L’obbedienza è la massima forma di patriottismo

Amira Hass

1 maggio 2018, Haaretz

Migliaia di richieste di permessi di uscita da Gaza rimangono ad ammuffire negli uffici israeliani, poiché la norma è che la Striscia di Gaza sia un campo di prigionia a vita.

I testi sono scritti con inchiostro invisibile e al prezzo di uno ne ricevi due: credi che si tratti di una certa cosa e poi – guardando in trasparenza il giornale, l’articolo nascosto appare tra le righe: riguarda la “full immersion” di Israele negli ordini militari.

Il reportage in chiaro racconta la storia di una farmacista laureata che lavora in ospedale dal 2000. Ha 41 anni e quattro figli. Dal 2015 ha studiato per l’esame in farmacologia clinica dell’Associazione Farmacisti Americani. Questo certificato ufficiale le consentirà di impegnarsi molto di più nel fornire il corretto trattamento ai pazienti, e di essere in grado di suggerire soluzioni alternative in caso di mancanza di medicinali. L’esame si terrà mercoledì a Ramat Gan [città nella periferia di Tel Aviv, ndtr.]. Lo scorso ottobre per cause di forza maggiore non ha potuto sostenere l’esame.

Avete indovinato: la farmacista è palestinese e proprio di Gaza: Samaher Amira. La causa di forza maggiore è il soldato impiegato nell’ufficio di Coordinamento Distrettuale israeliano al posto di controllo di Erez. Non hanno neppure risposto alla sua prima richiesta di un permesso di uscita per andare in Israele a sostenere l’esame. È un fenomeno ben noto: migliaia di richieste di permessi di uscita rimangono ad ammuffire negli uffici israeliani.

Amira non si è arresa. Ha inoltrato la sua seconda richiesta il 12 febbraio di quest’anno, per l’esame di mercoledì. Quando il soldato impiegato non ha risposto nemmeno a questa richiesta, il 22 aprile la Ong Gisha ha scritto al comandante del DCO [Ufficio di Coordinamento Distrettuale, che in base agli accordi di Oslo coordina i rapporti tra Israele e l’Autorità nazionale Palestinese per alcune questioni comuni, ndtr.], colonnello Iyad Sarhan. La lettera di Gisha fa presente che ogni iscrizione all’esame di farmacologia costa 700 dollari e non è rimborsabile. Questa volta in realtà una risposta è arrivata, due giorni dopo, firmata dal primo luogotenente Roni Vaknin, un funzionario delle indagini pubbliche del DCO. “Gli organi competenti hanno deciso di respingere la richiesta in quanto non corrisponde ai criteri”, così ha risposto.

La stessa risposta è stata inoltrata da un soldato impiegato del DCO ad un’altra donna, di Gerusalemme, la sessantacinquenne Sa’ada Hasuna, che è malata di tumore e desidera incontrare la sua anziana madre e le sue sorelle a Gaza. “La richiesta non è approvata alla luce del fatto che non corrisponde ai criteri per l’ingresso di israeliani nella Striscia di Gaza. E questo in base al fatto che la richiesta non soddisfa nessuno dei criteri stabiliti.” Questa risposta tautologica non è firmata; solo una enorme bandiera israeliana campeggia sotto il verdetto, inviato per email.

Il testo nascosto ci dice qualcosa riguardo a chi scrive le risposte e ai decisori politici: tua figlia, tuo figlio o magari proprio tu o i tuoi genitori. Roni Vaknin è un sottoposto di Iyad Sarhan. A sua volta Sarhan è consulente legale del DCO a Gaza, avvocato Nadav Glass. Ma sopra di essi spunta il general maggiore Yoav Mordechai, il coordinatore delle attività nei territori dell’esercito israeliano. Israeliani in carne ed ossa. Il testo nascosto ci parla del tipo di caffè e di musica che gli piace, sulla conversazione telefonica molto preoccupata per un’anziana madre, del libro che leggono prima di andare a dormire.

L’articolo in codice parla della loro gioia nell’obbedire ai dieci comandamenti – pardon, al “Documento di Autorizzazione”. È un documento militare che riporta in dettaglio chi sono le eccezioni a cui è permesso di uscire o entrare a Gaza. Perché la regola è che la Striscia di Gaza è un campo di prigionia a vita. Quindi la forza dominante ci mette otto mesi di tempo per rispondere che non vi è un criterio che consenta alla farmacista di uscire per un importantissimo esame. Quindi vieta ad una donna malata di visitare la sua famiglia. L’obbedienza è la più alta forma di patriottismo.

Tornando al testo in chiaro: la Corte distrettuale di Be’er Sheva ha preso in considerazione il caso di Amira due giorni fa. I rappresentanti del governo, gli avvocati Zohar Barel e Orit Kartz, hanno difeso la posizione del DCO che afferma che dover sostenere un esame non soddisfa i criteri. Il giudice Yael Raz-Levi ha ingiunto a Gisha di fornire documentazione a sostegno dell’ affermazione riguardo all’importanza dell’esame per la farmacista, a cui verrà consentito di presentare una terza richiesta per un permesso di uscita ad ottobre. E mercoledì l’Alta Corte di giustizia vaglierà la questione se ad una donna malata si possa consentire di ricevere l’ultimo saluto dalla sua famiglia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Le truppe israeliane hanno sparato prima alla gamba sinistra di un giornalista di Gaza, poi alla destra. E non si sono fermate qui.

Gideon Levy e Alex Levac

27 aprile 2018, Haaretz

L’amputazione della gamba sinistra di Yousef Kronz, 19enne fotografo di Gaza, avrebbe potuto essere evitata se Israele gli avesse permesso di ricevere cure mediche tempestive in Cisgiordania.

La sua gamba sinistra è stata amputata nell’ospedale di Shifa nella Striscia di Gaza, e ora sono in corso gli sforzi, nell’Istituto Ospedaliero Arabo Istishari in Cisgiordania, per assicurarsi che la sua gamba destra non subisca lo stesso destino. Più di due settimane sono passate tra l’amputazione della prima gamba – che anch’essa avrebbe potuto essere evitata – e gli sforzi intrapresi per salvare l’altra. Tempo prezioso in cui Israele ha rifiutato a Yousef Kronz, il primo Palestinese gravemente ferito durante le recenti proteste settimanali nella Striscia di Gaza, il permesso di essere trasferito nell’ospedale alla periferia di Ramallah. L’Alta Corte di Giustizia alla fine ha costretto il Ministero della Difesa a porre fine a questa vergognosa condotta e consentire il trasferimento dello studente e giornalista 19enne del campo profughi di Bureij, in quella struttura più attrezzata.

Venerdì 30 marzo, Kronz è stato colpito da un cecchino delle forze di difesa israeliane, prima alla gamba sinistra e poi, pochi secondi dopo, quando ha cercato di alzarsi, alla gamba destra, da un secondo cecchino. Secondo Kronz, i proiettili che gli hanno colpito le gambe e gli hanno frantumato la vita provenivano da due diverse direzioni. In altre parole, è stato colpito da due diversi tiratori, mentre si trovava a 750 metri dal reticolato che segna il confine di Gaza, armato solamente della sua macchina fotografica, con indosso un gilet con su scritto “Stampa”, cercando di documentare il fuoco incessante dei cecchini israeliani contro i manifestanti palestinesi disarmati. Dopo essere stato colpito, ci dice ora, ha visto sempre più persone cadere sulla sabbia, sanguinando, “come uccelli”. L’incidente è avvenuto nella Giornata della Terra, il primo giorno delle Marce del Ritorno di fronte al confine di Gaza.

L’ospedale Istishari è situato in alto nel villaggio di Surda, a nord di Ramallah. È una grande, nuova, sofisticata struttura privata, lussuosa e scintillante. Kronz ha una stanza privata, spaziosa e ben illuminata, con un letto regolabile, un televisore, pareti con pannelli in legno ed una vista mozzafiato. Israele non ha permesso a nessuno della sua famiglia di accompagnare Kronz in Cisgiordania o di badare a lui, eccetto a suo nonno, Mohammed Kronz, che ha 85 anni, e che, dopo pochi giorni, è stato costretto ad andare a casa di parenti nel lontano campo profughi di Aroub, vicino a Betlemme, per riposarsi. Ora Yousef, che soffre di forti dolori al moncone e alla sua gamba rimanente, viene assistito con devozione infinita da un cugino, Ghassan Karnaz, anch’egli di Aroub. The two cou sins had never met before.I due cugini non si erano mai incontrati prima. Come tutti i giovani di Gaza, Kronz non era mai stato fuori dalla Striscia. Ora ha violato l’assedio di Gaza – senza una gamba.

Studente di comunicazione del primo anno all’Università Al-Azhar di Gaza, è di una famiglia originaria di Faluja, nel Negev. Suo padre riceve uno stipendio dall’Autorità Palestinese come funzionario della polizia di Gaza. Kronz era attivo nei social network, dove scriveva sulla situazione nella Striscia. Qualche mese fa, ha acquistato una macchina fotografica Canon 5D per 5.000 dollari, metà dai suoi risparmi e il resto da suo padre, e ha iniziato a lavorare per l’agenzia di stampa locale Bureij.

Kronz è stato il primo giornalista ferito durante il mese delle manifestazioni, anche se non l’ultimo. Conosceva Yaser Murtaja, un giornalista ucciso a sangue freddo da cecchini israeliani il 6 aprile. Come Kronz, anche Murtaja proveniva da un campo profughi di Gaza – Jabalya.

Il 30 marzo, Kronz ha camminato per circa un chilometro e mezzo da casa sua al luogo delle dimostrazioni per fotografarle per la sua agenzia di stampa. Ha recitato le preghiere del mezzogiorno nella tenda dei giornalisti allestita lì. I 25 reporter locali hanno quindi discusso di come avrebbero coperto lo svolgersi delle proteste che stavano documentando. L’atmosfera era tesa, ricorda ora; tutti si aspettavano un numero elevato di vittime.

Pensava che le forze di difesa israeliane avrebbero usato munizioni vere? “Le forze di difesa israeliane usano sempre le munizioni vere.” La sua faccia è contorta dal dolore, ma Kronz è ben curato, nonostante le sue condizioni. Guarda costantemente lo specchio o la telecamera nel suo cellulare, per essere sicuro che il suo taglio di capelli alla moda sia a posto. Dopo le preghiere, continua, la gente inizia a incendiare i pneumatici. Cartelli predisposti dagli organizzatori indicavano la direzione per i servizi igienici e per le varie tende e anche la distanza dal recinto di confine in ogni punto. Così Kronz sapeva di essere a 750 metri dalla barriera. Il giorno prima, le forze di difesa israeliane avevano lanciato dei volantini nella vicina Jabalya, avvertendo che chiunque si fosse avvicinato a più di 300 metri dalla recinzione avrebbe rischiato la vita. Dopo anni di esperienza, gli abitanti di Gaza prendono sul serio questi avvertimenti. Gli organizzatori hanno contrassegnato una zona consentita e una zona rossa proibita e pericolosa. Karnaz dice che era a centinaia di metri fuori dal confine della zona rossa.

Alle 2 del pomeriggio, la situazione si è surriscaldata. Le truppe dell’esercito israeliano hanno iniziato a lanciare granate lacrimogene mentre alcuni giovani si avvicinavano a 100 metri dalla recinzione. Hanno usato fionde per lanciare sassi contro i soldati, ma erano troppo lontani per colpirli. Kronz dice di aver visto alcune dozzine di soldati di fronte a lui dall’altra parte della barriera; tre jeep e la canna di un carro armato stavano sbirciando da dietro un terrapieno. Anche lui ha trovato un piccolo cumulo di terra e si è appollaiato dietro di esso, posizionando il treppiede con la sua fotocamera su di un lato e il suo zaino sull’altro. Si è inginocchiato sulla sabbia, le gambe incrociate davanti a lui. La nuvola di gas lacrimogeni si è fatta più intensa, i soldati hanno iniziato a sparare le granate a raffica e il cielo si è riempito di gas denso e irritante. Il vento portava il gas nella sua direzione; i manifestanti usavano le cipolle per proteggersi.

Kronz ha scattato circa 950 foto.

Ricorda di aver guardato il suo orologio alle 15:00. Più tardi quel pomeriggio, un amico, Bilal Azara, si sarebbe sposato a Bureij; quindi pensò che avrebbe dovuto andare a casa, farsi una doccia e cambiarsi. Kronz prese la sua macchina fotografica e lo zaino e si alzò in piedi. In quel preciso istante, il primo proiettile lo colpì. Non sentì nulla tranne un dolore bruciante. La fotocamera cadde dalle sue mani e lui collassò a terra, quindi cercò immediatamente di alzarsi. In quel momento il secondo proiettile squarciò l’altra gamba. Il primo è entrato cinque centimetri sotto il ginocchio, il secondo a sette centimetri sopra l’altro ginocchio. Paralizzato, cercò di gridare aiuto ma la sua voce lo tradì. Dice di essersi sentito sentirsi come fulminato. La sua macchina fotografica è stata abbandonata nelle sabbie di Gaza.

A pochi metri c’era un giovane della stessa età, Ahmed al-Bahar, un assistente di uno degli altri fotografi. Bahar corse da Kronz e cercò di sollevarlo, ma proprio in quel momento anche lui fu colpito a una gamba e cadde a terra sanguinando.

A questo punto della nostra conversazione, lontani parenti dell’11enne Abed al-Rahman Nufal, che ha perso anche lui una gamba a Gaza ed è ricoverato qui all’Istishari, entrano nella stanza per salutare. Nufal è uno degli unici tre altri abitanti di Gaza feriti che Israele ha permesso di trasportare qui, su 1.500 feriti nelle manifestazioni fino ad oggi. La famiglia, ex abitanti di Gaza che ora vivono in Cisgiordania, è venuta per vedere come sta il ragazzo.

Alcuni giovani hanno trasportato Kronz e Bahar all’unica ambulanza della zona. In breve tempo il veicolo era pieno zeppo di sei feriti distesi l’uno accanto all’altro; Kronz era il ferito più grave. I soldati continuavano a lanciare gas lacrimogeni; Kronz si sentiva come se stesse soffocando nell’ambulanza. Un paramedico gli ha messo una maschera di ossigeno sul viso, ma l’affollamento all’interno gli ha impedito di fermare l’emorragia dalle gambe di Kronz. Semi-incosciente, Kronz è stato portato all’ospedale Al-Aqsa a Dir al-Balah.

All’ospedale ha visto la sua gamba sinistra per la prima volta; era frantumata, l’osso sporgente, la carne lacerata. Alla sua vista è svenuto. È stato anestetizzato e trasferito immediatamente in un ospedale più grande, l’ospedale Shifa di Gaza City, a causa della gravità delle ferite. A Shifa ha subito un intervento chirurgico di sei ore per fermare l’emorragia.

Dopo quattro giorni a Shifa la condizione della gamba sinistra di Kronz si è deteriorata e i medici sono stati costretti ad amputarla sopra il ginocchio. Ha ricevuto 24 trasfusioni di sangue. La richiesta di trasferirlo a Ramallah per il trattamento è stata presentata a Israele poche ore dopo che era stato ferito, ma è stata respinta dalle autorità. Anche la situazione della gamba destra sembrava disperata.

Nove giorni dopo la ferita di Kronz, l’8 aprile, due gruppi per i diritti umani – Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele e il Centro al-Mezan per i Diritti Umani di Gaza – hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana per consentire a Kronz e a un altro abitante di Gaza ferito, Mohammed Alajuri, di essere trasferiti urgentemente a Ramallah per le cure. A quanto pare il tribunale non ha visto alcuna reale urgenza nel trattare il caso e ha aspettato quattro giorni prima di deliberare sulla petizione, per la quale i giudici avevano richiesto una risposta dallo stato entro quattro giorni.

“Le amputazioni delle membra di entrambi i giovani avrebbero potuto essere evitate se lo stato avesse adempiuto ai propri obblighi secondo il diritto umanitario internazionale”, ha detto Sawsan Zahar, un avvocato di Adalah, ai giudici.

Gli avvocati dello stato, da parte loro, hanno detto alla corte che “Apparentemente, la condizione dei firmatari sembra soddisfare il criterio medico per il rilascio di un permesso [per il trasferimento a Ramallah], ma i funzionari responsabili hanno deciso di non accettare le loro richieste. La motivazione principale del rifiuto deriva dal fatto che la loro condizione sanitaria è il risultato della loro partecipazione alle manifestazioni”.

Il 16 aprile, i giudici Uri Shoham, George Karra e Yael Willner hanno dichiarato di non essere persuasi che il governo avesse pienamente valutato se le circostanze nel caso di Kronz giustificassero una deviazione dalla procedura normale. “Non c’è discussione sul fatto che le cure mediche di cui il firmatario ha bisogno per impedire l’amputazione della sua gamba non siano disponibili nella Striscia di Gaza”, hanno scritto. “Pertanto, il firmatario è incluso tra i casi in cui l’ingresso in Israele deve essere consentito ai fini del passaggio a Ramallah.”

I giudici si sono inoltre degnati di dichiarare che Kronz non rappresenta un rischio per la sicurezza di Israele. Quello stesso giorno fu trasferito all’ospedale Istishari. (Per quanto riguarda Alajuri, prima che la corte arrivasse a emettere una sentenza sul suo caso, i medici a Gaza non hanno avuto altra scelta che amputargli la gamba. Lui rimane a Gaza.)

Yousef Kronz sta attraversando un periodo difficile, adattandosi con difficoltà al suo stato di amputato. Quattro giorni dopo essere stato portato all’ospedale di Ramallah ha subito un intervento chirurgico alla gamba destra, le cui condizioni sembrano essersi stabilizzate. Ora, tuttavia, deve affrontare una lunga riabilitazione, che durerà almeno quattro mesi, in un ospedale di Beit Jala, vicino a Betlemme.

Prima di congedarci, ci chiede se pensiamo che sarà mai in grado di camminare su una gamba sola.

Traduzione di Maurizio Bellotto

su AssopacePalestina

 




Rompendo un tabù politico, alcuni coloni israeliani si schierano con i beduini nella lotta contro le demolizioni

Yotam Berger

26 aprile 2018,  Haaretz

Decenni fa i fondatori di Kfar Adumim dichiararono che il vicino accampamento beduino di Khan al-Ahmar avrebbe dovuto essere demolito, ma ora 15 coloni cercano di unirsi alla battaglia legale a favore dei loro impoveriti vicini.

Già nel documento del 1979 che proponeva la costruzione di Kfar Adumim alcuni dei fondatori della colonia in Cisgiordania individuarono un problema nell’area circostante. “Lo spazio è privo di ogni insediamento permanente, e in particolare di insediamenti ebraici,” afferma il documento.

E prosegue: “Oggi vi si trovano due comunità precarie. Molti beduini lavorano la terra. Dato che la zona è utilizzata dall’esercito e molte delle attività economiche dei dintorni servono al sistema di difesa, l’area deve cessare di essere abitata dai beduini, i quali devono essere evacuati.”

Il documento suggeriva di popolare la zona con colonie attraverso le quali sarebbe stato possibile creare un “corridoio ebraico dalla costa, attraverso Gerusalemme, fino al fiume Giordano. Tale corridoio taglierebbe la continuità territoriale dell’insediamento arabo tra la Giudea e la Samaria [la Cisgiordania, ndt.].”

Il documento è firmato dai membri del cosiddetto consiglio locale di Ma’ale Adumim Bet, che più tardi è diventata Kfar Adumim, a est di Gerusalemme sulla strada principale che porta al Mar Morto (Ma’ale Adumim attualmente è la più grande colonia urbana). Tra i firmatari c’era un abitante di Kfar Adumim che in seguito l’ha resa importante nella politica nazionale: il ministro dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale Uri Ariel, di “Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndt.]

Sono passati 39 anni da quando è stato stilato il documento, ma la lotta per eliminare i beduini dalla zona circostante è ancora in corso. La terra della limitrofa area industriale di Mishor Adumim è piena di piccoli accampamenti e villaggi beduini, i cui abitanti si guadagnano stentatamente da vivere allevando pecore e facendo lavoretti, e sono tra le comunità più povere della Cisgiordania.

La maggior parte della zona occupata dai beduini è terra dello Stato, non di proprietà privata – e la maggioranza delle tende e delle baracche di latta in cui vivono non ha permessi di costruzione o l’approvazione del piano regolatore. Perciò, il governo ha tentato di spostarli in costruzioni permanenti lontane dalle colonie ebraiche.

Mercoledì l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] deciderà ancora una volta su una serie di ricorsi relativi all’ultima fase della lotta contro l’evacuazione di comunità beduine non autorizzate nei pressi di Khan al-Ahmar. Si tratta della più grande di queste comunità, con decine di strutture. È diventata un simbolo soprattutto per la sua cosiddetta “scuola di gomme”, costruita nel 2009 con l’aiuto di una ONG italiana. La scuola è una grande struttura ben costruita, piuttosto strana nel paesaggio circostante, ed è stata edificata senza permesso: per qualche tempo lo Stato ha cercato di demolirla e di spostarla.

La “scuola di gomme” è diventata un simbolo non solo per i beduini del posto, ma anche tra i diplomatici stranieri, soprattutto europei, che la visitano regolarmente come parte di una più generale protesta contro l’espulsione dei beduini.

Una delle parti che hanno presentato una petizione all’Alta Corte perché ordini l’ evacuazione si trova nei pressi di Kfar Adumim, la qual cosa ha reso l’incontro dello scorso venerdì di quattro residenti di questa cittadina con gli abitanti di Khan al-Ahmar nient’affatto scontato. I quattro fanno parte di un gruppo di 15 abitanti di Kfar Adumim che recentemente hanno presentato una petizione all’Alta Corte, chiedendo di consentire loro di diventare parte in causa del processo – ma a favore dei beduini. L’Alta Corte mercoledì prenderà in considerazione anche la loro richiesta.

Il gruppo è guidato dal prof. Dan Turner, un medico residente da 20 anni a Kfar Adumim. Turner ha detto ad Haaretz di aver sempre creduto che Kfar Adumim “abbia fatto ogni sorta di offese ai beduini, ma non ho mai saputo i dettagli.” Poi ha sentito del tentativo di demolire la scuola e, poco dopo, dell’intenzione di distruggere tutto Khan al-Ahmar.

Mi sono sentito molto a disagio. Non conoscevo le persone che vivevano qui, persone completamente invisibili che vivono a 300 metri da casa mia,” dice Turner.

Ora sembra che per Turner le cose siano cambiate, e, dopo esserci andato la prima volta un anno fa, ora si sente a casa a Khan al-Ahmar. Alcuni degli abitanti oggi lo riconoscono. Turner abbraccia Eid Hamis Jahalan, uno dei capi della comunità, anche se qualcun altro sembra meno a proprio agio nel farlo. Ma dopo che viene servito il tè sotto al grande albero nei pressi della tenda di Eid, l’atmosfera pare più rilassata.

Seduti sotto quell’albero si può vedere la colonia di Kfar Adumim, le sue case di pietra e i tetti di tegole. Anche se sono poche centinaia di metri, le differenze nel modo e nella qualità di vita tra i coloni e i loro vicini beduini sono quasi inimmaginabili. Quando Noa Meridor, uno dei fondatori di Kfar Adumim, dichiara: “Ci siamo opposti all’idea secondo cui tutto questo spazio debba essere ebraico” – Jahalan ascolta parole che non sono mai state pronunciate dai rappresentanti dei coloni.

Tensione ancora palpabile

Anche durante il recente, inusuale incontro la tensione è palpabile. Gli abitanti di Kfar Adumim sentono che è importante sottolineare che non si ritengono di sinistra. Quando Jahalan afferma che la situazione dei beduini in Cisgiordania ricorda quella degli ebrei nella Germania nazista, i suoi quattro ospiti ebrei rifiutano il paragone. Eppure riescono a rompere una specie di muro di vetro tra i due gruppi che vivono vicini e praticamente non avevano avuto alcun contatto.

Da parte sua Jahalan dice di non essere mai stato criticato per la sua collaborazione con i coloni. Sostiene di essere stato persino elogiato per essere riuscito in quello che organizzazioni affiliate all’Autorità Nazionale Palestinese non sono mai state in grado di fare: portare persone delle comunità vicine ad appoggiare i beduini: “È la prima volta che succede qualcosa del genere. Quelli di sinistra (israeliani) si possono vedere in posti come Nabi Saleh, a Na’alin (villaggi palestinesi della Cisgiordania). Ma coloni che vengano ed appoggino i beduini – è la prima volta.”

Il gruppo di Kfar Adumim che desidera appoggiare i vicini beduini all’Alta Corte è piccolo e marginale, e farvi parte ha delle conseguenze sui rapporti sociali. Hefziba Kelner, un’insegnante, dice che non ne parla con i suoi amici: “È un argomento molto delicato e mi pare che non sai mai chi è con te e chi non lo è. E’ difficile. Devi adeguare le tue risposte, anche ora, e capire che ci sono altre opinioni. Ci penso due volte prima di dire qualcosa in pubblico.”

L’appoggio di un ex-giudice

Il gruppo di Kfar Adumim ha allegato una lettera molto inusuale alla sua richiesta perché gli venga concesso di essere parte in causa a favore dei beduini. È stata scritta da un ex-vicepresidente della Corte Suprema, Elyakim Rubinstein. Con quella che è un’iniziativa molto rara per un giudice appena pensionato, Rubinstein esprime il proprio sostegno alla richiesta del gruppo.

Rubinstein scrive che, poiché durante gli anni ha avuto a che fare con molti casi relativi alla zona, avrebbe difficoltà a prendere parte personalmente a una campagna pubblica sull’argomento, ma “vi (ai coloni) sto scrivendo in segno di rispetto per la vostra umanità, espressa nelle vostre attuali iniziative.”

L’ex giudice scrive che, benché il governo voglia soltanto discutere su come portare avanti i progetti di evacuazione dei beduini, spera ancora che con l’aiuto di Dio e un po’ di buon senso si possa ancora trovare un compromesso condiviso.

Insieme alla lettera di Rubinstein, gli abitanti di Kfar Adumim hanno presentato all’Alta Corte il parere di una serie di famosi vincitori del premio “Israel” [una delle maggiori onorificenze israeliane, ndt.] e di intellettuali israeliani, tra cui gli scrittori David Grossman, A. B. Yehoshua e Amos Oz. Questo appoggio sta aiutando la causa dei beduini e del loro gruppo di avvocati. Shlomo Lecker, l’avvocato che rappresenta la comunità di Khan al-Ahmar, ha detto ad Haaretz che già nel 2009 aveva cercato di coinvolgere intellettuali ed accademici di Kfar Adumim perché stessero dalla parte dei beduini contro il tentativo di demolire la loro scuola – e “sono stato accolto da uno sconfortante silenzio.” Ha aggiunto di essere rimasto sorpreso dal gruppo dei 15 che si sono uniti alla lotta, e spera che il suo impegno ottenga un risultato.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




40 morti, 5.511 feriti: l’ONU pubblica i dati sulle vittime palestinesi delle manifestazioni di massa a Gaza nei pressi del confine con Israele

Jack Khoury

25 aprile 2018, Haaretz

Hamas afferma che le dimostrazioni continueranno persino dopo il 15 maggio il giorno della Nakba.

Martedì l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha pubblicato un rapporto secondo cui fin dal 30 marzo quaranta palestinesi sono stati uccisi e 5.511 feriti nella dimostrazioni di massa lungo la barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Da allora le manifestazioni sono avvenute ogni venerdì.

Le informazioni sulle vittime sono suddivise per data, tipologia della ferita, sesso ed età, nonché in base a dove la persona è stata curata.

2.596 feriti sono stati ricoverati in ospedali pubblici, 773 in quelli privati e i rimanenti sono stati curati sul posto. Di quelli portati in ospedali pubblici , 1.499 sono stati colpiti da pallottole vere, 107 da pallottole rivestite di gomma, 408 hanno sofferto per avere inalato gas lacrimogeni e 582 hanno subito altri tipi di ferite; 2.142 sono adulti e 454 minori.

Il rapporto afferma che “il settore della sanità a Gaza sta lottando per far fronte al grande flusso di feriti, dovuto ad anni di blocco, a divisioni interne e a una cronica crisi dell’energia che che a malapena consente di far funzionare i servizi essenziali.

Le informazioni si basano su dati provenienti dal ministero palestinese della Sanità di Gaza e l’OCHA afferma che essi sono solamente una fotografia preliminare e che si attendono ulteriori informazioni.

Mercoledì il ministero palestinese della sanità di Gaza ha annunciato la morte di Ahmed Abu Hassin, un fotoreporter colpito due settimane fa durante le proteste.

Le manifestazioni continueranno anche dopo il 15 maggio, giorno che i palestinesi ricordano come la Nakba (la Catastrofe), la nascita di Israele, ha detto mercoledì Ismail Haniyeh, capo dell’ ufficio politico di Hamas. “Il popolo palestinese manifesterà durante tutto il Ramadan per affrontare le molte sfide che si trovano di fronte a noi, prima fra tutte il piano di pace promosso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, chiamato ‘l’Accordo del Secolo’” ha detto Haniyeh.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Come se Israele non avesse fatto niente di cui vergognarsi prima dell’avvento degli smartphone

Amira Hass

16 aprile 2018, Haaretz

I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, ricordate o credete.

La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi. La vergogna è necessaria, è triste che così poche persone la provino. Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti. In rari casi filtrano attraverso il muro dell’insabbiamento e della menzogna innalzato dall’esercito israeliano e attraverso la corazza del “sono comunque tutti terroristi” che gli israeliani indossano volontariamente.

Dalla vergogna a lungo rimandata possiamo intuire che ci sono israeliani che credono che i soldati dell’esercito abbiano iniziato solo poche settimane fa a sterminare palestinesi disarmati. Cioè credono che solo da quando sono comparsi gli smartphone, con la loro possibilità di smascherare pubblicamente in tutta la loro nuda vergogna i soldati e i loro superiori, i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai loro soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. In altre parole, che fino a poco tempo fa, finché non sono arrivati gli smartphone, la purezza delle armi venisse scrupolosamente rispettata e non ci fosse spazio per la vergogna. E quindi che sia così anche oggi, in tutti i casi in cui soldati e poliziotti uccidono e feriscono palestinesi quando non ci sono telefonini a riprenderli. Gli israeliani che si vergognano credono che l’esercito menta solo quando c’è una prova fotografica della bugia. In sua assenza l’esercito israeliano e la polizia dicono la verità, i palestinesi e un pugno di persone di sinistra sono quelli che mentono.

La vergogna è demoralizzante per un’altra ragione: ci ricorda della debolezza della parola scritta quando non si basa sulla versione degli avvenimenti del regime, ma piuttosto sulla testimonianza delle vittime del regime. Prima che ci fossero cellulari con videocamera e telecamere di sicurezza ad ogni angolo, raccoglievamo le testimonianze di decine di testimoni oculari. Incrociavamo le loro versioni, verificavamo, esaminavamo, facevamo domande – spesso eravamo sul posto quando avvenivano gli incidenti – e scrivevamo e pubblicavamo. Ma era sempre la nostra parola contro quella dell’essere assolutamente puro: l’ufficio del portavoce dell’esercito.

L’immagine che si voleva trasmettere dell’esercito e del governo era fabbricata sulle scrivanie delle redazioni e nelle strade di Tel Aviv e di Kfar Sava. Ogni giorno e in ogni operazione, il superpotere palestinese risorge per distruggerci e per attaccare la piccola Israele e i suoi teneri figli diciottenni che sono apparsi nel territorio della superpotenza. Non è così: i soldati israeliani che uccidono palestinesi disarmati non sono spuntati fuori per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete o non ricordate o non credete.

Alla vostra attenzione

Ma ditemi, voi che vi vergognate, e a ragione, non vi vergognate del fatto che Israele rubi l’acqua ai palestinesi e imponga loro limitate quote di consumo? Non vi vergognate del rifiuto di Israele di collegare migliaia di palestinesi della Cisgiordania e del Negev israeliano al servizio idrico?

E quando Israele espelle gli abitanti di Umm al-Hiran dalla loro baraccopoli del Negev, non morite di vergogna per lo Stato e per la bella comunità modello, basata su valori ebraici, che sarà costruita sulla terra degli espulsi? Non vi vergognate dello Stato che in tutti questi anni ha impedito il collegamento di Umm al-Hiran alla rete idrica ed elettrica, o dei giudici della Corte Suprema che hanno permesso le espulsioni? Non provate vergogna quando un pugno di israeliani scende dalle proprie colonie e dagli avamposti per attaccare ripetutamente i villaggi palestinesi dei dintorni? Non arrossite, né sbiancate, alla vista dei soldati che stanno a guardare e lasciano che essi aggrediscano, distruggano, sradichino e taglino? E quando la polizia non fa nessuna ricerca dei responsabili, persino quando sono stati filmati e il loro luogo di residenza è noto, non vi vergognate ancora di più? Non provate vergogna per il solo fatto di sapere che questo metodo di violenza dei coloni – incoraggiato dal silenzio delle autorità – è vecchio tanto quanto la stessa occupazione?

Il seguente fatto – 2,5% della terra dello Stato è destinata al 20% della popolazione (i cittadini palestinesi di Israele) – non fa sì che voi, per la vergogna, vogliate che la terra si apra e vi inghiotta?

E cosa ne dite dei pochi abitanti di Gaza a cui è permesso di viaggiare all’estero attraverso il ponte di Allenby [posto di confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, ndt.] che sono obbligati a promettere per iscritto di non tornare per un anno? E dei palestinesi della Cisgiordania a cui non è consentito incontrarsi con amici e parenti che vivono nella Striscia di Gaza? E del divieto di vendita dei prodotti di Gaza in Cisgiordania e di esportarli, tranne pochi camion che trasportano una ridotta quantità di beni? E cosa dite del fatto di tener imprigionate 2 milioni di persone dietro il filo spinato e il controllo militare e le torri da cui sparare? Secondo voi tutto questo non meriterebbe di essere incluso nell’elenco delle disgrazie collettive degli ebrei?

Israele non si è mai spaventato e non si spaventa ora ad uccidere civili palestinesi – individualmente, separatamente e in massa. Ma uccidere palestinesi non è un fine in sé. Al contrario i 70 anni di esistenza di Israele dimostrano che l’appropriazione della terra palestinese è un obiettivo supremo del nostro Stato, e che l’appropriazione si unisce alla riduzione del numero di palestinesi su quella terra.

Espellere palestinesi dalle loro case, dalla loro patria e dal loro Paese in tempo di guerra è un mezzo collaudato per ridurre il numero di una popolazione. Quando questo non è fattibile, concentrare i palestinesi in affollate riserve (su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra lo Stato di Israele e la Giordania prima dell’occupazione della Cisgiordania, ndt.]) è un altro metodo, di routine e continuo. Chiunque abbia trovato ciò difficile da credere prima del 1993 ha ottenuto la prova definitiva negli accordi di Oslo: sotto l’ombrello del processo di pace il principale obiettivo dei governi (laburisti e del Likud) e delle loro burocrazie è stato di dimostrare la giustezza delle accuse secondo cui nel profondo siamo davvero un’entità coloniale. Ciò vi fa sentire orgogliosi?

(traduzione di Amedeo Rossi)




In questi giorni essere un israeliano è un dramma

Nehemia Shtrasler

13 aprile 2018, Haaretz

Solo un cuore malvagio potrebbe non capire che chiunque dia un ordine di sparare proiettili letali su dimostranti disarmati sta dando un ordine palesemente illegale.

Va bene, ho capito. Non puoi dire: “Mi vergogno di essere israeliano.” Dopo aver detto questo, devi scusarti per evitare di essere licenziato [si riferisce al caso di un conduttore radiofonico che, dopo aver postato quella frase, ha dovuto chiedere scusa per non essere licenziato, ndtr.].

Se è così, posso dire di essere rimasta scioccata? Che non riuscivo a credere a ciò che sentivo? Che ho provato una fortissima nausea nel sentire il numero di persone uccise e ferite durante le dimostrazioni palestinesi vicino al confine tra Israele e Gaza?

E’ legittimo ordinare all’esercito di impedire ai dimostranti di entrare in Israele dalla Striscia di Gaza, ma deve essere fatto con mezzi non letali: idranti, gas lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma per colpire alle gambe i dimostranti. Ma non con proiettili veri e certamente non con proiettili veri con l’intenzione di uccidere.

Chiunque dia un ordine di sparare proiettili veri contro dimostranti disarmati che non stanno mettendo a rischio la vita dei soldati, sta dando un ordine palesemente illegale, su cui sventola una bandiera nera. Solo un cuore malvagio potrebbe non capirlo.

Questa settimana è stato pubblicato un video scioccante. Mostrava un cecchino che sparava ad un palestinese che non rappresentava affatto un pericolo. Il palestinese con la maglietta rosa si trovava ad una distanza notevole dalla barriera di confine, per cui non vi era ragione al mondo di sparargli.

Nel video lo si vede in piedi per un istante e poi cadere, colpito ad una gamba. E poi si sentono le voci di incitamento e di tripudio dalla nostra parte: “Wow, che video fantastico, figlio di puttana, sta scappando con la gamba sollevata, via di qui, figli di puttana.”

Il ragazzo in rosa non sapeva nemmeno di essere nel mirino del cecchino. Lo si vede aggirarsi senza paura. Non sapeva che Israele aveva dichiarato una “zona di guerra” da 80 a 100 metri all’interno del territorio sovrano di Gaza e che chiunque vi entri può essere ucciso.

Parlando di questo incidente, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto: “Il cecchino merita una medaglia…L’esercito israeliano è l’esercito più morale al mondo.” Una medaglia per cosa? Per possedere un fucile sofisticato con mirino telescopico ed aver sparato a gente inerme come a facili bersagli, mentre lui sta ben nascosto, senza correre alcun rischio? Per un’operazione come questa, l’esercito merita il riconoscimento di esercito più morale al mondo? Dovrebbero fare un remake di “1984” [libro di George Orwell in cui si immagina un futuro totalitario, ndtr.] in stile Lieberman.

I gazawi avevano diversi tipi di “armamenti”. Avevano delle fionde, come Davide contro Golia. Avevano dei pneumatici, che hanno bruciato. Ed avevano anche degli specchi, portati da casa, che hanno usato per tentare di accecare i cecchini, una tattica usata per la prima volta da Archimede contro i romani 2.000 anni fa. Con queste antiche armi sofisticate hanno lottato senza successo contro i cecchini, che hanno ucciso 32 di loro, compreso il fotografo Yaser Murtaja,, che indossava un giubbotto con scritto “stampa” a caratteri grandi. Hanno anche ferito circa 300 persone con proiettili veri, 20 delle quali in modo grave, e circa altre 1.000 con proiettili ricoperti di gomma e gas lacrimogeni.

Sono numeri che la mente non può accettare. Abbiamo evidentemente toccato il punto in cui la vita umana non vale un centesimo.

Ma non è del tutto vero. Dipende dalla persona.

Nel 2009 venne pubblicato il libro “La Torah del re”. Parlava di ciò che la legge dice riguardo all’uccidere non ebrei. Basandosi su “prove” tratte dal Talmud [uno dei testi sacri dell’ebraismo, secondo solo alla Bibbia, ndtr.], sosteneva che il divieto di omicidio della Torah [i primi 5 libri della Bibbia, base dell’insegnamento ebraico, ndtr.] si applica solo agli ebrei; uccidere i non ebrei è consentito.

All’epoca il libro sollevò una tempesta e provocò una forte opposizione, ma oggi a quanto pare verrebbe accettato con totale condivisione. Il fatto è che molti politici ed esperti non sono stati affatto turbati né dai proiettili veri sparati sui dimostranti né dall’alto numero di persone uccise e ferite.

Hanno detto che “i gazawi hanno mandato i loro figli a commettere atti terroristici, per cui è giusto che li abbiamo fermati.” Hanno detto: “Abbiamo lasciato Gaza, perciò non dobbiamo vergognarci di niente.” Hanno descritto i dimostranti come “un’invasione di terroristi il cui scopo era distruggere Israele”, aggiungendo: “Gloria all’esercito israeliano per aver fermato l’invasione senza vittime da parte nostra.”

E le vittime civili disarmate dall’altra parte? E’ tutto a posto. Vedi “La Torah del re.”

E’ un dramma essere un israeliano in questi giorni. Dramma accompagnato da un irrefrenabile disgusto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele usa la tecnologia per non dover fare i conti con quel che sta facendo ai palestinesi.

Ofri Ilany

4 aprile 2018, Haaretz

Nell’estate del 2017, i siti di notizie israeliani raccontavano di una nuova tecnologia sviluppata nei laboratori dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane): un software per combattere la sindrome da stress post-traumatico. Inizialmente si prevedeva un utilizzo del programma tra i soldati al fronte: li avrebbe allenati a identificare gli “elementi di minaccia” e avrebbe aumentato la loro resistenza allo stress post-traumatico. Lo sviluppo (di questo software, n.d.t.) venne pubblicizzato nel periodo in cui era stato reso noto che a 143 soldati che avevano combattuto a Gaza nel 2014 era stato ufficialmente diagnosticato il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS). La società israeliana, da allora, è andata avanti velocemente, lasciandosi alle spalle la sanguinosa incursione a Gaza per far fronte a innumerevoli altre questioni. Ma, per i soldati rientrati, l’orrore non è scomparso. Le urla di terrore, i corpi in pezzi e la sensazione di impotenza si ripresentano in flashback quando meno te l’aspetti. Gli ebrei israeliani erano quasi tutti convinti che la guerra a Gaza fosse giusta e necessaria, e le truppe fortemente motivate che hanno assaltato i quartieri di Gaza erano sostenute da dimostrazioni di incoraggiamento, canzoni confortanti di cantanti famosi ed esortazioni di rabbini militari e personalità televisive. Tuttavia, a quanto pare, mandare la Generazione Y a fare incursioni militari in zone densamente abitate lascia qualche segno sulle loro anime. E Israele, come affronta il problema? Inventa una nuova tecnologia, ovvio. “Formazione dell’attenzione”, questo è il nome che le ha dato il responsabile della divisione per la sanità mentale delle forze di terra, che spiega che tale metodo migliorerebbe le prestazioni e ridurrebbe il tasso di abbandono del servizio militare. E in futuro, a quanto si dice, ci sarà un sistema di cura del trauma attraverso la realtà virtuale, con magari anche il supporto del MDMA (anche conosciuta come ecstasy). Questi potrebbero essere sviluppi decisamente importanti, ma racchiudono anche il problema fondamentale di Israele: la convinzione che per ogni ostacolo ci sia una soluzione tecnologica. Nei suoi anni da Primo Ministro, Benjamin Netanyahu ha cercato di alzare il morale israeliano a livelli mai visti prima. Molti israeliani provano una costante sensazione di euforia, come se vivessero dentro un’utopia divenuta realtà. Il giornalista Israel Harel aveva ragione quando ha scritto, nell’editoriale della scorsa settimana, che Israele è in piena fioritura. La vecchia Israele, spaventata e in preda all’ansia, è diventata oggi una società sicura di sé che gode della prosperità del proprio Stato. Negli ultimi due anni, anche quella sorta di paranoia che un tempo era caratteristica degli israeliani è stata rimpiazzata da un nuovo tipo di mentalità: tutto è meraviglioso, siamo forti, siamo popolari, tutti ci amano e noi amiamo noi stessi. In realtà, Israele ha fatto in modo di superare molti dei problemi che la preoccupavano in passato con l’aiuto di soluzioni tecnologiche. I missili che minacciavano le aree di confine vengono oggi intercettati dall’Iron Dome. Le ondate di rifugiati africani sono state bloccate da un muro. La crisi idrica è stata contenuta da impianti di desalinizzazione. La minaccia demografica viene contrastata dai passi avanti nei trattamenti per l’infertilità. E il BDS viene combattuto dall’impegno di squadre addestrate di persone che rispondono e fanno propaganda sui social media. Perfino l’ “intifada dei coltelli” è stata neutralizzata da una qualche specie di algoritmo che permetteva di identificare il potenziale attentatore addirittura prima che lui sapesse di esserlo. Praticamente per ogni minaccia il Paese ha prodotto una soluzione tecnologica appropriata. È stata creata una toppa per ogni strappo nella sicurezza. Tutto ciò può essere considerato alquanto impressionante e ammirevole. Ma in realtà non è stato risolto alcun problema politico. I palestinesi sono ancora qui ed è chiaro che sono la maggioranza nell’area compresa tra il mare e il fiume Giordano. Quindi la situazione resta invariata solo grazie ai mezzi di brutale coercizione. Lo Stato ebraico ha sviluppato una eccezionale capacità di gestione delle masse umane su larga scala. Con l’aiuto di muri, checkpoint, alleanze, ormoni, software e altri sistemi sofisticati, gestisce la popolazione palestinese e quella ebraica in modo da limitare la pressione esercitata sul regime. Usando la tecnologia del “freno alla storia”, è stata in grado di rallentare processi storici che sembravano inevitabili. Ma, col passare del tempo, la tensione insita nel regime sionista relativamente a chi non gode dei diritti politici sta spingendo le autorità a impiegare misure sempre più disperate. La gaudente Israele anela a reprimere la propria consapevolezza dei palestinesi e smania per buttarli fuori dal sistema, altrimenti dovrà riconoscere che qui ci sono altri esseri umani con aspirazioni legittime. Queste non sono persone come te, ci dicono, loro sono “minacce”, mostri di videogame che devono essere eliminati per passare al prossimo livello. E continuano a spuntar fuori in ogni momento. A questo punto, abbiamo fatto ricorso alla manipolazione tecnologica su noi stessi per fare una specie di allenamento mentale, in modo che saremo in grado di affrontare questa sfida. Siamo arrivati, così, alla situazione in cui centinaia di cecchini sparano a manifestanti disarmati e li uccidono al ritmo di 10 al giorno, e nessuno si rifiuta di obbedire agli ordini. Durante la prima intifada, ma anche nella seconda, una cosa del genere avrebbe provocato shock e orrore. Ma ora non più. Ci siamo allenati, usando l’ideologia, la religione, gli algoritmi, la mindfulness, qualunque cosa, per raggiungere uno stato di consapevolezza che ci permette di superare l’istinto elementare della compassione che normalmente sorge spontaneo davanti alla sofferenza umana. Le migliaia di persone dall’altra parte della barricata vengono descritte con ogni tipo di etichetta. I politici e gli analisti le dipingono come ribelli, provocatori, terroristi, nemici, infiltrati, islamici, antisemiti, addirittura omofobi. Ma, come amano dire i commentatori televisivi, a scanso di equivoci queste cose, che hanno braccia e gambe e teste, si chiamano anche “esseri umani”. E il loro rifiuto di accettare una vita in cui sono intrappolati è esattamente ciò che li rende umani. Il loro principale crimine, quello per il quale vengono colpiti dai lacrimogeni, da pallottole di gomma e da colpi d’arma da fuoco, è aver osato apparire nel nostro campo visivo proprio quando stavamo per sederci a mangiare matza e haroset (pane azzimo e marmellata densa di frutta e noci, cibi tipici della pasqua ebraica, n.d.t.). Un anno fa, Israele ha cercato di oscurare quasi completamente il 50° anniversario dell’occupazione. Da allora, la sua arroganza è aumentata, e oggi programma le celebrazioni per il 70° anniversario della sua nascita, questo mese, come un’orgia onanistica. Autorizzati dalle dichiarazioni d’amore di Donald Trump, Netanyahu e il suo governo aspirano a incenerire una volta per tutte il progetto palestinese, con 70 ore di danze Hora. Ma a questo punto qualcuno dovrebbe andare a rovinargli la festa. Quindi, in un certo senso, le marce palestinesi sono motivo di speranza, perché costringono gli Israeliani a ricordarsi che vivono in questa terra insieme a un altro popolo, che ha le proprie aspirazioni. Con o senza l’appoggio di Trump, dovremo tenerne conto. O forse potremmo sviluppare nuove tecnologie di auto-inganno e cercare altri modi di curare la psiche dei cecchini che sparano ai civili lungo il confine. Funghi allucinogeni, magari.
(Traduzione: Elena Bellini)




Perché l’esercito israeliano ha confiscato i soldi della figlia di un palestinese cieca e in lutto?

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

L’esercito israeliano ha confiscato il denaro di Yasmin Eshtayyeh a un valico di frontiera, definendolo “denaro terrorista” – senza prove, interrogatori o processi. Lei non ha permesso che le avversità le impedissero di lottare per riaverlo.

Circa 5.000 shekel (1.425 dollari) mi hanno portato a Yasmin Eshtayyeh; più precisamente, una combinazione di 357 dollari, 500 shekel e 668 dinari giordani. Sono le valute e gli importi che le autorità israeliane al valico di confine con la Giordania hanno tolto, sequestrato e confiscato dalle borse di Eshtayyeh e di sua sorella Suhad nel 2013. Lo scorso 14 febbraio, un anonimo soldato dell’ufficio del difensore civico della direzione del Comando Centrale delle Forze di Difesa Israeliane ha stabilito che Eshtayyeh non ha il diritto di appello o obiezione. Fine della discussione.

E immediatamente, dietro un’esile storia di israeliani che confiscano denaro, è apparsa l’intera vita di una giovane donna di 31 anni cieca dalla nascita. La memoria le dice che si è accorta di essere diversa solo a 5 anni. I suoi genitori, e in particolare suo padre, Sael, l’hanno circondata e coccolata protettivamente. Sua madre, Muna, l’ha sempre lavata e vestita (ancor oggi sua madre le sceglie i vestiti).

Una volta, una cuginetta andò a trovarla e fecero il bagno insieme. All’improvviso la cugina scomparve. Dov’era? Era andata a vestirsi. E fu allora che Yasmin, 5 anni, capì che i bambini della sua età si vestivano da soli. Poi, o prima, notò anche che per strada gli altri bambini correvano, saltavano, andavano al supermercato da soli, mentre lei – qualcuno la teneva sempre per mano. Gli indizi erano sempre più numerosi. Il concetto di vista non le era ancora del tutto chiaro, ma lo era la sua differenza dagli altri.

La coscienza dell’esistenza di un’entità suprema che tutto governa ha preceduto la sua consapevolezza della cecità e del senso della vista. Almeno questo è quello che le dice la memoria. All’età di 4 anni o giù di lì – nel 1991 – la famiglia era seduta nel cortile di casa nel villaggio di Salem, a est di Nablus.

“All’improvviso qualcuno ha gridato: ‘Vieni qui, altrimenti sparo'”, racconta. Il “vieni qui” era in ebraico, il resto in arabo. Sapeva già cosa fosse sparare. A quanto pare aveva anche sentito la parola “esercito”. I colpi sull’asfalto che aveva sentito, lo sapeva, erano pietre lanciate dai bambini. Le parole non si erano ancora trasformate in un concetto completo. Quello fu il suo primo incontro cosciente con la voce di un soldato, rappresentante del dominio in terra.

“Pensavo che un soldato fosse un essere gigantesco”, ricorda. “Più grande delle persone normali. Non capivo come potesse comportarsi in questo modo, contro gli esseri umani.” Come per molti altri, “ebreo” e “soldato” divennero sinonimi nel suo lessico. Fu la più grande tragedia della sua vita, a 17 anni, a permetterle di distinguere tra i due.

Richiesta respinta”

Non dimenticherà mai il soldato di nome Uri. “Uno dei peggiori che ho visto nella mia vita”, dice. Usando proprio questa parola: “visto”. Nel dicembre 2013 partecipava con altre donne palestinesi ad un incontro ad Amman sul progresso dei diritti delle donne disabili in Medio Oriente. La ragazza che aveva scoperto solo a 5 anni che le bambine si vestono da sole era ora titolare di un master in inglese e in traduzione, e abile rappresentante delle donne disabili che vogliono integrarsi nella società e nel lavoro.

Eshtayyeh lavorava per l’organizzazione palestinese ‘Stars of Hope’, fondata per promuovere l’integrazione delle donne con disabilità, e ha rappresentato l’organizzazione ad una conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite in dicembre. Sua sorella si è unita a lei come accompagnatrice. Quando sono tornate, il 22 dicembre, le altre donne hanno attraversato il valico al-Karameh (“dignità” in arabo) (noto anche come il valico di Allenby) senza incidenti ma, con loro grande stupore, lei e sua sorella sono state trattenute.

Furono fermate al controllo dei passaporti, fu loro chiesto di rimuovere i copricapo e i cappotti e di togliersi le scarpe. Furono perquisite corporalmente e furono presi loro i soldi trovati nelle borse. Eshtayyeh racconta della stanza angusta in cui furono portate, dell’acqua potabile che non venne loro offerta e del bagno a cui non fu loro permesso di andare, e del soldato Uri, che non le lasciava muovere, e gli urlava contro. C’era anche un poliziotto israeliano che si presentò come Ahmed. “Mi disse: ‘Siamo preoccupati che qualcuno di Hamas possa usarti.’ Risposi che avevo studiato all’università, viaggiato all’estero e lavorato, e che non avevo mai permesso a nessuno di approfittarsi di me.”

Furono interrogate sulla provenienza del denaro. La risposta era facile: 500 shekel (attualmente $ 142) e altri 98 dinari ($ 138) provenivano dal suo stipendio alla Birzeit University, dove lavorava come consulente presso il Center for Development Studies. Era molto orgogliosa di potersi mantenere e aiutare la famiglia. Aveva ricevuto altri dollari da ‘Stars of Hope’ per coprire le spese del viaggio, e avrebbe dovuto restituire quanto rimasto. Il denaro preso a sua sorella veniva da alcune ragazze e donne della famiglia che volevano gli comprassero dei cosmetici nella capitale giordana. Ma le giornate alla conferenza erano state più lunghe e intense di quanto ci si aspettasse, avevano avuto poco tempo per fare compere e, soprattutto, avevano scoperto che Amman non era meno cara.

Nonostante le spiegazioni, prima che se ne andassero fu consegnata loro una notifica della polizia israeliana in cui si dichiarava che i loro soldi erano stati sequestrati “per via del sospetto trasferimento di fondi collegati a un’associazione illegale, e il comandante delle forze israeliane in Giudea e Samaria [ la Cisgiordania] intende confiscare il denaro sequestrato”. Verso le 01:30, di quel giorno di dicembre di quattro anni fa, dopo un ritardo di otto ore, fu loro permesso di lasciare il terminal vuoto. Pregarono che gli fossero lasciati un po’ di soldi per poter prendere un taxi per tornare a casa. Quelli che avevano preso i loro soldi rifiutarono. Allora aspettarono qualche ora in più che uno zio arrivasse in macchina nel mezzo della notte dall’area di Nablus per venirle a prendere.

Quello fu l’inizio di una saga burocratica e legale che continua fino ad oggi, che ha introdotto nella vita di Yasmin Eshtayyeh non solo soldati e agenti di polizia ma anche i giudici della Corte Suprema Elyakim Rubinstein (ora in pensione), Noam Sohlberg e Menachem Mazuz.

Due amici israeliani hanno scritto al consulente legale militare in Giudea e Samaria, chiedendo che i soldi fossero restituiti. La risposta del consulente legale è arrivata l’8 aprile 2014. Dichiarava che solo un giorno prima, cioè il 7 aprile, era stato emesso un ordine di confisca del denaro, “alla luce della presentazione di informazioni di intelligence affidabili e comprovate.” Senza prove, senza evidenze, senza spiegazioni né dettagli, senza ascoltare ciò che le donne avevano da dire. Non sono state arrestate, non sono state convocate per un interrogatorio sul reato che avrebbero presumibilmente commesso, non sono state processate.

Fino al 25 dicembre 2013, i palestinesi le cui proprietà fossero state confiscate per ordine del comandante militare potevano almeno ricorrere a un tribunale militare. Ma quel giorno il maggiore Gen. Nitzan Alon, all’epoca capo del Comando centrale e sovrano in Cisgiordania, firmò un ordine che privava i tribunali militari di tale autorità ed esonerava quindi i confiscatori dal dover fornire una parvenza di prova e trasparenza.

In una società in cui famiglie anche numerose dipendono da un solo stipendio, dove il salario minimo mensile è di 1.400 shekel ($ 405), e molte donne guadagnano anche meno di questo, 5.000 shekel ($ 1.425) sono una grande quantità di denaro. Le sorelle si sono rivolte a Yesh Din: Volunteers for Human Rights, un’organizzazione che opera in Israele e in Cisgiordania. Gli avvocati di Yesh Din Michael Sfard, Emily Schaeffer Omer-Man e Noa Amrami hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a loro nome. La petizione sosteneva che l’ordine di confisca era illegale, così come la negazione del diritto di ricorso. L’Alta Corte ha unito la loro petizione a due casi simili. I giudici non hanno nemmeno considerato i casi di confisca nelle petizioni e hanno stabilito che non vi fosse alcun impedimento legale nell’ordine del capo del Comando centrale che negava il diritto di appello. Allo stesso tempo, hanno suggerito che l’esercito rendesse possibile “un forum di opposizione o appello sulle decisioni di confisca”, per ridurre il numero di petizioni all’Alta Corte. Pensavano che i casi specifici che erano stati loro sottoposti avrebbero potuto essere risolti nel quadro di un simile “forum”.

L’esercito ha accettato la proposta, con una differenza sostanziale: è stata debitamente istituita una commissione composta da rappresentanti dell’ufficio dell’avvocato militare, del Corpo di intelligence e dell’Amministrazione civile, ma la sua autorità è stata limitata a discutere di “sequestro di oggetti”, una fase precedente alla confisca. Chiunque la cui proprietà fosse già stata dichiarata confiscata avrebbe dovuto dirle addio. Lo scorso maggio, i giudici hanno espresso soddisfazione, hanno dichiarato che la petizione aveva “raggiunto un obiettivo importante” e ordinato allo stato di pagare ai rappresentanti dei tre ricorrenti le spese legali di 10.000 shekel ($ 2.850).

Per Yasmin e Suhad Eshtayyeh questo era un risultato kafkiano. Grazie alla loro e ad altre petizioni, i giudici avevano suggerito che l’ordine fosse emendato ed è stata istituita una commissione militare per ascoltare le obiezioni, ma esse stesse non potevano comparire dinanzi alla commissione perché i loro soldi erano già stati dichiarati “confiscati”. Sfard e un altro avvocato di Yesh Din, Sophia Brodsky, hanno chiesto a un rappresentante del pubblico ministero, l’avvocato Roy Shweika, di trovare una via d’uscita. Questi ha rifiutato. Hanno chiesto un chiarimento al tribunale, che aveva erroneamente pensato che il verdetto avesse suggerito una soluzione anche per i ricorrenti. Lo scorso novembre, il giudice Sohlberg ha stabilito che, per quanto lo riguardava, le sorelle potevano presentare una nuova petizione. In altre parole, altre spese legali da pagare, e altro impegno. Più tempo e risorse mentali e materiali sprecate.

Gli avvocati quindi hanno scritto all’attuale capo del Comando Centrale, il generale maggiore Roni Numa, e al consigliere legale, tenente generale Eyal Toledano, nella speranza che forse avrebbero accettato di essere più flessibili, revocare l’ordine di confisca e consentire alle sorelle di presentare la loro obiezione alla commissione che era stata istituita grazie alla loro petizione. Ma il soldato anonimo dell’ufficio del difensore civico nell’ufficio del consulente legale, che ha risposto il mese scorso, si è attenuto ad una spiegazione che si morde la coda: le informazioni che hanno portato alla confisca (senza il diritto di appello) erano solide e affidabili, la commissione discute solo ricorsi sui sequestri prima della confisca. “Il caso del vostro cliente non è compatibile con l’autorità della commissione.” Richiesta negata.

L’Unità Portavoce dell’esercito israeliano, rispondendo a una richiesta di chiarificazioni, ha detto ad Haaretz: “Nel 2014, i soldi confiscati ai palestinesi citati nell’articolo, secondo informazioni attendibili, erano denaro del terrorismo proveniente dall’organizzazione di Hamas”. Tra l’altro, Hamas non è mai stato menzionato nelle notifiche ufficiali che le due hanno ricevuto.

Vedere il mare

“Sappiamo che il cambiamento è possibile”, afferma la “Guida per la sensibilizzazione (pubblica) e la difesa dei soggetti disabili: concetti e relativa applicazione”, pubblicata dal Centro di studi sullo sviluppo della Birzeit University. Yasmin Eshtayyeh è uno degli autori della guida. Il centro unisce lo sviluppo del pensiero teorico all’attività pubblica e sociale. Yasmin vi ha lavorato come consulente in un progetto che è durato circa un anno e mezzo, sull’atteggiamento della società nei confronti delle persone con disabilità. La guida menziona, come prova della possibilità di cambiare, le attività delle associazioni palestinesi di persone disabili e una legge palestinese del 1999 che chiarisce i loro diritti. Nell’aprile 2015, ha preso parte a un evento pubblico in cui ha parlato di come le persone possano aiutare il cambiamento col loro crederci. L’occasione era l’annuale cerimonia del Memorial Day tenuta dall’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace (Combattenti per la Pace), a cui era stata invitata come figlia in lutto: un colono di Itamar, Yehoshua Elitzur, aveva assassinato suo padre Sael il 27 settembre 2004.

Nel suo discorso ha dichiarato: “La rabbia e l’odio che mi accompagnavano avrebbero probabilmente continuato a perseguitarmi se non avessi incontrato altri ebrei”. Pochi giorni dopo l’omicidio di suo padre, gli attivisti del ‘Villages Group’ (associazione di israeliani e palestinesi finalizzata a sviluppare reciproci rapporti umani, ndtr.) in Israele si sono recati nel suo villaggio per esprimere le loro condoglianze e la loro rabbia. Eshtayyeh ha detto al pubblico alla cerimonia che in un primo momento si era rifiutata di stringere la mano a una delle attiviste, “perché era ebrea.” Gradualmente, ha ceduto e ha conosciuto altri membri del gruppo di attivisti. Loro e altri ebrei israeliani l’hanno portata a credere nei cambiamenti che possono promuovere le persone. Al villaggio uno degli attivisti ha dato lezioni di musica. Eshtayyeh è stata invitata come interprete. Si è innamorata dell’arpa, che le ha permesso di “vedere il mare, dove non sono mai andata”, e ha cominciato a imparare a suonare lo strumento.

Dopo la cerimonia si è unita al Parents Circle-Families Forum (il forum delle famiglie in lutto) e da allora ne è membro attivo.

Suo padre ha lavorato per 18 anni in una società con sede a Rishon Letzion che distribuisce bombole di gas da cucina. Fu licenziato da quel lavoro durante la seconda intifada. All’età di 46 anni, ha iniziato a lavorare come conducente di un taxi collettivo. Ai tempi dei blocchi stradali e delle strade chiuse ai palestinesi, ciò significava viaggiare su strade sterrate e superare le lunghe code ai posti di blocco per portare la gente al lavoro, a scuola, al mercato e alle cliniche mediche.

Alla cerimonia commemorativa ha detto: “Mio padre era l’unico a provvedere per noi. E il peggior incubo della nostra vita accadde il 27 settembre 2004. Mio padre andò a lavorare come faceva ogni giorno, e quando imboccò una tangenziale costruita dai coloni, in modo che potessero viaggiare senza sfiorare i palestinesi, un colono lo attaccò e gli sparò al cuore. L’assassino è un tedesco che si è convertito al giudaismo e vive in un avamposto di coloni vicino a Itamar.

L’assassino, che fu condannato per omicidio colposo, fu per qualche ragione messo agli arresti domiciliari dopo l’omicidio e di nuovo dopo la condanna. Prima che la sentenza fosse pronunciata, scomparve. Il corrispondente di Haaretz Shay Fogelman lo ha cercato, in un viaggio labirintico che combinava il lavoro investigativo con la storia, a cui ha dedicato cinque anni della sua vita e che si è trasformata in un film che sarebbe stato proiettato pochi mesi dopo. Nel frattempo, Yehoshua Elitzur è stato rintracciato in Brasile, da cui è stato estradato in Israele a metà gennaio di quest’anno. Ora è in prigione, in attesa della condanna.

La caccia a Elitzur ha portato Fogelman vicino alla famiglia Eshtayyeh. Yasmin lo ricorda con particolare affetto. È stato testimone dell’assurda situazione in cui si trovano molte famiglie palestinesi i cui cari siano stati uccisi da soldati o civili israeliani: il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito li considerano “pericolosi”. La conseguenza è che quasi ogni anno i soldati vengono mandati a irrompere nella casa della famiglia di Yasmin nel cuore della notte a fare perquisizioni. “Va bene che perquisiscano, ma lasciano sempre dietro di sé cose rotte e un gran casino”, dice.

Due anni fa, Eshtayyeh e suo fratello minore, Mohammed, anche lui cieco dalla nascita, sono andati allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer per una visita oculistica speciale. I due potrebbero essere idonei all’impianto di un dispositivo che consenta loro di vedere. La madre, che ha 57 anni, li ha accompagnati. Al checkpoint le è stato detto: “Accesso negato”. I due hanno aspettato che degli amici del forum delle famiglie delle vittime venissero a accompagnarli. Da quando ha intensificato la sua attività nel forum, anche Yasmin è stata aggiunta alla lista dei palestinesi cui viene negato l’ingresso in Israele, dopo molti anni in cui ha sempre ottenuto i permessi.

Nonostante i suoi titoli accademici e il successo in progetti a tempo definito, Eshtayyeh non riesce a trovare un lavoro fisso – il suo più grande desiderio. L’implementazione della legge palestinese per l’integrazione dei disabili nella società è in ritardo, afferma, e le persone con disabilità continuano a sentirsi discriminate. Anche quelli che ci vedono e non hanno bisogno di usare una sedia a rotelle spesso hanno bisogno di appoggi per trovare un lavoro. La discriminazione contro le donne con disabilità è ancora più acuta e le diffidenze della società sono ancora più forti: una donna cieca ha poche possibilità di crescere una famiglia.

Eppure, raccontami dei giorni felici della tua vita, le ho chiesto qualche settimana fa mentre eravamo sedute sulla veranda della loro casa. Un grande sorriso ha illuminato la sua faccia: “I due giorni più felici della mia vita sono state le feste che la mamma ha organizzato per me in onore della mia prima laurea, in lingua e letteratura inglese, e poi per la mia seconda laurea, in traduzione”, ha detto. C’erano tutti e di tutto. Le danze popolari di Debka, i fuochi d’artificio, i vestiti delle feste, una pettinatura speciale sotto il fazzoletto e decine di persone della famiglia e del villaggio venute a condividere la sua gioia e il suo orgoglio.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)