Israele è sull’orlo del fascismo. Varcherà la soglia?

David Ohana e Oded Heilbronner

24 giugno 2024 – Haaretz

Israele sta attraversando una piccola guerra civile che ricorda la Germania di Weimar e l’Italia alla vigilia della Marcia su Roma dei fascisti.

La settimana scorsa il suono degli stivali degli sgherri nei vicoli della Città Vecchia durante il Giorno di Gerusalemme ha richiamato quello delle marce delle SA e gli anni ’20 e ’30 in Germania. Adesso come allora, quando i miliziani con le camicie brune si avventavano violentemente contro ogni negozio di proprietà di un ebreo o di un comunista che incrociavano, quelli con la camicia gialla – gli ottusi discepoli del loro prepotente leader con un passato criminale che ora ha tutte le forze di polizia sotto il suo controllo – hanno picchiato, preso a pugni e imprecato contro arabi e giornalisti.

Era difficile distinguere tra i teppisti e i rappresentanti dello Stato nella forma di poliziotti di confine: ognuno di loro aveva un ruolo ben definito nell’imporre il terrore e la paura agli abitanti della Città Vecchia nell’annuale rituale fascista. Adolescenti del settore del sionismo religioso, che credono nella supremazia della razza ebraica e della “terra ebraica”, con la loro violenza hanno riportato alla memoria gli estremisti di destra e fascisti europei che davano la caccia a socialisti, comunisti ed ebrei.

Circa 100 anni fa i ruoli erano invertiti; ora ebrei violenti lungo il percorso verso il Muro del Pianto hanno dato la caccia a persone di altre origini etniche. In parallelo con la crescita dell’ondata della destra radicale e populista attualmente in corso in Europa, i gruppi protofascisti sono in aumento in Israele.

Questi processi riflettono tendenze globali e indicano il rafforzamento di una base sociale di destra radicale “pre-fascista” in Israele – gruppi neofascisti (tra cui alcuni elettori del Likud, comunemente noti come “Bibisti” [dal diminutivo di Netanyahu, “Bibi”]) che mantengono una presa sempre più stretta sulle classi basse. La radicalizzazione nazionalista in questa base sociale agevola un’alleanza tra la destra politico-culturale conservatrice, gruppi sociali tradizionalisti periferici di classe inferiore e gruppi religiosi e ultra-ortodossi che difendono valori di sangue, patria ebraica, terra, razza, sacralità, sacrificio e morte – un clima indiscutibilmente razzista.

Tali gruppi neofascisti sono pericolosi per il futuro della democrazia israeliana, in quanto producono una cultura fascista con semi che contengono un potenziale sociale di massa. Attualmente Israele sta attraversando una piccola guerra civile che ricorda momenti simili nell’Europa degli anni ’20. Questa analogia non è un confronto alla pari tra adesso e allora, ma, come recentemente ha chiarito lo scrittore svedese [in realtà norvegese, ndt.] Karl Ove Knausgård nel suo libro “My Struggle” [La mia lotta, che riprende il titolo del Mein Kampf di Hitler, ndt.], il periodo tra la fine del XIX secolo e la metà degli anni ’40 del ‘900 è visto retrospettivamente come un’epoca di trasformazioni nei principali aspetti dell’esistenza umana.

Molti intendevano trovare un nuovo elemento per creare una nuova società e hanno pensato di aver trovato quello che stavano cercando negli ultimi due grandi movimenti utopici: il nazismo e il comunismo. L’analogia tra l’Europa di Knausgård, soprattutto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, così come in altri Paesi come la Francia, il Belgio e i Paesi dell’Europa orientale, e l’Israele di Netanyahu è intesa a ricavare indicazioni riguardo a similitudini tra avvenimenti, processi e figure nel passato e nel presente.

Come detto in precedenza, Israele attualmente sta vivendo una guerra civile che ricorda la Germania di Weimar e l’Italia alla vigilia della Marcia su Roma dei fascisti. Israele non è il solo ad affrontare tale crisi. Il ripudio dei valori liberali e democratici risuona oggi in tutto l’Occidente, con la possibile eccezione della Gran Bretagna, che ha sempre fatto la giusta scelta civica liberale.

Ciò è evidente nelle proteste dei “Gilet Gialli” in Francia (in cui Marine Le Pen molto probabilmente verrà eletta presidente nelle prossime elezioni[in realtà saranno elezioni parlamentari e non presidenziali, ndt.]), nell’assalto a Capitol Hill a Washington, nel crescente appoggio al partito “Alternative für Deutchland” [in Germania, ndt.], nell’elezione come primo ministro in Italia di Giorgia Meloni, una fan di Mussolini, e nella crescita senza precedenti del sostegno al leader nazionalista Geert Wilders in Olanda. Non più tardi di questa settimana la destra radicale si è rafforzata nel parlamento europeo.

Come in Israele, anche nei Paesi europei c’è una tendenza da entrambi i lati della barricata a vedere le crisi politiche, economiche e sociali come una lotta sul carattere della società e dello Stato, una lotta tra il desiderio di un profondo cambiamento dopo decenni di ordine liberal-democratico e quanti vogliono continuare nell’attuale ordine democratico.

La crisi di Israele è alimentata dai risultati delle elezioni del novembre 2022, ma bisognerebbe essere ingenui per vedere la vittoria del blocco religioso di destra come la causa della crisi israeliana. Anche qui come negli USA, in Gran Bretagna e in altri Paesi, la rivolta riflette processi più profondi: significativi cambiamenti geopolitici, nozioni economico-culturali radicali che spuntano dall’oggi al domani, crisi climatiche e ambientali, minacce alla secolarizzazione, al modo di vita liberale e una lotta contro regimi corrotti e antidemocratici.

Tutto ciò fa scendere in piazza folle in tutto il mondo. La crisi israeliana ha caratteristiche uniche: la struttura complessa della società israeliana, l’ombra minacciosa dell’occupazione e il pericolo della religione, soprattutto l’autoconvinzione della supremazia del sangue e della razza ebraici. Non c’è dubbio che il disastro del 7 ottobre e le proteste contro il regime sono una duplice reazione al clamoroso fallimento dell’establishment politico e securitario, ma sono anche la continuazione di proteste durante la pandemia e contro il colpo di stato costituzionale del 2023. Tutto ciò riflette una mancanza di fiducia dell’opinione pubblica israeliana in un regime vacillante.

Tre processi

C’è spazio per fare un confronto tra Israele e l’Europa nel periodo dell’ascesa del fascismo in tre importanti processi. Il primo è la crisi costituzionale in Germania negli anni 1930-33, una crisi politica che terminò, di fatto, solo con la caduta della democrazia della Repubblica di Weimar, debole fin dal suo inizio; qui il nascente governo Netanyahu, eletto dopo varie elezioni durante le quali c’è stato un crescendo nel potere negoziale dei partiti religiosi e ultra-ortodossi, dei nazionalisti razzisti laici e tra i nazionalisti religiosi, compresi i coloni e i partiti neo-fascisti. Come nella Germania di Weimar e in altre parti del mondo anche qui c’è stato un tentativo fallito di colpo di stato giudiziario che intendeva distorcere il sistema democratico di pesi e contrappesi tra i tre poteri dello Stato. L’ultimo atto, per il momento, è la guerra di Gaza.

Il secondo processo riguarda le divisioni nella società. In Italia, Spagna e, ovviamente, Germania ci fu una rottura tra campi politici polarizzati: da una parte la destra nazionalista, radicale e antisemita e dall’altra il versante socialista (SPD) e comunista, che trovò espressione in una pressoché continua guerra civile e nella violenza politica, definita dal giurista Carl Schmitt uno “stato di emergenza” (che accetta con favore un “dittatore”). Qui è la frattura tra i coloni e i loro sostenitori e quanti si oppongono all’occupazione, tra ultra-ortodossi e religiosi da una parte e israeliani laici dall’altra, oltre a ulteriori divisioni politiche e sociali.

Il terzo processo rivela gravi tensioni tra una società liberale e forze conservatrici e di destra radicale. Nella società italiana alla vigilia della Marcia su Roma, e soprattutto nella Germania di Weimar, erano in gioco tendenze altrettanto opposte: da una parte progresso, liberalismo e modernizzazione, dall’altra una rivoluzione fascista e una “rivoluzione conservatrice” promosse da eminenti pensatori italiani come Giovanni Gentile e tedeschi come Schmitt, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Martin Heidegger e altri.

Il fulcro di quella rivoluzione fu una altrettanto paradossale combinazione di politiche reazionarie e progresso tecnologico, noto come Modernismo Reazionario, nome anche del libro dello storico Jeffrey Herf, ovvero “The Order of the Nihilists” [l’Ordine dei Nichilisti]. Là come qui c’era e c’è una lotta continua contro i valori universali, uguaglianza di cittadinanza e immigrazione, e dall’altro lato odi all’onore nazionale, all’unità e alla tradizione. Ideologicamente in Israele adesso è in corso una rivoluzione conservatrice, sopra e sotto la superficie, portata avanti sulle ali del “bibismo” e che fa affidamento sullo Shalem College [università privata israeliana, ndt.], con origini nel conservatorismo statunitense.

Si basa anche sul movimento Im Tirtzu, uno dei cui fondatori, Ronen Shoval, è stato influenzato dal romanticismo tedesco, considerato il predecessore del fascismo tedesco, un movimento descritto dall’ex-parlamentare del Likud Benny Begin come caratterizzato da “elementi fascisti” nella sua campagna, e da Zeev Sternhell [importante storico israeliano, ndt.] come “non peggiore del fascismo, più o meno simile.” Questa rivoluzione conservatrice è appoggiata anche dal Kohelet Policy Forum [centro studi israeliano di destra, ndt.], l’istigatore della legge israeliana sullo Stato Nazione [legge fondamentale che sancisce la superiorità degli ebrei e del sionismo sul resto della società, ndt.] e dal libertario Tikvah Fund, che ha elaborato la “riforma della giustizia” e incoraggia una fittizia sensazione di unità nazionale.

Non c’è da stupirsi che in questi circoli l’intellettuale di punta sia un colono ideologico, Micah Goodman, diplomato in una yeshiva [scuola religiosa, ndt.] che è stato presentato come un “intellettuale pubblico” moderato, mentre dietro l’idea che predica di “restringere il conflitto” nasconde un rafforzamento fraudolento della Grande Terra di Israele.

Ovviamente ci sono differenze. È impossibile capire la caduta della repubblica di Weimar senza il contesto della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e le sue pesanti conseguenze che inclusero il colpo di stato bolscevico che minacciò la Germania, assassinii politici, i Freikorps (“Corpi franchi” [milizie di ex-combattenti, ndt.]) e violenti tentativi rivoluzionari di destra e di sinistra, nessuno dei quali corrisponde al caso israeliano. Né Israele sta vivendo il genere di inflazione devastante e la gravissima crisi economica che la Germania sperimentò negli anni ’20. Come ha dimostrato lo storico Walter Struve nel suo libro “Elites Against Democracy” [Élite contro la democrazia], in Germania le élite conservatrici si opposero al regime di Weimar o erano indifferenti al suo destino. Invece qui la maggior parte delle élite è identificata come liberale e viene accusata di “appropriarsi dello Stato con l’aiuto della Corte Suprema.”

Va sottolineato che, a differenza degli anni ’20 nell’Europa centrale, meridionale e orientale, la democrazia israeliana è ancora forte, ma ciò potrebbe non essere per sempre. Rispetto alle democrazie europee che caddero sotto il fascismo e il nazismo negli anni ’20 e ’30, le organizzazioni della società civile israeliana, il settore professionale nei servizi pubblici e il governo agiscono, in base alle circostanze, con integrità e lealtà nei confronti dei principi democratici, benché siano comparse crepe nella loro condotta e nel loro impegno verso la democrazia.

Tuttavia in vari punti nevralgici all’interno della società israeliana si possono riconoscere tendenze pre-fasciste e populiste. Soprattutto c’è un partito di governo che include nella base su cui si appoggia elementi che sono pre-fascisti. Recentemente il professor Menachem Mautner ha sostenuto che gruppi emarginati che rappresentano questa base sono lontani dalle società liberali -civiche perché queste ultime hanno adottato una politica economico-sociale neoliberale e a causa degli accordi disfattisti “di sinistra” con il nemico (Iyunei Mishpat, 45, 2021), che hanno suscitato una profonda ostilità verso le “élite di sinistra”.

Il primo ministro: ad un passo dall’essere un leader fascista

Ad aver promosso questa ideologia nazionalista e questa filosofia della storia che impone un “Israele immortale” (“Netzah Yisrael”) e comporta il rifiuto di riconoscere la legittimità del “nemico” è un leader populista, carismatico, propagandistico ed autoritario, Benjamin Netanyahu, che è a un passo dal diventare un leader fascista. Non c’è da stupirsi che dirigenti neo-fascisti o autoritari-populisti come Donald Trump negli USA, Narendra Modi in India e Viktor Orban in Ungheria abbiano il suo stesso quadro di riferimento e presentino analogie ideali con questo tipo di leadership.

Quello che tutti questi dirigenti hanno in comune è, tra le altre cose, il cinismo politico. L’azione politica che perseguiterà Netanyahu nella coscienza storica è il fatto di essersi basato per rafforzare il suo potere su un sostenitore di Kahane [rabbino noto per le sue posizioni razziste, ndt.] come Itamar Ben-Gvir, una figura in tutto e per tutto fascista. Il cinismo è evidente anche nella corsa di Netanyahu all’ospedale per una visita ripresa dalle telecamere ai quattro ostaggi liberati dall’esercito israeliano sabato, benché egli non abbia mai chiamato le famiglie degli ostaggi nemmeno una volta dal 7 ottobre.

Il costante stato di guerra a cui Israele è soggetto potrebbe fornire a Netanyahu i poteri d’emergenza che ha utilizzato durante la pandemia, quando ha approvato draconiane leggi d’emergenza senza precedenti (che non hanno avuto pari in nessuna democrazia occidentale, e accettate senza critiche). Oltre al massiccio reclutamento nazionale, allo spostamento di tutte le persone dal nord e dal sud di Israele e alla loro trasformazione in rifugiati, al trasferimento di palestinesi dall’altra parte del confine, alle dichiarazioni da parte di membri della coalizione di governo di un “diritto al ritorno” [di coloni israeliani, ndt.] alle “regioni d’origine” a Gaza, all’isolamento internazionale che ricorda la frase biblica “il popolo dimorerà da solo” e al tentato colpo di stato giudiziario-costituzionale, che continua ad essere una minaccia, tutto ciò indica tendenze fasciste insieme a populismo e nazional-socialismo.

Queste tendenze si sommano ad altre preoccupanti e crescenti tendenze nella società israeliana. Abbiamo di fronte una combinazione di crisi sociali, costituzionali e di sicurezza, il peggio che Israele abbia mai vissuto dalla sua nascita. Malcontento tra molte classi a causa dell’instabilità politica, proteste di massa, che, in base ad alcune circostanze, potrebbero trasformarsi in guerra civile e sono parte di una continua protesta che indica una perdita di fiducia dell’opinione pubblica nel sistema politico, sviluppo di reti sociali come violenta arena politica che sostituisce i tradizionali mezzi di comunicazione che implicano revisione, selezione e responsabilità, folgorante ascesa del populismo e il declino del liberalismo, che ha a che fare con l’instabilità mondiale e con processi globali, esistenza e persino la crescita di una destra radicale, pre-fascista, un blocco basato sulla religione e antiliberale, sono tutti indicatori che annunciano l’arrivo di un uragano che minaccia di devastare tutto ciò che c’è di buono in Israele.

Ecco tre esempi della scorsa settimana: l’appello di 39 associazioni studentesche, che fanno parte dell’Unione Nazionale degli Studenti Israeliani, in appoggio a una legge che consentirebbe il licenziamento di docenti universitari che neghino “l’esistenza di Israele come Paese ebraico e democratico” (la manifestazione di una posizione deformata, una continuazione della violenza di Tzachi Hanegbi e Israel Katz nell’unione degli studenti oltre 45 anni fa). Un altro esempio è la richiesta da parte di Nadav Haetzni [giornalista e avvocato di estrema destra, ndt.] di aprire un procedimento giudiziario contro accademici, giornalisti e magistrati in base all’articolo 103 del codice penale che vieta la “propaganda disfattista”, e all’articolo 99, che vieta di “fornire aiuto al nemico in tempo di guerra.” A ciò si può aggiungere l’annuncio da parte del sindaco di Haifa Yona Yahav che nella sua città nonsi devono svolgere manifestazioni contro la guerra. Non sono che tre esempi della corruzione morale, un segnale di ciò che avverrà. E che cosa porterà il domani?

Una discussione contemporanea sul fascismo europeo nella prima metà del XX secolo non può ignorare l’attuale situazione politica in Israele. La nascita di un unico modello di fascismo israeliano insieme al razzismo populista è stata recentemente considerata una possibilità concreta nel discorso politico pubblico e nella ricerca accademica. La creazione di un governo nazional-religioso in Israele nel 2022, che ha intensificato il dibattito sull’esistenza di elementi fascisti-razzisti nel governo Netanyahu e su un “colpo di stato costituzionale” conservando una facciata democratica, è stato un punto di svolta radicale nella democrazia israeliana, che per molti ha smesso di essere liberale.

Ciò in aggiunta alla partecipazione al governo di partiti che esibiscono una visione del mondo razzista, nazionalista e xenofoba, prendono d mira i diritti civili, le minoranze e i media, e presentano una posizione di sfida, di provocazione verso il mondo progressista. Sono sufficienti per definire fascisti il regime, la società e le istituzioni civili israeliani attuali? Per adesso la risposta è negativa, con la sottolineatura della parola “adesso”.

Se aggiungiamo a tutto questo l’occupazione e il regime di apartheid imposto da Israele alla Cisgiordania da oltre mezzo secolo e il passaggio da “occupazione temporanea” a un situazione di colonizzazione permanente, che ha fornito credibilità alla procedura ora in corso alla Corte Internazionale [di Giustizia] dell’Aia, e se aggiungiamo questi elementi etnocratici, in accordo con il paradigma del geografo politico Oren Yiftachel di un gruppo etnico che si impossessa delle risorse e istituzioni dello Stato a spese delle minoranze, continuando nel contempo a presentarsi come una democrazia (vuota), e in particolare la crescita di forze razziste in base alla religione, non possiamo ignorare il pericolo che in Israele si materializzi l’opzione fascista.

Quindi, come ricorderanno gli israeliani questi giorni turbolenti? Come attraverseranno il fiume impetuoso che minaccia di sommergerli? L’autocoscienza dei cittadini preoccupati della fragilità della democrazia si trasformerà in azione politica? Cosa rimarrà delle vicissitudini di questi giorni bui? Gli israeliani si ribelleranno? O si piegheranno, rinunceranno, faranno ammenda e compromessi e, chissà, forse preferiranno andare a vivere altrove? Ciò che ci rimane è interpretare correttamente le vicissitudini di questi giorni, continuare la lotta e conservare la speranza, ripetere ancora una volta le parole dello slogan scandito nel secolo scorso dai combattenti per la libertà davanti ai soldati: no pasarán.

Gli autori sono storici del fascismo e nazismo europei. Il prof. Ohana ha scritto il libro “The Fascist Temptation” [La tentazione fascista] (Routledge 2021) e il prof. Heilbronner è autore di “From Popular Liberalism to National Socialism” [Dal liberalismo popolare al nazional socialismo] (Routledge 2017).

[traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




Rapporto: nuove prove rivelano che l’esercito israeliano aveva una conoscenza dettagliata del piano di Hamas per attaccare il territorio di Israele

Rachel Fink

18 giugno 2024-Haaretz

Un documento dell’esercito israeliano mai visto prima fa emergere nuovi sorprendenti dettagli sui piani operativi di Hamas per invadere Israele. Il rapporto delinea l’ordine di Hamas di prendere in ostaggio tra i 200 e i 250 israeliani.

Un documento recentemente emerso rivela che l’esercito e l’intelligence israeliani avevano una conoscenza dettagliata del piano di Hamas di attaccare il territorio di Israele; anche riguardo al numero di ostaggi da catturare e ad istruzioni specifiche per il loro trattamento durante la prigionia.

Secondo un servizio trasmesso lunedì sera dall’emittente pubblica israeliana Kan, il documento, basato sulle informazioni dell’Unità 8200 dell’intelligence militare, ha cominciato a circolare il 19 settembre, meno di tre settimane prima del massacro del 7 ottobre.

Le fonti anonime che hanno fornito a Kan il documento affermano anche che il suo contenuto è stato portato all’attenzione di almeno alcuni alti ufficiali dell’intelligence ma apparentemente ignorato. Il documento evidenzia fino a che punto la Divisione Gaza dell’esercito israeliano fosse a conoscenza di un potenziale attacco alle comunità del confine meridionale di Israele.

Il documento, intitolato “Addestramento dettagliato su raid end-to-end”, rivela dettagli sorprendenti e inizia con la descrizione di una serie di esercitazioni condotte dalle unità d’élite Nukhba di Hamas nelle settimane precedenti la sua pubblicazione. Nel documento si legge: “Alle 11 del mattino, dopo la preghiera ed il pranzo, sono state osservate diverse unità convergere per le sessioni di addestramento”.

“Alle 12:00 sono state distribuite attrezzature e armi ai terroristi, quindi ha avuto luogo un’esercitazione dei comandi delle unità. Alle 14:00 è iniziato il raid.” Secondo il documento alle unità Nukhba è stato dato un ordine evidenziato nel documento: ispezionare l’area durante l’incursione e non lasciare documenti dietro.

Kan ha anche riferito che i commando di Hamas si esercitavano a infiltrarsi in un finto avamposto dell’esercito israeliano, simulando basi sul confine di Gaza. L’esercitazione è stata effettuata da quattro unità del gruppo terroristico e a ciascuna era stato assegnato un diverso avamposto.

Gli obiettivi del raid descritti nel documento, che includono le strutture di comando e controllo dell’esercito, le sinagoghe della base, i quartier generali a livello di battaglione, il quartier generale delle comunicazioni e gli alloggi dei soldati, rispecchiano fedelmente i luoghi colpiti dalle forze di Hamas nelle prime ore del mattino del 7 ottobre.

Una delle sezioni più scioccanti del rapporto dell’esercito riguarda le istruzioni relative alla presa di ostaggi, il cui numero è stimato tra 200 e 250, un numero sorprendentemente vicino ai 251 uomini, donne e bambini effettivamente presi prigionieri da Hamas.

Secondo il rapporto dell’intelligence ai terroristi di Hamas è stato detto di perquisire gli israeliani rapiti per sequestrare i telefoni, poiché agli ostaggi era vietato informare le loro famiglie della loro condizione ed è stato ordinato loro di spostare gli ostaggi in un luogo diverso se fosse diventato evidente che Israele aveva scoperto dove venivano tenuti prigionieri. È stato anche detto loro di minacciare di uccidere gli ostaggi come mezzo per scoraggiare i tentativi di fuga.

Sebbene il documento contenga dettagli mai visti prima, è solo uno di una lunga lista di rapporti che indicano fino a che punto gli alti ufficiali israeliani fossero stati avvertiti dei piani di Hamas di attaccare Israele.

Nel luglio 2023 un sottufficiale dell’intelligence militare ha avvertito i suoi comandanti che Hamas intendeva compiere un massacro nelle comunità di confine di Gaza.

Il sottufficiale ha scritto tre rapporti nei sei mesi precedenti l’attacco del 7 ottobre in cui avvertiva che Hamas aveva completato una serie di esercitazioni simulando un raid contro i kibbutz e gli avamposti dell’esercito sul lato israeliano del confine.

A ciò si aggiungono le soldatesse destinate a compiti di osservazione che, per quasi un anno prima del 7 ottobre, hanno segnalato ai loro superiori attività sospette riguardanti i preparativi di Hamas vicino alla recinzione di confine, tra cui l’attività di droni, i tentativi di mettere fuori uso le telecamere di sicurezza, l’uso estensivo di furgoni e motociclette e persino prove per il bombardamento dei carri armati.

Molte delle osservatrici sopravvissute hanno affermato che i loro ripetuti avvertimenti sono caduti nel vuoto presso i loro ufficiali in comando.

Come riportato da Kan, l’esercito israeliano ha annunciato all’inizio di questo mese che all’inizio di luglio inizierà a esaminare i suoi fallimenti nel periodo precedente al 7 ottobre. Secondo la leadership dell’esercito le indagini si concentreranno sulle unità militari ritenute coinvolte nell’aver ignorato i preparativi di Hamas e sottovalutato la capacità del gruppo di sferrare un attacco su larga scala, con particolare attenzione a manovre alla frontiera che risalgono al 2018. Una manciata di ufficiali di alto rango ha già annunciato l’intenzione di dimettersi una volta finita la guerra.

Mentre molti cittadini e parlamentari israeliani hanno chiesto ulteriori indagini sulla gestione politica che ha contribuito al 7 ottobre, il primo ministro Benjamin Netanyahu e i membri della sua coalizione hanno insistito affinché tali indagini aspettassero fino alla fine della guerra a Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Opinione | Un altro passo del fascismo israeliano: accusare i giornalisti di sinistra di tradimento durante la guerra di Gaza

Rogel Alpher

2 giugno 2024 – Haaretz

Nadav Haetzni, giornalista e avvocato, ha pubblicato venerdì scorso un articolo su Israel Hayom, in cui invitava a far rispettare l’articolo 103 della legge penale. Gli israeliani che diffondono “propaganda disfattista” dovrebbero essere giustiziati mediante impiccagione in tempo di guerra: “Notizie che potrebbero minare lo spirito dei soldati e dei cittadini israeliani nel confronto con il nemico”.

Ha inoltre sottolineato che “le pressioni esercitate da Haaretz, dal New York Times e dall’Aia per fermare la guerra… devono essere esaminate alla luce di questi articoli di legge”. Si riferisce anche all’articolo 99, che prevede la morte o l’ergastolo per favoreggiamento del nemico in tempo di guerra. Si è lamentato che “La distinzione tra protesta legittima e tradimento è stata completamente oscurata”.

“Il problema”, secondo Haetzni, “inizia con la legittimazione concessa nel mondo accademico, negli studi televisivi e soprattutto nel sistema legale a coloro che stanno scavando un buco nel fondo della nostra barca comune”. Ha detto che gli israeliani che accusano Israele di affamare o di espellere il nemico stanno cercando di “danneggiare il paese e l’intera impresa sionista” e “sebbene molti di loro agiscano chiaramente in contraddizione con gli articoli della legge, noi non reagiamo”

Ha paragonato questi israeliani al britannico Lord Haw-Haw (il soprannome dispregiativo del fascista britannico William Joyce), che nel gennaio 1946 fu impiccato per tradimento, dopo aver effettuato dalla Germania [dove era fuggito per evitare l’internamento, n.d.t.] trasmissioni radio che propagandavano le idee di Hitler. Nell’ultima trasmissione si lamentò della reazione sproporzionata degli alleati nei confronti della Germania e dei suoi cittadini.

“Che cosa familiare”, ha osservato amaramente Haetzni. A suo avviso la Gran Bretagna, al contrario di Israele, “ha perseguito qualcuno che sosteneva le opinioni del nemico e lo vedeva come un traditore da condannare all’impiccagione”. Ha chiesto quale sia la differenza tra le organizzazioni israeliane per i diritti umani e il deputato di sinistra Ofer Cassif da un lato, e Lord Haw-Haw dall’altro. Per quanto lo riguarda non c’è differenza.

Il regime del primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi sostenitori (che, secondo i sondaggi, sono ancora una volta in crescita) accusano spesso i media israeliani di diffondere “rapporti che potrebbero minare lo spirito dei soldati e dei cittadini israeliani nel confronto con il nemico”. È un dato di fatto che Haaretz sia accusato di diffondere “propaganda disfattista”, ma non è l’unico media da biasimare, a loro avviso, per aver violato gli articoli 103 e 99 della legge penale.

Tutte le emittenti israeliane, ad eccezione di Canale 14, sono accusate di sabotaggio del Paese e del regime (che ai loro occhi sono la stessa cosa), di tradimento e di favoreggiamento del nemico in tempo di guerra. Le stesse accuse vengono rivolte mattina, mezzogiorno e sera anche al sistema giudiziario, soprattutto l’Alta Corte di Giustizia, e lo stesso vale per il mondo accademico. È evidente il tentativo di sfruttare la guerra per rilanciare la riforma giudiziaria e mettere a tacere ogni critica al regime.

E ora un giornalista e avvocato, che in realtà è un fascista anti-Bibi (esiste anche una categoria del genere), si alza e chiede chiaramente l’esecuzione dei “traditori” nei media, nel sistema giudiziario e nel mondo accademico, senza alcuna necessità di ulteriore legislazione. Non c’è bisogno di una revisione giudiziaria per impiccare giornalisti, accademici, giudici, attivisti per i diritti umani e parlamentari; basterà applicare le leggi esistenti. In Gran Bretagna c’era un solo Lord Haw-Haw. Qui ci sono molti Lord Haw-Haw e tutti loro devono essere messi a tacere per sempre mediante l’esecuzione o l’ergastolo in nome della protezione del Paese e dell’intera impresa sionista.

Mi vengono in mente non pochi giornalisti di Haaretz, compreso il caporedattore o chi scrive, che, secondo Haetzni, dovrebbero essere impiccati o marcire in prigione per il resto della loro vita. Nel frattempo continuiamo a pubblicare – ma per quanto tempo? I segnali premonitori si stanno stringendo su di noi. Le forze di polizia del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir . La richiesta del regime affinché lo Shin Bet monitori le proteste. Netanyahu è ancora una volta il più adatto tra tutti a ricoprire il ruolo di primo ministro.

L’articolo di Haetzni non è un’eccezione. Il giorno in cui è stato pubblicato è stato un giorno come un altro per il fascismo israeliano. E lo stesso varrà per il giorno in cui verrà impiccato il primo presunto Lord Haw-Haw israeliano.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Opinione | Perché il bilancio delle vittime di Gaza è probabilmente più alto di quanto riportato

Liat Kozma ,Wiessam Abu Ahmad

28 maggio 2024 Haaretz

Il numero delle vittime e l’incidenza delle malattie e dei decessi dovuti alla mancanza di condizioni sanitarie di base, cibo e assistenza medica richiedono un urgente dibattito pubblico in Israele.

Il numero delle vittime nella Striscia di Gaza negli ultimi sette mesi è spaventoso. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari oltre 34.000 persone sono state uccise e oltre 77.000 ferite e altre 11.000 intrappolate sotto le macerie delle loro case e considerate disperse.

Ma questa è solo una parte del quadro. Riteniamo che i numeri di morbilità e mortalità a Gaza siano in realtà più alti. La nostra conclusione si basa sul confronto con la situazione della sanità pubblica nei campi profughi immediatamente dopo la guerra del 1948 e sulla familiarità con i dati epidemiologici in generale. Riteniamo che il numero delle uccisioni e l’incidenza delle malattie e dei decessi dovuti alla mancanza di condizioni sanitarie di base, cibo e assistenza medica richiedano un urgente dibattito pubblico in Israele.

Una lettura dei documenti storici solleva diversi importanti paralleli, così come differenze, soprattutto a scapito della situazione attuale. Allora come oggi, centinaia di migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie case senza alcuna possibilità di tornare.

Nel 1948, circa 700.000 rifugiati furono dispersi in Cisgiordania, Gaza e nei paesi arabi. In Cisgiordania una popolazione di 400.000 abitanti assorbì 300.000 rifugiati, mentre 80.000 persone a Gaza accolsero il triplo di rifugiati. Nella guerra attuale l’assedio di Gaza e la chiusura del confine con l’Egitto durante l’inverno hanno costretto circa 1,5 milioni di persone a rifugiarsi a Rafah, un’area con una popolazione normalmente pari a un decimo di quella cifra. L’affollamento è tale da presentare un grave rischio per la salute e la vita.

Nel 1948 e nel 1949 le organizzazioni umanitarie internazionali si sforzarono di prevenire ciò che era considerato un pericolo per la vita di tutte le persone nella regione, non solo dei rifugiati. Una tipologia di intervento è stata la prevenzione della carestia attraverso la fornitura di farina, olio, zucchero e frutta secca, oltre che latte per i bambini (finanziato dall’UNICEF). Questi prodotti, poveri di proteine ​​e vitamine, furono considerati adeguati per un breve periodo fino al raggiungimento di un accordo tra le parti cosa che, come sappiamo, non avvenne mai.

Ma, come notato dalla Croce Rossa Internazionale, già il 7 ottobre le consegne di cibo a Gaza erano state tagliate drasticamente e senza paragone rispetto ai precedenti scontri. La distruzione di quel poco di terreno agricolo esistente ha lasciato gli abitanti di Gaza senza alternative locali.

Ciò che all’inizio della guerra aveva portato all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e alla povertà si è trasformato nei mesi successivi in ​​una vera e propria carestia, inizialmente nel nord di Gaza e ora per oltre 2 milioni di persone. Ci sono segnalazioni di famiglie che sopravvivono con mangime per bestiame, insetti e piante normalmente non commestibili: un’alimentazione insufficiente e inadatta al consumo umano. Non arrivano abbastanza camion di aiuti, quindi il bisogno di cibo e prodotti di base è lungi dall’essere soddisfatto. Il lancio di provviste è inefficiente, a volte addirittura mortale, e una parte degli aiuti finisce in mare.

Senza un sistema di monitoraggio e con la distruzione delle forze di polizia a Gaza bande di malviventi si appropriano dei pacchi di aiuti e li vendono ai bisognosi a caro prezzo. Quindi il cibo ancora non arriva alla popolazione affamata e il numero dei morti dovuti alla fame è in aumento.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari circa il 31% dei bambini sotto i 2 anni nel nord di Gaza e circa il 10% a Rafah soffrono di grave malnutrizione. Non si conosce ancora il numero dei morti per fame, ma è chiaro che molte persone stanno subendo danni irreversibili. Le persone che sopravvivono per mesi nutrendosi di erbacce e mangime per il bestiame non sopravviveranno a lungo.

Il secondo intervento nel 1948 fu dettato dalla consapevolezza che senza acqua pulita e condizioni igieniche adeguate le epidemie trasmesse dall’acqua e dagli insetti sarebbero state fatali per tutte le popolazioni della regione. Per questo motivo le organizzazioni umanitarie ritennero fondamentale fornire acqua potabile e vaccini, implementando al contempo quarantene durante le epidemie e spruzzando frequentemente insetticida. Quest’ultimo si è rivelato tossico nel lungo periodo, ma nel breve periodo salvò le concentrazioni di rifugiati da epidemie letali.

Tuttavia oggi l’acqua pulita è praticamente indisponibile per la maggior parte dei residenti di Gaza. Le organizzazioni umanitarie stimano che tutte le malattie trasmesse dall’acqua siano già diffuse a Gaza. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero dei malati di malattie prevenibili potrebbe presto superare quello delle vittime degli attacchi militari. La mancanza di acqua pulita e di cure mediche può portare allo scoppio di malattie letali trasmesse dall’acqua, persino del colera.

La portavoce dell’OMS Margaret Harris ha detto al Guardian che già all’inizio di novembre la diarrea tra i bambini nei campi di Gaza era oltre 100 volte superiore al livello normale. Senza cure disponibili, ciò può portare alla disidratazione e persino alla morte; la diarrea grave è la seconda causa di morte più comune tra i bambini sotto i 5 anni in tutto il mondo. Sono in aumento anche le infezioni delle vie respiratorie superiori, la varicella e le malattie dolorose della pelle.

Inoltre le aree con un gran numero di cadaveri e parti del corpo insepolte costituiscono un ambiente ideale per i batteri e la diffusione di malattie attraverso l’aria, l’acqua, il cibo e gli animali. In condizioni di elevata densità di popolazione è praticamente impossibile attuare quarantene o spruzzare insetticidi e in mancanza di infrastrutture igienico-sanitarie adeguate è anche impossibile contrastare le malattie trasmesse dall’acqua.

Un terzo intervento nel 1948 fu la realizzazione di cliniche e ospedali. Le organizzazioni umanitarie ampliarono gli ospedali esistenti, ne costruirono di nuovi e aprirono ambulatori medici nei campi e nei centri per rifugiati. Niente di tutto questo sta accadendo oggi. I bombardamenti e il lungo assedio hanno completamente distrutto il sistema sanitario di Gaza. Gli ospedali ancora parzialmente funzionanti soffrono di grave carenza di attrezzature mediche e farmaci.

Già sei mesi fa sono iniziate a circolare notizie di tagli cesarei e amputazioni senza anestesia. Il sistema sanitario non solo non è in grado di fornire trattamenti di routine e cure preventive, ma non è nemmeno in grado di fornire cure di emergenza. La continua assenza di questi tre tipi di trattamenti – di routine, preventivi e di emergenza – può portare a un aumento esponenziale dei tassi di mortalità, di malattie e persino di epidemie. Le malattie croniche – comprese le malattie cardiache, renali, il cancro e il diabete – non vengono curate ed è molto dubbio che i pazienti cronici siano sopravvissuti alla guerra; solo pochi fortunati sono stati in grado di lasciare Gaza per ricevere cure mediche in Egitto.

In questo contesto, il silenzio degli israeliani sta costando vite umane. Anche coloro che mettono in guardia contro una “seconda Nakba” devono riconoscere che i danni della guerra attuale hanno già superato di gran lunga quelli della prima Nakba. E ogni giorno che passa – con la carenza di cibo, di condizioni sanitarie adeguate e di assistenza – aumenta ulteriormente il costo umano. Qualsiasi dibattito sulla guerra deve tenere conto delle sue implicazioni di vasta portata e a lungo termine per tutti coloro che vivono in questa terra.

Liat Kozma è una storica e Wiessam Abu Ahmad è uno studioso di biostatistica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Di questo passo Israele non arriverà al centesimo compleanno

Meirav Arlosoroff

19 maggio 2024, Haaretz

Nel loro ultimo saggio gli esperti di politiche di governo Eugene Kandel e Ron Tzur segnalano come l’élite israeliana fuggirà dal paese quando vedrà che le varie “tribù” non riescono a mettersi d’accordo su un contratto sociale

Il 76esimo Giorno dell’Indipendenza di Israele, la scorsa settimana, è stato il Giorno dell’Indipendenza più triste e cupo dalla fondazione dello Stato. Invece di festeggiare, le persone si chiedevano: e dopo? Israele uscirà dalla crisi e vivrà fino a celebrare il centenario?

La risposta è no, non nella direzione in cui sta andando. È questa la conclusione di uno straordinario documento che delinea una nuova visione di Israele, redatto dal prof. Eugene Kandel e da un altro esperto di politiche di governo, Ron Tzur.

Per sei anni Kandel ha guidato il Consiglio Economico Nazionale presso l’ufficio del primo ministro ed è stato molto vicino al primo ministro Benjamin Netanyahu. Tzur è stato un alto funzionario sia della Commissione per l’Energia Atomica che della Commissione per il Servizio Civile.

Come dice Tzur, “Noi condividiamo una rara conoscenza degli architetti del sistema”.

Scrivono che “Nello scenario di business as usual dell’attuale configurazione politica c’è una buona probabilità che Israele non sopravviverà come Stato ebraico sovrano nei prossimi decenni”.

E sostengono che “Dopo il tentativo del governo lo scorso anno di indebolire il sistema giudiziario, seguìto al sud dal massacro di Hamas, è emerso il quadro di un totale fallimento del sistema, della gestione e delle azioni dell’amministrazione… e non si tratta della debacle di un singolo settore… piuttosto di un collasso.”

Kandel e Tzur cercano quindi di spingere l’opinione pubblica ad agire perché sia chiaro che è necessario un cambiamento drastico. “Nell’odierno regime politico israeliano non c’è alcuna possibilità di porre fine alla guerra interna”, scrivono. “Dopo il terribile disastro e il conseguente collasso funzionale, non è più possibile agire all’interno dello stesso quadro e aspettarsi risultati migliori.”

Kandel e Tzur osservano la divisione di Israele in fazioni che si combattono per imporre all’intero Stato la loro visione del mondo. Molte persone sperano che questa guerra di identità finisca, ma il divario è troppo ampio. Quindi gli autori prospettano che una volta finita la guerra di Gaza la lotta intestina riprenderà con massima forza.

Ad esempio, se uno dei due schieramenti ottiene la maggioranza alla Knesset, cercherà di imporre la sua visione del mondo a tutti gli altri, come è accaduto con il tentativo di revisione giudiziaria. Non c’è spazio per il compromesso. Tutto ciò alimenta la disintegrazione della società e porterà inevitabilmente ad un abbandono di massa dello Stato.

Tre sfide

Il documento presenta le tre sfide esistenziali di Israele. La prima è economica: l’esistenza di tre gruppi che vengono finanziati a discapito degli altri. Questi sono gli ultraortodossi – gli haredim – la comunità araba e i coloni. Nessuno dei tre è in grado o disposto a finanziare da sé il proprio stile di vita.

Secondo Kandel e Tzur, nel 2018 l’intero sussidio dal bilancio nazionale per gli haredim è stato di 20 miliardi di shekel (oltre 5 milioni di euro) e per la comunità araba di 25 miliardi di shekel. (I coloni non sono considerati un gruppo nel bilancio nazionale) In realtà, a causa delle differenze di dimensione dei popoli, le spese per gli ultra-ortodossi sono quasi il doppio: ogni famiglia Haredi riceve 120.000 shekel (30.000 € ca) all’anno in finanziamenti o sussidi e ogni famiglia araba 65.000 shekel.

Questo denaro viene pagato dalle famiglie ebree non Haredi, 20.000 shekel all’anno, ma si prevede che questa cifra aumenterà perché si prevede che la comunità ultra-ortodossa triplicherà le sue dimensioni entro il 2065. Quindi i 20.000 shekel aumenteranno fino a 60.000, alle previsioni odierne. A ciò si aggiunge il previsto aumento del bilancio della difesa – un peso irragionevole imposto alla popolazione maggiormente produttiva e contribuente di Israele.

La seconda sfida è lo scontro di valori. L’ex presidente Reuven Rivlin ha coniato il concetto delle “quattro tribù” e ha invocato un nuovo contratto sociale su cui tutte e quattro siano d’accordo. Ma Kandel e Tzur non sono d’accordo con Rivlin; dicono che ci sono solo tre tribù e che non c’è alcuna possibilità che si accordino su un contratto sociale.

Le tre tribù principali sarebbero: la prima costituita dal popolo dello Stato ebraico-democratico-liberale che vuole vivere come in una democrazia occidentale. Gli autori stimano che la grande maggioranza degli israeliani, compresi gli arabi israeliani e molti ebrei religiosi, si identifichino con questa tribù.

I membri della seconda tribù sostengono uno Stato della Torah. Gli ultra-ortodossi, la fazione di destra della comunità religiosa sionista (gli hardalim) e la fazione di destra degli ebrei religiosi non haredi probabilmente sceglierebbero di vivere secondo le leggi di questa tribù. Preferirebbero le sentenze dei rabbini ai valori e alle leggi democratiche.

I membri della terza tribù si oppongono all’esistenza di uno Stato ebraico e preferirebbero uno Stato per tutti i cittadini. Kandel e Tzur stimano che gran parte della comunità araba, nonostante il nazionalismo arabo, preferisca i valori della tribù democratico-liberale.

In ogni caso Kandel e Tzur ritengono che il divario non possa più essere colmato. Scrivono che, una volta iniziato lo scontro sulla revisione giudiziaria, è diventato chiaro a molti che “le concezioni di identità e le visioni dei due principali gruppi ebraici si scontrano e sono addirittura inconciliabili”. Si è imposta la mentalità “noi o loro”.

Questo scontro è totale, poiché ogni fazione ha la sensazione che l’altro gruppo stia imponendo i propri valori con la forza.

“La guerra per la nazione, per l’identità e i valori di ognuno contro tutti gli altri rappresenta una minaccia esistenziale per il Paese, perché una tale guerra non può essere fermata senza un marcato cambiamento nei sentimenti di tutte le parti”, scrivono gli autori. Ci deve essere “un ritorno alla sensazione che non vi sia alcun pericolo per i valori di nessuno dei diversi gruppi identitari”.

Kandel e Tzur aggiungono che sarebbero felici si raggiungesse un compromesso “basato sul dialogo in una visione condivisa, soprattutto dopo la terribile perdita che abbiamo subito il 7 ottobre”. Ma dicono che anche prima di quella tragedia “la nostra analisi non dava molte speranze in un compromesso tra valori opposti, e, a nostro avviso, ancor meno dopo la fine dei combattimenti”.

Sostengono che i dati demografici della comunità ultraortodossa determineranno l’indirizzo di uno Stato nazionalista basato sulla Torah. Si prevede che gli israeliani produttivi, che credono nei valori liberali sia eticamente che economicamente, perderanno.

Kandel e Tzur prevedono un’emigrazione di massa dell’élite produttiva israeliana, quasi una corsa agli sportelli. Tra un decennio o due in Israele ci sarà una corsa. L’élite semplicemente fuggirà.

“Questo genere di processo può ribollire per anni, ma se accade è probabile che sia acuto e veloce, come una corsa agli sportelli. Quando arriva la decisione di andarsene, c’è un vantaggio nel farlo prima della grande ondata,” scrivono gli autori.

“Sarà più facile per i primi andarsene senza danni finanziari, mentre coloro che tenteranno di emigrare più tardi subiranno delle perdite poiché l’economia si contrarrà, il valore dei loro beni diminuirà e verranno imposte restrizioni al trasferimento di denaro all’estero. … Sono le persone che reggono l’alta tecnologia, la medicina, il mondo accademico e parti importanti dell’establishment della difesa. La maggior parte di loro ha interessanti opportunità di lavoro all’estero, e alcuni hanno già preso in considerazione l’opzione di immigrare”.

Senza questa élite, Israele subirà un declino socioeconomico e nella sicurezza. La partenza di 20.000 menti critiche sarebbe sufficiente perché Israele rimanga senza alta tecnologia, mondo accademico e sicurezza.

“Molti politici hanno affermato dalla tribuna parlamentare che il paese potrebbe farcela senza i piloti, gli esperti dell’alta tecnologia e i membri di altri gruppi dell’elite'”, scrivono gli autori. “Oggi più che mai, l’arroganza di queste affermazioni è chiara, perché la spina dorsale esistenziale di Israele dipende da un gruppo relativamente piccolo di persone. Senza di esse non è semplicemente possibile sostenere il paese nel tempo”.

L’abbandono di questa élite significherà la fine della crescita economica, ed eroderà il tenore di vita. E non basta. “Il 7 ottobre ci ha dimostrato il terribile costo da pagare quando la percezione del nemico è che Israele sia debole”, scrivono Kandel e Tzur. “Un ulteriore indebolimento potrebbe comportare sfide alla sicurezza più estreme e gravi”, persino “il collasso di Israele e la fine del sogno sionista”.

L’apatia del pubblico

Sì, la fine del sogno sionista. Questa è la previsione di Kandel e Tzur, e la cosa scioccante è la terza sfida: poche persone si accorgono di questo pericolo esistenziale, e dunque nessun politico muove un dito per prevenirlo.

Questa è una minaccia esistenziale più grande dell’Iran, scrivono gli autori. Similmente al destino di Gerusalemme – abbandonata dalla comunità laico-liberale, rimasta una città povera che ha bisogno del denaro statale per sopravvivere – Israele è suscettibile di abbandono. Ma nel caso di Israele non ci sarà un ente superiore che possa erogare budget.

Quindi Kandel e Tzur mirano ora a risvegliare gli elettori israeliani affinché comprendano che dipende solo da loro. Invece di preoccuparsi delle dicotomie sinistra-destra, laico-religioso, l’elettore israeliano dovrebbe concentrarsi sulla questione centrale: come evitare che lo Stato di Israele imploda a causa delle ampie spaccature interne.

Gli autori elencano tre obiettivi a cui gli elettori israeliani dovrebbero aspirare. Il primo è un profondo cambiamento nelle priorità politiche, un cambiamento che non avverrà a meno che gli elettori non lo impongano ai funzionari da loro eletti. “Non voteremo mai più per coloro che ci distruggono”, dice Tzur.

“Noi non siamo la base di nessuno, né di destra né di sinistra, e ne abbiamo abbastanza di essere trattati da imbecilli. Voteremo solo per chi ci spiegherà cosa intende fare, come intende costituire un governo ampio, ripristinare la fiducia della gente, consolidare la società, riabilitare il servizio pubblico e rafforzare l’economia e la difesa”.

C’è bisogno di un cambiamento profondo anche nel modo in cui Israele è governato. “L’attuale struttura governativa e politica incoraggia e perpetua gli schemi distruttivi in cui si trova Israele”, scrivono gli autori.

“Il sistema esistente induce i funzionari eletti ad agire in modo divisivo e indirizzato al conflitto, per alzare la bandiera della ‘vittoria’ di una parte sull’altra. … La soluzione deve garantire che nessun gruppo abbia la capacità di imporre i propri valori a chiunque altro.” È inoltre necessario un profondo cambiamento economico affinché tutti i segmenti della società possano sostenersi da soli.

La radicale soluzione di Kandel e Tzur sarà presto pubblicata insieme ad altre proposte in un progetto del Jerusalem Institute for Policy Research. Il progetto è stato gestito da Ehud Prawer, ex capo del gruppo Società e Popolazione presso l’ufficio del primo ministro – un altro israeliano con grande esperienza nell’amministrazione di governo.

Come dice Tzur: “Non siamo disposti ad arrenderci. Entrambi siamo diventati nonni l’anno scorso e siamo entrambi completamente impegnati a continuare qui la catena generazionale non solo delle nostre famiglie ma dell’intero popolo. Da nessun’altra parte.”

Ma nessuna soluzione sarà possibile se gli elettori israeliani non cambieranno la loro percezione e non si renderanno conto che le minacce all’esistenza di Israele provengono dall’interno. I politici devono proporre piani coraggiosi per confrontarsi con loro.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è?

Hagai El-Had

13 maggio 2024 – Haaretz Opinion

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo lOlocausto la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme allepoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dellOlocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dellattuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra dIsraele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso loppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le ripetute fasidel conflitto con Gaza, la violenza dellesercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dellhasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi quelli che si trovano ancora a Gaza non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui trattiamo gli arabi. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e laltra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più'”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sullidea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dallAlta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né allestero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dallessere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per lOlocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un palestinese rilasciato dal carcere israeliano descrive i pestaggi, la violenza sessuale e la tortura

Gideon Levy e Alex Levac

28 aprile 2024 – Haaretz

Amer Abu Halil, un abitante della Cisgiordania che è stato attivista di Hamas ed è stato incarcerato senza processo, racconta la quotidianità in tempo di guerra che ha vissuto nel carcere israeliano di Ketziot

Non vi è somiglianza tra il giovane seduto insieme a noi per ore nel suo cortile questa settimana e il video del suo rilascio dalla prigione la settimana scorsa. Nella clip lo stesso giovane – con la barba, trasandato, pallido e scarno – sembra camminare a stento; ora è ben curato e sfoggia una giacca rossa con un fazzoletto a quadretti infilato nel taschino. Per 192 giorni in prigione è stato costretto a indossare gli stessi abiti – forse questo spiega la sua attuale estrema eleganza.

E non vi è neppure somiglianza tra ciò che lui racconta in un ininterrotto fiume di parole che è difficile arrestare – resoconti sempre più scioccanti, uno dopo l’altro, supportati da date, esemplificazioni fisiche e nomi – e ciò che sapevamo finora riguardo a quanto accade nelle strutture carcerarie israeliane dall’inizio della guerra. Dal momento del suo rilascio lunedì della scorsa settimana non ha mai dormito di notte per la paura di essere nuovamente arrestato. E vedere un cane per strada lo terrorizza.

La testimonianza di Amer Abu Halil, della città di Dura vicino Hebron, già attivista di Hamas, su quanto avviene nel carcere di Ketziot nel Negev è persino più scioccante dello spaventoso racconto riportato su queste colonne un mese fa da un altro prigioniero, Munther Amira di 53 anni, detenuto nella prigione di Ofer. Amira paragonava la sua prigione a Guantanamo, Abu Halil chiama Abu Ghraib il suo carcere, evocando la famigerata struttura nell’Iraq di Saddam Hussein utilizzata in seguito dagli alleati dopo la caduta di Saddam.

Tra i candidati alle sanzioni USA il Servizio Penitenziario Israeliano dovrebbe essere il prossimo della lista. È palesemente l’ambito in cui gli istinti sadici del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir trovano sfogo.

Siamo stati accompagnati in visita a casa di Abu Halil a Dura questa settimana da due ricercatori sul campo di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: Manal al-Ja’bari e Basel al-Adrah. Il trentenne Abu Halil è sposato con la 27enne Bushra ed è padre di Tawfiq di 8 mesi, nato mentre lui era in prigione. Abu Halil lo ha incontrato per la prima volta la scorsa settimana, ma per lui è ancora emotivamente difficile tenere in braccio il neonato.

Abu Halil è laureato in comunicazioni all’università Al-Quds di Abu Dis, adiacente a Gerusalemme, dove è stato attivo nel settore scolastico di Hamas ed è un ex portavoce dell’agenzia palestinese per le comunicazioni cellulari e wireless Jawwal.

Dal suo primo arresto nel 2019 ha passato un periodo totale di 47 mesi nelle carceri israeliane, molti dei quali in “detenzione amministrativa” – in cui il detenuto non è sottoposto a processo. Una volta lo ha trattenuto anche l’Autorità Nazionale Palestinese, ma non ha riferito dell’interrogatorio. Come alcuni dei suoi fratelli Amer è attivista di Hamas, ma non è “una figura di spicco di Hamas”, dice nelle poche parole in ebraico apprese in carcere.

I fratelli: Umar, di 35 anni, vive in Qatar; Imru, che soffre di un tumore, è detenuto nel carcere di Ofer per la sua attività in Hamas e ha passato sette anni in carceri israeliane e 16 mesi in una prigione palestinese; il 23enne Amar è seduto con noi in una veste bianca e una kefiah – è imam della moschea di Dura e spera di ricoprire presto lo stesso ruolo in una moschea in Nord Carolina, dove vorrebbe emigrare. Dal 2013 tutti i fratelli – Amer, Amar, Imru e Umar, non si sono mai seduti insieme a un pranzo di festa. Qualcuno di loro era sempre in carcere.

Una volta Amer Abu Halil è stato convocato per un interrogatorio dal servizio di sicurezza (interna) Shin Bet con una telefonata a suo padre: “Perché ultimamente non sei andato a pregare in moschea?” gli ha chiesto l’agente dello Shin Bet. “La tua tranquillità è sospetta”. “Quando sono tranquillo mi sospettate, quando non lo sono, ugualmente”, ha detto a chi lo interrogava. Ecco come lo hanno “incastrato”, come si suol dire.

È passato da un interrogatorio all’altro fino al 4 dicembre 2022 quando la sua casa è stata devastata nel cuore della notte, lui è stato nuovamente arrestato e nuovamente posto in detenzione amministrativa senza processo. Questa volta è stata per 4 mesi, rinnovati per due volte, ogni volta per ulteriori 4 mesi. Abu Halil doveva essere scarcerato nel novembre 2023. Ma è scoppiata la guerra e nelle carceri è avvenuto un cambiamento radicale. I termini previsti per il rilascio di tutti i prigionieri di Hamas, tra i quali Abu Halil, sono stati prorogati automaticamente e radicalmente.

Nell’ultimo periodo lavorava come cuoco nel braccio del carcere riservato a Hamas. Il giovedì prima dello scoppio della guerra pensava di preparare dei falafel per i 60 detenuti del reparto, ma poi ha deciso di rimandare i falafel a sabato. Venerdì ha tenuto il sermone per le preghiere del pomeriggio ed ha parlato di speranza.

Sabato si è svegliato alle 6 del mattino per preparare i falafel. Ma i detenuti non avevano più il permesso di prepararsi il cibo o tenere sermoni. Poco più tardi Channel 13 trasmette immagini di fuoristrada di Hamas che attraversano Sderot e una pioggia di razzi sparati da Gaza cade nell’area del carcere, che si trova a nord di Gerusalemme, in Cisgiordania. “Allahu akbar” – “Dio è grande” – dicono i prigionieri di conseguenza, come una benedizione. Si sono rifugiati sotto i letti per ripararsi dai razzi; per un attimo hanno pensato che Israele fosse stato conquistato.

Intorno a mezzogiorno sono arrivati gli agenti penitenziari ed hanno requisito tutte le televisioni, le radio e i telefoni cellulari che erano stati fatti entrare di contrabbando. Il mattino seguente non hanno aperto le celle. L’ammanettamento, le percosse e le violenze sono cominciati il 9 ottobre. Il 15 ottobre numerose forze sono entrate nel carcere ed hanno confiscato tutti gli oggetti personali nelle celle, compresi orologi e addirittura l’anello che portava Abu Halil ed era appartenuto al defunto padre. Quello è stato l’inizio di 192 giorni durante i quali non ha potuto cambiarsi d’abito. La sua cella, prevista per ospitare cinque persone, ne conteneva 20, poi 15 e più di recente 10. Molti di loro dormivano sul pavimento.

Il 26 ottobre numerose forze dell’unità Keter del Servizio Penitenziario, un’unità di intervento tattico, accompagnate da cani di cui uno slegato, sono entrate nel carcere. I guardiani e i cani si sono scatenati attaccando i detenuti le cui urla hanno gettato nel terrore l’intera prigione, ricorda Abu Halil. I muri si sono presto imbrattati del sangue dei reclusi. “Voi siete Hamas, voi siete ISIS, avete stuprato, ucciso, rapito e adesso è arrivato il vostro turno”, ha detto una guardia ai prigionieri. I colpi che sono seguiti sono stati brutali, i detenuti sono stati incatenati.

Le percosse sono diventate quotidiane. A volte le guardie chiedevano ai prigionieri di baciare una bandiera israeliana e declamare “Am Yisrael Chai!” – “Il popolo di Israele vive”. Gli si ordinava anche di ingiuriare il profeta Maometto. La solita chiamata alla preghiera nelle celle è stata proibita. I prigionieri avevano paura di pronunciare qualunque parola con la iniziale “h” per timore che le guardie sospettassero che avessero detto “Hamas”.

Il 29 ottobre è stata interrotta la fornitura di acqua corrente nelle celle, tranne che tra le 14 e le 15,30. E a ogni cella veniva concessa solo una bottiglia per riempirla d’acqua per l’intero giorno, che doveva essere spartita tra 10 compagni, compreso l’uso del bagno dentro la cella. Le porte dei bagni erano state eliminate dalle guardie; i detenuti si coprivano con una coperta quando facevano i loro bisogni. Per evitare il fetore nella cella cercavano di trattenersi fino a che l’acqua fosse disponibile.

Durante l’ora e mezza in cui vi era acqua corrente i prigionieri assegnavano cinque minuti nel bagno ad ogni compagno di cella. In assenza di prodotti per la pulizia, pulivano la toilette e il pavimento con il poco shampoo che gli era fornito, usando le mani nude. Non vi era elettricità. Il pranzo consisteva in una piccola scodella di yogurt, due piccole salsicce mezze crude e sette fette di pane. Alla sera ricevevano una ciotolina di riso. A volte le guardie consegnavano il cibo gettandolo in terra.

Il 29 ottobre i detenuti nella cella di Abu Halil hanno chiesto uno straccio per pulire il pavimento. La risposta è stata mandare nella loro cella la terribile unità Keter. “Ora farete come i cani”, ha ordinato la guardia. Le mani dei prigionieri sono state ammanettate dietro la schiena. Anche prima di essere ammanettati è stato loro ordinato di muoversi solo con la schiena curva. Sono stati portati in cucina dove sono stati denudati e costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro, una pila di 10 prigionieri nudi. Abu Halil era l’ultimo. Sono stati picchiati con bastoni e gli hanno sputato addosso.

Poi una guardia ha cominciato a infilare carote nell’ano di Abu Halil e degli altri prigionieri. Ora, seduto in casa raccontando la sua storia, Abu Halil abbassa lo sguardo e il flusso di parole rallenta. E’ molto in imbarazzo nel parlarne. Poi, continua, i cani si sono avventati su di loro attaccandoli. Infine gli è stato permesso di mettersi le mutande prima di essere riportati in cella, dove hanno trovato i loro vestiti gettati in un mucchio.

L’altoparlante nella stanza non taceva un secondo, con insulti al leader di Hamas Yahya Sinwar o una prova suono nel mezzo della notte sulle note di “Svegliatevi maiali!”, per privare del sonno i prigionieri. Le guardie druse insultavano e offendevano in arabo. Sono stati sottoposti a controlli con un metal detector mentre erano nudi e lo strumento è stato usato anche per colpire i testicoli. Durante un controllo di sicurezza il 2 novembre sono stati costretti a cantare “Am Yisrael am hazak” (“Il popolo di Israele è un popolo forte”), una variazione sul tema. I cani hanno urinato sui loro sottili materassi, lasciando un’orribile puzza. Un prigioniero, Othman Assi di Salfit, nella Cisgiordania centrale, ha implorato un trattamento meno severo: “Sono disabile”. Le guardie gli hanno detto: “Qui nessuno è disabile”, ma hanno acconsentito a togliergli le manette.

Ma il peggio doveva ancora arrivare.

5 novembre. Era una domenica pomeriggio, ricorda. L’amministrazione ha deciso di spostare i prigionieri di Hamas dal blocco 5 al blocco 6. I detenuti delle celle 10, 11 e 12 sono stati fatti uscire con le mani legate dietro la schiena e la solita camminata curva. Cinque guardie, i cui nomi Abu Halil riferisce, li hanno portati nella cucina. Sono stati nuovamente denudati. Questa volta sono stati presi a calci sui testicoli. Le guardie gli si avventavano addosso e colpivano, ancora ed ancora. Una brutalità senza tregua per 25 minuti. “Noi siamo Bruce Lee”, gridavano le guardie. Li hanno sbattuti e spinti come palle da un angolo all’altro della stanza, poi li hanno spostati nelle loro nuove celle del blocco 6.

Le guardie sostenevano di aver sentito Abu Halil dire una preghiera per Gaza. A sera l’unità Keter è entrata nella sua cella e ha cominciato a picchiare tutti, compreso il 51enne Ibrahim al-Zir di Betlemme, che è ancora in prigione. Aveva un occhio quasi fuori dall’orbita per i colpi. Poi i prigionieri sono stati fatti stendere a terra mentre le guardie li calpestavano. Abu Halil ha perso conoscenza. Due giorni dopo c’è stato un altro pestaggio ed è nuovamente svenuto. “Questa è la vostra seconda Nakba”, hanno detto le guardie, riferendosi alla catastrofe subita dai palestinesi quando fu fondato Israele. Una delle guardie ha colpito Abu Halil alla testa con un elmetto.

Tra il 15 e il 18 novembre sono stati picchiati tre volte al giorno. Il 18 novembre le guardie hanno chiesto chi di loro fosse di Hamas e nessuno ha risposto. I colpi non hanno tardato ad arrivare. Poi è stato chiesto “Chi di voi è Bassam?” Di nuovo nessuno ha risposto, perché nessuno di loro si chiamava Bassam – e di nuovo è stata chiamata l’unità Keter. Sono arrivati la sera. Abu Halil dice che questa volta è svenuto prima che lo colpissero, per lo spavento.

In quel periodo Tair Abu Asab, un prigioniero di 38 anni, è morto nel carcere di Ketziot. Si sospetta che sia stato picchiato a morte dalle guardie per aver rifiutato di chinare la testa come ordinato. 19 guardie sono state trattenute per essere interrogate col sospetto di aver aggredito Abu Asab. Tutte sono state rilasciate senza accuse.

In risposta ad una richiesta di commento, questa settimana il portavoce del Servizio Penitenziario ha inviato a Haaretz la seguente dichiarazione:

L’Autorità Penitenziaria è una delle organizzazioni di sicurezza di Israele ed agisce secondo la legge, sotto la stretta supervisione di molte autorità di controllo. Tutti i prigionieri sono trattenuti secondo la legge e con rigorosa protezione dei loro diritti fondamentali sotto la supervisione di un personale penitenziario professionale e qualificato.

Non conosciamo le denunce descritte (nel vostro articolo) e per quanto ne sappiamo non sono corrette. Tuttavia ogni prigioniero e detenuto ha il diritto di lamentarsi tramite i canali riconosciuti e i loro reclami verranno esaminati. L’organizzazione opera sulla base di una chiara politica di tolleranza zero di ogni azione che violi i valori del Servizio Penitenziario.

Riguardo alla morte del prigioniero dovreste contattare l’unità per le indagini degli agenti carcerari.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Da quando è iniziata la guerra intere zone della Cisgiordania sono state svuotate delle loro comunità palestinesi

Hagar Shezaf

5 maggio 2024 – Haaretz

Il 7 ottobre ha portato al massimo la violenza dei coloni: da allora 18 comunità di pastori palestinesi sono state espulse dalle proprie case, e ora gli abitanti vivono in abitazioni di fortuna nei pressi di altri villaggi, impoveriti e in ansia per il loro futuro.

Ibrahim Mohammed Malihat guarda verso la valle del Giordano. Dalla zona in cui vive, a circa 20 minuti di macchina da Gerusalemme, si possono vedere ampie distese dove la gente del suo villaggio era solita pascolare le greggi, ma che ora sono sbarrate.

“Ora da qui a Gerico tutto è vuoto. Non andiamo giù o a sud. Tutto è rimasto in mano solo ai coloni, non ci sono posti in cui le greggi possano pascolare,” afferma.

Nel villaggio di Maghayyir A-Dir un gregge di pecore vaga e mangia erba secca sparsa sul terreno. “Le teniamo solo tra le case,” nota Malihat. “Qui ci sono delle telecamere,” aggiunge, indicando una zona presso il villaggio, “e se le pecore escono, i coloni le vedono e mandano uomini con il volto coperto. Ci dicono: ‘Noi siamo la polizia e l’esercito.’”

Il 7 ottobre, dall’inizio della guerra a Gaza, nell’area quattro comunità di pastori sono state cacciate dalle loro zone di residenza a causa di minacce e violenze dei coloni. Altre quattro comunità vicine erano state cacciate nei due anni precedenti, tra il villaggio di Duma e quello di Malihat. Anche un’altra comunità più a sud è stata espulsa. Ciò ha un effetto drammatico sia sulle vite delle comunità rimaste sul posto che su quelle che se ne sono andate. I loro abitanti descrivono un processo di impoverimento e una grande paura per il futuro.

Secondo le stime del ricercatore Dror Atkes dell’ong [israeliana] Kerem Navot che monitora le politiche di insediamento e di gestione del territorio israeliane in Cisgiordania, attualmente nella zona ci sono circa 125.000 dunam (12.500 ettari) in cui ai palestinesi è impedito l’ingresso per timore di violenze e a causa delle restrizioni imposte dai coloni e dall’esercito.

Le terre ad est della strada Allon (la 458), che corre tra Maghayyir A-Dir e Duma, sono state svuotate delle comunità che vi vivevano. Rimangono per lo più colonie e avamposti ebraici. “Qualche anno fa sono arrivati qui coloni della zona di Nablus e Duma, quelli con i riccioli lunghi,” dice Ibrahim, indicandone la lunghezza con le mani. “Gradualmente si sono spostati a sud finché sono arrivati qui. Nessuno del governo gli ha detto di fermarsi. Vai in ogni villaggio della zona e vedrai che là hanno distrutto tutto.”

Avvisi di evacuazione

Una delle maggiori comunità espulse nei mesi dall’inizio della guerra è stata quella del villaggio di Wadi al-Siq, separato da Maghayyir A-Dir solo da un bellissimo “wadi” [torrenti secchi in buona parte dell’anno, ma le cui acque sotterranee consentono, a volte, la crescita della vegetazione, n.d.t.] verde. Nei pressi delle rovine del villaggio, che sono ancora visibili, oggi pascolano vacche del vicino avamposto fondato solo circa un anno fa. La strada che univa i villaggi ora è bloccata da pietre.

Secondo Ibrahim il giorno in cui gli abitanti di Wadi al-Siq sono stati espulsi un gruppo di coloni che conosce, e con cui in precedenza aveva avuto buoni rapporti, è entrato nel suo villaggio. Dice che hanno raccomandato che gli abitanti se ne andassero per 10 giorni perché i coloni erano “arrabbiati” in seguito al 7 ottobre.

Come altre comunità della zona la gente di Wadi al-Siq ha subito violenze e minacce anche prima dello scoppio della guerra, ma dopo sono notevolmente aumentate. I circa 180 abitanti di più o meno 20 famiglie che compongono la comunità sono fuggiti per salvarsi la vita dopo un attacco contro il villaggio il 12 ottobre e le minacce che lo hanno preceduto. Gli abitanti si sono divisi e oggi vivono in rifugi provvisori nei pressi di vari villaggi palestinesi, su terreni su cui non hanno diritti e che temono saranno obbligati ad abbandonare.

“L’11 ottobre abbiamo portato donne e bambini da parenti in un altro villaggio perché dormissero lì. Pensavamo che sarebbe stato per due o tre giorni e poi li avremmo riportati indietro,” racconta Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh dalla sua nuova residenza temporanea su terreni agricoli nei pressi del villaggio di Taybeh. Il giorno dopo, mentre alcuni abitanti del villaggio erano occupati a preparare le loro cose per andarsene, sono arrivati sul posto coloni e soldati e li hanno aggrediti. Vari abitanti e attivisti che erano arrivati per aiutarli sono stati arrestati e detenuti per ore all’interno del villaggio. Alcuni, come già riportato da Haaretz, sono stati picchiati e maltrattati, anche con gravi percosse, ustioni e tentativi di violenza sessuale.

“Ci hanno detto che avevamo mezz’ora per andarcene, la gente è scappata via,” ricorda Ka’abneh. Ingobbito, sembra avvilito mentre descrive quello che è successo: “Non sapevamo dove andare. All’inizio ce ne siamo andati a piedi. C’erano bambini piccoli portati dai genitori e giovani che si sono nascosti nel wadi. Quando è venuto buio la gente dei villaggi di Ramun e Taybeh ci ha dato delle tende.” La polizia ha detto ad Haaretz che sono in corso indagini sull’attacco contro Wadi al-Siq, mentre l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha dato la stessa risposta riguardo a un’inchiesta da parte del reparto investigativo penale dell’esercito sulla condotta dei soldati. Haaretz è venuto a sapere che come parte dell’indagine alcuni soldati e un civile sono stati interrogati e ammoniti. A ottobre l’IDF ha congedato il comandante della forza militare dell’unità della Frontiera del Deserto coinvolta nell’incidente.

Gli abitanti non osano tornare alle proprie case dato che l’esercito non è in grado di assicurare che non verranno aggrediti. Da quando sono scappati le uniche volte che, in coordinamento con l’Amministrazione Civile [l’ente militare che gestisce le questioni civili nei territori palestinesi occupati, ndt.] e scortati da attivisti, sono tornati al villaggio per prendere le cose che avevano lasciato lì hanno scoperto che la maggior parte dei loro beni era sparita.

“Hanno rubato tutto quello che c’era in casa mia. Hanno distrutto e preso tutto: la stufa, gli utensili da cucina, gli armadi,” dice Ka’abneh. “Non abbiamo trovato praticamente niente.” Stima che il valore delle proprietà rubate dalla casa sia di circa 200.000 shekel (circa 50.000 euro).

Nel tentativo di recuperare quello che avevano perso membri della comunità hanno contratto prestiti, venduto parte del loro gregge e ricevuto donazioni da alcune associazioni. “Avevo 100 pecore e ne ho vendute 40 per niente, perché c’era un conflitto e siamo scappati,” dice Suleiman

Lui e la sua famiglia ora vivono nei dintorni del villaggio di Ramun, vicino ad altri abitanti. “Personalmente ho un debito di 40.000 shekel (circa 10.000 euro)” aggiunge. La perdita di pascoli ha colpito gravemente i mezzi di sussistenza degli abitanti, in parte a causa del fatto che ora sono obbligati a cercare foraggio per le greggi a un prezzo significativamente più alto di prima.

Alla fine di marzo gli abitanti, insieme all’organizzazione per i diritti umani Torat Tzedek, hanno presentato una petizione in cui chiedono che lo Stato smantelli gli avamposti costruiti nei pressi del loro villaggio in modo che possano tornare alle proprie case. Nel ricorso, presentato dall’avvocato Tamir Blank, si sostiene che, dato che l’avamposto è fonte di violenza ed è coinvolto in scorrerie sui terreni, lo Stato deve dare la priorità e accelerare la sua evacuazione.

Finché la questione non verrà risolta gli abitanti devono affrontare un futuro incerto. Per esempio Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh e la sua famiglia vivono su un terreno privato di proprietà di un abitante di Taybeh. È temporaneo. Qui non siamo in affitto e l’accordo è che ce ne andremo dopo la guerra. Non pensavamo che la guerra durerasse così tanto,” dice.

La provvisorietà è evidente persino nei minimi dettagli, come il fatto che l’attuale abitazione non ha il bagno. “Non c’è futuro, questa è la fine,” dice Suleiman Ka’abneh. “Questa è la terra di qualcun altro. Ci lasceranno stare qui per quattro mesi, sei mesi, un anno, ma alla fine è la loro terra e non ci vogliono qui.”

Vigilanza costante

Dall’inizio della guerra l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha documentato l’espulsione dalle proprie case di 18 comunità di pastori in Cisgiordania. Secondo Etkes, riguardo a quanto avvenuto nella zona della strada Allon, bisogna tener conto di un’area più grande di 126.000 dunam [12.6000 ettari] tra Duma e Maghayyir A-Dir. Spiega che, dati gli espropri di terre da parte dello Stato e l’espulsione di altre comunità nella zona tra [la colonia di] Ma’aleh Adumim e le colonie della Valle del Giordano, in effetti ora ci sono circa 160.000 dunam [16.000 ettari] in cui i palestinesi non possono più pascolare [le greggi].

Oltre a quest’area, dall’inizio della guerra altre cinque comunità di pastori nelle colline a sud di Hebron sono state espulse o spostate e due comunità sono state mandate via anche prima della guerra.

A Khirbet Zanuta, la più grande delle comunità espulse dal 7 ottobre nella zona delle colline meridionali di Hebron, la locale scuola è stata danneggiata molto gravemente in quello che sembra essere stato un atto di vandalismo. Durante una visita sul posto circa sei mesi dopo l’espulsione degli abitanti i libri di testo erano sparsi sul terreno tra le macerie e un poster scolastico in inglese pendeva ancora su uno dei muri. Fuori una scritta in arabo adornava quello che rimaneva dell’edificio: “Abbiamo il diritto di studiare,” affermava.

L’espulsione delle comunità è inestricabilmente legata agli avamposti vicini alle terre palestinesi. Gli avamposti sono notevolmente aumentati negli ultimi anni ed è chiaro che gli Stati Uniti e altri Paesi che hanno iniziato a imporre sanzioni contro i coloni lo riconoscono.

Per esempio la comunità di Khirbet Zanuta viveva nei pressi della fattoria Meitarim di Yinon Levy, un avamposto illegale che era sottoposto a sanzioni USA sulla base del fatto che è stato coinvolto in aggressioni e minacce contro i palestinesi. Nel caso di Wadi al-Siq il vicino avamposto che è stato creato all’inizio del 2023 si chiama Havat Machoch e il suo leader è Neria Ben-Pazi, un colono pastore ben noto che nelle scorse settimane è stato anche lui sottoposto a sanzioni USA.

Per qualche mese è stato persino escluso dalla Cisgiordania su ordine del comandante del Comando centrale israeliano. In seguito a questo ordine parecchi rabbini sionisti religiosi, tra cui Dov Lior e Shmuel Eliyahu [noti per le loro posizioni estremiste, ndt.], sono andati a visitare l’avamposto di Ben-Pazi come atto di solidarietà. Le sanzioni contro i coloni sono state accolte con dure proteste da ministri estremisti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Prima della guerra Mohammed Suleiman Malihat, abitante della comunità di pastori chiamata Maraja’at, attraversava con il suo gregge la strada nei pressi del suo villaggio. Dall’altra parte della strada negli scorsi anni è stato costruito l’avamposto chiamato Fattoria di Zohar: a un certo punto, dopo essere stati ripetutamente cacciati da coloni della zona circostante, tutti i pastori rimasti hanno rinunciato ad attraversarla.

“Dal momento in cui è iniziata la guerra, se i coloni mi vedevano entrare anche solo due metri nella zona arrivavano immediatamente. Mi sono reso conto che per la mia sicurezza non potevo più farlo,” dice Malihat. Ha anche venduto una parte del suo gregge a causa della riduzione della sua terra da pascolo. Dice che da quando anche un’altra zona di pascolo che porta alla colonia di Mevo’ot Yericho è diventata inaccessibile per gli abitanti della comunità, egli pascola solo su terreni vicini al villaggio.

Pochi giorni prima che Haaretz visitasse Maraja’at, nelle vicinanze di Ras al-Uja, un altro dei villaggi della zona, due strutture di proprietà di famiglie fuggite sono state incendiate. Sul posto sono stati ripresi dei coloni e una fonte militare ha confermato ad Haaretz che, secondo quanto a conoscenza dell’IDF, sono stati i coloni a incendiare l’edificio. Il messaggio ha avuto una forte ripercussione tra gli abitanti di Maraja’at. La famiglia di Malihat dice anche che in piena notte a volte i coloni armati si piazzano all’ingresso della loro casa senza dire una parola.

In seguito a ciò la comunità vive in costante allerta. Durante la nostra visita sul posto gli abitanti hanno notato un gregge di proprietà dei coloni che pascolava sopra la collina e la figlia di Malihat, Aaliya, è corsa là a filmarlo mentre altri abitanti chiamavano la polizia. Secondo loro la sensazione di minaccia è peggiorata negli ultimi mesi, soprattutto dopo che la comunità vicina se n’è andata a causa delle vessazioni. “I coloni sono riusciti a cacciarli e ciò ha stimolato la loro ingordigia [di terra],” riflette Malihat. “Da allora hanno iniziato a venire più spesso da noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tel Aviv-Giaffa, la fortezza del pluralismo, sta iniziando a crollare

Odeh Bisharat

22 aprile 2024 – Haaretz

Ron Huldai, il sindaco di Tel Aviv-Giaffa, ha arruolato nella sua coalizione nel consiglio comunale Chaim Goren, un “sionista religioso.” Ma la storia non finisce qui: non sarebbe mai successo senza il supporto di tre consiglieri comunali del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.]. La decisione avrà conseguenze disastrose, non solo per gli abitanti di Tel Aviv, ma per tutti noi. 

Prima di tutto dobbiamo chiarire che la partecipazione di un partito che crede nella supremazia ebraica danneggerà l’immagine liberale e cosmopolita della città. È come prendersi un pugno in faccia: perdi sangue dal naso, hai la vista annebbiata e ti gira la testa. Certo il nome “Tel Aviv-Giaffa” resta, ma lo spirito ha lasciato la città. 

Sorprendentemente il virus fascista non ha conquistato la città con la forza, come fanno gli invasori stranieri, non è neppure entrato di soppiatto come un ladro. Il portone principale era spalancato per far entrare i razzisti. Esther Hayut, ex presidentessa della Corte Suprema, una volta disse “la fortezza non è caduta.” Si riferiva alla corte stessa e aveva completamente ragione perché la fortezza non è caduta ma è stata silenziosamente occupata anni prima del tentativo del colpo di stato giudiziario. E adesso succede anche a Tel Aviv.

Ricordo un’intervista radiofonica nel maggio 2021 con Huldai in cui attaccava i garinim hatorani’im (gruppi di ebrei ortodossi trasferitesi nei quartieri arabi di città miste ebraiche-arabe) dicendo che Tel Aviv aveva [già] una grande maggioranza ebraica. Questi gruppi venivano per convincere gli ebrei a essere ebrei? Aveva anche difeso gli abitanti arabi della città in un momento in cui crescevano le provocazioni contro di loro. Cosa dirà ora il sindaco agli ebrei e agli arabi? La rovina si espande senza che nessuno lo noti. 

Poi un colpo veramente doloroso è stato assestato quando il Meretz ha aggiunto un tocco tragico al collasso della città e della collaborazione ebraico-araba. Si rivolge agli arabi come alleati, ma in pratica mantiene una collaborazione con un partito razzista che vede gli arabi come inferiori e idealmente vorrebbe liberarsene. A chi dovremmo credere, al Meretz che parla di collaborazione o al Meretz che si allea con gli odiatori degli arabi?

Perché lo chiamo un colpo? Perché ci sono arabi che ci dicono che sì, i valori dichiarati dal Meretz, fratellanza, pace e uguaglianza, ci ispirano, ma alla fine loro e tutti gli altri, sinistra, destra, liberali e fascisti, si raccolgono sotto la bandiera esclusionista del nazionalismo. Si può capire, anche se con una certa difficoltà, che la gente si unisca quando un disastro minaccia tutti, ma in questo caso si stanno unendo con un atto volontario per dare generosamente una fetta di potere ai fascisti. È triste: il messaggio per gli arabi è che in un momento cruciale noi vi abbandoneremo.

Questa è un’annosa tradizione della sinistra sionista. Nel 1948, il partito Mapam, madre spirituale di Meretz, parlava di “fratellanza delle nazioni” e fu sconvolto dall’espulsione di massa degli arabi. Ma non fece quasi nulla e quando arrivò il momento di distribuire il bottino fu il primo della fila. Gli enormi patrimoni dei kibbutz dicono tutta la verità.

Il Meretz è visto da molti arabi come un movimento con cui si può dialogare, anche se è sionista, il suo sionismo è diverso, è un sionismo con cui si può convivere. Oggi quella fiducia è stata distrutta, non solo riguardo al Meretz stesso, ma in generale ai movimenti ebraici-arabi. Gli arabi diranno a quelli di noi che credono alla collaborazione che siamo degli ingenui e che quando arriverà il momento della verità loro ci abbandoneranno.

La decisione autolesionista del Meretz a Tel Aviv è triste, ma in nessun modo renderà “disilluse” me e tante brave persone, non opteremo per l’isolamento e l’odio dell’altro. Non siamo una foglia che fluttua nel vento, siamo un olivo con radici profondamente radicate nella terra. Ciò vale per gli arabi come per gli ebrei che hanno fatto un lungo viaggio insieme. È importante guardare all’onta per quello che è e gridare forte: non nel nostro nome.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia non aprirà finché non verrà raggiunto un cessate il fuoco, affermano un’artista israeliana e le curatrici

Naama Riba e Rachel Fink

16 aprile 2024 – Haaretz

Nel contesto di appelli per l’esclusione di Israele dall’evento artistico internazionale e timori di atti di vandalismo, l’artista Ruth Patir e le curatrici della sua esposizione hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi e hanno affermato che “il padiglione israeliano aprirà quando queste cose verranno raggiunte.” A quanto pare il governo israeliano non sarebbe stato informato di questa protesta.

Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia, che avrebbe dovuto aprire alla fine della settimana, rimarrà chiuso al pubblico “finché non verranno raggiunti un cessate il fuoco e un accordo per la liberazione degli ostaggi” tra Israele ed Hamas, secondo un comunicato dell’artista israeliana Ruth Patir e delle curatrici della mostra, Mira Lapidot e Tamar Margalit.

I tre lavori di videoarte dell’artista Ruth Patir che compongono l’esposizione (M)otherland saranno riprodotti nel padiglione e i passanti potranno vederli attraverso i vetri delle finestre.

Il padiglione è curato da Mira Lapidot, curatrice del Museo d’Arte di Tel Aviv, e Tamar Margalit, curatrice del Centro di Arte Contemporanea. Lapidot ha detto ad Haaretz che sono “molto orgogliose della mostra. Abbiamo discusso fino all’ultimo minuto su cosa fare.”

Lapidot ha spiegato le due ragioni che hanno portato alla decisione di non aprire il padiglione, affermando: “L’arte ha bisogno di un cuore aperto, che ora non esiste, quindi è meglio rimanere chiusi. Ma, cosa più importante, come esseri umani, donne e cittadine, non possiamo stare qui mentre niente cambia nella situazione degli ostaggi. Fino all’ultimo minuto abbiamo pensato che stavamo dirigendoci verso una direzione diversa e che c’è un accordo sul tavolo.”

“Abbiamo messo un cartello affermando che apriremo il padiglione quando sarà raggiunto un cessate il fuoco e un accordo per gli ostaggi, e speriamo che ciò avvenga durante i sette mesi della Biennale,” ha continuato. Margalit, la seconda curatrice, ha detto al New York Times che il governo israeliano non è stato informato in anticipo della protesta dall’artista e dalle curatrici. Il ministero della Cultura ha scelto l’artista ed è il principale finanziatore dell’esposizione.

Lapidot ha sottolineato che il padiglione non verrà completamente chiuso. “A differenza di quello russo, questo non verrà chiuso. Rimarrà illuminato e pronto ad aprire. I video verranno proiettati.”

La decisione di non aprire il padiglione giunge contestualmente ad appelli per il boicottaggio di Israele e la sua esclusione dalla Biennale di Venezia da parte di un’organizzazione di artisti e attivisti, ANGA, che sta per “Art Not Genocide Alliance”[Alleanza per l’Arte e non per il Genocidio]. La petizione dell’ANGA è stata firmata da decine di migliaia di persone. La Biennale in febbraio ha risposto alla lettera con un comunicato ufficiale in cui afferma che ogni Paese riconosciuto dal governo italiano è invitato ad esporre alla mostra internazionale e che appelli o petizioni per escludere la partecipazione di un Paese non saranno accolti.

Nell’esibizione generale della Biennale curata da Adriano Pedrosa verranno esposti i lavori di vari artisti palestinesi, alcuni direttamente legati alla guerra a Gaza. Inoltre uno degli eventi collaterali della Biennale, South West Bank [Sud della Cisgiordania], è stato iniziato da un collettivo di artisti palestinesi che mostreranno il proprio lavoro. Nel Centro della Cultura Europea a Palazzo Mora verrà esposta anche una mostra del Museo Americano Palestinese.

L’esposizione nel padiglione israeliano ruota attorno alla fertilità. Patir, che ha meno di 40 anni, ha creato una serie di video riguardo all’argomento da un punto di vista personale e israeliano. Quando aveva 35 anni ha scoperto di essere portatrice (come la curatrice Lapidot) del gene BRCA2 che, se muta, aumenta notevolmente le possibilità di sviluppare un cancro al seno o alle ovaie.

A causa del discutibile privilegio di essere portatrice del gene, Patir, che non è sposata e non ha figli, ha ottenuto dallo Stato una cura gratuita per la preservazione della fertilità.

Il video artistico presentato nell’esposizione mostra l’artista mentre attraversa l’umiliante mondo della medicina istituzionale dominata dai maschi. I video si basano sulla sua auto-documentazione durante tre sedute di congelamento degli ovuli, mentre parla con ginecologi e medici, tecnici, membri della famiglia e con il suo compagno dell’epoca.

Nei video è interpretata da una figurina archeologica che muove il proprio corpo in risposta ai movimenti di Patir attraverso sensori (l’artista non compare nei video e si può sentire solo la sua voce).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)