Il contrastato disegno di legge sulla Cisgiordania non viene approvato al primo voto – un colpo alla coalizione governativa di Israele.

Redazione

6 giugno 2022 – Haaretz

Due membri della coalizione di Bennett rompono i ranghi e votano contro l’estensione dei regolamenti di “emergenza” che applicano la legge israeliana alla Cisgiordania.

La coalizione di governo israeliana lunedì non è riuscita a far approvare un disegno di legge che prolunghi la durata della normativa che estende la legge israeliana ai coloni in Cisgiordania: 58 deputati hanno votato contro la legislazione e 52 l’hanno approvata.

Il disegno di legge aveva lo scopo di estendere la normativa “di emergenza” in vigore dal 1967 e rinnovata da allora ogni cinque anni.

La coalizione di governo può provare a riproporre il disegno di legge ad un altro voto entro il primo luglio, dopodiché decadrà.

Il governo aveva considerato di porre la fiducia per costringere tutti i deputati della United Arab List e la deputata di Meretz Ghaida Rinawie Zoabi a sostenere il disegno di legge. Alla fine, la legge è stata sottoposta a una votazione normale [senza la fiducia, ndt.]

Fonti governative hanno fatto sapere che la coalizione aveva deciso di non permettere a Rinawie Zoabi di raggiungere alcun risultato politico significativo nella speranza di convincerla a dimettersi dalla Knesset, aggiungendo che questa decisione deriva dal suo comportamento nelle ultime settimane e dalle sue ripetute minacce di non votare con il resto della coalizione, inclusa l’estensione della normativa in questione.

Il deputato Idit Silman – le cui improvvise dimissioni dalla coalizione ad aprile la hanno privata della sua esigua maggioranza – era assente dal voto e Rinawie Zoabi ha votato contro la legge.

Rinawie Zoabi in seguito ha dichiarato di aver votato contro il disegno di legge poiché “è mio dovere essere dalla parte giusta della storia delegittimando l’occupazione e sostenendo il diritto fondamentale del popolo palestinese a fondare un paese accanto allo Stato di Israele”.

Se la misura decadrà alla fine di giugno gli israeliani che commettono crimini in Cisgiordania saranno portati davanti ai tribunali militari israeliani e sconteranno la pena in Cisgiordania. Inoltre la polizia israeliana non potrà più indagare su presunti crimini commessi da israeliani in Cisgiordania, né su coloro che hanno commesso crimini all’interno di Israele e sono fuggiti in Cisgiordania.

Inoltre gli israeliani che vivono in Cisgiordania probabilmente non avranno più diritto alla Sanità statale, all’appartenenza all’Ordine degli avvocati israeliani o a godere di altri diritti e privilegi a cui hanno diritto per la legge israeliana. La mancata estensione della normativa avrebbe conseguenze anche sull’ingresso in Israele, sul reclutamento militare, sulla tassazione, sul registro della popolazione, sull’adozione di bambini e altre questioni.

Il partito Yamina del primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che i deputati ebrei ortodossi e arabi hanno unito le forze contro i residenti [i coloni, ndt.] della Cisgiordania, aggiungendo che “il Likud vedrà il paese in fiamme per gli interessi di Bibi” chiamando il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu con il suo soprannome.

Commentando la fallita votazione il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato: “Abbiamo meno di un mese per assicurarci che la Cisgiordania non si trasformi nel selvaggio West a causa di interessi politici” e ha invitato tutti i membri della Knesset ad agire in modo responsabile e a “mettere Israele al primo posto”.

Il leader della Lista Araba Unita e membro della coalizione Mansour Abbas, anch’egli assente dal voto, ha affermato che “ogni coalizione affronta delle sfide, ma per noi è importante andare avanti”. “Ci sono buone probabilità che il governo non cada, è troppo presto per definirlo un esperimento fallito”, ha aggiunto.

Il ministro delle finanze Avigdor Lieberman ha twittato che, mentre Netanyahu ha “abbandonato” i coloni, la coalizione continuerà a sostenerli “e farà qualsiasi cosa in nostro potere per approvare la legge la prossima settimana”.

Il deputato di destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: ” Questa sera il governo ha dimostrato ancora una volta che si appoggia agli antisionisti e che non può prendersi cura dei bisogni e dei valori più elementari dei cittadini israeliani”.

(traduzione dall’ Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I racconti delle torture in Israele confermano la necessità di una profonda revisione della legislazione sullo Shin Bet

Redazione di Haaretz

24 maggio 2022, Haaretz

La testimonianza di due giovani palestinesi di Gerusalemme est su ciò che accade nelle stanze degli interrogatori dello Shin Bet [l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele, ndtr.] dimostra che l’agenzia di sicurezza continua a utilizzare pratiche proibite, inclusa la tortura. I due, Yazan al-Rajbi di 21 anni e suo cugino Mohammed al-Rajbi di 19, sono stati arrestati con l’accusa di aver lanciato pietre contro la polizia e sono stati interrogati dallo Shin Bet per più di un mese fino a che non hanno confessato le accuse. Sono stati giudicati colpevoli e condannati a otto mesi di carcere. Ciò che li ha persuasi a confessare, hanno detto, è stata una serie di pratiche vietate, inaccettabili in un paese democratico.

“Gli investigatori mi hanno tenuto legato a una sedia con le mani ammanettate dietro la schiena e le gambe legate davanti”, ha detto. “Sono rimasto così per due giorni, senza andare in bagno, senza bere e senza mangiare”, ha detto Yazan al-Rajbi. Dopo alcuni giorni di interrogatorio, gli inquirenti hanno ricevuto dei filmati della sicurezza che mostravano come Yazan si trovasse altrove mentre venivano lanciate le pietre, come aveva detto lui. “Invece di rilasciarmi, hanno iniziato a interrogarmi su un altro caso di lancio di pietre avvenuto cinque giorni dopo il primo”, dice. “Ho chiesto di darmi il mio telefono per poter provare che non ero lì in quel momento, ma l’investigatore ha rifiutato e mi ha dato del bugiardo. Mi hanno interrogato per diversi giorni, ogni volta per 17 o 19 ore di fila”.

Tra una sessione e l’altra, Yazan veniva messo in isolamento in una stanza che lui e altri hanno stimato di circa un metro per due, aggiungendo che il soffitto basso rendeva impossibile stare in piedi. Yazan ha detto che durante un altro interrogatorio gli investigatori lo hanno messo in un armadietto basso di legno. “Avevo la testa fra le gambe, legate”, ha detto, “e le mani ammanettate dietro la schiena.” Le torture e gli abusi sono continuati. Alla fine è crollato e ha “confessato”, un’ulteriore prova che la tortura porta spesso a false confessioni (Nir Hasson, Haaretz 23 maggio). Il cugino di Yazan, Mohammed, ha parlato di torture simili.

Già nel 1999 l’Alta Corte di Giustizia aveva stabilito che lo Shin Bet non è autorizzato a usare mezzi fisici di coercizione durante gli interrogatori, tra cui lasciare nella posizione “Shabach” (cioè “l’ammanettamento del sospettato, fatto sedere su una sedia bassa con la testa coperta da un sacco, suonando musica ad alto volume nella stanza”), o “rana accovacciata” (“accovacciamenti consecutivi e periodici sulla punta dei piedi, ciascuno della durata di cinque minuti a intervalli di cinque minuti”) e privazione del sonno. L’Alta Corte ha lasciato una minima apertura nei casi di “bomba a orologeria”, ma ha chiarito che anche in tali casi la “necessità” non è fonte di autorità per utilizzare quei metodi di interrogatorio – potrebbe servire solo a difendere un inquisitore se quest’ultimo è portato in giudizio. Ma questo non era un caso di “bomba a orologeria”. Il crimine di uno dei giovani era di lanciare alcune pietre, e dell’altro di lanciare una pietra, e lo Shin Bet li avrebbe torturati per ottenere la confessione di un crimine già commesso.

L’ufficio che indaga sulle denunce dei sospetti interrogati deve esaminare questo caso, ma non basta. Questo caso è un’ulteriore prova della necessità di ampliare la documentazione video anche degli interrogatori Shin Bet. Ed è infine giunto il momento di approvare una legge contro la tortura che copra ogni evenienza, perché finché c’è uno spiraglio per interpretare la legge che consenta la tortura, la tortura continuerà.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa unisce i suprematisti americani bianchi e la brutale aggressione israeliana contro i palestinesi

David Rothkopf

16 maggio 2022 – Haaretz

Un killer razzista uccide dieci persone a Buffalo, New York. La polizia israeliana carica i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Due eventi, due mondi lontani, ma con molto in comune

A Buffalo, New York, un diciottenne entra in un negozio di alimentari e apre il fuoco uccidendo dieci persone. Sulla canna del suo fucile è inciso un epiteto razzista così offensivo che quasi tutti i media (anglosassoni) dicono semplicemente “n-word, [n**ro].”

La polizia israeliana aggredisce brutalmente i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Strappa la bandiera palestinese dal suo feretro che veniva trasportato a spalla. 

Due eventi, due mondi lontani. Cosa potrebbero mai avere in comune?

Dopo tutto Payton S. Gendron, lo stragista di Buffalo, era un noto antisemita che temeva che ebrei, neri e persone di colore stessero cercando di “sostituire” i bianchi. Un altro simbolo trovato sulla sua arma, il numero 14, evoca un credo della supremazia bianca: “Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra gente e un futuro ai bambini bianchi.” Si è trattato di un criminale. 

Secondo la polizia israeliana si stava cercando di “agevolare un funerale calmo e dignitoso. “Cosa potrebbe mai avere a che fare il suo comportamento con quello di un razzista squilibrato che considera quelli diversi da lui come un pericolo mortale e, di conseguenza, si è sentito giustificato a ricorrere alla violenza contro di loro?

Gendron è stato collegato a un manifesto di 180 pagine in cui elogiava altri killer razzisti, tra cui Robert Gregory Bowers, che [nel 2018] ha attaccato la sinagoga Tree of Life a Pittsburgh in cui morirono undici persone e sei rimasero ferite. Come potrebbe mai avere qualcosa in comune con una forza di polizia incaricata di proteggere un popolo che lui detesta?

Eppure l’impulso alla base di entrambi gli attacchi è stato l’odio alimentato dalla paura dell’ “altro.” Sì, sia Gendron che la polizia israeliana hanno agito con totale indifferenza per la vita o il senso morale umani. Sì, la polizia e Gendron stavano attivamente proteggendo una visione del mondo secondo cui le persone di razze e fedi diverse sono viste come inferiori, e negare loro le libertà fondamentali, persino privarle della vita, è diventato normale.

Sì, la teoria della sostituzione dei bianchi sostenuta da Gendron è propagandata da media di destra come Fox News di Rupert Murdoch. E sì, quando Tucker Carlson, star della Fox, è stato attaccato per aver sposato “la teoria della sostituzione dei bianchi,” in sua difesa ha citato il caso di Israele: “È irrealistico e inaccettabile aspettarsi che lo Stato di Israele sovverta volontariamente la propria esistenza sovrana e la propria identità nazionalista e diventi una minoranza vulnerabile all’interno di quello che una volta era il suo territorio.”

Per quanto ripugnanti siano le frasi di Carlson è facile capire la logica che l’ha portato a citare le opinioni israeliane sui palestinesi come simili a quelle dei suprematisti bianchi americani verso i non cristiani e i non bianchi.

Il razzismo e l’odio dei media di destra in entrambi i Paesi sono direttamente collegati a partiti politici negli USA e in Israele che hanno attinto all’odio e alle paure razziali per alimentare la propria popolarità: nel caso degli USA il GOP [il Great Old Party, il partito repubblicano, ndt.], e in particolare il movimento di Donald Trump con il suo slogan MAGA [Make America Great Again, rendiamo l’America di nuovo grande, ndt.], e nel caso di Israele le coalizioni di destra che hanno sostenuto Bibi Netanyahu e ora sostengono il primo ministro Naftali Bennett.

In effetti questi potenti movimenti politici e i loro benefattori e accoliti nei media hanno fatto da megafono e operato per istituzionalizzare la loro intolleranza. È così, sia che si manifesti negli USA, dove si fa di tutto per scoraggiare gli elettori di colore, si erige un muro lungo la frontiera o si rinchiudono i bambini in gabbie, che in Israele, con un sistema che è stato giustamente condannato perché impone un sistema di apartheid, di cittadinanza di seconda classe, di limitazione dei diritti e di violenza seriale contro i palestinesi.

No, commettendo il suo crimine Gendron non stava lavorando per lo Stato come la polizia israeliana quando ha brutalmente e ingiustificabilmente aggredito coloro che in lacrime seguivano il corteo funebre. Ma il suo razzismo è direttamente collegato a un potente movimento politico statunitense, lo stesso che gli ha messo in mano un’arma, proprio come nel caso della polizia israeliana, che ha bastonato chi trasportava la bara e negato un funerale decente a una cittadina palestinese-americana estremamente rispettata che si meritava molto di meglio.

Naturalmente è facile stabilire un legame fra questi due atti, entrambi spregevoli, ripugnanti e offensivi, secondo qualsiasi norma morale. Ma è pericoloso accostare eventi solo per la loro vicinanza temporale. Sarebbe un errore farlo se tale analogia ne minimizzasse uno o travisasse l’altro.

Detto ciò, sarebbe anche un errore non vedere le somiglianze, poiché i due atti sono in effetti associati a movimenti tossici che rappresentano una gravissima minaccia per i Paesi in questione, specialmente quando questi due Paesi, USA e Israele, sono intimamente legati.

Entrambi sono scaturiti da un odio irrazionale fomentato da politici etno-nazionalisti che hanno reso ancora più possibili tali reati, offrendo la giustificazione per gli attacchi (anche se l’orrendo comportamento era di natura molto diversa) e, in un modo o nell’altro, rendendo disponibili le armi usate per commettere questi crimini. 

(E prima di dire che nell’aggressione israeliana non è morto nessuno, quanti palestinesi innocenti sono morti senza giustificazione per mano di polizia o esercito israeliani? Non sappiamo ancora esattamente a chi appartenessero i proiettili che hanno ucciso Shireen Abu Akleh, ma è persino troppo facile citare altri casi. Sappiamo anche che le indagini sulla sua morte saranno probabilmente inconcludenti e che tali crimini continueranno, spesso in conseguenza del calcolo delle istituzioni israeliane che regolarmente valutano le vite dei palestinesi meno di quelle israeliane.)

Sono ben consapevole che alcuni incaselleranno tale analisi fra le tipiche affermazioni da ebreo americano critico di Israele o del sionismo, spesso equiparate all’antisemitismo dagli esponenti della destra israeliana. Loro, come quelli della destra americana, sono allergici al dissenso e propendono a mettere in dubbio la reputazione dei loro oppositori.

Ma se sionismo significa sostenere il tipo di razzismo di uno Stato creato per fuggirlo, allora sostenerlo e chiudere un occhio davanti alle violazioni e ai valori corrotti che lo appoggiano è in realtà il vero atto di antisemitismo.

Proprio come nel partito Repubblicano negli USA, molti appartenenti all’ala destra del governo israeliano hanno perso la strada e stanno danneggiando il proprio Paese più di quanto non potrebbero farlo i loro nemici. E proprio come negli USA la cura consiste nell’accantonare gli eufemismi, il cerchiobottismo e le scuse e riconoscere che entrambi i nostri Paesi stanno soffrendo per l’istituzionalizzazione di forme di razzismo che vanno nella direzione contraria ai nostri valori fondanti, anche se per niente contrarie alla verità effettiva della storia in entrambe le nazioni.

L’ultimo libro di David Rothkopf si intitola: ‘Traitor: A History of Betraying America from Benedict Arnold to Donald Trump’ [Traditore: una storia del tradimento in America da Benedict Arnold a Donald Trump]. È anche conduttore di podcast e amministratore delegato del Rothkopf Group.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Quello che gli ebrei israeliani non capiscono di Al-Aqsa

Hanin Majadli

26 aprile 2022 – Haaretz

Chi controlla la montagna governa il paese,” scrisse il poeta nazionalista israeliano Uri Zvi Greenberg. E gli abitanti di Gerusalemme Est rispondono che chi governa Al-Aqsa governa Gerusalemme. Non c’è un posto in Israele più chiaramente palestinese di Gerusalemme Est. Gli arabi in Israele hanno subito un processo di israelizzazione e istitutizionalizzazione, i palestinesi in Cisgiordania sono soggetti al dominio militare e a Gaza vivono come in una prigione.

In effetti gli unici palestinesi senza “israelianità” in tutte le sue forme sono i gerosolomitani orientali. Non solo in termini di consapevolezza, ma nella realtà, nelle loro vite quotidiane che sono rimaste legate, sotto quasi tutti gli aspetti, alla Cisgiordania più che a Gush Dan, l’area metropolitana di Tel Aviv.

Entro le mura della Città Vecchia gli abitanti di Gerusalemme Est si sentono padroni o almeno pari persino ai loro padroni. Qui i palestinesi riescono, in un modo o in un altro a essere liberi dalle catene del dominio israeliano, che sia a causa dello status quo, per l’esplosività del posto, per l’opinione pubblica internazionale o per l’assenza di governo – scegliete voi la risposta giusta. Ecco perché non sono disposti a essere privati delle abitudini essenziali della propria identità comunitaria, religiosa e nazionale, nella propria casa, nella propria città e nella propria moschea.

Recentemente ho sentito parecchie persone, non necessariamente quelle la cui massima priorità è incoraggiare la visita al Monte del Tempio (anzi proprio il contrario), dire che anche se capiscono che il Ramadan è un mese particolarmente sacro e nonostante il proprio sostegno all’idea che il governo dovrebbe impedire agli ebrei di andare ad Al-Aqsa durante tale mese, non comprendono perché debba essere un problema anche quando gli ebrei si recano al Monte del Tempio per pregare. In silenzio, nella parte orientale del complesso.

Secondo loro, dopotutto, è un luogo sacro per entrambe le parti. I palestinesi non devono rinunciare a nulla e gli ebrei non “distruggono la moschea di Al-Aqsa” né “ci costruiscono il [Terzo] Tempio,” e allora dove sta il problema nel permettere anche agli altri di esprimere il proprio legame religioso? Dove sta il problema quando si prega insieme?

Se stiamo già parlando di un legame, allora ecco le domande: “Perché Israele non dovrebbe permettere a tutti i palestinesi di avere la disponibilità dei propri legami?. Dopotutto i palestinesi hanno anche un forte legame con ogni luogo di questo Paese, quindi perché impedire loro di viverci? Perché abbiamo bisogno di una legge razzista sulla cittadinanza che vieta loro di metter su famiglia e vivere ad Haifa o a Be’er Sheva [Biʾr al-Sab in arabo, la più grande città nel deserto del Negev, nel sud del Paese, ndtr.]?”.

Perché? Per il contesto. È sempre “il contesto.” O, detto in altre parole: l’occupazione e la lotta nazionale palestinese. Ecco ciò di cui ha paura Israele, la fonte di restrizioni e preclusioni. Per lo stesso motivo, e come se fosse una risposta a tutto ciò, Al-Aqsa negli ultimi anni è diventata un simbolo nazionale palestinese.

Non è più solo una normale moschea e il legame con essa non è solo più religioso. Rappresenta il simbolo della vittoria nazionale palestinese sull’ultranazionalismo ebraico. Questa vittoria si è ottenuta poiché l’area di Al-Aqsa è l’unico luogo in cui Israele si astiene dall’esercitare il controllo totale e tale situazione è sancita dalla legge. Persino per un regime occupante e oppressivo come quello israeliano la complessità è troppo grande. Il mondo musulmano osserva e minaccia di intervenire.

La determinazione dei gerosolomitani orientali e la loro battaglia contro i manganelli e i lacrimogeni delle forze di polizia sono diventate un simbolo di resistenza effettiva e anche un modo per comunicare un messaggio chiaro: “Noi non vi permetteremo di controllare Al-Aqsa perché è l’ultimo pezzo rimasto sotto il controllo palestinese e nessun palestinese ci rinuncerà.”

E visto che nel mese di Ramadan i palestinesi arrivano da varie località, sia religiosi osservanti che persone che non pregano, musulmani e cristiani (sì, persino loro), sia il Ramadan che Al-Aqsa sono ormai non solo simboli religiosi, ma anche emblemi nazionali. L’anno prossimo nella Palestina ricostruita. [riferimento ironico all’augurio con cui gli ebrei concludono la Pasqua “L’anno prossimo a Gerusalemme, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La polizia israeliana ha bloccato la via a centinaia di persone che marciavano verso il quartiere musulmano di Gerusalemme

Jonathan Lis, Jack Khoury, Nir Hasson 

 20 aprile 2022  Haaretz

Hamas dice che Israele dovrebbe assumersi la piena responsabilità delle conseguenze della marcia

Il parlamentare di estrema destra Ben-Gvir si unisce ai manifestanti, e in 20 sfondano le barriere per raggiungere la Porta di Damasco

Mercoledì la polizia israeliana ha bloccato la strada per la Porta di Damasco a Gerusalemme mentre centinaia di attivisti di destra hanno sfidato gli ordini della polizia e hanno iniziato a marciare verso il quartiere musulmano della Città Vecchia.

Con l’aumentare della tensione, circa 20 persone sono riuscite a sfondare le barriere della polizia e a raggiungere la Porta, ma sono state respinte dagli agenti.

La polizia ha arrestato due palestinesi nell’area della Porta di Damasco, uno con l’accusa di aver lanciato una bottiglia [molotov] e l’altro con l’accusa di aver lanciato pietre contro le forze di sicurezza.

Gli organizzatori di destra hanno accusato il governo del divieto di esporre la bandiera della marcia, contestando l’affermazione della polizia secondo cui avrebbero inizialmente accettato di marciare lungo un percorso alternativo per poi tornare sull’accordo.

“Seguiremo il percorso pianificato attraverso la Città Vecchia e speriamo che la polizia abbia coraggio e accompagni la marcia”, hanno detto. “In ogni caso, la polizia non può impedire alle persone di camminare con una bandiera fino al Muro Occidentale nei territori dello Stato di Israele. Non esiste un ordine del genere”.

Sebbene gli organizzatori abbiano inizialmente affermato che non avrebbero marciato in violazione agli ordini della polizia, in seguito hanno invitato il pubblico a recarsi in piazza Safra davanti al municipio di Gerusalemme alle 17:00 per l’inizio della marcia, dicendo: “Riporteremo la sensazione di sicurezza per le strade di Gerusalemme”.

Mercoledì scorso Hamas ha reagito con un comunicato stampa in cui si lanciava un avvertimento all’occupazione e ai manifestanti che si avvicinassero ai luoghi santi, aggiungendo che la “leadership dell’occupazione” si sarebbe dovuta assumere la piena responsabilità delle conseguenze di quelle definite mosse pericolose e provocatorie.

“Sappiamo cosa è successo l’anno scorso durante la marcia e il lancio dei razzi da Gaza che ha portato all’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle Mura: 11 giorni di bombardamenti su Gaza da parte di Israele nel maggio 2021, ndtr.], e non vogliamo un Guardian of the Walls 2, quindi la polizia non approverà la marcia e in questo caso lo farà secondo la legge”, ha detto ad Haaretz un alto ufficiale di polizia.

Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha criticato la marcia programmata definendola “una provocazione che ci danneggia”. Ha aggiunto che “si tratta di estremisti interessati a lanciare provocazioni. Quello che vogliono è che ci sia violenza e una escalation che faccia saltare Gerusalemme. Non permetteremo loro di far saltare Gerusalemme per la loro politica”.

Il legislatore di estrema destra Itamar Ben-Gvir era presente alla marcia, nonostante mercoledì il primo ministro Naftali Bennett gli avesse proibito di recarsi alla Porta di Damasco nella Città Vecchia. “Non c’è motivo al mondo per un ebreo di non poter marciare lungo le mura di Gerusalemme”, ha detto Ben-Gvir. “Il nostro problema è Naftali Bennett, che ha lasciato spazio alla polizia”.

Ben-Gvir ha anche annunciato che avrebbe insediato un ufficio volante in piazza Tzahal, il luogo in cui la polizia aveva eretto delle barricate sulla strada per la Porta di Damasco.

La marcia si svolge nel pieno di crescenti tensioni a Gerusalemme, con scontri tra forze di sicurezza e palestinesi culminati venerdì con l’ingresso delle forze israeliane nella moschea di Al-Aqsa.

Altri scontri si sono verificati mercoledì mattina tra i palestinesi e la polizia nel complesso del Monte del Tempio a Gerusalemme, un luogo che è stato a lungo un punto focale della violenza israelo-palestinese.

Una bottiglia molotov lanciata da un palestinese ha appiccato un piccolo incendio nella moschea di Al-Aqsa, che è stato rapidamente spento, mentre i palestinesi hanno anche lanciato pietre contro la polizia presente per proteggere gli ebrei che visitavano il luogo sacro durante le festività pasquali.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Per i palestinesi in Cisgiordania, [gli attacchi armati]sono eventi eccezionali, non un'”ondata di terrorismo”

Amira Hass

2 aprile 2022 Haaretz

Sebbene l’opinione pubblica palestinese comprenda le motivazioni degli aggressori, la stragrande maggioranza non sceglie questa strada, che non favorisce la loro causa, e ha delle riserve sul prendere di mira i civili. Ma condannare? Che prima gli israeliani condannino la violenza che esercitano contro i palestinesi

I tre atti di omicidio-suicidio perpetrati da quattro palestinesi – da entrambi i lati della Linea Verde – in meno di due settimane evidenziano solo l’assenza di un organo politico dirigente palestinese riconosciuto, con un’unica strategia chiara e unificante. Gli attacchi riflettono divisioni interne e la dolorosa consapevolezza della debolezza e dell’incapacità palestinese di agire di fronte alla potenza di Israele. D’altra parte, il fatto che così pochi scelgano questa strada, nonostante sia disponibile, indica una più ampia comprensione politica del fatto che tali attacchi non promuovono la causa palestinese.

La stragrande maggioranza sta “votando con i piedi sa che gli attacchi dei lupi solitari spinti dalla disperazione o dalla vendetta non hanno, né costituiscono in sé, un obiettivo e non porteranno a nulla. Non cambieranno l’equilibrio di potere. Il popolo palestinese in Cisgiordania lo capisce senza bisogno di direttive dall’alto, senza un discorso pubblico aperto sull’argomento e mentre le sue organizzazioni politiche, principalmente quelle dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e dell’Autorità Palestinese, sono al loro punto più basso in termini di potere e di fiducia della gente – e sono più che mai in conflitto e in competizione tra loro.

Ogni palestinese, su entrambi i lati della linea verde, ha molte ragioni per desiderare che gli israeliani provino dolore, perché sono loro e non solo il loro governo ad essere responsabili della difficile situazione dei palestinesi. È probabile che questo fosse il desiderio dei quattro assassini suicidi, indipendentemente dal loro background, dalle circostanze familiari o dal carattere di ciascuno di loro. Gli israeliani sanno subito, poiché esiste un intero apparato che diffonde tali informazioni, quali sono gli aggressori arrestati in precedenza, dopo quale attacco sono stati distribuiti dolci [per celebrare l’attacco, ndt] e accanto alla casa di quale assalitore i giovani hanno festeggiato (con totale mancanza di rispetto per il dolore della famiglia). Ma gli israeliani, nel complesso, non sono interessati alla misura in cui Israele, e loro stessi, in quanto suoi cittadini, hanno costantemente e per molti decenni causato sofferenza ai palestinesi, come individui e come popolo.

Questo enorme divario tra conoscenza specifica [dei palestinesi, ndt] e ostinata mancanza di conoscenza [degli israeliani, ndt] è sufficiente a spiegare perché l’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sia indifferente ai recenti attacchi da parte di individui, siano essi commessi da cittadini israeliani o da abitanti della Cisgiordania, e non obbedisca alle richieste israeliane di condannare gli omicidi. Ciò che è degno di nota non è che gli aggressori siano sfuggiti all’attenzione dello Shin Bet, ma che, nonostante la loro comprensione delle motivazioni degli assalitori, la stragrande maggioranza dei palestinesi non scelga di intraprendere questa strada.

Migliaia di palestinesi senza permesso di lavoro entrano apertamente in Israele ogni giorno attraverso molteplici varchi nel muro di separazione. Questo va avanti da anni, con la piena conoscenza dell’esercito e della polizia. Come tutti sanno, c’è una notevole quantità di armi e munizioni tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania. Questi due fatti avrebbero potuto portare molti altri attacchi per vendetta da parte di individui che non potevano essere scoperti in anticipo, sia cittadini palestinesi di Israele che residenti in Cisgiordania. Anche se nelle prossime settimane si verificheranno alcune imitazioni, come l’attacco con il cacciavite di giovedì, per i palestinesi il numero di questi attacchi impallidisce rispetto all’entità e alla natura sistematica dell’ingiustizia inflitta loro da Israele.

Ogni palestinese ha buone ragioni per desiderare di infrangere la falsa normalità di cui godono i cittadini ebrei, che in generale ignorano il fatto che il loro Stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per espropriare un maggior numero di palestinesi delle loro terre e dei loro diritti storici e collettivi come popolo e società. Per raggiungere questo obiettivo, Israele mantiene un regime continuo di oppressione. Ciò include: la violenza burocratica come i divieti di costruzione, sviluppo e movimento che discriminano i palestinesi a favore degli ebrei, nel Negev, in Galilea e in Cisgiordania, la violenza disciplinare attraverso la sorveglianza, le incursioni notturne e gli arresti e violenze fisiche come torture durante gli interrogatori e la detenzione, attacchi regolari da parte dei coloni e lesioni e morte per mano principalmente di soldati e poliziotti, ma anche per mano di civili israeliani. Il fatto che gli autori siano lo Stato, le sue istituzioni e i cittadini, non rende questa violenza accettabile, legittima o giustificata agli occhi dei palestinesi, che costituiscono metà della popolazione che vive tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Al contrario. La natura meticolosamente pianificata di questa violenza e il numero infinito di israeliani che vi prendono parte danno ai palestinesi un diverso senso delle proporzioni quando un’azione violenta è intrapresa dai loro compatrioti. Quella che è considerata un'”ondata di terrorismo” dagli ebrei israeliani è vista dai palestinesi come un’eccezione, composta da pochi giovani che si sono stufati dell’impotenza di tutti, compresi se stessi, scegliendo invece di uccidere e farsi uccidere. Molti più giovani diventano dipendenti da antidolorifici e altri farmaci per le stesse ragioni, oppure seguono i propri sogni ed emigrano.

In conversazioni private i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza esprimono dolore per la morte di civili. Sembra che gli attacchi con il coltello e l’omicidio di donne e anziani, come accaduto a Be’er Sheva, siano più scioccanti degli spari contro i passanti, che includono poliziotti e soldati in uniforme. Alcune persone sottolineano il fatto che gli assalitori ad Hadera hanno sparato solo contro gli agenti della polizia di frontiera e, secondo testimoni israeliani, hanno deliberatamente evitato di sparare contro donne e bambini. In un rapporto in arabo questa distinzione tra persone in uniforme e civili è attribuita – per errore o apposta, chi può dirlo – all’aggressore [che ha agito] a Bnei Brak, anche se ha sparato indiscriminatamente contro i civili.

Per vari motivi, il dolore e le riserve personali non si traducono in condanna pubblica (tranne che da parte di Mahmoud Abbas, che è così impopolare che la sua opinione non conta). Innanzitutto perché gli attacchi di un “lupo solitario” non rappresentano la collettività in generale, che non ne è responsabile, ma anche perché l’uso delle armi ha un’aura di santità e legittimità storica difficile da scrollarsi di dosso. In secondo luogo, nasce dalla compassione istintiva per un palestinese che ha scelto di essere ucciso. Terzo, non vi è alcuna condanna pubblica da parte di Israele dopo ogni atto di violenza da parte dello stato o da parte di elementi ufficiali o privati ​​contro i palestinesi. Una condanna palestinese appare quasi collaborazionista perché non tiene conto di un equilibrio di potere così sbilanciato.

La facciata di normalità israeliana potrebbe essersi incrinata per alcuni giorni, con l’isteria e la paura alimentate dai media israeliani e da Hamas, dalla Jihad islamica e da Hezbollah, che lodano questi attacchi per il loro tornaconto politico. Anche le persone consapevoli dell’inutilità e dell’inefficacia di tali atti di disperazione e vendetta non lo affermano pubblicamente per non offendere le famiglie degli aggressori uccisi. In ogni caso l’attenzione dei palestinesi si è concentrata sugli attacchi dei coloni e dell’esercito e l’istigazione di destra contro tutti gli arabi scatenata subito dopo gli attacchi dei lupi solitari.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo alla resistenza armata, la stragrande maggioranza sa che per ora, anche se questo tipo lotta dovesse riprendere (e non solo da parte di singoli), e anche se dovesse essere meglio pianificata rispetto al precedente della seconda Intifada, non potrebbe  sconfiggere Israele o migliorare la sorte dei palestinesi. Proprio come la diplomazia, il movimento BDS e le sanguinose dimostrazioni a Beita e Kafr Qaddum non sono riusciti e non stanno riuscendo a bloccare la costante e quotidiana acquisizione di spazio da parte degli ebrei israeliani e l’espulsione dei palestinesi verso enclave sovraffollate che possono essere chiuse in un attimo da un pugno di soldati.

(traduzione dell’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La normalizzazione non farà sparire i palestinesi

Noa Landau

29 marzo 2022 – Haaretz

Se solo avessi avuto uno shekel da ogni persona che di recente mi ha spiegato che il problema israeliano nel Negev è la perdita della governabilità, che i russi non avanzano sul fronte ucraino come avevano sperato, che Israele non è riuscito a imparare la lezione dell’Olocausto sui rifugiati e il cliché sull’attualità che al momento preferisco: che oggi possiamo dire con certezza che Francis Fukuyama aveva torto!

È quello che noi umani facciamo: aggrapparci ai cliché e ripeterli fino all’ovvietà per dare ordine e logica al caos delle nostre vite.

Uno di questi cliché usurati è la clamorosa intuizione che oggi vari Paesi arabi hanno interessi comuni con Israele non correlati alla situazione palestinese (e ora in coro ripetete con me: Iran, sicurezza informatica, gas naturale). La teoria che la pace con il mondo arabo possa e debba essere perseguita senza tenere conto dei palestinesi è stata promossa principalmente da Benjamin Netanyahu. A quasi tutte le riunioni diplomatiche da primo ministro sollevava il suo “paradigma ribaltato” del conflitto israelo-palestinese che spiegava così:

Il metodo (della sinistra) è questo: bisogna fare pericolose concessioni ai palestinesi perché è necessario un accordo con i palestinesi per fare la pace con gli arabi e di conseguenza con il mondo. … Io prima mi rivolgo al mondo e da lì vado al mondo arabo musulmano e dal mondo arabo musulmano arriviamo ai palestinesi. Solo così, se siamo così forti, capiranno che non hanno altra scelta che arrivare a un compromesso con noi.”

Presumibilmente gli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, sponsorizzati da Trump, ndtr.] e ora il summit del Negev sono la manifestazione di questa teoria ora ovvia: un “nuovo Medio Oriente” senza la precondizione di una soluzione con i palestinesi. A causa della disperazione dovuta all’impasse nel contesto Gerusalemme-Ramallah, hanno smesso di negare il premio di una normalizzazione aperta per la fine dell’occupazione e l’hanno offerta in cambio della necessità condivisa di bloccare l’Iran e promuovere accordi su armi, energia e tecnologia, oltre all’accesso ad Al-Aqsa [la moschea più importante di Gerusalemme, ndtr.]. 

Persino il tragico attacco terroristico a Be’er Sheva avvenuto durante il summit a Sde Boker [tra i ministri degli esteri di Israele, USA e i Paesi arabi coinvolti negli Accordi di Abramo, ndtr.], un evento che in passato sarebbe potuto diventare un incubo diplomatico, è diventato, a causa dell’insolito legame con l’ISIS [che ha rivendicato l’attentato, ndtr.], un simbolo della lotta di Israele e dei Paesi arabi moderati contro il comune nemico islamista.

Il problema con questa tesi, che in realtà riflette l’ovvio, è che tutto ciò non significa che i palestinesi stiano scomparendo. Persino nello scenario di Netanyahu l’obiettivo alla fine sarebbe di adoperarsi per la pace anche con loro.

Perciò la più estesa normalizzazione fra Paesi arabi e Israele non significa che adesso noi possiamo ignorare i palestinesi, ma piuttosto che, ora più che mai, sta a noi trovare una soluzione. Perché a un cittadino degli Emirati (non che ce ne siano molti o che la loro opinione là conti molto) dovrebbe importare del conflitto israelo-palestinese più che a un israeliano o un palestinese? L’interesse in una soluzione era e resta innanzitutto nostro. 

Questo sogno infantile dell’apertura alla normalizzazione con il mondo arabo che farebbe evaporare i palestinesi è stato commentato dal Segretario di Stato USA Antony Blinken, che ci ha ricordato quello che la maggior parte degli israeliani preferirebbero dimenticare: gli accordi di Abramo non “sostituiscono i progressi fra palestinesi e israeliani.”

Anche la maggior parte dei ministri arabi nei loro discorsi hanno messo l’accento sui palestinesi. È molto facile descrivere questo come parole al vento e la semplice adesione all’assioma, ma sono forse gli arabi che hanno deciso di ribaltare il paradigma su di noi? Noi potremmo raggiungere i palestinesi tramite il mondo arabo e musulmano, aveva detto Netanyahu, e infatti è stato a causa degli Accordi di Abramo che il suo piano di annessione [di parte dei territori palestinesi occupati, ndtr.] è stato cestinato. Rafforzare le relazioni con il mondo arabo potrebbe essere anche un’opportunità nel contesto palestinese, ma dipende principalmente da noi e loro, non dall’opinione pubblica del Bahrain.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel corso di un’accesa seduta Israele vota di rinnovare il divieto al ricongiungimento per le famiglie palestinesi

Noa Shpigel, Jack Khoury

10 marzo 2022 – Haaretz

La legge è riuscita a ottenere facilmente l’approvazione durante una votazione in extremis prima della pausa parlamentare nonostante l’opposizione della Lista Araba Unita e del Meretz.

Durante la seduta finale di giovedì prima della pausa della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] la coalizione di governo ha approvato una legge che di fatto esclude i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza sposati con cittadini israeliani dall’ottenere la cittadinanza o la residenza [in Israele].

Il progetto di legge è passato con 45 voti a favore e 15 contrari, nonostante l’opposizione di due dei partiti della coalizione, la Lista Araba Unita (LAU) [coalizione di partiti islamisti che rappresentano una parte degli arabo-israeliani e che si è scissa dalla Lista Unita, ndtr.] e il Meretz, [partito  della sinistra sionista, ndtr.].

Il testo, caldeggiato dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked, sancisce con una legge un emendamento temporaneo rinnovato annualmente dal 2003, che però sarebbe scaduto a luglio se la coalizione non fosse riuscita a ottenere i voti per rinnovarlo, un grave ostacolo iniziale per la coalizione.

La Lista Unita, formata da tre partiti a maggioranza araba e che è all’opposizione, ha nuovamente cercato di provocare una crisi della coalizione chiedendo il voto di fiducia.

La Lista Araba Unita ha detto che avrebbe ancora votato contro, ma Ahmed Tibi, deputato della Lista Unita, ha proposto a Mansour Abbas, leader della LAU, di firmare un accordo per sciogliere la Knesset, provocando un diverbio fra i due ex compagni di coalizione. 

Dopo il passaggio della legge Ayelet Shaked ha dichiarato la vittoria dello ” Stato ebraico e democratico” su uno “Stato di tutti i suoi cittadini.”

Mossi Raz del Meretz [al governo, ndtr.] ha invece definito la legge “razzista,” aggiungendo che 16 parlamentari del suo partito, della Lista Unita [all’opposizione, ndtr.], della Lista Araba Unita e del partito laburista [entrambi al governo, ndtr.] hanno proposto un testo alternativo per abrogarla.

Ai sensi dell’emendamento alla Legge sulla Cittadinanza, il permesso temporaneo di residenza verrà concesso per un periodo di due anni, a differenza dell’originario di un anno, e il ministero dell’Interno sarà obbligato a revocarlo nel caso si provi che il destinatario abbia commesso un’azione che riguardi una violazione della fiducia (terrorismo, spionaggio o tradimento) contro lo Stato di Israele.

Nella stesura finale della bozza, la legge sarebbe valida per 12 mesi, sebbene i suoi promotori sperino possa essere applicata per un tempo più lungo.

Inoltre il permesso temporaneo di residenza che potrebbe essere rilasciato in casi specifici durerebbe due anni, invece di uno come stipulato nella bozza originale. Il testo finale permette al ministro dell’Interno di revocarlo se il titolare è condannato per terrorismo, spionaggio o tradimento.

I promotori della proposta di legge la giustificano adducendo motivi di sicurezza e sostenendo che i militanti palestinesi potrebbero usare il matrimonio per entrare in Israele, mentre i suoi critici affermano che essa ha una motivazione razzista ed è uno strumento per preservare la maggioranza demografica [ebraica]. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il rifiuto di accogliere rifugiati ucraini da parte di Israele dimostra il suo essere tenebra tra le nazioni

[rovesciamento ironico della profezia di Isaia secondo cui Israele avrebbe dovuto essere luce tra le nazioni, ndt]

Gideon Levy

5 marzo 2022 – Haaretz

Quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto di Israele e espulsi o viene loro richiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che c’è qualcosa di distorto nella bussola morale di Israele.

Il Paese che ha fatto il massimo nel prendersi cura dei suoi cittadini e degli ebrei in Ucraina è anche il Paese che ha chiuso le sue porte – e in una certa misura il suo cuore – a tutte le altre vittime.

Il Paese il cui ethos si basa su un’accusa feroce verso il mondo che ha taciuto, distolto lo sguardo e chiuso i suoi cancelli sta facendo esattamente la stessa cosa in questo momento della verità.

Il Paese che ha così abilmente sfruttato il senso di colpa del mondo per raggiungere i suoi obiettivi politici potrebbe fare i conti con una nuova immagine di sé nel mondo, un mondo che potrebbe non dimenticare il suo silenzio e le sue esitazioni e un giorno regolare i conti con esso.

E infine, il Paese che l’ha fatta franca con la sua occupazione senza fine potrebbe trovarsi di fronte a un mondo nuovo che forse, ma solo forse, non approverà e non tacerà più.

È commovente vedere i diplomatici israeliani fare di tutto per liberare dall’inferno tutti i possessori di un passaporto israeliano, compresi quelli che quasi mai hanno messo piede in Israele, anche se per settimane sono stati pressantemente sollecitati a uscire [dall’Ucraina, ndtr.] anche se non se ne curavano un accidente. In un Paese i cui cittadini cercano un secondo passaporto per motivi di sicurezza il passaporto israeliano si è improvvisamente rivelato una polizza assicurativa.

La preoccupazione per gli ebrei a cui non è mai venuto in mente di trasferirsi qui potrebbe semplicemente infervorare gli appassionati dell’Yiddishkeit [“ebraismo” nel senso di stile di vita ebraico, ndtr.]. Ma quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto israeliano ed espulsi o viene loro chiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che qualcosa nella bussola morale di Israele è distorto, persino patologico.

Prendersi cura dei propri poveri va bene, ma prendersi cura solo di loro è mostruoso. La preoccupazione per il tuo stesso popolo è comprensibile, ma la preoccupazione solo per loro è una perversione.

C’è davvero differenza tra un bambino ucraino che fugge per salvarsi la vita e che non ha una bisnonna ebrea e un bambino ucraino che ce l’ha? Qual è la differenza? La differenza si chiama razzismo. Questo rovistare nel sangue, anche in tempo di guerra, si chiama “selezione”.

Mentre l’Unione Europea si sveglia lentamente, rivelandosi molto più unita e ideologica di quanto pensassimo, emerge la brutta faccia del Paese dei profughi e dell’Olocausto. Decenni di discriminazioni all’aeroporto Ben-Gurion, compreso il respingimento di rifugiati da tutto il mondo, hanno lasciato il segno; anche i decenni di espropriazioni e occupazione rimasti impuniti da parte della comunità internazionale stanno dando i loro frutti.

In quest’ora di oscurità calata sul mondo Israele si sta ergendo come la terra delle tenebre tra le nazioni. Nessuno si sarebbe aspettato che costituisse una luce tra le nazioni. Perché mai una luce? Ma almeno avremmo potuto aspettarci che fosse come tutte le altre.

Quanto sarebbe stato bello se Israele avesse agito come l’oscura Polonia o l’oscura Ungheria, per non parlare della Svezia o della Germania, che ora rappresentano la vera luce tra le nazioni, e avesse aperto le nostre porte come le loro.

Israele ha un dovere verso i rifugiati non solo a causa del suo passato, ma ha anche un obbligo nei confronti dei rifugiati ucraini principalmente a causa della grande comunità di lavoratori ucraini in Israele. Un Paese che vieta ai devoti custodi dei suoi anziani e a coloro che svolgono le pulizie delle sue case di invitare i propri parenti per salvare le loro vite è chiaramente un paese immorale. La marea di squallide scuse sulla condotta dell’Ucraina durante l’Olocausto non fa che peggiorare il quadro, punendo i nipoti dei nipoti per i peccati dei loro padri e delle loro madri.

A Galina, una donna delle pulizie che vive in questo paese da anni, è vietato portare i suoi figli nella sua nuova casa solo perché non sono ebrei. Questo sta realmente accadendo e, a quanto pare, è persino accettato dalla maggior parte degli israeliani.

No, non è paura della Russia. La paura della Russia è solo la scusa. Non è nemmeno il governo, l’attuale o un altro. Questa crisi ha finalmente dimostrato che non c’è differenza morale tra l’attuale governo e il suo nefasto predecessore.

Sono entrambi ugualmente ottusi e insensibili. Naftali Bennett è uguale a Benjamin Netanyahu, Miri Regev [parlamentare israeliana, già componente del governo Netanyahu, ndtr.] è uguale a Ayelet Shaked [attuale ministra dell’interno del governo Bennet, ndtr.] e anche Merav Michaeli [attuale ministra dei trasporti, ndtr.] è allo stesso livello.

È qualcosa sepolto nel profondo del DNA nazionale, tra anni di lavaggio del cervello sulla necessità di essere forti, solo forti, in mezzo a frottole sul popolo eletto e le uniche vittime nella storia alle quali è permesso di fare qualsiasi cosa. E questa immagine è accompagnata dall’ allevare una xenofobia in dimensioni che sarebbero illegali in qualsiasi altro Paese. Ora tutto questo viene alla luce con un effetto particolarmente orrendo.

Forse è il peccato originale di un paese che è stato fondato sull’espulsione di centinaia di migliaia di profughi, forse è la religione sionista che sostiene la supremazia ebraica in ogni sua sfaccettatura. Qualunque siano le ragioni nulla di tutto ciò giustifica la richiesta di un versamento di un solo shekel [valuta ufficiale israeliana, ndtr.] da un rifugiato di guerra all’aeroporto Ben-Gurion.

Ed oscurità era sulla faccia dell’abisso. [Genesi 1.1, Bibbia ebraica, ndt]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte suprema si pronuncia contro la restituzione di terra palestinese a Hebron a causa di problemi di sicurezza

Agar Shezaf

2 marzo 2022 – Haaretz

L’Alta Corte di giustizia israeliana ha confermato l’uso da parte dei militari di un complesso di proprietà palestinese a Hebron, sostenendo che “restituire la terra … danneggerebbe in modo significativo la sicurezza della popolazione israeliana nell’area”

Lunedì l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dai palestinesi per impedire alle forze di difesa israeliane [IDF] di continuare a utilizzare un edificio a Hebron. costruito per la maggior parte su terreni palestinesi di proprietà privata, affermando che gli insediamenti fanno parte della “dottrina della sicurezza” dell’esercito israeliano.

L’esercito israeliano negli anni ’80 costruì una postazione militare su un terreno dove in precedenza era situata la stazione centrale degli autobus della città cisgiordana. A seguito di una risoluzione del governo del 2018, parte della terra è stata esclusa dall’ordine di requisizione militare originale in modo che su di essa potesse essere costruito un nuovo quartiere ebraico.

I firmatari hanno sostenuto che la destinazione di una parte della proprietà a edilizia residenziale dimostra che gli ordini di requisizione non sono stati emessi a fini di sicurezza, quindi devono essere annullati. Nel respingere la petizione, la corte ha stabilito che la presenza ebraica fa parte della dottrina della sicurezza regionale dell’esercito israeliano e che consentire agli ebrei di vivere lì non invalida la giustificazione per la confisca dell’appezzamento. L’opinione di maggioranza è stata redatta dal giudice Alex Stein.

L’ex stazione degli autobus appartiene in parte alla città di Hebron, che aveva preso in concessione il sito dal supervisore per le proprietà governative e abbandonate poste sotto l’Autorità Territoriale israeliana di Giudea e Samaria come affittuario protetto.

Nel 1983 fu emesso un ordine militare di requisizione della proprietà per costruire una postazione militare. Da allora l’ordinanza è stata impugnata più volte in tribunale. Ogni volta, l’esercito israeliano ha sostenuto che l’esproprio era basato esclusivamente su esigenze di sicurezza e le petizioni sono state respinte.

Trentacinque anni dopo, il governo decise che per costruire un nuovo quartiere – il quartiere Hizkiya, con 31 unità abitative – l’ordine di requisizione doveva essere ridotto e l’area di proprietà dell’Autorità Territoriale doveva esserne esclusa. Tale manovra amministrativa alla fine permise alla comunità ebraica di Hebron di presentare un piano edilizio per il nuovo quartiere che sarebbe sorto su terreni posti sotto l’egida dell’Autorità. Successivamente, l’ordine di requisizione militare è stato rinnovato per il resto dell’edificio di proprietà privata palestinese, su cui sono attualmente previsti edifici militari permanenti.

I firmatari della petizione, i proprietari delle terre e la città di Hebron hanno affermato che fare un’eccezione per una parte del terreno per costruire un nuovo quartiere ebraico ha rivelato il vero motivo degli ordini militari di confisca: il desiderio di espandere gli insediamenti.

Restituire la terra ai proprietari palestinesi, tuttavia, “danneggerebbe in modo significativo la sicurezza della popolazione israeliana nell’area e del reparto militare lì stanziato” ha affermato lo Stato israeliano. Il governo ha anche affermato di aver valutato la costruzione di strutture permanenti per la postazione militare sul terreno demaniale – dove oggi è previsto il nuovo quartiere – ma che è tecnicamente impossibile.

Per quanto riguarda le affermazioni dei firmatari secondo cui [il progetto, ndt.] di un quartiere ebraico sul sito è la prova che le necessità militari non sussistono, Stein ha scritto nella decisione del tribunale: “La presenza civile ebraica fa parte della dottrina della sicurezza regionale dell’ esercito israeliano nell’area. Questo perché la presenza di cittadini che detengono i beni confiscati contribuisce notevolmente al mantenimento della sicurezza in quella stessa area e facilita lo svolgimento della loro missione da parte dei militari”.

Stein ha citato due sentenze della fine degli anni ’70 che sono considerate centrali nel dibattito sulle colonie: le sentenze Beit El ed Elon Moreh. Entrambi questi casi riguardavano l’istituzione di comunità ebraiche su terreni palestinesi di proprietà privata sulla base di ordini militari.

La sentenza del 1978 ha consentito all’insediamento di Beit El, adiacente a Ramallah, di rimanere perché una presenza civile aiuta l’apparato di sicurezza dello Stato. La sentenza Elon Moreh, emessa pochi mesi dopo, ha riscontrato il contrario: la comunità ebraica dovrebbe essere rimossa dalle terre dei firmatari. Ciò era in parte dovuto al fatto che l’allora ministro della Difesa Ezer Weizman aveva votato contro l’istituzione di Elon Moreh. Questa sentenza ha dato vita a quella che viene chiamata la regola Elon Moreh, secondo la quale un ordine militare di confisca non può essere emesso per terreni palestinesi di proprietà privata per costruirvi una comunità ebraica.

In un’opinione dissenziente il giudice George Karra ha scritto che nel momento in cui parte della terra è stata esentata dall’ordine di confisca militare a causa della decisione del governo di costruirvi un quartiere civile, il comando militare non è più guidato da considerazioni esclusivamente di sicurezza. Pertanto, ha affermato, il tribunale avrebbe dovuto emettere un’ordinanza di motivazione – primo passo verso l’accoglimento del ricorso – che richiedesse allo Stato di spiegare il suo rifiuto di annullare l’ordine di confisca.

In un’opinione concorrente con Stein, il giudice Isaac Amit ha scritto che la vera domanda che sorge dalla petizione è perché le strutture militari permanenti vengono costruite sulla terra palestinese di proprietà privata piuttosto che sulla sezione in cui sarà costruito il nuovo quartiere ebraico. Ha ammesso di essere angosciato per questa questione, ma alla fine ha deciso di accettare la posizione dello Stato secondo cui quest’ultima sezione era stata giudicata strutturalmente inadatta per gli edifici militari progettati.

In ogni caso ha aggiunto che, anche se gli edifici militari fossero stati costruiti sul terreno previsto per il quartiere ebraico, l’esercito non avrebbe restituito l’altra parte ai palestinesi, poiché l’assunto è che consentire l’edificazione di case palestinesi vicino a edifici militari metterebbe in pericolo i soldati.

Samir Shihadia, l’avvocato che rappresenta il comune di Hebron nella causa, ha affermato che i firmatari “hanno dimostrato in tribunale che la presunta necessità militare per il cui la terra è stata confiscata da anni in realtà non è strettamente militare, ma è mescolato a considerazioni diverse, soprattutto se si tiene conto che parte di questa terra è stata destinata alla costruzione di una colonia. Quello che sta succedendo qui è il furto delle terre palestinesi”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)