Dopo che Gerusalemme ha appoggiato l’Ucraina, la Russia condanna l’“occupazione” israeliana delle Alture del Golan

Jonathan Lis

24 febbraio 2022 – Haaretz

Ore prima degli attacchi russi contro l’Ucraina, il rappresentante della Russia all’ONU ha espresso “preoccupazione” riguardo ai progetti israeliani di espansione nel nord, affermando che la Russia non riconosce la sua sovranità sulla regione.

Mercoledì la Russia ha condannato l’occupazione israeliana delle Alture del Golan ed ha affermato di non riconoscere la sovranità israeliana sulla regione.

“Siamo preoccupati per gli annunciati progetti di Tel Aviv di estendere le attività di colonizzazione nelle Alture del Golan occupate, che contrastano direttamente con le disposizioni della Convenzione di Ginevra del 1949,” ha affermato il rappresentante della Russia alle Nazioni Unite Dmitry Polyanskiy qualche ora prima che giovedì il presidente russo Vladimir Putin lanciasse attacchi su vasta scala in tutta l’Ucraina.

Parlando alla riunione mensile del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul Medio Oriente egli ha sottolineato “l’immutata posizione della Russia, in base alla quale non riconosciamo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, che sono parte inalienabile della Siria.”

Mercoledì pomeriggio il ministero degli Esteri israeliano aveva reso pubblico il primo comunicato di appoggio all’Ucraina dall’inizio del conflitto. Riflettendo la complicata posizione in cui si è trovato Israele riguardo alla crisi, nella dichiarazione, in cui si afferma il sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, Israele evita deliberatamente di menzionare la Russia o il presidente Putin.

Israele ha tutto l’interesse a mantenere una posizione neutrale per evitare un conflitto che renderebbe difficile continuare gli attacchi in Siria, dove la Russia ha una presenza militare.

Il comunicato, che è stato approvato dal primo ministro Naftali Bennett, dal ministro degli Esteri Yair Lapid e dal ministro della Difesa Benny Gantz, esprime anche la disponibilità di Israele a trasferire immediatamente assistenza umanitaria all’Ucraina e afferma che Israele è impegnato nel dialogo con i suoi partner per riprendere il percorso diplomatico.

Mentre in via ufficiale gli ucraini si sono rifiutati di commentare la dichiarazione di mercoledì, una fonte diplomatica che ha chiesto di rimanere anonima in quanto non autorizzata a trattare pubblicamente dell’argomento, ha affermato che non è tale da essere accolta positivamente dal suo governo.

“È meglio di niente, ma non è la dichiarazione che ci attendevamo,” ha detto la fonte ad Haaretz. Parlando per telefono mercoledì dalla città ucraina occidentale di Lviv, l’ambasciatore israeliano in Ucraina Michael Brodsky ha detto ad Haaretz che, mentre il comunicato non costituisce un’esplicita condanna della Russia, esso è “molto più duro della nostra posizione usuale.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha molto da perdere da una guerra Russia-Ucraina

Anshel Pfeffer

24 gennaio 2022 – Haaretz

Essendo uno dei pochi Paesi ad avere stretti legami diplomatici sia con Kiev che con Mosca, Israele cercherà di tenersi in disparte se le due parti entreranno in guerra.

L’ottobre scorso, nell’incontro con Vladimir Putin a Sochi, Naftali Bennett si è offerto di organizzare un vertice tra il presidente russo e il suo omologo ucraino, Volodymyr Zelenskyy. Secondo un articolo di Barak Ravid su Walla [sito internet israeliano di informazione, ndtr.], la proposta è stata avanzata dal primo ministro israeliano con il benestare di Zelenskyy, ma Putin ha rifiutato. Pochi mesi prima, il predecessore di Bennett, Benjamin Netanyahu, aveva fatto un’offerta simile a Putin, anch’essa respinta.

Un vertice Russia-Ucraina a Gerusalemme avrebbe effettivamente senso per tutta una serie di elementi. Israele è uno dei pochi Paesi ad avere stretti legami diplomatici sia con Kiev che con Mosca. Si tratterebbe di un volo breve da entrambe le capitali, come testimonia l’afflusso di decine di jet d’affari russi e ucraini all’aeroporto Ben Gurion ogni fine settimana e durante le festività religiose.

Israele è sia un comodo luogo di incontro per le classi oligarchiche di entrambi i Paesi sia, nei momenti di tensione, anche un rifugio e una sede di riunioni. Durante il precedente conflitto tra le due parti nel 2014 le hall degli alberghi di lusso di Tel Aviv erano piene della crema delle élite economiche russe e ucraine, che trovavano qui un rifugio finché la tempesta non fosse passata.

Israele è anche uno dei pochi posti al mondo in cui, a causa di accordi discreti, coloro che temono per la propria vita a causa della longa manus delle agenzie di intelligence russe hanno la garanzia di non subire dei danni. Acerrimi rivali come l’oligarca favorito di Putin, Roman Abramovich, e il miliardario nazionalista ucraino Ihor Kolomoyskyy, possiedono case sontuose in Israele.

Putin e Zelenskyy si sentirebbero entrambi a casa in Israele anche grazie alle centinaia di migliaia di loro connazionali russi e ucraini emigrati in Israele negli ultimi tre decenni. Russia e Ucraina rimangono in cima alla lista dei Paesi da cui gli ebrei fanno l’aliya [l’emigrazione ebraica in Israele, ndtr.].

C’è ancora un altro motivo per cui i leader israeliani sarebbero felici di fare tutto il possibile per ridurre le tensioni che potrebbero portare a una guerra Russia-Ucraina. Molto semplicemente, Israele ha molto da perdere se ciò accadesse.

Mentre i principali alleati strategici di Israele negli ultimi 50 anni sono stati gli Stati Uniti – e la situazione rimarrà tale nel prossimo futuro – da quando Putin è salito al potere e ha intrapreso l’aggressiva politica estera post-sovietica della Russia, Israele si è trovata a dover fare i conti con una crescente attenzione nei confronti degli interessi del Cremlino. Soprattutto negli ultimi anni, sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e ora Joe Biden, gli Stati Uniti hanno ridotto la propria presenza in Medio Oriente, creando un vuoto da riempire a favore della Russia.

Israele si trova in una posizione piuttosto peculiare per quanto riguarda le sue alleanze militari. Non è un membro della NATO, e ciò non è mai stato in previsione. Ma negli ultimi anni ha avuto legami militari sempre più stretti con la maggior parte dei membri dell’alleanza occidentale, comprese frequenti esercitazioni congiunte in Israele e in quei Paesi. Per quanto in queste esercitazioni l’obiettivo nascosto non sia mai stata specificamente la Russia, o qualsiasi altro Paese, gli eserciti che vi partecipano insieme usano dottrine e protocolli della NATO, mentre il nemico immaginario ha sistemi d’arma di fabbricazione russa.

D’altra parte negli ultimi sei anni e mezzo – dal dispiegamento russo in Siria – Israele ha coordinato strettamente le sue operazioni aeree con la Russia contro obiettivi iraniani in quell’area. Sebbene Israele non informi direttamente i russi degli obiettivi previsti, sia il sistema per evitare un conflitto tra i due eserciti che i taciti accordi tra il Cremlino e Gerusalemme hanno consentito a Israele di continuare ad operare sulla Siria senza scontrarsi con le forze russe.

Il rapporto con la NATO è una risorsa strategica per Israele, ma il coordinamento con la Russia in Siria è una necessità cruciale. Nei giorni scorsi gli aerei da combattimento russi hanno svolto – e trasmesso sulla televisione di Stato russa – un’esercitazione congiunta con l’Aeronautica militare siriana, sorvolando la parte della Alture del Golan controllata dai siriani, cosa che potrebbe essere stato un promemoria per Israele riguardo le regole sul campo.

Un’altra considerazione strategica è la speranza di Israele di vendere gas naturale ai Paesi europei. I piani per realizzare nel Mediterraneo orientale un gasdotto da Israele alla Grecia, e da qui al resto del continente, sono attualmente sospesi. Tuttavia, se dovesse scoppiare una guerra e una possibile cessazione delle forniture di gas russo all’Europa occidentale in pieno inverno diventasse realtà, ci sarebbe una domanda di gas israeliano per mitigarne la carenza. Israele sarebbe ovviamente felice di venderlo, ma sarebbe anche preoccupato che ciò non venga visto come una mossa anti-russa.

E inoltre c’è la costante preoccupazione di Israele per le comunità ebraiche che si troverebbero in pericolo nel caso e nel momento in cui scoppiassero le ostilità.

Al momento non vi è alcun segno di un aumento delle richieste di aliya dall’Ucraina, ma le cose potrebbero cambiare molto rapidamente. Putin è sempre stato vicino a personalità ebraiche e ha ostentatamente represso l’antisemitismo. Lo stesso Zelenskyy è ebreo e anche il governo ucraino è stato molto preoccupato di mostrare che protegge le comunità ebraiche. Ma la realtà persiste: entrambi i Paesi hanno profonde tradizioni di ebreo-fobia che tradizionalmente si manifesta in tempi di guerra e caos.

La capacità di Israele di dare un contributo nell’evacuazione degli ebrei ucraini dalla zona di guerra in caso di necessità dipenderà in larga misura dalla sua abilità nel mantenere le sue relazioni con entrambe le parti.

Le amministrazioni statunitensi succedutesi non hanno mancato di notare l’equilibrismo di Israele quando si tratta della Russia e hanno cercato di smarcarlo, con scarso successo. In passato Israele ha rifiutato di unirsi alle condanne degli interventi russi promosse dagli Stati Uniti. Sotto pressione russa Israele ha anche interrotto gli accordi sulla sicurezza e i trattati sulle armi, prima con la Georgia nel 2008, alla vigilia dell’invasione russa, e poi con l’Ucraina in anni più recenti.

Naturalmente Israele spera di mantenere il suo status di alleato più vicino e affidabile dell’America in Medio Oriente. Ma quando si tratta di Putin, e di qualsiasi guerra o invasione che egli stia pianificando, vuole rimanere rigorosamente in disparte.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele guarda a un nuovo tipo di regime in Cisgiordania, ma il mondo vede l’apartheid

Shaul Arieli

22 febbraio 2022 – Haaretz

Israele non considera l’enclave né occupata né “territorio liberato”. La Cisgiordania resta quindi abbandonata a sé stessa.

All’inizio di febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele mantiene un sistema di apartheid contro i palestinesi. Questo documento potrebbe rivelarsi un trailer per la commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituita a seguito dei combattimenti con Gaza dello scorso maggio. Il rapporto della commissione dovrebbe essere pubblicato a giugno e potrebbe affermare che Israele è uno stato di apartheid. Il governo israeliano deve eliminare questa minaccia attuando una linea politica chiara in Cisgiordania.

La politica ambigua del governo precedente sul futuro del territorio non è più accettabile per la maggior parte della comunità internazionale. Quella politica vede le cose nel seguente modo: non annetteremo [la Cisgiordania, ndtr.], ma non creeremo nemmeno uno Stato palestinese, manterremo lo status quo ma amplieremo gli insediamenti coloniali, applicheremo la legge ma non contro gli ebrei rivoltosi e gli avamposti coloniali illegali, parleremo con il presidente palestinese Mahmoud Abbas ma solo di ciò che vogliamo, manterremo Gerusalemme unita ma investiremo solo nei quartieri ebraici.

Dal 1967 Israele è impegnato in una guerra di retorica basata su una terminologia fuorviante che dichiara che i territori occupati sono territori “liberati” o “posseduti“. In tal modo Israele cerca di giustificare le sue azioni contrarie al diritto e alle risoluzioni internazionali.

I governi israeliani sono sempre stati consapevoli dello status legale della Cisgiordania. Un cablogramma top secret del ministero degli Esteri a Yitzhak Rabin del 1968, quando era ambasciatore israeliano a Washington, affermava che “la nostra linea era e rimane quella di evitare fermamente di discutere con gli stranieri della situazione nei territori sulla base degli Accordi di Ginevra… Un nostro esplicito riconoscimento dell’applicabilità degli Accordi metterebbe in luce seri problemi… riguardanti demolizioni di case, espulsioni, insediamenti coloniali e così via”.

Questa consapevolezza non ha mai impedito ai governi laburisti di intraprendere le iniziative di colonizzazione, violando il principio di temporalità previsto dalle leggi sull’occupazione [sulla base della convenzione dell’Aja del 1907 loccupazione è concepita come una situazione transitoria destinata a concludersi già nel corso del conflitto o, al più tardi, al termine delle ostilità, con il ritiro delle truppe occupanti ed il ripristino della piena sovranità dello Stato occupato ndtr.] Tali leader citavano esigenze di sicurezza e affermavano che i territori sarebbero stati “trattenuti” fino al raggiungimento di un accordo diplomatico. Come scrisse Rabin nel suo libro del 1979 Le memorie di Rabin, il governo adottò una chiara politica di sicurezza: dove colonizzare e dove no.

La Corte Suprema ha accolto l’argomento della sicurezza. “Sono consapevole del fatto che stiamo parlando di una popolazione civile… In questo contesto, accetto l’argomento del generale Orli secondo cui una presenza civile in questi punti delicati è la soluzione necessaria”, scrisse nel 1978 la giudice Miriam Ben-Porat .

Allo stesso tempo il governo ha collaborato con il movimento di insediamento nazionalista messianico [movimento dei coloni nazional-religiosi in Cisgiordania, ndtr.]. Il 27 settembre 1967, il colonnello Shlomo Gazit scrisse al capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. La lettera si riferiva all'”avamposto di Gush Etzion”. Affermava: Per coprire le esigenze dello Stato l’avamposto dei giovani religiosi a Gush Etzion sarà registrato come avamposto militare di Nahal. Istruzioni in tal senso saranno date ai coloni”.

L’Alta Corte di Giustizia ha cercato di porre fine a questa politica menzognera nel caso Elon Moreh [colonia insediata nei dintorni di Nablus, ndtr.] del 1979, in cui ha cambiato rotta e ha stabilito che la terra palestinese di proprietà privata non può essere sequestrata per stabilire insediamenti coloniali giustificati con l’argomento di esigenze di sicurezza. La corte ha anche dato la priorità allo stato di diritto rispetto alla “promessa divina”. “Questa istanza fornisce una risposta definitiva all’argomento che cerca di interpretare la storica promessa biblica al popolo ebraico come un diritto prioritario di proprietà“, ha scritto il giudice Moshe Landoy.

Nel corso dei decenni la comunità internazionale ha rifiutato la politica israeliana, rifiuto sancito nella risoluzione 2334 delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016 in cui si afferma che gli insediamenti coloniali israeliani stabiliti nelle terre palestinesi occupate dal 1967, inclusa Gerusalemme est, non hanno valore legale e violano il diritto internazionale.

Il Consiglio di Sicurezza ha anche affrontato gli obiettivi della colonizzazione e i mezzi per raggiungerli. Nella risoluzione 2334 ha condannato tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio Palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, inclusa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione di insediamenti coloniali, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e lo sfollamento di civili palestinesi, in violazione del diritto umanitario internazionale e delle relative risoluzioni”.

Negli ultimi dieci anni il governo israeliano ha deciso di continuare le violazioni sopra elencate. Ha approvato la creazione di una nuova colonia, Amihai, e autorizzato 22 avamposti coloniali illegali. Ha ampliato la separazione tra i due sistemi giudiziari, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi. Ha aumentato di un terzo il numero dei coloni.

Ha approvato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative. Ha realizzato 67 fattorie e una vasta area industriale a Samaria, nel nord della Cisgiordania. Ha stanziato 13 miliardi di shekel (3,5 miliardi di euro) per la pavimentazione delle strade e ha demolito migliaia di case palestinesi.

Nell’ultimo decennio, Israele ha anche ulteriormente violato il suo principale obbligo ai sensi del diritto internazionale: garantire il ripristino dell’ordine pubblico. In primo luogo, ha creato 135 avamposti coloniali, illegali anche secondo la legge israeliana. Li ha collegati al sistema stradale e alla rete elettrica. E negli ultimi anni, con il termine fuorviante “giovani colonie”, ha cercato di regolamentare il loro status e le loro infrastrutture attraverso leggi antidemocratiche.

In secondo luogo, il governo non ha intrapreso le azioni necessarie nei confronti dei rivoltosi ebrei che commettono violenze contro palestinesi, israeliani, soldati israeliani e polizia israeliana. Gli ordini del ministro della pubblica sicurezza alle IDF [forze di di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.], i cui soldati sono stati presenti alla maggior parte di questi incidenti, non vengono eseguiti. Il ministro ha affermato che le IDF devono “agire per mantenere la sicurezza e l’ordine in Giudea e Samaria [nomi israeliani di due regioni rispettivamente a sud e a nord di Gerusalemme; conquistate da Israele nella guerra del 1967, sono considerate dall’ONU e dalla Corte internazionale di giustizia territori occupati, ndtr.] esercitando l’autorità assegnata alle IDF ai sensi della legge, in cooperazione e in coordinamento con la polizia israeliana”.

Secondo la visione dell’attuale governo, che si è impegnato ad effettuare dei cambiamenti, la Cisgiordania non è un territorio occupato. La prova di ciò può essere vista nelle sue azioni in violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni. Non è interessato a stabilire il futuro della Cisgiordania attraverso dei negoziati. Non considera la Cisgiordania un “territorio occupato”, in quanto viola il principio della temporalità espandendo le colonie. Il governo non considera la Cisgiordania neppure un “territorio liberato”, in quanto negli Accordi di Abramo si è impegnato a non annetterla.

Lo status della Cisgiordania è quindi quello di un territorio abbandonato i cui abitanti palestinesi sono discriminati. L’Autorità Nazionale Palestinese non può far rispettare la legge e l’ordine nella maggior parte delle aree della Cisgiordania, poiché ha autorità solo sul 40% del territorio, che è diviso in non meno di 169 isole separate. Nell’Area C, controllata da Israele, ci sono due sistemi giudiziari: uno per gli israeliani e uno per i palestinesi.

Il mondo chiama questo apartheid. Non solo Israele non applica le leggi sull’occupazione militare, ma ignora anche le proprie leggi e le risoluzioni del governo. Permette a una minoranza radicale di determinare il carattere dello Stato e la sua immagine nel mondo. La Startup Nation [dal titolo di un libro del 2009 sulla crescita economica di Israele, ndtr.] sta cercando di inventare una nuova start up, a quanto pare, sotto forma di un nuovo regime. Ma a differenza dell’alta tecnologia e dell’agricoltura, il mondo non è realmente interessato a questa “innovazione” e la considera semplicemente apartheid.

Il fatto che Israele appartenga alla famiglia delle nazioni, impedendone così un’emarginazione, ha un’importanza senza precedenti. Dovremmo ricordare al primo ministro Naftali Bennett – che crede che il mondo si “abituerà” a tutti i capricci di Israele – ciò che il primo ministro David Ben-Gurion disse ad Haaretz il 2 ottobre 1959.

Chiunque creda che oggi si possano risolvere semplicemente attraverso la forza militare questioni di ordine storico tra le nazioni non sa in quale mondo viviamo… Ogni questione locale oggi diventa internazionale, quindi il nostro rapporto con le nazioni del mondo è non meno importante della nostra forza militare”.

L’ultimo libro del dottor Shaul Arieli è l’opera in lingua ebraica del 2021 “12 miti israeliani sul conflitto israelo-palestinese”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




17 israeliani arrestati per aver aggredito dei palestinesi in Cisgiordania il mese scorso

Nir Hasson

16 febbraio 2022 – Haaretz

Nell’incidente sono rimasti feriti tre palestinesi, dopo che un convoglio di auto ha attraversato il villaggio di Hawara in Cisgiordania e alcuni passeggeri hanno scagliato pietre contro veicoli e negozi

Mercoledì la polizia ha arrestato 17 persone sospettate di aver aggredito dei palestinesi e di aver causato danni alle proprietà nel villaggio di Hawara in Cisgiordania il mese scorso.

I sospettati, alcuni dei quali provenienti dal nord, da colonie in Cisgiordania e Gerusalemme, sono sotto inchiesta da parte della polizia con l’accusa di aggressione, partecipazione a raduni illegali e danni alla proprietà per motivi razzisti. La loro detenzione potrebbe essere estesa oltre la giornata di mercoledì.

Nell’incidente, avvenuto a gennaio, una carovana di circa 30 veicoli ha attraversato il villaggio di Hawara.

Un video clip mostra nella carovana diverse persone sporgersi dai finestrini delle macchine, seguiti da un’auto con musica a tutto volume. A lato della strada, dietro il convoglio si possono vedere dei soldati israeliani e una jeep dell’esercito. Un altro video mostra due persone uscire da un’auto rossa con targa israeliana e lanciare pietre contro una macchina sul ciglio della strada per poi tornare di corsa verso l’auto rossa.

Secondo i palestinesi nel corso dell’incidente tre persone sono rimaste leggermente ferite e nel villaggio diversi negozi e veicoli sono stati danneggiati.

Secondo una fonte della sicurezza il fatto è avvenuto durante le celebrazioni per il rilascio dalla prigione di un colono dell’insediamento di Yizhar che era stato condannato lo scorso anno, quando era minorenne, per aver aggredito dei palestinesi.

La scorsa settimana è stato annunciato che, in seguito all’aumento nel corso delle ultime settimane degli attacchi contro i palestinesi, il corpo di polizia che si occupa dell’estremismo di estrema destra in Cisgiordania è stato diviso in due unità, nel tentativo di consentire una risposta più rapida agli attacchi da parte dei coloni.

Ha contribuito a questo articolo Hagar Shezaf.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Vogliono una guerra’: l’approvazione dell’avamposto da parte del procuratore generale in Cisgiordania scatena le proteste palestinesi

Agar Shezaf

6 febbraio 2022 – Haaretz

Dalla fondazione di Evyatar l’anno scorso i palestinesi di Beita hanno manifestato ogni settimana e otto persone sono morte. Con il suo ultimo intervento ufficiale Mendelblit ha rinvigorito le proteste

La decisione del procuratore generale uscente Avichai Mendelblit di stabilire un insediamento coloniale sul sito dell’avamposto di Evyatar non ha raffreddato l’ardore degli abitanti di Beita, il villaggio palestinese sulle cui terre è situato l’avamposto. Anzi. “Rafforza solo la nostra volontà di resistere e combattere”, ha detto ad Haaretz un diciassettenne che partecipa alla manifestazione contro l’avamposto, la più grande protesta settimanale in Cisgiordania.

L’adolescente, uno studente delle superiori, è arrivato alla manifestazione con le stampelle. Le usa da quando è stato colpito alla gamba dai soldati israeliani due settimane fa. Dice che non è la prima volta che viene ferito. Nella prima settimana in cui si sono svolte le proteste contro l’avamposto un proiettile Ruger (un proiettile calibro 22 usato per la dispersione della folla) gli è sfrecciato sulla testa, ferendolo e rendendo necessario il trasporto in un vicino ospedale.

Eppure continua a protestare ogni giorno contro l’avamposto. “Cosa farei a casa?” si chiede, stupito da una tale domanda. “Questa è la missione del nostro villaggio: rimuovere l’avamposto. Non si tratta solo di dimostrazioni. Sin svolgono anche ‘operazioni notturne di disturbo’ e a volte veniamo qui”.

Operazioni notturne di disturbo è l’appellativo degli incendi notturni di pneumatici e dell’uso occasionale di laser tag [gioco di simulazione militare con l’impiego di strumenti a raggi infrarossi, totalmente innocui, ndtr.] da parte dei giovani di Beita ai piedi dell’avamposto. Sono iniziate ancor prima che i coloni venissero sfrattati dall’avamposto, quando nell’area si potevano scorgere incessanti volute di fumo nero, e continuano ora che l’avamposto è presidiato dai militari.

Le notizie sulla concessione da parte di Mendelblit del permesso di costruzione di una colonia nella località di Evyatar sono state tradotte e distribuite sui gruppi Whatsapp di protesta. “Vogliono una guerra”, afferma Khaled, un abitante di Beita sulla quarantina, che protesta contro Evyatar sin dalla sua fondazione a maggio.

Come ogni venerdì, lo scorso fine settimana centinaia di residenti di Beita sono andati a protestare contro l’avamposto. Sebbene i coloni abbiano lasciato Evyatar circa sei mesi fa, le strutture che vi hanno eretto sono rimaste, così come una grande stella di David in legno, chiaramente visibile dal luogo della manifestazione. Alla manifestazione settimanale partecipano bambini piccoli, ragazzi e anche adulti sulla sessantina. Alcuni hanno con sè delle fionde e prendono di mira i soldati con le pietre.

Altri offrono ai manifestanti bottiglie d’acqua, altri ancora osservano quanto succede e di tanto in tanto urlano contro i soldati. L’esercito usa gas lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi otto palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa questo venerdì tre palestinesi sono stati feriti alle gambe da proiettili veri, nove sono stati feriti da proiettili di gomma e 26 sono stati curati per inalazione di gas.

L’esercito pattuglia continuamente l’avamposto e non permette a nessuno di avvicinarsi, quindi le proteste non si svolgono ai piedi dell’avamposto ma nel letto del torrente tra l’avamposto e il villaggio, e talvolta tra il villaggio e la Statale 60 [la strada che percorre da nord a sud Israele e Cisgiordania unendo Beersheba a Nazareth, ndtr.]. La protesta inizia dopo che la gente del luogo ha pregato sul posto. Oggi i manifestanti hanno affermato che l’esercito si è avvicinato più che mai alle case del villaggio.

Pensano che ciò abbia a che fare con l’annuncio di Mendelblit e che Israele stia cercando di fare pressione su di loro affinché smettano di protestare. “Oggi hanno iniziato subito in modo pesante. Ci sono state molte sparatorie e molto gas”, dice uno dei manifestanti mentre un candelotto lacrimogeno gli cade vicino. “Anche i bambini di Beita sanno in che direzione il gas si diffonde e la differenza tra il suono dello sparo di un proiettile vero e di un Ruger [proiettile considerato dall’esercito israeliano “meno letale” in quanto di calibro ridotto, ndtr.]”.

Più tardi la gente del posto ha respinto l’esercito nel letto del torrente. Alcune decine di giovani, nascosti tra gli ulivi, hanno lanciato pietre contro i soldati; altri osservavano dall’alto. “Questo ha cambiato molto la vita a Beita”, aggiunge Khaled, “ma non sono andato io contro ai coloni, sono loro che sono venuti da me e hanno preso la terra del mio bisnonno. Vogliamo solo che gli edifici vengano rimossi”.

La peculiarità del villaggio, attestano i suoi abitanti, è che tutti sono impegnati in funzione delle proteste: le donne del villaggio producono cibo per i manifestanti, le attività di protesta si svolgono durante la settimana e non sono attribuite ad alcun gruppo politico.

Ogni settimana l’esercito pattuglia la strada che proviene dal villaggio cercando di impedire l’ingresso delle auto. In pratica, questo non impedisce l’arrivo dei manifestanti, ma rende più difficile il lavoro dell’equipe medica. “L’ambulanza continua a rimanere bloccata nel fango”, dice il dottor Abd al-Jaleel, direttore dell’ospedale da campo di Beita, mentre le due ambulanze in servizio dietro la manifestazione sono impantanate nel terreno nel tentativo di partire. L’ospedale è gestito solo da volontari, alcuni di Beita e altri di Nablus e delle aree circostanti.

All’inizio – dice Al-Jaleel – nel villaggio non c’era una clinica adatta per i trattamenti di emergenza. Sin dal primo giorno abbiamo prestato le cure alle persone ferite durante le manifestazioni contro l’avamposto, ma presto ci siamo resi conto che qui il numero di ferite gravissime da arma da fuoco è molto elevato. Dato che l’ospedale di Nablus è a 17 chilometri di distanza e i soldati spesso bloccano la strada, è difficile evacuare le persone abbastanza velocemente”, spiega.

L’ospedale da campo è stato creato all’interno della scuola del villaggio e all’inizio le persone sono state curate su materassi per terra. Al Jaleel stima che ogni venerdì vengano trattati circa cento feriti e nell’ultimo anno sono state prese in cura sette persone con ferite da arma da fuoco che hanno richiesto un trattamento di rianimazione.

E’ riuscito a salvarne uno. Mostra delle foto di ambulanze con i finestrini rotti perché l’esercito gli ha sparato contro proiettili di gomma. “Da quando tutto questo ha avuto inizio non abbiamo alcuna vita sociale né [pausa del, ndtr.] venerdì. Siamo sempre qui”, dice. Il prezzo delle proteste può essere visto dappertutto nel villaggio, dice, e osserva: “Passeggiando per Beita ogni pochi metri si incontra qualcuno con le stampelle”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nel caso della morte di un anziano palestinese l’esercito israeliano ignora la questione principale

Amos Harel

1 febbraio 2022 – Haaretz

Il battaglione Netzah Yehuda, i cui soldati hanno lasciato morire al freddo un uomo di 80 anni, ha un passato preoccupante ed un’ideologia estremista – e qualcosa in comune con l’incidente di fuoco amico che ha ucciso due ufficiali israeliani

Le decisioni prese lunedì dal capo di stato maggiore dell’IDF [Israeli Defence Force, le forze armate israeliane, ndt] Aviv Kochavi erano assolutamente necessarie. Sono arrivate in seguito alla morte, dopo essere stato arrestato dai soldati del battaglione Netzah Yehuda, di Omar Abdalmajeed As’ad, un anziano palestinese. I risultati delle successive indagini – da parte dei media e dell’esercito israeliano – su quanto accaduto tra As’ad e i membri del battaglione ultraortodosso richiedevano una risposta adeguata.

Kochavi ha descritto il comportamento dei soldati come “insensibile” e ha ordinato che i comandanti del battaglione fossero rimproverati. Ha anche rimosso dai loro incarichi altri due giovani ufficiali che si trovavano sul posto. Un’indagine parallela della polizia militare è ancora in corso.

Tuttavia, si può ritenere che, data la gravità dell’incidente, il capo di stato maggiore avrebbe potuto permettersi di fare qualche passo in più. Innanzitutto la rimozione dei comandanti del plotone e della compagnia contiene una strana clausola: saranno esclusi dai ruoli di comando per due anni. E poi? Se, nel frattempo, non saranno coinvolti nella morte di altri anziani, agli occhi dell’IDF saranno nuovamente idonei al comando?

E in secondo luogo, l’esercito si è astenuto dall’utilizzare la discussione sul caso per mettere in discussione l’esistenza stessa del battaglione Netzah Yehuda, anche se le sue prestazioni nel corso degli anni sono state mediocri e costellate di gravi violazioni dell’etica militare.

I risultati dell’indagine del Comando Centrale confermano quanto già riportato da Haaretz: una delle compagnie del battaglione ha allestito un posto di blocco a sorpresa nel cuore della notte fuori dal villaggio di Jiljilya, a nord di Ramallah, e ha fermato i conducenti palestinesi per perquisire i loro veicoli. As’ad, che era già agitato, quando è stato fermato si è messo a discutere con i soldati. I soldati poi lo hanno sopraffatto con la forza, lo hanno ammanettato e, per un po’ di tempo lo hanno trattenuto e gli hanno coperto la bocca.

È stato messo a terra, al freddo gelido, accanto ad altri fermati. Poco tempo dopo, quando gli altri conducenti palestinesi sono stati rilasciati, As’ad non ha risposto ed è rimasto prono a terra. I soldati, che in seguito hanno sostenuto di pensare che stesse dormendo, anche se hanno consentito agli altri di andarsene, lo hanno lasciato lì. Dopo la partenza dei soldati, gli abitanti del posto hanno chiamato un medico palestinese, che ha scoperto che As’ad era morto per un infarto.

Questa è un’orribile catena di eventi che dimostra, come alti ufficiali hanno dichiarato in seguito all’evento, che questi soldati non vedevano As’ad come un essere umano. Hanno ignorato il fatto che un uomo, che avrebbe potuto essere il loro nonno, non rappresentava una minaccia, lo hanno trattato con eccessiva rudezza e poi lo hanno lasciato morire, nonostante fosse evidente che c’era un problema.

Martedì mattina, il Magg. Gen. Yehuda Fuchs, a capo del comando centrale, ha descritto la condotta dei comandanti e dei soldati sulla scena come “ottusa” e ha affermato che hanno mostrato “scarsa capacità di giudizio”. È dubbio che queste affermazioni siano adeguate alla situazione.

La versione dei fatti dei soldati – di non aver picchiato As’ad e di non aver notato il deterioramento delle sue condizioni – non sembra convincente. L’ottusità non finisce a livello di compagnia o di plotone.

Noia e “burnout”

Poiché si tratta di mantenere l’occupazione, il battaglione Nahal Haredi, come si suole definire Netzah Yehuda, si trova in fondo alla piramide. Il battaglione trascorre nove o dieci mesi all’anno in Cisgiordania e riceve un addestramento minimo; altri battaglioni di fanteria trascorrono circa la metà del loro tempo in addestramento. L’esercito evita persino di spostarlo da un’area operativa della Cisgiordania all’altra. Il risultato per le truppe è la noia e il burnout che gli ufficiali cercano di mitigare con missioni di loro iniziativa. Così è nato un posto di blocco a sorpresa nel bel mezzo di un villaggio.

Un’operazione come questa può avere senso quando l’esercito è alla ricerca di una cellula terroristica dopo un attacco a fuoco. È molto meno necessario quando tutte le persone fermate in tale operazione hanno, secondo testimoni palestinesi, più di 50 anni.

Il tentativo di variare un po’ le missioni delle truppe ha creato un altro problema: ai soldati è stato detto di agire “clandestinamente”. Per farlo, hanno dovuto far tacere As’ad. Lo hanno fatto mettendogli una striscia di tessuto sulla bocca (l’IDF dice che è stata rimossa o è caduta dopo poco tempo).

Come già riportato da Haaretz, questo non è un incidente particolarmente insolito per il battaglione. Il suo mix di giovani che hanno abbandonato le istituzioni educative Haredi [degli Haredim, ebrei ultra ortodossi, ndt] e giovani coloni della cima delle colline [gruppo di coloni particolarmente violenti, ndtr.] ha creato un clima ideologico estremista tra i soldati, che né i vertici dell’esercito né gli ufficiali del battaglione hanno fatto molto per affrontare. Ciò si è trasformato in incidenti frequenti come picchiare i palestinesi, che in alcuni casi hanno portato a incriminazioni.

Il flusso costante di incidenti ha dato origine a raccomandazioni, sia all’interno che all’esterno dell’IDF, di sciogliere il battaglione o almeno spostarlo fuori dalla Cisgiordania in un’altra area operativa. Negli ultimi anni l’IDF ha sciolto o ridotto le sue unità su base etnica, come i battaglioni beduini e drusi. Ma sembra che il ministero della Difesa e il capo di stato maggiore temano entrambi che qualsiasi cambiamento riguardante Netzah Yehuda avrebbe un prezzo politico.

Lo scioglimento del battaglione, soprattutto dopo che una commissione interna dell’IDF ha scoperto che l’esercito per anni ha visto aumentare il numero di reclute ultra-ortodosse, potrebbe far notizia alla Knesset e nel governo. D’altra parte, i gruppi di destra potrebbero vederlo come una vessazione nei confronti dei soldati per motivi ideologici.

Ma c’è un’altra considerazione sullo sfondo che l’esercito è restio ad ammettere: Netzah Yehuda è una unità molto numerosa e i suoi soldati sono altamente motivati ​​a prestare servizio in Cisgiordania. La sua presenza lì libera battaglioni di qualità superiore per l’addestramento bellico. Questa è una risorsa a cui l’IDF è restio a rinunciare, nonostante tutti i segnali di pericolo.

Sulla vicenda le indagini della polizia militare non sono ancora terminate. Se il procuratore militare decidesse di processare alcune delle persone coinvolte, possiamo aspettarci che ne deriverebbe una tempesta politica. Questo è l’effetto a lungo termine del processo contro Elor Azaria [il soldato che a Hebron nel 2016 sparò in testa a un palestinese ferito a terra uccidendolo, ndt.]: ogni atto d’accusa che coinvolge la condotta dei soldati nei confronti dei palestinesi rischia di provocare uno tsunami da parte della destra indipendentemente dalla gravità delle accuse.

Ma un giorno, se Canale 12 News [televisione privata israeliana, ndt.] invitasse in studio la madre di uno dei soldati accusati per l’affare As’ad, ricordiamoci le circostanze del caso. Secondo gli stessi risultati dell’indagine dell’esercito, quei soldati hanno lasciato un uomo di 80 anni a morire al freddo con la risibile scusa che pensavano stesse dormendo.

Risposte sproporzionate

Questa non è l’unica indagine rilevante arrivata questa settimana sulla scrivania del capo di stato maggiore. Kochavi è nel mezzo di una settimana impegnativa durante la quale ha tenuto una serie di incontri sull’incidente avvenuto alla base di Nabi Musa, dove due ufficiali dell’unità Egoz sono stati uccisi accidentalmente da un collega. Un comitato di esperti guidato dal Magg. Gen. (della riserva) Noam Tibon sta indagando sull’incidente, così come la stessa Egoz, che è un reparto speciale assegnato al Comando Centrale.

Come è stato riportato dopo l’incidente, il caso di fuoco amico ha messo in luce una serie di gravi carenze. Ad esempio, l’unità ha lasciato la base senza coordinarsi e senza ricetrasmittenti. Non ha operato seguendo la procedura prescritta e l’intera esercitazione di addestramento è stata particolarmente disordinata. Si scopre inoltre, come verificato da articoli di Haaretz, che nelle settimane precedenti l’incidente c’erano stati diversi furiosi inseguimenti di persone sospettate di aver rubato attrezzature in quei campi di addestramento.

Alcuni degli informatori degli articoli non sono d’accordo sulle quali questioni siano più rilevanti: gli errori commessi all’interno dell’unità Egoz o i fallimenti più ampi riscontrati in altre unità di fanteria che indicano una cultura organizzativa problematica. C’era anche la questione di quanto i cambiamenti nei regolamenti dell’esercito su quando aprire fuoco – e la confusione riguardo alle misure da adottare – abbiano contribuito all’incidente mortale. Due maggiori – Ofek Aharon e Itamar Elharar – sono rimasti uccisi nell’incidente.

È probabile che seguiranno altre polemiche su quali modifiche dovrebbero essere apportate a livello di comando in risposta a tali eventi. Al momento sembra che il comandante di Egoz, il tenente colonnello A., rischi di essere rimosso dal suo incarico. A., che è stato descritto come un eccellente ufficiale, ha avuto una menzione per il coraggio mostrato sotto il fuoco a Gaza. La prossima estate avrebbe dovuto essere promosso colonnello e nominato comandante di un battaglione della riserva. A causa degli errori rivelati dai risultati delle indagini molto probabilmente sarà punito.

Ma, come nel caso dell’indagine su Netzah Yehuda, sembra che ci siano implicazioni più profonde nell’affare Egoz che vanno oltre l’unità stessa. Si può anche trovare un comune denominatore tra i due episodi: N., il comandante della squadra di Egoz che ha sparato i colpi, si è messo alla ricerca di ladri d’armi nel deserto della Giudea con la pallottola in canna, come se stesse preparandosi a tendere imboscate a terroristi nel Libano meridionale. I soldati di Netzah Yehuda hanno trattato l’anziano As’ad come se fosse un pericoloso terrorista. È probabile che il “segreto” che era stato loro ordinato di mantenere nell’ambito dell’operazione abbia contribuito alla sua morte.

In entrambi gli incidenti, i soldati e i loro comandanti diretti hanno agito in modo sproporzionato, adottando misure eccessive rispetto alle missioni di scarsa rilevanza loro assegnate. Ciò ha portato, direttamente o indirettamente, alla perdita assolutamente inutile di vite umane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La polemica razzista di Israel Harel contro i beduini rivela la profondità dell’apartheid

Rawia Aburabia, Oren Yiftachel 

18 gennaio 2022, Haaretz

A volte, un solo commento spontaneo rivela improvvisamente la vera natura di qualcosa. Questo è quello che è successo con l’arrogante editoriale di Israel Harel “Con la legge sull’elettricità Israele sta riconoscendo le conquiste beduine” (Haaretz, 12 gennaio), e lo stesso con un editoriale successivo pubblicato su Haaretz in ebraico venerdì scorso.

In questi editoriali ha affermato che la nuova legge promulgata per fornire elettricità ad alcune case costruite illegalmente avrebbe “strappato” allo Stato ampie zone del Negev centrale a favore di un simil-Stato di crimine, droga e illegalità che ha definito nientemeno che “Beduiland”.

Perché Harel è tanto arrabbiato? Per il collegamento alla rete elettrica di case di cittadini israeliani? Vorremmo ribattergli che la sua rabbia rivela una preoccupante realtà alla radice dell’apartheid che va ben oltre la legge sull’elettricità.

L’intollerabile facilità con cui un articolo del genere è stato pubblicato, senza nemmeno una minima modifica per correggere i fatti (dov’erano i redattori di Haaretz?), quando il suo unico scopo era quello di sollevare astio contro uno dei segmenti più deboli della società israeliana – un gruppo ben lontano dal ricevere giustizia – solleva seri interrogativi sulla cecità e la negazione che affliggono gran parte della società israeliana. Questa cecità è ciò che permette di pubblicare un articolo che incita contro un’intera comunità il cui unico crimine è di esistere in un Paese che rifiuta di riconoscerla.

Quell’articolo isterico e istigatorio è simile alla ingannevole propaganda di gruppi estremisti di destra come Regavim e Im Tirtzu. Ha rivelato la profondità dell’ignoranza di Harel che aderisce all’antica tradizione colonialista di incolpare le vittime. Inoltre, il fatto che questo articolo sia stato pubblicato su un giornale stimato mostra come la cecità storica nei confronti della questione beduina in particolare e dell’apartheid israeliano in generale sia penetrata in profondità nella coscienza pubblica e debba essere continuamente confutata.

Cominciamo a correggere i fatti. In primo luogo, le terre in cui vivono i beduini comprendono il 3% del Negev. Inoltre, si trovano nell’angolo a nord-est, ben lontano dal “cuore del Negev centrale”, come sostiene Harel.

In secondo luogo, contrariamente al suo grido di disperazione, si prevede che la legge sull’elettricità avrà un impatto trascurabile sul Negev, poiché è probabile che solo poche centinaia di case saranno riconosciute come parte di futuri piani generali. Al contrario, più di 100.000 cittadini israeliani chiedono riconoscimento e servizi di base.

Terzo, anche se tutti fossero collegati alla rete elettrica – un diritto fondamentale che non dovrebbe dipendere dalla generosità dello Stato – perché questo “strapperebbe” l’area a Israele? Dopotutto, i beduini sono cittadini, no?

Qui si insinua un dubbio. Harel, giornalista veterano, ha verificato i fatti prima di avvelenare il discorso?

Ma ripensandoci, forse è meglio che Harel non controlli e parli invece d’istinto. Le sue generalizzazioni autenticamente razziste rivelano un problema più profondo: l’apartheid in tutte le aree sotto il controllo di Israele, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Vale la pena rileggere i suoi articoli per comprendere le profonde ragioni sotterranee delle forze che governano il Paese da decenni.

Solo in un regime di apartheid un colono come Harel, che vive nella colonia di Ofra in Cisgiordania su terra palestinese rubata, può accusare una comunità indigena che vive nelle sue terre da centinaia di anni di “occupazione”. Solo in un regime di apartheid Harel, ex presidente del Consiglio delle colonie Yesha, ha potuto ignorare la vera occupazione, sotto i cui auspici furono costruite quelle colonie illegali solo per ebrei in Cisgiordania. In altre parole, il suo stesso status di occupante lo squalifica.

Ovviamente, Harel non è solo. Si è semplicemente unito alla orrida marea di discorsi incendiari e razzisti contro i beduini, provenienti da ampie fasce della società ebraica. Un esempio palmare dell’incolpare la vittima, comportamento molto amato dai regimi coloniali.

Se sono stati commessi crimini nel sud vanno condannati, ma è importante non dimenticare i fatti. I beduini vivono nel Negev da centinaia di anni. E come hanno dimostrato tutti gli studi su questo argomento, ne possedevano gran parte fino a quando non furono espropriati dallo Stato di Israele. Sono anche la comunità più trascurata, impoverita e derelitta oggi in Israele.

Pertanto, è fondamentale ricordare che i beduini non si sono impadroniti di questa terra; erano nel Negev molto prima che iniziasse l’insediamento ebraico. Vorremmo anche cogliere l’occasione per ricordare ad Harel che le sue ridicole accuse non possono cancellare il fatto che lui è un colono illegale, parte della macchina di occupazione che commette quotidianamente crimini di guerra.

Come dobbiamo procedere? Le dichiarazioni al vetriolo di Harel rivelano il regime di apartheid che vige tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il passo ovvio e necessario adesso è che tutti i veri sostenitori della democrazia, nel Negev e in Israele, si uniscano alla battaglia contro questo regime razzista. Che inizia con la condanna degli articoli di Harel e di altri commenti simili. E continua con la lotta per l’uguaglianza sia individuale che collettiva di tutti gli abitanti di questa terra.

Prof. Oren Yiftachel insegna geografia politica e giuridica alla Università Ben-Gurion. La dottoressa Rawia Aburabia è membro della Facoltà di Giurisprudenza del Sapir College. Entrambi vivono nel Negev. Le loro opinioni non riflettono necessariamente quelle delle loro istituzioni.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il Jewish National Fund sospende la messa a dimora di alberi nel Negev israeliano dopo giorni di scontri con i beduini

Michael Hauser Tov, Josh Breiner, Deiaa Haj Yahia, Jack Khoury, Anshel Pfeffer

12 gennaio 2022 – Haaretz

Il partito Islamico minaccia di boicottare per protesta le votazioni nella Knesset mentre il Jewish National Fund pianta alberi su terreni agricoli dei contadini beduini locali. Sulle fasi future del progetto di forestazione si negozierà

Mercoledì il governo israeliano ha detto che in futuro i lavori del Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.]  nel Negev verranno negoziati dagli alleati della coalizione per tentare di allentare le tensioni dopo giorni di violenti scontri a causa dei lavori di forestazione su terre coltivate dai beduini locali.

La messa a dimora di alberi del JNF iniziata lunedì è finita come previsto mercoledì.

Meir Cohen, ministro laburista che guida la politica governativa nei villaggi beduini non riconosciuti del Negev, ha detto che la prossima fase dei lavori del JNF inizierà giovedì. La data per la continuazione del progetto deve ancora essere fissata.

Il piano di forestazione del JNF è particolarmente significativo per la Lista Araba Unita, partito di cui i beduini costituiscono una parte consistente del bacino elettorale. Uno dei suoi parlamentari ha minacciato di boicottare il voto sul progetto nella Knesset.

Anche prima della formazione dell’attuale governo i beduini della zona avevano detto che i lavori riguardano zone da loro coltivate e avevano richiesto l’interruzione del piano.

Almeno 10 persone sono state arrestate mercoledì durante scontri con la polizia, che ha rafforzato la propria presenza nei pressi del villaggio non riconosciuto di Sawa, il giorno dopo che più di una decina di dimostranti vi erano stati arrestati e due agenti erano stati feriti. Sul posto la polizia di frontiera si è unita alla polizia, alle forze speciali di polizia e a altre unità che e sono state schierate anche in un villaggio vicino.

Hussein Irfaiya, leader della comunità, ha detto ad Haaretz che durante la piantumazione la polizia ha impedito l’accesso alla zona ad abitanti, attivisti e loro sostenitori. Le scaramucce sono continuate mentre le persone che si trovavano sul posto hanno lanciato pietre contro i le forze dell’ordine che hanno risposto con granate stordenti.

Il JNF progetta di piantare a foresta 5.000 dunam (500 ettari) di terreni lungo il corso dell’Anim che sfocia nel Be’er Sheva. La prima fase del progetto include la preparazione e la piantumazione di 300 dunam (30 ettari) che i contadini beduini avevano seminato a grano appena un mese fa.

Leader politici e attivisti hanno condanno il piano poiché minaccia la sopravvivenza delle famiglie dei beduini del posto.

Crisi nella coalizione

Mentre avvenivano i disordini nel Negev, Walid Taha, membro della Knesset appartenente al partito della Lista Araba Unita [coalizione arabo-israeliana di orientamento islamista, ndtr.], ha detto a radio Alshams che lasciare la coalizione, cosa che comporterebbe la caduta del governo, “è sempre un’opzione, ma il problema è in che modo avvantaggerebbe il nostro pubblico, viste le alternative.”

La Lista Araba Unita fa parte della coalizione governativa e sebbene Taha ammetta che quanti nella coalizione e nel gabinetto vorrebbero sostituire il partito islamico e vederlo all’opposizione al momento non hanno alternative.

Mazen Ghanayim, suo collega di partito, ha dichiarato in un post su Facebook che si opporrà al governo fino a quando non cesserà tutti i lavori agricoli nel Negev. “Non esiste che gli diamo un governo e che loro non ci lascino vivere con dignità sulle nostre terre,” ha scritto riferendosi al cruciale sostegno che la Lista Araba Unita dà alla coalizione. “Il Negev è la mia casa. Il Negev è la mia famiglia. Il Negev è la linea rossa,” ha aggiunto. 

Itamar Ben-Gvir, parlamentare del partito kahanista [cioè razzista, ndtr.] religioso sionista, mercoledì mattina ha twittato che si stava recando sul posto. Anche se è un anno shmita, o anno sabbatico, in cui è proibito lavorare la terra, Ben-Gvir ha scritto di aver ottenuto da un importante rabbino favorevole ai coloni il permesso di piantare alberi per “salvare il sud.”

“Insieme faremo fiorire il deserto,” ha aggiunto, citando la famosa frase di David Ben-Gurion sul Negev. 

Chi si trovava sul posto ha riferito che quando Ben-Gvir è arrivato è stato mandato via dal sito della forestazione dalle autorità. Ha piantato un solo albero lontano da Sawa e dalle proteste e ha lasciato la zona. 

Il ministro laburista Cohen è intervenuto per allentare le tensioni e ha fatto notare che “a parte il diritto fondamentale dello Stato di piantare sui suoi terreni, è importante farlo responsabilmente e dobbiamo rivalutare il caso della forestazione.”   

“Imploro tutti i politici di tutti i partiti di agire responsabilmente, di non attizzare il fuoco della discordia e di non ostacolare il processo di riconoscimento dei villaggi non riconosciuti,” ha detto.

Martedì il ministro degli esteri Yair Lapid ha chiesto l’interruzione dei lavori. “Come il governo di Netanyahu ha interrotto i lavori di forestazione nel 2020, anche noi possiamo fermarli e ripensarci,” ha twittato Lapid martedì. 

Rabbia contro lo Stato

Salameh al-Atrash, la cui famiglia abita nella zona, ha detto ad Haaretz: “Cosa vi aspettate da un giovane a cui distruggono la casa lasciandolo senza un tetto sulla testa: che stia lì a guardare? Siamo vissuti qui per oltre 100 anni, perché ci dovrebbero cacciare?” 

Ha aggiunto che la dimostrazione di forza da parte dello Stato sta alimentando l’odio contro le autorità da parte dei giovani della zona. Muhammad Abu Sabit, dello stesso villaggio, è d’accordo e aggiunge che secondo lui lo Stato non vuole piantare alberi nel Negev, lo definisce piuttosto un tentativo di “pulizia etnica”.

“Noi viviamo in pace con le famiglie ebree e abbiamo un sacco di amici qui, ma sono lo Stato e il governo con le loro politiche a dividerci,” dice Abu Sabit. “In tutto il Negev ci sono migliaia di dunam disabitati e loro si concentrano solo sulle nostre case, su poche centinaia di metri [di terra].”

Talib Al-Atawna, un altro abitante, ha riferito che la polizia si è comportata violentemente con loro e che pallottole di gomma sono entrate nelle loro case. Per come la vede lui non ci sono membri arabi nella Knesset: “Noi non voteremo per nessun partito arabo e soprattutto non per Mansour Abbas’ ([leader della] Lista Araba Unita).”

Durante le proteste di lunedì 18 ragazzi fra i 13 e i 15 anni sono stati arrestati con l’accusa di aver lanciato pietre contro le forze dell’ordine e due ufficiali sono stati feriti lievemente dalle pietre lanciate dai manifestanti.

Nel frattempo un gruppo di circa 20 manifestanti ha assalito Nati Yefet, un reporter di Haaretz che stava seguendo gli eventi. Uno degli aggressori gli ha rubato e incendiato la macchina mentre gli altri lo picchiavano. È riuscito a fuggire ed è stato salvato dalla polizia. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza [interno israeliano, ndtr.] sta indagando sul caso così come sulle pietre trovate sulle rotaie del treno nella zona.   

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele blocca pezzi di ricambio indispensabili per gli impianti idrici e fognari di Gaza

Amira Hass

9 gennaio 2022 – Haaretz

Pezzi che impiegavano meno di un mese per entrare a Gaza ora impiegano fino a cinque mesi, con la conseguenza di guasti, rilascio di acque reflue in mare e peggioramento della qualità dell’acqua potabile

Israele sta bloccando l’accesso di centinaia di pezzi di ricambio indispensabili per il corretto funzionamento degli impianti idrici e fognari di Gaza. Di conseguenza, le acque reflue parzialmente trattate vengono rilasciate in mare, le perdite d’acqua dalle tubature sono perfino peggio del solito, il deflusso dell’acqua piovana determina un pericolo di inondazioni. Anche la qualità e la quantità dell’acqua potabile, depurata in appositi impianti, ne risente e gli stessi problemi continuano a riproporsi perché le riparazioni vengono effettuate con materiali di fortuna.

Funzionari palestinesi della Gaza Water Utility [la Coastal Municipalities Gaza Water Utility è il servizio responsabile dell’approvvigionamento idrico e del trattamento delle acque reflue nella Striscia di Gaza, i cui impianti sono stati severamente e ripetutamente danneggiati nel corso dei reiterati bombardamenti israeliani, ndtr.] affermano che dalla fine della guerra di maggio ci sono stati inspiegabili ed estesi ritardi e reticenze nell’acquisizione dei permessi per l’accesso dei vari articoli necessari. Un funzionario della sicurezza israeliano respinge le contestazioni sui ritardi.

Maher an-Najar, vicedirettore generale della Coastal Municipalities (Gaza) Water Utility, afferma che prima della guerra fornitori e appaltatori aspettavano da una settimana a un mese per ottenere un permesso israeliano per l’accesso degli articoli necessari con urgenza alla regolare manutenzione o a riparazioni, mentre ora il tempo di attesa va da due a cinque mesi o più. Circa 500 impianti idrici e fognari a Gaza hanno attualmente una grave carenza di valvole, filtri, pompe, tubi, apparecchiature elettromeccaniche, cavi elettrici, parti di ricambio per veicoli di servizio e parti per computer e sistemi di informatizzazione utilizzati per la supervisione delle ispezioni, la raccolta dei dati e il funzionamento.

“I nuovi progetti che abbiamo realizzato, come gli impianti di desalinizzazione, un impianto di trattamento delle acque reflue, serbatoi d’acqua e molti dei pozzi, sono tutti gestiti per mezzo di un sofisticato sistema computerizzato”, afferma An-Najar. “Che richiede per il funzionamento una fornitura continua e regolare di pezzi di ricambio elettronici.” Dice anche che sono state presentate prima della guerra di maggio delle richieste di parti di ricambio per i sistemi informatici, compreso un server necessario per la sede principale. Da allora tali richieste non hanno ancora ricevuto risposta.

Una delle strutture interessate è la stazione di pompaggio delle acque reflue a Khan Yunis [città palestinese con annesso campo profughi nel sud della Striscia di Gaza, ndtr.]. L’usura delle apparecchiature ha portato a ripetuti allagamenti. Vi sono state installate due nuove pompe, ma l’autorizzazione per un serbatoio di compensazione (che neutralizza la pressione dell’acqua nel sistema) e le relative valvole, richiesta prima della guerra, si è fatta attendere a lungo. I tubi hanno iniziato ad esplodere, quindi sono state reinstallate le vecchie pompe per evitare che quelle nuove venissero danneggiate dai frequenti malfunzionamenti. Due mesi fa è finalmente arrivato il vaso di espansione, ma senza le valvole, quindi deve ancora essere installato. “Non potendo abbassare la pressione ogni giorno esplode un altro tubo alla stazione di pompaggio e noi ci arrangiamo con una riparazione sommaria”, afferma An-Najar.

Il nuovo impianto di trattamento delle acque reflue di Khan Yunis, collegato alla suddetta stazione di pompaggio, è privo di un centinaio di pezzi di ricambio per apparecchiature elettromeccaniche e valvole. Durante la guerra gli operai hanno dovuto abbandonare lo stabilimento a causa dei bombardamenti, e quindi non è stato possibile effettuare la regolare manutenzione.

Nell’impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, l’elemento più importante che manca, ancora in attesa dell’approvazione israeliana, è il pannello di controllo dell’ala centrale (necessario per dissalare 3.400 dei 6.000 metri cubi di acqua al giorno). Pertanto viene dissalata meno acqua e l’azienda idrica deve attingere acqua da pozzi che sono stati dismessi a causa dell’elevata salinità dell’acqua contenuta.

Oltre ai ritardi inspiegabili degli ultimi mesi, un divieto israeliano relativamente recente, dell’inizio del 2021, sta impedendo anche il corretto funzionamento dei sistemi idrici e fognari di Gaza; Israele non consente l’ingresso di tubi di acciaio di diametro superiore a 1,5 pollici [3,81 cm., ndtr.], mentre gli impianti di desalinizzazione e trattamento delle acque reflue richiedono tubi con un diametro compreso tra 2 e 10 pollici [da 5,8 a 25,4 cm.,ndtr.]. Pertanto, gli operatori dei servizi idrici di Gaza non sono in grado di riparare adeguatamente le tubazioni esistenti, alcune delle quali sono state danneggiate dai bombardamenti di maggio. Di conseguenza, aumentano le perdite di acqua potabile e fognaria. An-Najar afferma che durante l’attuale stagione delle piogge la principale preoccupazione è costituita dalle inondazioni nei quartieri residenziali e nelle case a causa della riduzione del drenaggio.

Funzionari dell’Amministrazione di coordinamento e collegamento, che fa parte del Coordinamento del ministero della difesa per le attività governative nei territori (COGAT) [unità del Ministero della Difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, l’esercito israeliano, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.], dicono ai coordinatori e agli ingegneri dei servizi idrici di utilizzare tubi di plastica, ma an-Najar dice che nei punti di uscita dalle stazioni di pompaggio le tubature devono essere di metallo, a causa della pressione dell’acqua. “I nostri ingegneri non avrebbero chiesto un tubo di metallo se fosse stato possibile installare un tubo di plastica”, afferma.

Anche gli impianti di depurazione e dissalazione dell’acqua potabile risentono della carenza di pezzi di ricambio. Non c’è nessuna alternativa a questi impianti perché le acque di falda di Gaza sono insufficienti per la sua popolazione in crescita. L’eccessivo pompaggio durato decenni ha causato crescenti infiltrazioni di acqua di mare nella falda acquifera. I 300 pozzi di Gaza producono ogni anno 85 milioni di metri cubi d’acqua, che richiedono dissalazione e purificazione.

Israele ha rifiutato e rifiuta tuttora di collegare Gaza alle infrastrutture idriche del Paese, pur avendo il controllo anche delle fonti d’acqua della Cisgiordania, deviandone la maggior parte in favore della popolazione israeliana. L’Autorità Nazionale Palestinese, Hamas e i paesi che finanziano l’ANP non insistono perché Israele incrementi la quantità di acqua venduta a Gaza, facendo invece affidamento su un maggiore sviluppo degli impianti di desalinizzazione.

Oggi, dopo oltre vent’anni dal momento in cui per la prima volta si è discusso della desalinizzazione dell’acqua di mare a Gaza, 8 milioni di metri cubi all’anno provengono dagli impianti di desalinizzazione costruiti in loco. La consapevolezza a livello internazionale che la crisi idrica in corso richieda anche un approvvigionamento da parte di Israele ha portato a un aumento della quantità di acqua venduta dalla compagnia idrica Mekorot a Gaza, da 5-8 milioni di metri cubi al momento del disimpegno del 2005 [il piano di disimpegno unilaterale israeliano fu adottato nel mese di agosto 2005 per rimuovere tutti gli abitanti israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale, ndtr.] a soli 15 milioni di metri cubi oggi.

In tutto a Gaza solo il 20 per cento dell’acqua non richiede dissalazione e purificazione. Quando gli impianti di depurazione e dissalazione funzionano solo a capacità ridotta sia la quantità che la qualità dell’acqua potabile disponibile diminuiscono significativamente, con tutte le conseguenti implicazioni per la salute pubblica. Circa 100 impianti sono gestiti dai comuni e dal servizio idrico, fornendo gratuitamente acqua potabile a 180.000 residenti, per lo più famiglie povere. Queste persone non possono permettersi di acquistare acqua imbottigliata importata o purificata in un impianto privato. Centinaia di altri impianti privati ​​vendono acqua purificata ai residenti locali.

L’impianto di trattamento delle acque reflue di Al-Bureij, nel centro di Gaza, che serve 800.000 persone, ha registrato recentemente dei progressi nell’ottenere l’approvazione israeliana per i pezzi di ricambio. La Germania ha investito per la sua costruzione 87 milioni di euro. Trenta paesi e organizzazioni internazionali hanno contribuito alla realizzazione del sistema idrico e fognario di Gaza, dice An-Najar, ma la maggior parte non ha dato somme così ingenti. “E a differenza dei rappresentanti del governo tedesco, non tutti possono continuare a chiedere al COGAT perché vengano bloccati i materiali necessari per il progetto che stanno finanziando”. E questa struttura è solo una delle 500, sottolinea an-Najar. In mancanza di pezzi di ricambio, l’impianto di Al-Bureij può trattare solo 35.000 metri cubi di acque reflue al giorno anziché 60.000. Il resto viene convogliato negli impianti più vecchi e le acque reflue parzialmente trattate sfociano in mare. “E’ dannoso per il nostro ambiente, per il nostro impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare e anche per l’ambiente degli israeliani, dal momento che Ashdod e Ashkelon sono molto vicini”, dice An-Najar.

Gli appaltatori e i fornitori che hanno ottenuto dal servizio idrico palestinese l’incarico per l’acquisto dei pezzi di ricambio e delle materie prime presentano le loro richieste di approvazione per l’importazione delle apparecchiature. A causa dei lunghi tempi di movimentazione e delle tariffe aggiuntive di stoccaggio nei porti, le offerte degli appaltatori sono superiori ai costi di base di circa il 30%, afferma An-Najar. Il denaro extra potrebbe essere investito nello sviluppo e nell’espansione della rete. I lavoratori e gli amministratori dell’azienda perdono inoltre molto tempo prezioso negli infiniti tentativi di scoprire dall’Amministrazione di coordinamento e collegamento israeliana cosa ne è stato delle domande presentate.

In risposta a un’indagine di Haaretz sui ritardi il COGAT ha detto che “negli ultimi mesi l’amministrazione ha lavorato per integrare sistemi tecnologici che abbreviano il percorso burocratico e migliorano il processo di importazione di beni nella Striscia di Gaza, compresi i materiali a duplice uso.Una fonte del servizio idrico palestinese spiega che questa affermazione si riferisce alla sostituzione del metodo di registrazione delle domande con un diverso sistema online. Nel nuovo sistema (denominato Yuval), l’articolo specifico deve essere inserito nel suo database; in caso contrario, il sistema non può elaborare la richiesta. Questa condizione non esisteva nel vecchio sistema. Quindi gli ingegneri e gli appaltatori ora devono cercare l’articolo più simile presente nel sistema israeliano. Per diversi mesi le richieste sono state inviate attraverso entrambi i sistemi, ma l’amministrazione israeliana ha recentemente preteso che le vecchie richieste fossero reimpostate secondo il sistema Yuval. Quindi, per quanto l’amministrazione di coordinamento israeliana dica che starebbe migliorando il sistema, finora il cambiamento ha solo complicato la procedura.

Nella indagine presentata al COGAT è allegato un elenco di 11 richieste di articoli mancanti riguardanti l’impianto di trattamento delle acque reflue di Al-Bureij finanziato dalla Germania. Una fonte della sicurezza ha dichiarato che per alcuni articoli non sarebbe stata presentata nessuna richiesta, per altri mancherebbero vari documenti mentre per altri ancora le richieste sarebbero già state approvate. Il funzionario palestinese afferma che a ciascuna richiesta nell’elenco è stato assegnato un numero mentre veniva digitata nel (vecchio o nuovo) sistema online e che l’elenco stesso è la prova che tutte le richieste sono state inviate. Inoltre, per maggior sicurezza il servizio invia anche ogni richiesta online via e-mail al responsabile dell’amministrazione di coordinamento israeliana. Aggiunge che nel caso di un’effettiva assenza di parte della documentazione ci si aspetterebbe che gli appaltatori e l’azienda idrica vengano informati direttamente e immediatamente anziché mesi dopo.

Gisha, un’organizzazione israeliana per i diritti umani che si occupa dell’impatto della politica israeliana su Gaza e si sforza di cambiarla, è convinta che i ritardi abbiano una motivazione politica. Israele sta facendo un uso inaccettabile del suo controllo sul movimento di merci in entrata e in uscita da Gaza come strumento per esercitare pressioni politiche, a spese degli abitanti di Gaza e senza assumersi la responsabilità dei gravi effetti che questo comportamento ha sulle loro condizioni di vita, sostiene. Gisha aggiunge che il ritardo nell’importazione di pezzi di ricambio per le infrastrutture idriche “è un comportamento crudele che va contro i doveri legali di Israele di sostenere una qualità di vita normale a Gaza, e questo comportamento deve cessare”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)