uno sciopero della fame ottenendo che numerose rivendicazioni venissero poste all’attenzione delle autorità israeliane. Tra queste, si chiede di mettere fine alle aggressioni da parte delle guardie; l’accesso all’acqua calda; il recupero di beni fondamentali per i prigionieri come cibo, indumenti, carta, penne e libri; il diritto a ricevere visite di legali e familiari; la possibilità di usufruire di cabine telefoniche, di poter godere di tempi e spazi d’aria adeguati alla luce del sole e di eliminare i ripetitori delle frequenze per i telefoni cellulari (usati dalle guardie) dannosi per la salute. Inoltre di mettere fine alla pratica dei trasferimenti eseguite in veicoli militari chiamati “bosta”, una sorta di “bara” in cui i prigionieri viaggiano piegati in strette gabbie di metallo e incatenati  braccia e gambe, persino quelli in precarie condizioni di salute, per tragitti che durano anche tre giorni.

La Società Palestinese dei Detenuti ha riscontrato un primo esito positivo dalla discussione con l’amministrazione carceraria, tanto da affermare che con lo sciopero ad Ashqelon è stato ottenuto un trattamento sanitario per quattro prigionieri gravemente malati e, inoltre, si consentirà il ritorno di un altro prigioniero a Shikma entro il 1 luglio.

Lo scorso aprile, circa 400 prigionieri avevano aderito ad uno sciopero della fame a tempo indeterminato al grido della parola “dignità”. Una protesta che nonostante abbia fallito nella trattativa con le istituzioni carcerarie, è comunque riuscita ad allargarsi ai centri di detenzione di massima sicurezza di Gilboa, Megiddo, Eshel, Ofer, Nafha e Ramon; questi ultimi due edifici formano un’unica prigione che si trova nell’area desertica a sud-est della Palestina. Nafha, denunciato come uno dei carceri più duri e severi attivo dagli anni ottanta, fu progettato per imprigionare i leader delle proteste palestinesi al fine di isolarli. I palestinesi affermano che vi vengono praticate “forme di tortura” con le quali i reclusi sono gradualmente “spinti verso la morte”. Mentre il complesso di Ramon, edificio più recente, proprio lo scorso 17 giugno è stato teatro di tensioni a causa di agguati e saccheggi da parte delle guardie penitenziarie.

Nelle prigioni israeliane la pratica dello sciopero della fame rappresenta storicamente un modello di lotta con cui i palestinesi hanno provato a contrastare l’abuso di potere esercitato quotidianamente dalle guardie. È l’esempio della prigione di Ramleh, dove nel 1953 furono imprigionati i primi palestinesi, e nel 1968 si assisté ai due primi scioperi della fame a causa degli abusi fisici, dell’esposizione costante alla pioggia e per ottenere quaderni, penne e libri nelle celle. Riguardo invece la prigione Shikma di Ashqelon, essa è conosciuta come una delle più dure sin dagli anni Settanta. Se inizialmente una parte dell’edificio di Ashqelon fu strutturato solo come centro per gli interrogatori ai detenuti (tutt’ora in vigore), in seguito fu furono costruite aree murate per imprigionare chi si opponeva all’occupazione israeliana delle terre palestinesi.

Proprio ad Ashqelon alcune indagini portate avanti da gruppi israeliani per i diritti umani – quali B’Tselem e HaMoked – dimostrano che le dinamiche di umiliazione così come i trattamenti degradanti hanno inizio proprio dalla fase dell’interrogatorio dei prigionieri: deprivazione del sonno e dei servizi igienici, isolamento ed esposizione a temperature estreme, minacce, violenze di vario genere, negazione a consultare degli assistenti legali. Tecniche che secondo Noga Kadman di B’Tslem sono orchestrate dall’intelligence israeliana, dagli uffici delle Procure e dall’intero apparato statale, con il beneplacito consenso addirittura dell’Autorità Nazionale Palestinese, al fine di estorcere delle dichiarazioni dall’interrogato completamente manovrate e distorte. Le due organizzazioni hanno congiuntamente scritto che: “hanno tutti contribuito a diversi aspetti di trattamenti abusivi, crudeli, disumani e degradanti subiti dai detenuti palestinesi a Shikma e in altri centri di detenzione”.

L’associazione per i diritti umani e il supporto ai prigionieri palestinesi, mostra sul proprio sito alcuni dati aggiornati fino a Maggio 2019. Sono 5350 i prigionieri politici nelle carceri israeliane, di cui 480 in “detenzione amministrativa” – ossia, reclusi senza processo e quindi formalmente senza aver commesso alcun reato e senza il diritto all’assistenza legale; mentre 210 sono i minori, di cui 26 al di sotto dei 16 anni.

Dal 1967 le forze israeliane hanno arrestato più di 50.000 bambini e giovanissimi. Dallo scoppio della Seconda Intifada, nell’anno 2000, sono stati imprigionati circa 16.500 bambini con un aumento vertiginoso degli arresti nel 2011. Le accuse di provocazione per il lancio di pietre contro i militari e i più recenti aquiloni incendiari (da Gaza verso il territorio meridionale israeliano), hanno prodotto pesanti abusi delle autorità israeliane contro i diritti di ragazzi e giovani a cui viene negata la libertà e possibilità a livello scolastico e sanitario.

Dal malcontento dei prigionieri e delle prigioniere, sottolinea la Rete di Solidarietà dei detenuti politici palestinesi Samidoun, si può sperare nel successo delle lotte avviate. In un comunicato dove si congratula per le proteste di Ashqelon, la Rete coglie l’occasione per lanciare un appello delle prigioniere palestinesi in vista del prossimo sciopero della fame collettivo, proclamato per il 1 luglio nel carcere di Damon. Nena News

“Canterò nella cella della mia prigione

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me milioni di usignoli

per cantare la mia canzone di lotta.”

Mahmoud Darwish




Un nuovo rapporto fornisce dettagli sul “vasto e sistematico abuso” da parte di Israele su minori a Gerusalemme est

Sheren Khalel

25 ottobre 2017, MondoWeiss

Un nuovo rapporto stilato dalle associazioni israeliane per i diritti umani ‘HaMoked:Centro per la difesa delle persone’ e B’Tselem, con l’appoggio dell’Unione Europea, ha rivelato “un vasto, sistematico abuso da parte delle autorità israeliane” nei confronti di centinaia di ragazzi detenuti a Gerusalemme est occupata.

Il rapporto, intitolato ‘Senza protezione: la detenzione degli adolescenti palestinesi a Gerusalemme est’, è stato diffuso mercoledì e riporta in dettaglio una ricerca su 60 dichiarazioni giurate raccolte tra maggio 2015 e ottobre 2016.

Le associazioni hanno riscontrato diversi casi di abuso su minori in custodia della polizia israeliana.

I ragazzi palestinesi di Gerusalemme est vengono tirati giù dal letto nel mezzo della notte, ammanettati senza che ve ne fosse la necessità, interrogati senza aver avuto la possibilità di parlare con un avvocato o con i loro familiari prima dell’inizio dell’interrogatorio e senza essere informati del loro diritto a rimanere in silenzio”, hanno riscontrato le associazioni. “Vengono poi tenuti in condizioni durissime, trattenuti ripetutamente in custodia cautelare per ulteriori periodi di giorni e persino di settimane, anche dopo che il loro interrogatorio è terminato. In alcuni casi, a tutto ciò si accompagnano insulti o minacce verbali e violenze fisiche.”

Mentre il rapporto raccoglie casi di un anno fa, questi arresti di ragazzi continuano. Per esempio, il 23 ottobre le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Issawiya a Gerusalemme est durante incursioni notturne, provocando scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane armate di tutto punto.

Gli scontri non sono una novità per il conflittuale villaggio, situato vicino all’università ebraica di Israele e all’ospedale Hadassah, ma quel che in genere finisce magari con qualche arresto e ferimento, ha invece provocato fino a 51 palestinesi arrestati e portati via dalle forze israeliane – 27 dei quali tra i 15 e i 18 anni di età, secondo le informazioni del Comitato palestinese per le questioni dei prigionieri.

Il rapporto diffuso mercoledì dà un’idea di ciò che quei ragazzi potrebbero stare affrontando adesso.

I ragazzi si trovano soli in una situazione minacciosa e sconcertante, senza che nessuno spieghi loro di che cosa sono sospettati, quali siano i loro diritti, con chi possano comunicare, quanto durerà il processo e quando potranno tornare alle loro case e famiglie,” afferma il rapporto. “Fino a quando non vengono rilasciati, non hanno accanto nessun adulto di cui si possano fidare e i loro genitori sono tenuti lontani. Queste prassi di arresto ed interrogatorio lasciano libere le autorità di far pressione sui minori detenuti perché confessino le accuse.”

Andare contro il protocollo

Analizzando la legislazione ed il protocollo israeliani, le associazioni hanno scoperto che in questi casi le forze israeliane hanno spesso violato le loro stesse regole.

Per esempio, mentre la legge israeliana prevede che le forze di polizia arrestino i giovani solo in casi estremi, le testimonianze raccolte da B’Tselem e HaMoked dimostrano che solo nel 13% dei casi “la polizia non ha proceduto all’arresto”, per cui le associazioni hanno potuto stabilire che gli arresti sono “la prassi di azione prevalente” della polizia israeliana, quando ha a che fare con minori palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre, in base alla procedura israeliana, la contenzione fisica dei giovani “può essere utilizzata sui minori solo in casi eccezionali”; tuttavia, nei 60 casi esaminati dal rapporto, almeno l’81% dei minori è stato ammanettato prima di essere caricato su un veicolo della polizia, mentre il 70% è rimasto in manette durante gli interrogatori.

La legge israeliana vieta anche che, tranne che in circostanze eccezionali, i minori siano interrogati di notte, ma il 25% dei minori ha riferito di interrogatori notturni e il 91% è stato arrestato nel proprio letto nel mezzo della notte.

Il rapporto ha documentato che “anche se, almeno in alcuni casi, i poliziotti hanno aspettato fino al mattino per iniziare l’interrogatorio, i ragazzi vi sono giunti stanchi e spaventati dopo una notte insonne.”

I minori, arrestati nel loro letto nel mezzo della notte, hanno potuto contattare le loro famiglie solo “in rari casi”. Consentire la presenza dei genitori non è previsto dalla legge israeliana dopo un arresto ufficiale e, pur se la polizia ha la discrezionalità di concederla, al 95% dei minori presi in considerazione nel rapporto non è stata consentita la presenza di un genitore dopo l’arresto.

Il rapporto ha scoperto che solo il 70% dei minori ha compreso di avere il diritto di rimanere in silenzio, perché temevano che gli venisse fatto del male se non avessero risposto alle domande dei poliziotti.

Mentre il 70% di loro ha potuto parlare con un avvocato durante o prima degli interrogatori, B’Tselem e HaMoked hanno rilevato che in molti casi ai ragazzi è stato dato il telefono privato di chi li stava interrogando per parlare con l’avvocato e le conversazioni erano “inadeguate ed inutili perché i minori capissero i propri diritti e ciò a cui andavano incontro.”

Sarebbe ovvio che il sistema di applicazione della legge trattasse questi ragazzi in un modo consono alla loro età, che tenga conto della loro maturità fisica e psichica, riconoscendo che ogni atto potrebbe avere ripercussioni a lungo termine sugli stessi adolescenti e sulle loro famiglie”, spiega il rapporto. “Sarebbe ovvio che il sistema trattasse i ragazzi umanamente e correttamente e fornisse loro le protezioni fondamentali. Ma non è così.”

Secondo il rapporto, il 25% dei minori interrogati ha detto che è stata usata violenza su di loro, benché il rapporto non fornisca dettagli specifici su quale tipo di lesioni siano state provocate.

Inoltre, più della metà dei ragazzi ha detto che quelli che li interrogavano gli urlavano minacce e offese verbali. A quasi un quarto di loro non è stato permesso di andare in bagno e non è stato fornito cibo quando lo chiedevano.

Negare ai ragazzi cibo ed acqua è stato uno dei metodi principali per farli confessare, in quanto l’83% dei minori ha detto che una delle principali ragioni per cui ha firmato le confessioni è stato che aveva fame – l’80% delle dichiarazioni di confessione era in ebraico, per cui i ragazzi non potevano leggere ciò che stavano firmando.

Dietro gli arresti

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono diverse importanti ragioni per cui le forze israeliane fanno la scelta di arrestare minori nella Gerusalemme est occupata, oltre al mantenimento della legge e dell’ordine.

Addameer ritiene che i soldati e i poliziotti israeliani prendano di mira i giovani per esercitare pressione sulle famiglie e le comunità, spingendole a “interrompere la mobilitazione sociale” contro l’occupazione. Inoltre Addameer ha rilevato che l’arresto dei ragazzi quando sono giovani potrebbe dissuaderli dal partecipare a scontri e lanci di pietre – l’accusa più comune sollevata contro i giovani. Infine, Addameer riferisce di aver raccolto testimonianze che suggeriscono che i minori vengono “sistematicamente” arrestati e sollecitati a “divenire informatori” e a “fornire informazioni sia su importanti personalità coinvolte nelle attività militanti, sia su altri ragazzi partecipanti alle manifestazioni.”

Il rapporto di B’Tselem e HaMoked conclude che la politica israeliana nei confronti dei minori di Gerusalemme est è una politica appositamente creata e utilizzata dallo Stato per far pressione sui palestinesi della città perché se ne vadano, trattando la popolazione come se fosse esclusa dal sistema.

Il regime israeliano di applicazione della legge tratta i palestinesi di Gerusalemme est come membri di una popolazione ostile, che sono tutti, minori ed adulti, presunti colpevoli fino a che non si provi la loro innocenza, e mette in atto contro di loro misure estreme che non oserebbe mai impiegare contro altri settori della popolazione”, continua il rapporto. “Il sistema della giustizia di Israele sta, per definizione, da un lato della barricata e i palestinesi dall’altro: i poliziotti, gli agenti carcerari, i procuratori e i giudici sono sempre cittadini israeliani che arrestano, interrogano, giudicano e imprigionano ragazzi palestinesi che vengono considerati come nemici pronti a nuocere agli interessi della società israeliana.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)