L’avvertimento di un soldato: quello che ho visto a Gaza determinerà il nostro futuro

Autore anonimo

28 novembre 2024 – Haaretz

La cosa importante è riflettere su quello che sta succedendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva.

La cosa veramente sorprendente riguarda la rapidità con cui ogni cosa sembra normale e ragionevole. Dopo qualche ora ti ritrovi a cercare disperatamente di rimanere colpito dalle dimensioni della distruzione, borbottando dentro di te affermazioni come “è una follia”, ma la verità è che ti ci abitui molto rapidamente.

Diventa banale, di cattivo gusto. Un altro ammasso di pietre. Lì probabilmente c’era un edificio di un’istituzione pubblica, quelle erano case e questa zona era un quartiere. Ovunque tu guardi vedi mucchi di tondini, sabbia, cemento e mattoni monoblocco. Bottiglie d’acqua di plastica vuote e polvere. A perdita d’occhio. Fino al mare. La vista si sposta lungo un edificio che è ancora in piedi. “Perché non lo hanno distrutto?” mi chiede mia sorella su WhatsApp dopo che le ho mandato una foto. “E anche,” aggiunge, “perché diavolo vai lì?’”

Perché sono qui è poco interessante. Qui la vicenda non riguarda me. E questo non è neppure un atto di accusa contro le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.]. Ciò viene fatto altrove, negli editoriali, alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, nelle università degli Stati Uniti, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La cosa importante è riflettere su quello che sta avvenendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva. Volevo capire cosa stesse succedendo qui. E’ quello che ho detto a tutti i miei amici, troppi da contare, che mi hanno chiesto: “Perché vai a Gaza?”

Non c’è molto da dire riguardo alla distruzione. È ovunque. Salta agli occhi quando ti avvicini dal punto di osservazione di un drone a quello che una volta era un quartiere residenziale: un orto coltivato circondato da un muro distrutto e una casa polverizzata. Una baracca improvvisata con un sottile tetto in un vicolo. Macchie nere nella sabbia, una dietro l’altra: evidentemente lì c’era una specie di boschetto, forse un uliveto. Ora è il tempo della raccolta delle olive. E c’è un certo movimento, una persona che si arrampica su un cumulo di macerie, raccogliendo legna su un marciapiede, rompendo qualcosa con una pietra. Tutto visto dalla rotta di volo di un drone.

Più ti avvicini a una strada importante dal punto di vista logistico – Netzarim, Kissufim, Filadelfia – meno strutture sono ancora in piedi. La distruzione è enorme e tale rimarrà. E questa è una cosa che la gente deve sapere: tutto ciò non verrà cancellato nei prossimi cento anni. Non importa quanto impegno ci metterà Israele per farlo sparire, nasconderlo, d’ora in avanti la distruzione a Gaza determinerà le nostre vite e quelle dei nostri figli. È la testimonianza di una furia sfrenata. Un amico ha scritto sul muro della sala operativa: “Alla quiete si risponderà con la quiete, a Nova [il festival musicale attaccato in 7 ottobre da Hamas, ndt.] si risponderà con la Nakba.” I comandanti dell’esercito hanno adottato questa scritta.

Dal punto di vista militare la distruzione è inevitabile. Combattere contro un nemico ben equipaggiato in un’area urbana densamente popolata significa distruzione di edifici su vasta scala o la morte certa per i soldati. Se un comandante di brigata deve scegliere tra la vita dei soldati ai suoi ordini o spianare il territorio, un F-15 carico di bombe percorrerà la pista di decollo della base aerea di Nevatim e una batteria di cannoni prenderà la mira. Nessuno è disposto ad assumersi dei rischi. È la guerra.

Israele può combattere così grazie al flusso di armamenti che riceve dagli Stati Uniti, e la necessità di controllare il territorio con il minimo numero di soldati è spinta fino al limite. Ciò è vero sia per Gaza che per il Libano. La principale differenza tra il Libano e l’inferno giallo che ci circonda sono i civili. A differenza dei villaggi del sud del Libano i civili sono ancora qui. Trascinandosi da un punto di combattimento all’altro, portandosi dietro fagotti strapieni, taniche. Madri con bambini che arrancano lungo la strada. Se abbiamo dell’acqua gliela diamo. Le capacità tecnologiche dell’IDF si sono sviluppate in modo impressionante in questa guerra. La potenza di fuoco, la precisione, la raccolta di informazioni con i droni: ciò fornisce un contropotere rispetto al mondo sotterraneo che Hamas ed Hezbollah hanno costruito nel corso di molti anni.

Ti ritrovi per ore a osservare da lontano un civile che trascina una valigia per qualche chilometro sulla strada Salah al-Din. Il sole cocente picchia su di lui. E tu cerchi di capire: è un ordigno esplosivo? È ciò che resta della sua vita? Vedi gente che gironzola attorno a un gruppo di tende in mezzo al campo, cerchi ordigni esplosivi e fissi disegni sul muro con le tonalità grigie del carboncino. Qui, per esempio, c’è il disegno di una farfalla.

Questa settimana ho fatto una perlustrazione con un drone di un campo di rifugiati. Ho visto due donne che camminavano mano nella mano. Un giovane che è entrato in una casa semidistrutta ed è sparito.

Forse è un miliziano di Hamas ed è andato a consegnare un messaggio attraverso l’ingresso nascosto di un tunnel dove sono stati tenuti ostaggi? Da un’altezza di 250 metri ho seguito uno che andava in bicicletta lungo quella che una volta doveva essere una strada al limite del quartiere, un giretto pomeridiano in mezzo alla catastrofe. A uno degli incroci il ciclista si è fermato nei pressi di una casa da cui sono usciti alcuni bambini e poi si è inoltrato nel campo profughi.

In seguito ai bombardamenti tutti i tetti hanno dei buchi. Su ognuno di essi ci sono barili blu per la raccolta dell’acqua piovana. Se vedi un barile sulla strada devi informare il centro di controllo e segnalarlo come un possibile ordigno esplosivo. Ecco un uomo che cuoce focacce. Vicino a lui c’è un uomo che dorme su un materasso. Grazie a quale forza di inerzia la vita continua? Come può una persona svegliarsi in mezzo a un orrore come questo e trovare la forza di alzarsi, cercare del cibo, tentare di sopravvivere? Quale futuro gli riserva il mondo? Caldo, mosche, fetore, acqua sporca. Un altro giorno se ne va.

Sto aspettando lo scrittore che venga e scriva questo, un fotografo che lo documenti, ma ci sono solo io. Altri combattenti, se hanno un’opinione eretica, se la tengono per sé. Non stiamo parlando di politici perché ce l’hanno chiesto, ma la verità è che semplicemente ciò non interessa a chi abbia fatto 200 giorni di servizio militare nella riserva quest’anno. I riservisti stanno crollando. Chiunque arrivi è già indifferente, preoccupato da problemi personali o da altre questioni. Figli, licenziamenti, studi, mogli. Hanno cacciato il ministro della Difesa. Einav Zangauker [attivista dei familiari favorevoli a un accordo con i rapitori, ndt.], il cui figlio Matan è tenuto in ostaggio da qualche parte qui. I panini con la cotoletta sono arrivati.

Gli unici che si agitano per qualunque cosa sono gli animali. I cani, i cani. Scodinzolanti, corrono in grandi branchi, giocano tra di loro. Cercano avanzi di cibo che l’esercito ha lasciato dietro di sé. Qui e là osano avvicinarsi ai veicoli nel buio, cercano di portare via una scatola di salsicce kabanos [tipiche dell’Europa centro-orientale, ndt.] e sono cacciati da una cacofonia di urli. Ci sono anche molti cuccioli.

Nelle ultime due settimane la sinistra israeliana si è preoccupata del fatto che l’esercito sta scavando sulle strade che passano da est a ovest della Striscia di Gaza. La strada Netzarim, per esempio. Che cosa non è stato detto a questo proposito? Che è stata asfaltata, che vi sono basi a cinque stelle. Che l’IDF è lì per restare, che partendo da queste infrastrutture il progetto di colonizzazione della Striscia risorgerà.

Non escludo queste preoccupazioni. Ci sono abbastanza pazzi che stanno solo aspettando l’opportunità. Ma le strade Netzarim e Kissufim sono zone di combattimento, aree tra grandi concentrazioni di palestinesi. Una massa critica di disperazione, fame e sofferenza. Questa non è la Cisgiordania. Il consolidamento lungo la strada è tattico. Più che garantire un’occupazione civile del territorio ciò è destinato a fornire sicurezza a soldati sfiniti. Le basi e gli avamposti consistono in strutture trasportabili che possono essere smantellate e rimosse su un convoglio di camion in pochi giorni. Naturalmente ciò potrebbe cambiare.

Per tutti noi, da quelli che si trovano nella sala operativa fino all’ultimo combattente, è chiaro che il governo non ne sa un accidente su come continuare. Non ci sono obiettivi verso cui andare, nessuna capacità politica per ritirarsi. Salvo che a Jabalya non ci sono quasi combattimenti. Solo ai margini dei campi. E anche questo in parte, per timore che lì ci siano degli ostaggi. Il problema è diplomatico, non militare né tattico. E quindi ciò è chiaro a chiunque venga richiamato per un’altra fase per le stesse identiche missioni. Arriveranno ancora riservisti, ma meno.

Dov’è il limite tra la comprensione della “complessità” e la cieca obbedienza? Quando ti è stato dato il diritto di rifiutarti di prendere parte a un crimine di guerra? Questo è meno interessante. Quello che è più interessante è quando l’opinione pubblica israeliana si sveglierà, quando sorgerà un leader che spieghi ai cittadini in quale terribile pasticcio ci siamo messi, e chi sarà il primo con la kippah [estremista religioso, ndt.] che mi chiamerà traditore. Perché prima dell’Aia, delle università americane, della condanna del Consiglio di Sicurezza, questa è innanzitutto una questione interna nostra. E di due milioni di palestinesi.

L’autore è un militare in servizio nella riserva che ha partecipato a operazioni di terra in Libano e nella Striscia di Gaza durante lo scorso anno.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Uno sguardo sulla guerra di Israele contro gli attivisti stranieri che aiutano i palestinesi in Cisgiordania

Hagar Shezaf

17 novembre 2024 – Haaretz

Nell’ultimo anno il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha iniziato a mettere in pratica una politica di espulsione degli attivisti stranieri filo-palestinesi, molti dei quali americani, con una serie di pretesti. Il risultato: un picco nel numero di attivisti costretti ad andarsene

Quando circa un mese fa l’attivista americano per i diritti umani Jaxson Schor, 22 anni, è stato arrestato in Cisgiordania, non capiva cosa stesse succedendo. Quella mattina era uscito con diversi altri attivisti stranieri per aiutare i palestinesi a raccogliere le olive vicino al villaggio di Qusra nella zona di Nablus quando all’improvviso i soldati lo hanno chiamato. “Mi hanno detto ‘Ciao, ciao’ e mi hanno chiesto il passaporto”, ricorda. “Gliel’ho dato e ho chiesto se c’era un qualche problema”.

I soldati gli hanno detto che non gli era permesso stare lì. “È stato molto surreale”, aggiunge, e descrive il seguito di una lunga giornata caratterizzata da interrogatori in una stazione di polizia, accuse di essere “un sostenitore di Hamas”, umiliazioni da parte della polizia e un’udienza presso la Population and Immigration Authority [Autorità su Popolazione e Immigrazione, ndt.]. Al termine della disavventura il suo visto e quello di un altro attivista arrestato insieme a lui sono stati revocati. E così i due stranieri venuti in Israele con l’intento di fare volontariato con i palestinesi si sono ritrovati espulsi dal Paese.

Non sono gli unici. L’anno scorso sempre più attivisti stranieri giunti per fare del volontariato con i palestinesi sono stati espulsi. I dati ottenuti da Haaretz mostrano che dall’ottobre 2023 almeno 16 di questi attivisti sono stati estradati da Israele dopo essere stati arrestati in Cisgiordania con l’accusa di varie violazioni.

L’avvocato Michal Pomeranz, che ha rappresentato alcuni degli attivisti espulsi, afferma che c’è stato un aumento del numero di arresti di volontari stranieri con falsi pretesti, nel tentativo di fare pressione su di loro affinché se ne andassero. “La situazione non è sorprendente alla luce del carattere dei decisori al governo, ma è esasperante”, afferma Pomeranz. “È inquietante e basata su analisi fittizie”.

Non è un caso che il numero di espulsioni sia aumentato, è anzi il risultato di una politica dichiarata del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir che viene realizzata sul campo tramite una stretta cooperazione tra l’esercito, la polizia e la Population and Immigration Authority. Nel quadro di tale politica negli ultimi mesi Ben-Gvir ha ordinato che gli attivisti stranieri vengano interrogati presso l’Unità Centrale di Polizia di Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndt.], incaricata dei crimini gravi nel distretto di polizia che controlla i territori della Cisgiordania.

Parallelamente la sottocommissione della Knesset per la Giudea e la Samaria, guidata dal parlamentare Tzvi Succot (Partito del Sionismo Religioso), si è occupata ampiamente e approfonditamente della questione. Negli ultimi mesi la sottocommissione ha dedicato almeno cinque sessioni alla questione e ha invitato a partecipare rappresentanti dell’esercito e della polizia. Secondo Succot in queste sessioni i rappresentanti dell’esercito hanno riferito che ai soldati è stato chiesto di fotografare gli attivisti e i loro passaporti e di consegnare gli attivisti o la loro documentazione alla polizia.

La collaborazione fattiva dell’esercito è fondamentale, poiché sono i soldati che, per la maggior parte, eseguono gli arresti sul campo. Un documento ottenuto da Haaretz indica che l’esercito non esita a mettere in pratica la visione di Ben-Gvir e Succot. Nel documento, una lettera del GOC [comandante generale dell’esercito) Avi Bluth inviata dal Comando Centrale a una coalizione di organizzazioni di sinistra chiamata Olive Picking Partners Forum [forum degli attivisti volontari nella raccolta delle olive, ndt.], si afferma esplicitamente che “Il Comando Centrale impedirà e farà rispettare [sic] l’ingresso di attivisti stranieri che arrivano nei siti di raccolta delle olive con l’obiettivo di creare attriti”. In risposta a una domanda di Haaretz il portavoce dell’esercito israeliano ha negato che ci siano istruzioni ai soldati di arrestare gli attivisti stranieri.

Nel frattempo sembra che la collaborazione sia produttiva: la polizia riferisce che dall’inizio di quest’anno sono stati indagati 30 attivisti stranieri. Secondo i dati ottenuti da Haaretz, la maggior parte di coloro che sono stati espulsi sono stati interrogati con l’accusa di aver commesso reati minori come ostacolare un agente di polizia o un soldato durante lo svolgimento dei suoi doveri o la disobbedienza a un ordine in un’area militare interdetta. Tuttavia, alcuni sono stati indagati anche per reati più gravi come il sostegno a un’organizzazione terroristica o l’istigazione.

Dopo l’interrogatorio alcuni dei detenuti sono stati inviati a un’udienza presso la Population and Immigration Authority e successivamente espulsi, in quanto sospettati di aver commesso reati e col pretesto di violazione delle condizioni del loro visto. Altri non sono stati formalmente espulsi ma costretti di fatto a lasciare il Paese dalla polizia, che ha trattenuto i loro passaporti fino a quando non hanno presentato un biglietto aereo. In tutti i casi nella dichiarazione rilasciata sugli arresti la polizia si è assicurata di segnalarli come “anarchici”, assecondando la politica del ministro Ben-Gvir.

Sospetto: sostegno al terrorismo

Schor afferma che da quando è arrivato in Cisgiordania in agosto la maggior parte della sua attività lì consisteva nel fornire una “presenza protettiva”, ovvero accompagnare le comunità palestinesi con l’obiettivo di proteggere gli abitanti dall’esercito o dai coloni. Questo, dice, è ciò che stava facendo alla fine dell’estate quando è stato arrestato e gli è stato confiscato il passaporto. Per tre ore è stato trattenuto sul posto, mentre attivisti di destra documentavano l’arresto e dicevano agli amici di Schor che era proibito filmare o scattare foto e che lo avrebbero “buttato fuori” da Israele.

Uno di loro era Bnayahu Ben Shabbat, dell’organizzazione di destra Im Tirtzu. Alla fine è arrivata la polizia e hanno ammanettato i due volontari. Solo allora, afferma Schor, gli è stato detto che l’area era stata designata come zona militare interdetta. A quel punto è stato trasferito alla stazione di polizia, gli è stato sequestrato il cellulare e gli è stato comunicato che era in arresto con l’accusa di aver ostacolato un soldato nello svolgimento dei suoi compiti, di aver violato un ordine relativo ad un’area militare interdetta e di aver sostenuto un’organizzazione terroristica.

Durante l’interrogatorio gli è stato chiesto cosa stesse facendo in Cisgiordania, chi gli avesse indicato dove recarsi e chi fosse il “capo” della raccolta delle olive. Aggiunge che chi faceva da interprete in simultanea era inesperto e che gli ha persino urlato contro. In seguito a Schor è stato chiesto se avesse partecipato a una manifestazione di Hamas contro Israele, e ha risposto negativamente. Mi hanno detto che stavo mentendo e che ero venuto per combattere gli ebrei e per svolgere azioni terroristiche e che mi avrebbero cacciato dal Paese”, racconta. “Mi hanno chiesto più e più volte se stessi combattendo contro gli ebrei”.

Dopo di che hanno mostrato a Schor quattro sue fotografie. Dice che una di queste era stata scattata da un soldato, un’altra da un colono, una terza era stata presa da un social network e la quarta da un sito di notizie che aveva pubblicato la documentazione di una manifestazione a Ramallah a cui aveva partecipato qualche giorno prima. Ciò ha suscitato il sospetto che fosse stato pedinato anche prima del suo arresto. Alla fine dell’interrogatorio, racconta Schor, un poliziotto gli ha chiesto se fosse un anarchico e se fosse ebreo e gli ha detto: “Noi c’eravamo prima di te e Israele starà qui dopo di te”, e poi ha aggiunto: “Ti butteremo fuori da Israele per sempre”.

Dalla stazione di polizia Schor e l’altro attivista arrestato con lui sono stati portati per un’udienza presso la Population and Immigration Authority, dove i loro visti sono stati revocati. Nell’ultimo anno altri tre attivisti sono stati espulsi da Israele con una procedura simile, in seguito ad un’udienza ufficiale presso l’Authority. Ad altri sette è stato confiscato il passaporto dalla polizia, ed è stato restituito solo dopo la presentazione di un biglietto aereo; a tre è stato offerto il rilascio durante l’indagine a condizione che lasciassero il Paese e a uno, un ebreo britannico di nome Leo Franks, non è stato rinnovato il visto. Successivamente il suo passaporto è stato confiscato e la procedura che aveva iniziato per l’aliyah, l’immigrazione in Israele, è stata bloccata.

Una condotta simile si ritrova anche nella trascrizione dell’udienza di un attivista inglese espulso ad aprile, arrestato a Masafer Yatta in Cisgiordania con l’accusa di aver violato un divieto relativo ad un’area militare interdetta e di aver ostacolato un soldato nello svolgimento dei suoi compiti. Durante l’udienza all’attivista è stato chiesto perché fosse venuto in Israele insieme alle seguenti domande: “Hai visto che Israele sta attaccando i palestinesi e sei venuto per questo?” “Perché sei andato in giro con una macchina fotografica e hai scattato foto ai soldati? Ci sono delle ragioni particolari?” “Vuoi documentare gli attacchi dei soldati contro i palestinesi?”

Secondo l’avvocato Pomeranz, la Population and Immigration Authority non era tenuta ad accettare le considerazioni della polizia riguardo agli attivisti, specialmente nei casi in cui non erano stati portati in tribunale per la custodia cautelare o non erano stati incriminati. L’udienza presso l’Authority ha lo scopo di consentire loro di esporre le loro versioni e servire da premessa per giungere alla decisione se espellerli o meno.

Donne aggredite’

Gli attivisti in Cisgiordania provengono da vari Paesi, tra cui Stati Uniti, Belgio e Inghilterra: alcuni di loro affermano di aver sentito parlare per la prima volta della possibilità di andarci tramite post sui social media, altri grazie a conoscenze. I loro numeri non sono molto alti, con una stima di poche decine di arrivi ogni anno.

Il numero raggiunge il picco con l’avvicinarsi della stagione della raccolta delle olive, che è considerata a rischio. Nell’ultimo anno, affermano gli attivisti, il loro numero è cresciuto. Molti sono arrivati ​​di recente in risposta a un appello dell’organizzazione palestinese Faz3a (Fazaa), che mette in contatto gli attivisti stranieri con le comunità palestinesi minacciate. Altri sono collegati al più veterano e noto International Solidarity Movement (noto come ISM), in parte perché nel 2003 una delle sue attiviste, Rachel Corrie, è stata uccisa da un bulldozer dell’IDF nella Striscia di Gaza. Un’altra delle sue attiviste, Ayşenur Ezgi Eygi, una donna turco-americana, è stata uccisa a settembre a Beita, vicino a Nablus, dal fuoco vivo dell’esercito israeliano.

Di recente il lavoro degli attivisti stranieri in Cisgiordania si è insediato in un appartamento nel villaggio di Qusra. L’11 ottobre i soldati dell’IDF hanno sfondato la porta e perquisito il posto. Secondo gli attivisti i soldati hanno rovistato tra i loro effetti personali, fotografato i loro passaporti e arrestato un attivista palestinese residente nel villaggio. Inoltre, affermano, i soldati hanno esaminato le lettere scritte dagli attivisti che se ne erano andati.

Sebbene non siano qui da molto alcuni degli attivisti hanno già sperimentato violenze estreme. Ad esempio Vivi Chen, una residente del New Jersey giunta in Cisgiordania a luglio, afferma di aver già assistito a due aggressioni da parte di coloni che l’hanno segnata. “Sono rimasta così sorpresa perché loro [i coloni] erano ragazzi adolescenti e stavano aggredendo con tutta la loro forza donne che avrebbero potuto essere le loro madri”, afferma riferendosi ad un fatto avvenuto il 21 luglio a Qusra. Riguardo ad un altro più grave incidente racconta che cinque giovani palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri, alcuni sparati dall’esercito.

Un’altra attivista, Lu Griffen, una siriana-americana di 22 anni, racconta che il 4 settembre, durante la sua seconda settimana in Cisgiordania, è stata violentemente aggredita dai coloni mentre accompagnava un pastore a Qusra. “Hanno iniziato a lanciarci pietre. Stavo correndo e una pietra mi ha colpito la testa e me l’ha spaccata”, racconta. Ricorda che anche dopo essere caduta i coloni hanno continuato a lanciare pietre su di lei e hanno spruzzato su di lei e gli altri dello spray al peperoncino.

Griffen spiega di essere stata attratta dall’attivismo in Cisgiordania dopo aver partecipato all’inizio di quest’anno alle proteste contro la guerra nei campus degli Stati Uniti. “È difficile spiegare come mi sento: l’indignazione, la tristezza. Qui la situazione è semplicemente sconvolgente”, dice. “Ho trascorso parte della mia vita in una zona di guerra, ma in quel momento non potevo fare nulla per il mio popolo siriano. E ora che sono abbastanza grande ho tempo, non ho figli o responsabilità che mi trattengano, non c’è niente che voglio fare di più che andare ad aiutare i palestinesi come loro ci stanno chiedendo”.

Indubbiamente però l’evento più traumatico per gli attivisti è stato l’uccisione dell’attivista turco-americana Ezgi Eygi. “All’inizio non credevo fosse morta”, ricorda Chen. “Quando è caduta e sono corsa da lei, potevo sentire il suo polso e ho detto ‘Sopravviverà’.” L’esperienza è stata particolarmente difficile, dice, a causa della diffamazione del nome e dell’attività di Ezgi Eygi. “Molti di noi hanno finito per scrivere le proprie ultime volontà come precauzione, perché vorremmo rendere le cose più facili alle nostre famiglie nel caso in cui accada qualcosa.”

Chen collega la morte di Ezgi Eygi a un incidente che l’ha preceduta nello stesso luogo: il ferimento di unattivista americana durante una manifestazione nel villaggio di Beita. “Se il governo americano avesse condannato l’uccisione di una cittadina americana in quel momento, non avrebbero avuto l’audacia di uccidere un altro straniero”, aggiunge. Secondo l’IDF, un’indagine preliminare sulla morte di Ezgi Eygi ha concluso che non sarebbe stata colpita intenzionalmente. La divisione investigativa criminale della polizia militare ha avviato un’indagine sull’incidente.

Dirgli addio’

Alcuni membri della Knesset, in particolare Tzvi Succot, hanno un problema di vecchia data con gli attivisti stranieri e sostengono che stanno causando danni allo Stato di Israele. All’interno del sottocomitato che presiede, Succot è molto impegnato nelle misure contro gli attivisti. “La legge afferma che chiunque entri nel Paese e violi i termini del suo visto può essere espulso”, dice ad Haaretz. “Quei ragazzi sono un danno strategico. In definitiva, le campagne contro Israele e le sanzioni provengono da loro. E quindi, quando vengono e molestano i soldati o entrano in un’area militare interdetta o commettono la più piccola infrazione, lo Stato di Israele deve dire loro addio/congedarli“.

Durante la conversazione con Haaretz Succot ha continuato a ripetere che il suo problema con gli attivisti consiste nel fatto che starebbero promuovendo un boicottaggio contro Israele. La sua argomentazione si basa sulla legge sull’ingresso in Israele del 2017, che proibisce di concedere un visto a chiunque promuova un boicottaggio dello Stato.

Nel frattempo Succot afferma di stare attualmente lavorando a una legislazione con l’obiettivo di istituire un’organizzazione statale che monitorizzi gli attivisti stranieri mentre sono in Israele e decida la loro espulsione nel caso che dopo il loro ingresso si scopra che abbiano fatto degli appelli al boicottaggio. “Al momento questo non sta accadendo, e quindi la soluzione tampone in questo momento è che se qualcuno viola le condizioni del visto, la legge consente di revocarlo”, aggiunge.

Il monitoraggio degli attivisti durante la loro permanenza in Israele, afferma, è attualmente svolto da organizzazioni civili senza scopo di lucro. Afferma che il recente aumento dell’attività sulla questione è il risultato di un coordinamento rafforzato tra l’IDF, la polizia e il Ministero dell’Interno. “Un soldato sul campo che incontra qualcuno del genere che violi la legge sa di dover registrare i suoi dati personali e il suo passaporto e inviarli alla polizia e poi al Ministero dell’Interno. Da lì, spiega, il passo verso la revoca del visto o l’espulsione dal Paese è breve.

La questione del boicottaggio è emersa nell’inchiesta sull’attivista Michael Jacobsen, 78 anni, dello Stato di Washington. Dopo la sua espulsione Succot ha rilasciato un comunicato stampa di encomio in cui ha ringraziato, tra gli altri, un’organizzazione non-profit chiamata The Legal Forum for the Land of Israel. Il 10 ottobre Jacobsen, che ha militato nell’esercito americano durante la guerra del Vietnam, stava accompagnando un palestinese che pascolava un gregge a Masafar Yatta. Ricorda che un soldato che ha identificato come colono gli ha chiesto il passaporto e poi gli ha detto che era ricercato dalla polizia. “Ha chiesto: ‘sei un membro dell’ISM [International Solidarity Movement]’, e io ho detto di no. E poi ha chiesto ‘sei un ebreo?’ e io ho detto di no, e lui [ha chiesto] ‘sei un terrorista?’ E io ho detto ‘no, sono un turista”.

Jacobsen è stato arrestato e portato alla stazione di polizia. Afferma che durante il tragitto ha cercato di scoprire perché lo stavano arrestando, ma non ha ricevuto informazioni. “Mi hanno detto che ero un terrorista perché ero un membro del BDS”, ha aggiunto, riferendosi al movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Alla stazione di polizia è stato interrogato con l’accusa di aver ostacolato un agente di polizia nell’adempimento dei suoi doveri e di soggiorno illegale, un sospetto basato sull’accusa attribuitagli di sostegno al boicottaggio. “Chi ha condotto l’interrogatorio è stato molto borioso e maleducato con me”, racconta. “Ha detto che ero coinvolto in cinque diverse organizzazioni terroristiche”, ha continuato Jacobsen, citando le cinque come IHH Humanitarian Relief Foundation, Meta Peace Team, International Solidarity Movement, BDS e MPT.

Jacobsen afferma che Meta Peace Team è un’organizzazione di attivisti che gli ha fornito una formazione sulla resistenza non violenta, mentre IHH è un’organizzazione ombrello sotto la cui egida ha partecipato nell’aprile di quest’anno alla flottiglia verso Gaza per portare cibo e attrezzature mediche nella Striscia. Durante l’interrogatorio gli è stata anche mostrata la documentazione sulla sua attività presso Veterans for Peace in Corea del Sud, dove ha lavorato con i dimostranti contro l’istituzione di una base navale. Alla fine dell’interrogatorio gli è stata data una scelta. Poteva rimanere in stato di arresto o poteva essere inviato al confine con la Giordania. Ha scelto di andarsene, senza [partecipare ad] un’udienza presso la Population and Immigration Authority e senza sapere se sarebbe mai potuto tornare in Israele.

A ottobre due attivisti tedeschi sono stati espulsi da Israele in modo simile. Sono stati arrestati con l’accusa di aver ostacolato un agente di polizia nell’adempimento del suo dovere, di riunione illegale e di far parte di un’organizzazione terroristica. Il sospetto di riunione illegale è stato attribuito a causa della loro appartenenza all’International Solidarity Movement, nonostante in Israele l’organizzazione non sia stata messa al bando.

La loro detenzione è stata prorogata due volte, e poi la polizia ha offerto loro la possibilità di scegliere tra lasciare il Paese o affrontare un’altra richiesta di proroga della loro detenzione. Se ne sono andati. Di recente la polizia ha fatto un’offerta simile a due donne americane, una suora e una pensionata di 73 anni, arrestate a South Hebron Hills con l’accusa di aver ostacolato un soldato nell’adempimento del suo dovere. Dopo il loro rifiuto, sono state rilasciate con un divieto di ingresso di due settimane in Cisgiordania.

Dalla sua attuale residenza negli Stati Uniti Jacobsen afferma che il fatto che la sua attività non violenta sia stata definita terroristica lo ha portato a opporsi alle azioni di Israele con ancora più veemenza: “Ok, mi chiami terrorista? Allora esprimerò le mie opinioni su ciò che sta facendo lo Stato sionista di Israele come attività terroristiche. In effetti, lo Stato di Israele sta usando tattiche terroristiche, sicuramente in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza”.

L’unità portavoce dell’IDF ha risposto: “Le forze di sicurezza, la polizia israeliana e l’amministrazione civile stanno agendo per consentire agli abitanti della zona di raccogliere le olive sui terreni di loro proprietà e, allo stesso tempo, stanno agendo per mantenere la sicurezza dei civili e delle comunità israeliane. In generale, non ci sono istruzioni per arrestare gli attivisti stranieri”. Il portavoce ha aggiunto che la decisione di effettuare una perquisizione nella casa degli attivisti a Qusra è derivata da una “segnalazione di attività insolite” in quel sito.

Per quanto riguarda la sparatoria contro l’attivista americana a Beita ad agosto l’esercito ha aggiunto che ciò sarebbe avvenuto dopo una segnalazione di “violento disturbo dell’ordine pubblico durante il quale i terroristi hanno lanciato pietre contro i militari, che hanno risposto utilizzando mezzi per disperdere le dimostrazioni e sparando in aria”. Hanno anche aggiunto che la segnalazione “è nota ed è in corso una verifica“.

La polizia israeliana ha risposto: “La polizia israeliana attua l’applicazione della legge con tutti i mezzi legali contro gli attivisti israeliani e stranieri che agiscono illegalmente interferendo con l’attività operativa delle forze di sicurezza e dimostrando sostegno e condivisione nei confronti delle organizzazioni terroristiche. Dall’inizio dell’anno circa 30 attivisti stranieri sono stati indagati per ostacolo e provocazione contro le forze di sicurezza, e incitamento, sostegno e incoraggiamento verso le organizzazioni terroristiche Hamas e Hezbollah. Alcuni di loro hanno lasciato il Paese al termine del loro interrogatorio e per altri è stata tenuta un’udienza dalla Populating and Immigration Authority, al termine della quale è stato revocato il loro permesso di soggiorno in Israele ed è stato proibito per il futuro l’ingresso nel Paese”.

La Population and Immigration Authority ha risposto: “Di norma un cittadino straniero che entra in Israele con un visto turistico è tenuto a rispettare lo scopo per cui è stato concesso il visto. Un turista che sfrutta la concessione del visto per altre attività, tra cui una condotta di disturbo contro le forze dell’ordine, viola le condizioni per cui è stato concesso il visto ed è consentito annullare il visto e richiedere la sua espulsione dal Paese. In pratica, stiamo parlando di una manciata di incidenti e solo di quelli in cui la polizia presenta prove di reati penali commessi dal titolare del visto”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ultras israeliani provocano scontri ad Amsterdam dopo aver gridato slogan antipalestinesi

Huthifa Fayyad e Areeb Ullah

8- novembre 2024 – Middle East Eye

Tifosi in trasferta insultano gente del posto e strappano bandiere palestinesi prima dello scoppio di scontri con olandesi

Giovedì ultras israeliani hanno provocato scontri con giovani olandesi ad Amsterdam dopo aver scandito slogan contro gli arabi, strappato bandiere palestinesi e ignorato un minuto di silenzio per le vittime dell’inondazione in Spagna.

Mercoledì e giovedì tifosi del Maccabi Tel Aviv in trasferta hanno provocato disordini in diverse zone della capitale olandese prima della partita dell’Europa League dell’UEFA contro l’Ajax, squadra di Amsterdam.

Secondo il quotidiano AD si sono visti ultras strappare almeno due bandiere palestinesi da quella che sembrava essere la facciata di un edificio residenziale la notte prima della partita.

Anche un taxista arabo è stato aggredito dalla folla che sembrava essere stata insieme ai tifosi israeliani, benché la polizia affermi di non poter identificare la nazionalità degli aggressori in quanto non sono stati effettuati arresti.

Mercoledì un gruppo di tifosi israeliani che si è riunito in piazza Dam è stato filmato mentre provocava scontri con gente del posto gridando “Fottiti” ad alcuni di loro e “Fanculo Palestina”.

Prima della partita di giovedì tifosi diretti allo stadio Johan Cruyff Arena sono stati visti gridare “Lasciate che l’IDF (esercito israeliano) fotta gli arabi”.

Si sono anche rifiutati di partecipare a un minuto di silenzio prima del calcio d’inizio per le almeno 200 persone morte nelle inondazioni a Valenza.

A quanto si sa la polizia non ha effettuato alcun arresto di tifosi israeliani coinvolti in provocazioni prima della partita.

La sindaca di Amsterdam, Femke Halsema, ha anche tenuto lontana dallo stadio una protesta filo-palestinese prevista da un gruppo di manifestanti che voleva esprimere il proprio dissenso per l’ospitalità alla squadra israeliana.

In un contesto di provocazioni contro gli arabi in città sono scoppiati scontri tra gli ultras israeliani e qualche giovane prima e dopo la partita e poi durante la notte.

Immagini condivise sulle reti sociali mostrano persone che si scontrano tra loro e la polizia che interviene. Altri video mostrano persone che aggrediscono e inseguono alcuni tifosi israeliani.

Middle East Eye non ha potuto verificare in modo indipendente le immagini.

Un portavoce della polizia ha affermato che cinque persone sono state ricoverate in ospedale e 62 sono state arrestate.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha informato che 10 israeliani sono rimasti feriti e che si sono persi i contatti con altri due.

Venerdì Halsema ha affermato che non è ancora chiaro il numero esatto di quanti sono stati feriti e arrestati in totale. Ha detto che le autorità stanno ancora indagando per stabilire le dimensioni complessive dell’incidente.

Violenza dei tifosi israeliani 

Gli ultras israeliani di estrema destra sono noti per le violenze verbali e fisiche contro i palestinesi.

In marzo ad Atene prima della partita della squadra contro l’Olimpiakos tifosi del Maccabi Tel Aviv in trasferta hanno brutalmente picchiato un uomo che portava una bandiera palestinese.

All’inizio dell’anno l’associazione per i diritti FairSquare ha scritto al presidente dell’UEFA Aleksander Ceferin accusando l’ente calcistico europeo di “doppio standard” per aver escluso le squadre russe dalle sue competizioni dal febbraio 2022 ma aver rifiutato di fare altrettanto contro Israele.

Nicholas McGeehan, fondatore di FairSquare, ha evidenziato i precedenti di slogan razzisti da parte dei tifosi del Maccabi Tel Aviv e ha criticato il modo in cui le autorità olandesi li hanno dipinti come “vittime innocenti di antisemitismo”.

“I più importanti dirigenti israeliani, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno apertamente corteggiato i tifosi del calcio in Israele e in cambio hanno ottenuto il loro sostegno violento. Il razzismo ben documentato e la violenza esibita dai tifosi del Maccabi Tel Aviv ad Amsterdam riflettono le azioni criminali del governo israeliano a Gaza e in Libano,” ha detto McGeehan a MEE.

“Ciò non assolve la violenza inflitta ai tifosi del Maccabi Tel Aviv, ma presentarli come vittime innocenti è una grave distorsione dei fatti. Per liberare il calcio europeo dal tipo di slogan genocidi che abbiamo visto dai tifosi del Maccabi Tel Aviv l’Uefa dovrebbe ricordare all’Israel Football Association [Federazione Calcistica Israeliana] in base all’articolo 7(7) del suo statuto i suoi obblighi di sradicare comportamenti razzisti, e imporre le debite sanzioni se l’IFA non prende provvedimenti.”

I politici olandesi condannano i propri cittadini

Il primo ministro olandese Dick Schoof ha definito gli scontri “attacchi antisemiti inaccettabili”, ma non ha citato le aggressioni da parte degli ultras contro i cittadini olandesi.

In un post su X Schoof ha affermato di aver parlato con il suo omologo Benjamin Netanyahu e di avergli assicurato che “i responsabili saranno identificati e processati.”

Geert Wilders, leader anti-musulmano e filo-israeliano del più grande partito del governo olandese, ha definito gli scontri un “pogrom” e una “caccia all’ebreo”.

Anche lui ha evitato di citare gli attacchi da parte degli ultras israeliani e ha invece chiesto di arrestare ed espellere quella che ha definito la “feccia multiculturale” coinvolta negli scontri.

Anche Netanyahu e altri politici israeliani hanno etichettato i disordini come antisemiti, e qualcuno li ha paragonati all’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas contro il sud di Israele.

Il primo ministro ha detto di aver ordinato di inviare due aerei di soccorso in Olanda per evacuare i tifosi.

L’esercito israeliano ha affermato di stare preparando l’invio di una missione di soccorso in coordinamento con le autorità olandesi.

Tuttavia in seguito il portavoce internazionale dell’esercito Nadav Shoshani ha detto su X che la missione non sarebbe stata inviata ad Amsterdam.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Conquistare, espellere, reinsediarsi”: alla conferenza “Prepararsi a Reinsediarsi a Gaza” i propositi velleitari lasciano il posto a progetti concreti

Rachel Fink

Oct 21, 2024 21 ottobre 2024 – Haaretz

In un’assemblea sul tema di Sukkot nei pressi del confine di Gaza coloni e leader di estrema destra hanno delineato piani per ricostruire colonie ebraiche nella Striscia “entro un anno”. La polizia ha impedito a contro-manifestanti di entrare nel luogo del raduno, mentre gli oratori chiedevano il “trasferimento volontario” dei gazawi e la ridefinizione dei confini di Israele per estenderli “dall’Eufrate al Nilo”

Centinaia di persone si sono riunite sul confine meridionale di Israele per un incontro celebrativo di due giorni intitolato “Prepararsi a reinsediarsi a Gaza”.

Durante l’evento i partecipanti sono stati ad ascoltare politici di estrema destra e dirigenti del movimento dei coloni, che hanno tutti proclamato la loro idea condivisa per il futuro: reinsediare una presenza ebraica nella Striscia di Gaza – “su ogni sua zolla,” come ha dichiarato un oratore.

L’evento è iniziato domenica con la costruzione di decine di capanne provvisorie a due passi dal confine di Gaza. Le capanne, in cui varie famiglie hanno passato la notte, erano state costruite per onorare la festa ebraica di Sukkot, ma non è passato inosservato il loro significato simbolico per un movimento dedito alla ricostituzione di colonie a Gaza.

“Oggi ci troviamo nelle nostre case provvisorie da questa parte del confine,” ha dichiarato il rabbino Dovid Fendel, di Sderot. “Ma domani costruiremo le nostre case permanenti sull’altro lato del confine.” Lunedì mattina gli abitanti delle capanne sono stati raggiunti da centinaia di partecipanti agli eventi principali del convegno. C’erano attività per i bambini, compresa una reinterpretazione allegorica del “disimpegno” di Israele da Gaza nel 2005 con pupazzi, bolle di sapone e una fattoria didattica.

Volontari hanno distribuito popcorn e zucchero filato alle orde di bambini che correvano da una capanna all’altra mentre commercianti vendevano magliette e custodie per telefonino che dicevano “Gaza è parte di Israele.” Per gli adulti le opzioni includevano sessioni progettuali in piccoli gruppi, un’esposizione informativa e molti canti e balli.

L’atmosfera era festosa nonostante le incombenti minacce per la sicurezza. “So che la maggioranza dei nostri uomini qui è armata,” è stato annunciato dagli altoparlanti. “Nel caso di infiltrazione di terroristi, vi chiediamo per favore di non usare le vostre armi. Lasciate fare alla sicurezza. È per l’incolumità di tutti.”

In effetti praticamente ogni uomo presente era munito di mitra M16 a tracolla o di una pistola che spuntava dalla tasca posteriore. Ogni volta che si sentiva un’esplosione provenire da Gaza qualcuno urlava “Dio benedica i nostri prodi soldati.”

In tarda mattinata decine di partecipanti si sono accalcati nella capanna più grande per ascoltare un gruppo di relatori. Questi hanno incluso alcune delle organizzazioni rappresentate all’esposizione informativa, familiari che hanno perso i propri cari sia il 7 ottobre che durante la successiva guerra a Gaza, così come membri del piccolo gruppo di parenti di ostaggi che non si schierano con il più numeroso Forum delle Famiglie di Ostaggi e Dispersi.

Una di loro è stata Channah Cohen, la cui nipote Inbar Haiman è stata uccisa il 7 ottobre e il suo corpo è stato portato a Gaza. “Stiamo facendo di tutto per farci restituire il suo corpo,” ha detto Cohen durante la discussione. “Ma quei nazisti là non danno valore a niente se non alla terra. Quindi voglio prendergliela perché è l’unica cosa che capiranno.”

È un’idea che in seguito la deputata del Likud Tally Gotliv ha ampliato dal palco principale: “Dobbiamo parlare ai nostri nemici assassini con l’unico linguaggio che capiscono, la loro terra,” ha detto Gotliv. “Forse se ci vedono là penseranno davvero due volte a quello che ci hanno fatto il 7 ottobre. Forse ci vedranno là e ci daranno indietro i nostri ostaggi rapiti nei modi più crudeli.”

“Colonie uguale sicurezza,” ha detto Gotliv. “Punto e basta.”

La conferenza è stata organizzata da Nachala, un’organizzazione estremista dei coloni guidata dalla controversa leader Daniella Weiss, che ha attraversato la folla di lunedì come una celebrità venerata, fermandosi a stringere mani e posare per le foto.

Weiss ha parlato varie volte nel corso della giornata, anche in inglese per la stampa estera. In un discorso appassionato ha promesso di realizzare il suo impegno a ricolonizzare Gaza entro un anno. “Ognuno di voi mi può chiamare e chiedermi se sono riuscita a realizzare il mio sogno,” ha detto a un gruppo di giornalisti. “In realtà non dovete neppure chiamarmi,” ha continuato Weiss. “Sarete i testimoni di come gli ebrei andranno a Gaza e gli arabi spariranno da Gaza.”

Weiss ha detto anche che lei e 40 famiglie sono pronte a piazzare le loro roulotte proprio dove ci trovavamo, quanto più vicino possibile al confine. “E con l’aiuto di Dio,” ha annunciato, “piano piano ci sposteremo a Gaza. Proprio come abbiamo fatto in Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndt.].” Ma Weiss non progetta di fermarsi là: “I veri confini della Grande Israele sono tra il fiume Eufrate e il Nilo,” ha dichiarato. “Questo lo sappiamo dalla Bibbia. E quanto prima lo faremo, tanto meglio.”

Dopo un ballo gioioso, a cui in base ai principi degli ebrei ortodossi hanno partecipato solo gli uomini, è salito sul palco principale uno stuolo di politici. Oltre a Gotliv, gli oratori hanno incluso il ministro dello Sviluppo del Negev e della Galilea e deputato di Potere Ebraico [partito di estrema destra, ndt.] Yitzhak Wasserlauf, il ministro delle Finanze Betzalel Smotrich e l’attivista dei coloni e capo del Consiglio Regionale di Samaria Yossi Dagan. Altri, come il deputato di Sionismo religioso [altro partito di estrema destra, ndt.] Zvi Succot e il parlamentare del Likud [principale partito di destra, ndt.] Ariel Kallner hanno tenuto discussioni più ristrette nella capanna assegnata ai loro partiti.

La ministra dell’Uguaglianza Sociale e parlamentare del Likud May Golan ha dedicato la maggior parte del suo discorso a inveire contro quella che ha definito “la Sinistra velenosa ed elitaria” prima di ritornare al messaggio: “Li colpiremo dove fa male, la loro terra,” ha detto Golan, riferendosi ai gazawi. “Chiunque usi la propria zolla di terra per progettare un altro Olocausto riceverà da noi, con l’aiuto di Dio, un’altra Nakba [la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-49, ndt.] che racconterà ai figli e nipoti nei prossimi 50 anni.” Le sue parole sono state accolte con applausi scroscianti.

Ma l’oratore che ha ricevuto l’accoglienza di gran lunga più calda è stato il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Ha iniziato la sua comparsa unendosi a una danza mentre la gente chiedeva a gran voce un selfie con il parlamentare di estrema destra.

Quando è salito sul palco, un gruppo di adolescenti ha guidato la folla nello scandire “Guardate qui. È il nostro prossimo primo ministro” (suona meglio in ebraico), prima di passare a “pena di morte per i terroristi,” una delle promesse più apprezzate della campagna di Ben-Gvir.

“Ciò che abbiamo imparato quest’anno è che tutto dipende da noi,” ha iniziato Ben-Gvir. “Siamo i proprietari di questa terra. Sì, abbiamo sperimentato una terribile catastrofe il 7 ottobre. Ma quello che dobbiamo capire, un anno dopo, è che moltissimi israeliani hanno cambiato le proprie opinioni. Hanno cambiato il modo di pensare. Capiscono che quando Israele agisce come legittimo proprietario di questa terra, è questo che porta risultati.”

“Lo vedo nelle celle dei terroristi,” ha continuato. “Gli abbiamo tolto i panini con la marmellata. Gli abbiamo tolto il cioccolato, i loro schermi televisivi, i tavoli da ping-pong e il tempo per l’attività fisica. Dovreste vederli piagnucolare e strillare nelle loro celle. E questa è la dimostrazione: quando lo decidiamo ci riusciamo, abbiamo successo.”

“Incoraggeremo il trasferimento volontario di tutti i cittadini di Gaza,” ha dichiarato. “Offriremo loro l’opportunità di spostarsi in altri Paesi perché questa terra appartiene a noi.”

Sarah Himmel ha viaggiato da Beit Shemesh [cittadina israeliana nei pressi di Gerusalemme, ndt.] per assistere alla conferenza. Dice di non essere venuta solo per dimostrare il proprio appoggio all’idea di ricolonizzare, ma per saperne di più su quello che ciò comporta in concreto.

“Non sono pronta al 100% ad andarmene e spostarmi domani come altre persone qui,” ha spiegato, “ma voglio avere più informazioni possibile. Voglio essere pronta.”

Mentre stavamo facendo l’intervista Himmel è stata avvertita da varie persone di non parlare a giornalisti di Haaretz – “Loro non sono dei nostri. Non sono nostri amici,” l’ha messa in guardia una donna anziana – ma Himmel non si è tirata indietro. “Sono in grado di decidere io,” ha replicato. Himmel ha continuato: “Credo che questa terra sia nostra e che dovremmo vivere qui contenti e sicuri. Quello di cui stiamo parlando qui è tornare a luoghi in cui vivevamo, posti che abbiamo lasciato occupare dai terroristi. E finché lasceremo che ciò prosegua, continueremo a vivere con la paura, continueremo ad essere uccisi.”

Ha detto di essere motivata dal fatto di vedere così tante persone che la pensano come lei: “È veramente entusiasmante essere circondati da così tante persone con le stesse idee.”

Mentre tutti quelli che si trovavano all’interno della base militare chiusa in cui si è tenuta la conferenza potrebbero aver condiviso le stesse opinioni, un piccolo gruppo di manifestanti si è riunito nel parcheggio per esprimere il proprio sgomento. Sventolando bandiere gialle e con manifesti degli ostaggi, i dimostranti hanno fatto del loro meglio per far sentire la propria voce.

“Siamo qui per protestare contro questo orribile convegno,” ha detto Yehuda Cohen, padre di Nimrod Cohen, rapito il 7 ottobre da un carrarmato in panne nei pressi del confine. “Questi partiti politici messianici sono qui per sfruttare cinicamente mio figlio, che da più di un anno si trova in un tunnel a Gaza dopo che l’ho mandato nell’esercito.”

I manifestanti erano sotto massiccia protezione della polizia, che ha anche impedito loro di avvicinarsi entro i 90 metri dalla zona dell’evento. “Ovviamente la polizia applica un doppio standard,” ha detto Cohen, “lasciando che i coloni facciano quello che vogliono, mentre noi, che lottiamo per salvare vite, siamo confinati e non ci consentono di passare.”

Mentre lui e gli altri gridavano slogan con i megafoni, uno dei partecipanti alla conferenza, che stava uscendo, ha abbassato il finestrino. “Non ci fermerete,” ha gridato, ridendo. “Nessuno di voi ci riuscirà. Stiamo andando a Gaza. Perché non vi unite a noi?”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Opinione| Una volontaria e invisibile barriera protettiva dalle fiamme taglia fuori gli israeliani da quello che sta succedendo a Gaza

Noa Landau

16 ottobre 2024 – Haaretz

Si suppone che viviamo in un luogo e un tempo in cui la maggior parte delle informazioni importanti per la nostra vita siano pubbliche e accessibili. I mezzi di comunicazione in Israele sono liberi di raccontare (con l’eccezione di specifiche restrizioni censorie), chiunque può connettersi a internet e il governo non limita l’accesso alle reti sociali.

Tuttavia pare esserci un’enorme distanza nelle informazioni, e di conseguenza anche nella consapevolezza, tra gli israeliani e il resto del mondo quando si tratta della guerra in Medio Oriente. Un esempio recente di ciò è l’attacco aereo delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] di lunedì nei pressi dell’ospedale Martiri di Al-Aqsa a Deir al-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Mentre gli utenti di internet in tutto il mondo potevano vedere gli orribili video del fuoco che l’attacco ha appiccato in una tendopoli per le persone sfollate dalla guerra, è probabile che in Israele persino oggi solo poche persone siano al corrente dell’incidente.

Secondo le informazioni almeno quattro persone sono state uccise, incluse una donna e un bambino, e almeno 43 ferite nell’incidente. Rispetto all’irragionevole livello di sofferenza e sangue che proviamo ogni giorno questo non è un evento “eccezionale”. Eppure ha suscitato una risposta relativamente dura del governo USA, che ha persino depositato un’esplicita protesta a Israele. Non è sicuro che molti israeliani abbiano neppure sentito parlare della protesta, ma quelli che l’hanno fatto devono aver faticato a capirla.

La spiegazione dell’inusuale condanna sta negli stessi video, che mostrano – non c’è, né ci dovrebbe essere, un modo migliore per dirlo– persone bruciate vive. “Le immagini e i video di quello che sembra essere gente sfollata bruciata viva in seguito a un attacco aereo israeliano è profondamente sconvolgente,” ha affermato lunedì sera in un comunicato un portavoce del Consiglio della Sicurezza Nazionale USA.

La maggior parte delle persone che hanno visto tali immagini, indipendentemente dalle loro opinioni politiche, faticherà ad accettare come giustificazione dichiarazioni riguardo a un “attacco mirato contro terroristi che stavano operando all’interno di un centro di comando e di controllo”. Anche le fredde spiegazioni del tipo “è la guerra” sono insoddisfacenti.

Allora, senza leggere o ascoltare almeno una descrizione orale dei video, è difficile comprendere la reazione internazionale a questo incidente e la posizione prevalente riguardo alla guerra. Ma, benché non ci siano limitazioni ufficiali sui media o sulle reti sociali che impediscano agli israeliani la visione dell’incidente, la sua copertura giornalistica è stata rappresentata da qualche sintetico articolo sui siti web, centrati per lo più sulla reazione degli USA.

La cosa più facile da fare a questo proposito è incolpare i media israeliani per non aver fatto il loro lavoro. In un editoriale Ido David Cohen conclude che le vittime di Gaza sono diventate invisibili, la maggior parte dei giornalisti israeliani è rappresentata da portavoce dell’esercito israeliano, il discorso è dominato dall’estremismo e arabi e palestinesi sono esclusi dagli studi radiofonici e televisivi.

Non è una novità, ma come in altri campi della vita questa tendenza è diventata più estrema e così lo sono l’autocensura per ragioni “patriottiche” e le censure commerciali, queste ultime per non perdere spettatori e annunci pubblicitari.

La scorsa settimana in un’intervista con Christiane Amanpour trasmessa sulla CNN il 3 ottobre la giornalista investigativa israeliana Ilana Dayan ha affermato che i media israeliani “non stanno informando abbastanza” sulla “tragedia a Gaza”. Ha ragione. La destra la attacca aggressivamente per questo, in modo vergognoso, ma bisogna anche chiederle: Ilana, che cosa ha impedito a te di informare su di essa?

L’autocensura dei media israeliani non è l’unica spiegazione. Non solo gli israeliani sono emotivamente immersi soprattutto nella loro ansia e nelle loro enormi sfide, ma c’è anche l’algoritmo delle reti sociali, che isola il mondo di ognuno in modo che sia esposto solo a quello che l’algoritmo determina in anticipo che gli possa piacere.

In un mondo che si presume sia più che mai aperto, siamo intrappolati in bolle chiuse come mai prima d’ora. E proprio come l’attuale erosione dei valori democratici non è operata dai carrarmati nelle strade ma piuttosto da dirigenti che vengono eletti, la disconnessione dal flusso di informazioni e il controllo della consapevolezza non vengono necessariamente realizzati attraverso la censura ufficiale, ma piuttosto da forze volontarie e invisibili.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Analisi| Perché l’Occidente appoggia ancora Israele nonostante un anno di guerra con Hamas ed Hezbollah

Anshel Pfeffer

6 ottobre 2024 – Haaretz

In seguito al 7 ottobre pochi in Israele si aspettavano che la “finestra di legittimità” per distruggere Hamas sarebbe rimasta aperta per un anno intero. Ma i calcoli dell’Occidente, dettati da considerazioni pragmatiche e non dalle immagini della strage a Gaza, non implicano un assegno in bianco per un altro anno di guerra a Gaza, in Libano o contro l’Iran.

Il 7 ottobre al calar del sole, 12 ore dopo che Hamas aveva lanciato il suo attacco da Gaza e persino prima di aver compreso l’intera portata di quello che era appena successo, i politici israeliani si chiedevano quanto tempo avessero per la rappresaglia.

Era scontato che ora ci sarebbe stata una guerra a Gaza e che le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] sarebbero entrate per distruggere le capacità militari di Hamas. Ma quanto tempo avrebbero avuto per farlo? Per mezzo secolo in ogni guerra, dalla campagna del Sinai nel 1956 alla Seconda Guerra in Libano del 2006, a un certo punto Israele è stato obbligato a smettere di combattere e a ritirarsi. La comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, aveva chiesto una sospensione, facendo pressione su Israele perché accettasse un cessate il fuoco.

Nelle menti di quanti hanno pianificato questa guerra non c’erano dubbi che anche il tempo a disposizione di Israele per distruggere Hamas sarebbe stato limitato. Avrebbero avuto, affermavano, “una finestra di legittimità”. E ogni finestra a un certo punto si chiude.

In quei primi giorni, pochi, se non nessuno, si aspettavano che la finestra sarebbe rimasta aperta per un anno intero e che, nel momento del primo anniversario, le IDF sarebbero state ancora operative senza vincoli a Gaza.

La fase iniziale della campagna di terra a Gaza iniziata il 27 ottobre, il devastante attacco di blindati contro Gaza City, era pensata in buona misura con questo in mente: che si trattasse di una breve finestra in cui Israele avrebbe colpito al cuore delle strutture militari e governative di Hamas a Gaza. Che in un qualunque momento in un futuro prossimo le pressioni internazionali avrebbero chiuso quella finestra.

Eppure un anno dopo la finestra è ancora aperta. I tentativi dell’amministrazione Biden e di altri governi di chiuderla sono stati poco convinti. Non ci sono state vere sanzioni, mentre l’embargo sulle armi è stato minimo. Le vere pressioni sono state per consentire l’ingresso di aiuti umanitari e cercare di limitare le dimensioni della campagna militare (come il ritardo nell’entrare a Rafah questa primavera), ma non per porre fine alla guerra.

Ci sono moltissime spiegazioni per questa mancanza di concrete pressioni. Una è la relazione unica del presidente Joe Biden con Israele e la debolezza di altri leader occidentali che sono preoccupati di disordini interni.

Un’altra è il momento in cui è scoppiata la guerra, che è giunta nell’anno di elezioni presidenziali negli USA. Anche il fatto che i Paesi arabi con cui Israele ha già rapporti diplomatici non abbiano minacciato di interromperli è un fattore. Perché l’Occidente dovrebbe impegnarsi quando gli arabi si limitano a fare bei discorsi in pubblico e in privato sperando che Israele la faccia finita con Hamas?

Tutti questi fattori ed altri hanno avuto un peso. Tuttavia c’è una realtà sottesa che in qualche modo è stata trascurata in buona parte dell’informazione e che spiega la riluttanza ad applicare il tipo di pressione a cui Israele non sarebbe in grado di resistere.

Nell’attuale situazione geopolitica, con gli Stati Uniti e i suoi alleati che affrontano sfide in tutto il mondo, dall’Ucraina al Venezuela fino a Taiwan, Israele è parte fondamentale dell’alleanza, fornendo tecnologie ed esperienze militari e scontrandosi nel contempo con l’Iran, un anello fondamentale nell’alleanza rivale.

Potrebbe non essere una cosa che incontra il favore generale, soprattutto nel momento in cui Israele è guidata da un leader impopolare, ma l’Occidente ha bisogno di Israele come alleato e questo è il limite reale a ogni pressione. Quello che Israele porta all’alleanza può essere sintetizzato in due parole.

Quello che Israele mette sul tavolo

Come inviato in Ucraina nei primi mesi della guerra nel 2022 mi aspettavo di incontrare reazioni negative alla vergognosa politica israeliana di neutralità in seguito all’invasione russa. Ma in conversazioni e interviste con gli ucraini a ogni livello non sono riuscito a individuare alcun segno di ostilità. Tutti gli ucraini che ho incontrato vedevano Israele come Nazione “sorella del cuore”.

Mentre resistevano contro il più grande e potente invasore russo, Israele e le sue guerre contro i vicini arabi erano un esempio che intendevano emulare. Sorprendentemente stavano dimenticando i calcoli israeliani per la propria sicurezza nazionale per non irritare Vladimir Putin, ma finivano ogni conversazione con “Per favore, mandateci l’Iron Dome”.

Ironicamente, di tutte le cose che Israele potrebbe e dovrebbe aver mandato all’Ucraina il suo sistema di difesa missilistico Iron Dome sarebbe stato il meno utile. Destinato a difendere zone relativamente piccole intercettando razzi a corto raggio, Iron Dome sarebbe stato di scarsa utilità per proteggere le ampie distese dell’Ucraina dall’arsenale russo di missili a lungo raggio. Ma nei 13 anni dalla prima volta che Iron Dome è diventato operativo ha simbolizzato molto più dell’insieme delle sue potenzialità.

Un politico che ha una passione per i simboli è l’ex-presidente USA Donald Trump. Nel suo confuso discorso di accettazione della nomination alla Convenzione Nazionale Repubblicana di luglio ha detto che “Israele ha un Iron Dome [una cupola di ferro]. Hanno un sistema di difesa missilistica. Trecentoquarantadue missili sono stati sparati contro Israele e solo uno lo ha attraversato un poco.”

Non era vero. Iron Dome è stato a malapena coinvolto nell’intercettare oltre 300 missili e droni iraniani in aprile. Ma i fatti hanno contato ben poco per Trump, e non gli hanno sicuramente impedito di promettere che “stiamo per costruire un Iron Dome sul nostro Paese e stiamo per garantire che niente possa arrivare e danneggiare il nostro popolo.”

Ancora una volta Iron Dome come sistema non aiuterà a proteggere gli estesi Stati Uniti d’America, con un oceano da entrambi i lati, dai missili balistici intercontinentali russi o cinesi. Ma Iron Dome significa molto di più.

Iron Dome è diventato un simbolo di quello che Israele mette sul tavolo. È la seconda arma israeliana ad aver raggiunto un tale livello di rappresentatività a livello globale. Il primo è stato l’Uzi, un mitra compatto e resistente sviluppato per l’IDF negli anni ‘50 che, proprio come Iron Dome, ha raggiunto uno status ben al di là del suo reale uso militare.

Di fatto l’Uzi ha raggiunto il suo periodo d’oro nella cultura popolare molto dopo che smettesse di essere utilizzato dalla maggior parte delle unità di combattimento israeliane. Ma negli anni ’80, quando Hollywood produsse i suoi migliori film d’azione, c’era sempre una scena in cui Chuck, Sly o Arnie si aprivano la strada fuori dai guai con un Uzi che riluceva in ognuna delle loro mani.

Fu l’epitome della solidità inventiva di una piccola Nazione assediata che lottava per sopravvivere contro ogni ostacolo. Era piccolo, ingegnoso e mortale, un simbolo adeguato di tutto ciò che Israele era stato nei suoi primi decenni.

Iron Dome non è solo l’arma israeliana più conosciuta, funge da immagine di come Israele è visto oggi in Occidente.

A differenza dell’Uzi, con il suo telaio squadrato e la sua canna schiacciata, non ha una forma definita, solo una fila di anonime cabine e camere di lancio quadrate. Adolescenti eccitabili non possono immaginarsi mentre sparano con esso, alla Stallone, contro i cattivi. Iron Dome è un algoritmo segreto e piccoli sbuffi di fumo nel cielo o lunghe striature gialle di notte.

Non puoi capire come funziona, solo quello che fa, e quello che quei geni di israeliani hanno di nuovo fatto, solo che ora, invece di saldare qualche pezzo stampato di metallo insieme a un’efficiente molla, lo hanno fatto con la matematica e la tecnologia.

Iron Dome è molto più di uno dei sistemi israeliani di missili difensivi multistrato. È la quintessenza di tutto quello che Israele porta nell’alleanza: la tecnologia, la potenza di fuoco, la condivisione del sapere e dell’intelligenza. Un’immagine del valore e dell’esperienza militari che può apprezzare persino un renitente alla leva senza alcuna conoscenza di strategia militare come Trump.

E se persino Trump lo può capire, i dirigenti più consapevoli, che negli ultimi due anni e mezzo, dopo decenni di scarsi finanziamenti destinati alla difesa, mancanza di investimenti nelle industrie militari e una riduzione di personale che ha inviato i reclutatori dei marines USA fino in Micronesia, hanno cercato di capire come l’Occidente possa attrezzarsi per affrontare una Russia rinascente e una sempre più aggressiva Cina, sanno di non poter rinunciare a un piccolo Paese in grado di costruire una potenza militare avanzata con così poche risorse.

Questa immagine di un Israele avanzato ed efficiente ha contribuito a tenere aperta la finestra a Gaza l’anno scorso, anche se molto di quanto è successo negli ultimi 12 mesi, il fallimento totale dell’intelligence e della tecnologia il 7 ottobre e la totale distruzione di Gaza da allora, hanno eroso la sua immagine. Israele è stato in grado di sfruttare la reputazione che si è costruito prima della guerra.

È il processo opposto a quello che è avvenuto nel caso dell’Ucraina dove, alla vigilia dell’invasione russa, l’Occidente stava per rinunciare e ridurre la sua sconfitta offrendo al presidente Volodymyr Zelenskyy un elicottero per portarlo fuori e creare un governo in esilio. Solo quando nei giorni e nelle settimane successivi è emerso che i valorosi ucraini si sono dimostrati abili nel bloccare, dividere e alla fine distruggere sferraglianti colonne corazzate russe l’Occidente ha iniziato ad aumentare il suo sostegno all’Ucraina con armamenti pesanti sempre più avanzati che valgono decine di miliardi di dollari.

Ciò non ha a che fare con la questione morale a favore dell’Ucraina, ma con fornire all’Occidente un conveniente rapporto qualità-prezzo per erodere le capacità della Russia, evidenziare la sua vulnerabilità e dare all’Occidente più tempo per preparare le sue difese. L’Ucraina ha fatto tutto questo dal febbraio 2022, ed è la ragione per cui ora ha una flottiglia di caccia F-16 e centinaia di carri armati occidentali.

La buona sorte di Israele è stata che quando è iniziata la guerra a Gaza non ha dovuto perorare la causa geopolitica. Più di tutti i tentativi propagandistici di mostrare i dettagli delle atrocità del 7 ottobre per controbilanciare le foto dei bambini palestinesi uccisi nelle rovine di Gaza sui media internazionali, quello che ha tenuto l’Occidente dalla parte di Israele è la necessità di tenerselo nell’alleanza.

È per questo che ci è voluto quasi un anno di pressioni politiche interne prima che i leader di Gran Bretagna e Francia, due Paesi che comunque praticamente non vendono armi a Israele, facessero il minimo gesto di bloccare le armi, anche se in realtà i loro servizi militari e di intelligence continuano a cooperare intensamente con Israele.

È la ragione per cui, nonostante la guerra, il più importante sviluppo nel commercio di armi tra Israele e l’Europa è stato il fatto che la Germania ha firmato un contratto da 4.4 miliardi di dollari per comprare il sistema israeliano di difesa missilistica Arrow come pilastro della sua European Sky Shield Initiative [progetto per costruire un sistema di difesa aerea europeo integrato a terra che includa armi contro i missili balistici, ndt.].

Niente di tutto questo significa che Israele abbia un assegno in bianco per un altro anno di guerra, non solo a Gaza, ma neppure contro Hezbollah e l’Iran.

Ciò significa che i calcoli delle capitali occidentali riguardo a se continuare ad appoggiare Israele non sono, e non saranno, dettati dalle foto del massacro di Gaza, ma da quegli stessi calcoli pragmatici che potrebbero essere stravolti da una guerra totale con l’Iran, e il suo più complessivo impatto geopolitico sulle forniture energetiche a livello globale e sulla Cina.

Il pregio dell’israeliano Iron Dome ne ha fatto una risorsa nell’alleanza occidentale e gli ha garantito un anno in cui è stato in grado di operare a Gaza e in Libano con pochissimi limiti. Non sarà più così se il fronte iraniano continua a peggiorare.

Nel secondo anno di guerra potrebbe scoprire che sta diventando più un ostacolo che un vantaggio.

Anshel Pfeffer è l’inviato di The Economist in Israele.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Analisi| Il successore di Nasrallah potrebbe anteporre la sopravvivenza di Hezbollah alla guerra contro Israele

Zvi Bar’el

28 settembre 2024 – Haaretz

L’Iran affronta la sfida strategica di evitare che i libanesi insorgano contro la sua influenza e al contempo portare avanti lo sforzo diplomatico per la revoca delle sanzioni

Nota redazionale: l’articolo che segue rappresenta un punto di vista israeliano chiaramente connotato. Vi sono alcuni giudizi impliciti e soprattutto omissioni, riguardo ad esempio ai costi umani della situazione determinata dagli attacchi israeliani in Palestina e in Libano. La risposta militare iraniana contro Israele, per quanto moderata, ha in parte smentito le previsioni del commentatore. Abbiamo ritenuto che fosse il caso di tradurlo in quanto presenta comunque un quadro della complessità dell’attuale situazione regionale, che favorisce le mire israeliane.

Al momento la rosa dei candidati alla successione di Hassan Nasrallah come segretario generale di Hezbollah comprende due nomi: Hashem Safi al-Din e Naim Kassem.

Safi Al-Din è capo del Consiglio Esecutivo di Hezbollah, nato nel 1964, cugino di Nasrallah e parente acquisito di Qassem Soleimani, il comandante della “Brigata santa” [spesso chiamata Forza Quds dalla stampa occidentale, è l’unità delle guardie rivoluzionarie responsabile delle operazioni oltreconfine n.d.t.] che fu ucciso dagli Stati Uniti nel 2020.

Il Consiglio esecutivo funge per Hezbollah come una sorta di governo, ne gestisce le operazioni relative agli affari civili ed economici, ne coordina la propaganda, ne amministra la giustizia, gli affari interni e le relazioni estere. In questo modo Hezbollah è diventato in Libano un governo parallelo a quello ufficiale, guidato per gli ultimi tre anni dal primo ministro ad interim Najib Mikati.

Come Nasrallah, Safi Al-Din operava sotto il patrocinio di Imad Mughniyeh, comandante militare di Hezbollah che fu ucciso a Damasco nel 2008. Secondo gli studiosi che si occupano di Hezbollah, era candidato alla posizione di segretario generale dopo l’omicidio mirato di Abbas Musawi nel 1992.

Anche Naim Qassem, vice di Nasrallah, 70 anni, è stato indicato come possibile sostituto, ma è considerato più una figura simbolica, benché dotto studioso di religione e tenuto in alta considerazione nel Consiglio della Shura di Hezbollah. È stato tra i fondatori di Hezbollah e tra coloro che ne hanno determinato l’ideologia, ma ha poca esperienza sul piano militare e amministrativo, essendosi occupato perlopiù di questioni culturali ed educative. È stato a capo del Consiglio esecutivo, sotto Musawi prima e Nasrallah poi, fino al 1994, quando è stato sostituito da Safi Al-Din.

La rapidità con cui il successore sarà scelto, ufficialmente dalla Shura ma di fatto da Teheran, è di importanza fondamentale per dimostrare che Hezbollah continua a funzionare nonostante il duro colpo inflitto ai suoi vertici e la perdita del suo capo. Occorre nominare una serie di alti funzionari che redigano un rapporto sulla situazione tattica e che siano un riferimento per le centinaia di migliaia di libanesi sciiti le cui vite oggi come ieri dipendono dall’organizzazione.

Il nuovo capo avrà inoltre il compito di ripristinare lo status politico di Hezbollah in Libano non solo in quanto responsabile della lotta contro Israele, ma come organizzazione responsabile della risorsa più preziosa per l’Iran in Medio Oriente sul piano strategico, diplomatico e ideologico. Anche se il comando militare di Hezbollah è stato distrutto, l’organizzazione controlla ancora l’infrastruttura civile ed economica, come anche il potere politico di determinare il futuro del Libano sia a breve che a lungo termine.

Anche se Israele riuscisse a distruggere l’intero arsenale missilistico con cui Hezbollah lo minaccia, le armi che rimangono in mano all’organizzazione saranno ancora sufficienti a intimidire il fronte interno libanese fintantoché il paese non disporrà di un vero esercito, equipaggiato e addestrato, che possa tenere testa a Hezbollah. L’Iran teme che questa leva possa ora perdere la sua efficacia in seguito ai duri colpi subiti da Hezbollah, cosa che potrebbe portare i libanesi a rialzare la testa, considerato il caro prezzo sostenuto per una guerra che non è la loro, la cui ragione non è la difesa della patria ma il sostegno ad Hamas.

Nonostante le aspre critiche che si sono intensificate durante la guerra, in particolare nelle ultime due settimane, i libanesi e i rivali politici di Hezbollah non sono ancora scesi in piazza per contestare l’organizzazione.

Ma nella storia recente del Paese i libanesi hanno già dato diverse prove della loro forza. Nel 2005, in seguito all’omicidio del primo ministro Rafik al-Hariri, hanno cacciato le forze siriane fuori dal Paese, mentre nel 2008 hanno contrastato violentemente Hezbollah in uno scontro che ha lasciato sul terreno decine di morti. Hanno rovesciato governi e costretto ministri alle dimissioni, e soprattutto, a differenza di Gaza, hanno un Paese dotato di un assetto collettivo nazionale che essi ritengono essere stato compromesso dall’Iran per mezzo di Hezbollah.

Poiché i servizi sanitari e sociali di Hezbollah non sono più in grado di sopperire ai bisogni dei feriti o di più di un milione di libanesi sfollati dalle loro case, il gruppo è costretto a fare affidamento sui servizi dello stesso governo che aspirava a sostituire, e la sfida strategica per l’Iran è di evitare una situazione in cui il Paese e la sua popolazione respingano, o almeno erodano, lo status di Hezbollah come partito che determina la politica e il carattere della Nazione.

“Possiamo aspettarci che Yahya Sinwar [capo di Hamas] annunci un accordo su un cessate il fuoco per salvare il Libano ed Hezbollah?” ha recentemente chiesto con puntuto sarcasmo a un ospite il conduttore di un programma di informazione dell’emittente saudita Al-Hadath (un canale di Al-Arabiya, che è stata creata per competere con Al Jazeera).

La possibilità di quello scambio di ruoli che il presentatore ha cercato di suggerire, nel quale sono Hamas e i suoi capi a spendersi in “supporto” di Hezbollah, è adesso per l’Iran un grosso problema, che riguarda non solo lo status di Hezbollah ma quello di tutti gli alleati subalterni della Repubblica Islamica. In qualità di coordinatore e guida della “sala operativa” congiunta del “fronte di supporto” durante la guerra di Gaza, Nasrallah ha assunto a livello regionale un’importanza superiore a quella del comandante della “Brigata santa” delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Esmail Ghaani.

Ora l’Iran potrebbe subire le ripercussioni non solo della minaccia al controllo di Hezbollah in Libano, ma anche contro la posizione delle milizie sciite pro-iraniane in Iraq e degli Houthi in Yemen, anche se questi ultimi non si coordinano necessariamente con l’Iran. Nonostante la scorsa settimana i rispettivi rappresentanti di queste organizzazioni fiancheggiatrici si siano impegnati a mandare migliaia di combattenti in Libano se Israele avesse lanciato un’operazione di terra, e anche ad attaccare obiettivi americani in Siria e Iraq, non è certo che l’Iran accetterà, per il timore di trascinare l’Iraq nella campagna – questa volta contro gli Stati Uniti. E non è solo con l’Iraq che l’Iran potrebbe entrare in conflitto.

Se l’Iraq manderà migliaia di combattenti in Libano, essi avranno bisogno del consenso della Siria per attraversare il suo territorio. Damasco, che per adesso non ha preso parte al “fronte di supporto” né di Hamas né di Hezbollah, comportandosi come se questo fosse un dramma che non la riguarda, non vorrà impegnarsi attivamente in una campagna che farebbe del regime un bersaglio di attacchi diretti da parte di Israele.

L’Iran ha diverse altre preoccupazioni strategiche che riguardano la sua posizione nella regione e le sue ambizioni politiche. Dall’elezione a presidente di Masoud Pezeshkian, e contestualmente dalla nomina di Mohammad Javad Zarif a vicepresidente per gli Affari Strategici e Abbas Araghchi a ministro degli Esteri – due degli architetti dell’accordo nucleare del 2015 – l’Iran ha lanciato un’offensiva diplomatica internazionale con l’intenzione di ottenere la revoca delle sanzioni che gli sono state imposte.

Poiché Pezeshkian ha annunciato a New York la scorsa settimana [il 24 settembre n.d.t.] che l’Iran è pronto a deporre le armi se Israele farà lo stesso, ed ha ripetutamente dichiarato che l’Iran non cerca una guerra regionale e che ambisce a cooperare per il cessate il fuoco in Libano, un attacco contro Israele da parte dell’Iran o dei suoi fiancheggiatori sarebbe non solo in contraddizione con la strategia dichiarata da Teheran, ma andrebbe chiaramente contro i suoi interessi.

La Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei, commentando l’uccisione di Nasrallah, ha dichiarato: “Il destino di questa regione sarà deciso dalle forze della resistenza, Hezbollah in testa”. Ha invitato i musulmani a “stare al fianco del popolo libanese e della fiera Hezbollah con ogni mezzo a disposizione”. Le sue parole potrebbero indicare la politica che guiderà l’Iran. Le “forze della resistenza”, non l’Iran, decideranno, e quando un leader come Khamenei fa appello a “tutti i musulmani” senza chiarire che cosa farà l’Iran significa – almeno per adesso – che l’Iran non ha ancora deciso se e come intervenire.

Chiunque sarà il prossimo comandante di Hezbollah dovrà districarsi in una trama di forze e considerazioni nuove, completamente diverse da quelle che Nasrallah ha costruito nei suoi 32 anni da segretario generale, in cui la sopravvivenza di Hezbollah in Libano è probabilmente molto più importante della guerra contro Israele.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Israele sta estendendo il suo terrorismo di stato da Gaza e dalla Cisgiordania al Libano

B. Michael

24 settembre 2024 – Haaretz

Scusate, qualcuno per favore può spiegarmi la differenza tra far esplodere 5.000 bombe su 5.000 case in Libano e collocarne una su un autobus o sganciare bombe a grappolo su quartieri in cui per caso vivono anche dei criminali?

Come puoi paragonare queste cose?”, vengo ovviamente redarguito. “5.000 cercapersone sono stati consegnati solamente a temibili combattenti di Hezbollah, mentre le bombe sugli autobus o le bombe a grappolo sono destinate a colpire chiunque a caso.”

Scusate”, rispondo ai miei denigratori. “Le persone che hanno distribuito i cercapersone non potevano sapere dove sarebbe esplosa la bomba, chi l’avrebbe tenuta in mano, dove si sarebbe trovata, quanta gente sarebbe stata nelle vicinanze. Se fosse stata in un negozio di alimentari, nelle mani di un bambino curioso, forse in un’auto ad un distributore di benzina o nelle mani di una fidanzata?”

E chi ha avuto la mostruosa idea di inserire esplosivi in apparecchi che avrebbero mutilato il corpo delle vittime? È un atto premeditato. L’obiettivo era cavare gli occhi, castrare le persone, smembrare i visceri o troncare una mano? Era una preoccupazione compassionevole per la vita delle vittime o riempire la loro vita di sofferenza?

E potreste, sempre col vostro permesso, spiegarmi per favore qual è la differenza tra la stupida allegria della folla di Gaza e le sue grida di gioia vedendo gli ostaggi camminare nelle strade di Gaza, e le disgustose battute e grida di gioia della folla israeliana nel sentire le descrizioni dei feriti in Libano? Forse non hanno fatto altro che insegnarci che una folla è una folla. Che sia o no del popolo eletto di Dio.

Sentendo queste voci di giubilo sorge quasi spontaneamente l’effimero pensiero che forse anche noi abbiamo ricevuto un cercapersone e che anche noi siamo stati colpiti da una provvisoria cecità e che anche noi non siamo più capaci di vedere dove stiamo andando. Israele non ha ancora imparato abbastanza da capire che tutta questa mortale scena pirotecnica, tutti i festeggiamenti per le uccisioni e i giubili per gli assassinii non aiutano affatto e non cambiano nulla? Tutto questo, comprese le esplosioni dei cercapersone, non fa che far ribollire il sangue, fomentare l’odio e approfondire il pantano.

Con profondo dispiacere e vergogna, non c’è modo di evitare di dire che Israele ha compiuto un altro gigantesco passo verso il via libera al terrorismo di Stato. Ha imposto terrore e sofferenza ad un’intera popolazione, usando mezzi violenti e incontrollati. È ciò che avviene a Gaza, nella Cisgiordania occupata ed ora in Libano.

Chi cerca giustificazioni ribatterà: “Vogliono distruggerci!” Certo. E noi, che cosa vogliamo in fin dei conti? Non molto. Solo tutta la terra dall’Eufrate al Nilo. Ovviamente solo per gli ebrei. Ecco ciò che vogliamo. È chiedere troppo? È stato Dio a dirlo! Così dice chi comanda, senza esitazioni ed esplicitamente.

E quale sarà la prossima fase del legittimo terrorismo di Stato? Gli attentatori suicidi? Non è un’ipotesi assurda. Abbiamo già avuto qualcosa del genere. I suoi seguaci sono già al potere. Avvelenare i pozzi? Certo. Non è forse una simpatica abitudine nei campi della Cisgiordania occupata? Limitare le nascite? Nessun problema. Quasi tutti gli ospedali e i reparti maternità a Gaza sono già ridotti in rovine.

Bene, allora ovviamente il passo successivo sarà il piano di Giora Eiland [maggiore generale in pensione ed ex capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza, ndt.) per conquistare il Libano. I libanesi dovranno muovere il culo verso la costa entro due settimane. Solo coloro che hanno attestati di appartenenza a Hezbollah resteranno sul restante territorio. Dopo che i civili che non sono membri ufficiali di Hezbollah saranno fuggiti sapremo che tutti quelli rimasti sul territorio sono terroristi ed inizieremo il procedimento di trasformarli in prigionieri quasi morti. Senza cibo, ci vorranno due mesi. Se gli togliamo anche l’acqua, possiamo porre fine all’intera faccenda in una settimana.

E come promesso, la vittoria finale arriverà presto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Gli israeliani devono chiedersi se sono disposti a vivere in un Paese che si nutre di sangue

Gideon Levy

15 settembre 2024 – Haaretz

Israele si sta trasformando, con una velocità allarmante, in un Paese che si nutre di sangue. I crimini quotidiani dell’occupazione sono ormai i meno rilevanti. Nell’ultimo anno è emersa una nuova realtà di uccisioni di massa e crimini di portata completamente diversa. Ci troviamo in una realtà genocida; è stato versato il sangue di decine di migliaia di persone.

Questo è il momento in cui tutti gli israeliani dovrebbero chiedersi se sono disposti a vivere in un Paese che si nutre di sangue. Non dite che non c’è scelta, certo che c’è, ma prima dobbiamo chiederci se siamo davvero disposti a vivere in questo modo.

Noi israeliani siamo disposti a vivere nell’unico Paese al mondo la cui esistenza è fondata sul sangue? L’unica prospettiva diffusa in Israele ora è quella di vivere da una guerra all’altra, da uno spargimento di sangue all’altro, da un massacro all’altro, con pause più lunghe possibile.

Non c’è nessun’altra prospettiva sul tavolo. Gli ottimisti promettono pause prolungate, mentre la destra promette una realtà intrisa costantemente di sangue: guerra, uccisioni di massa, violazioni sistematiche del diritto internazionale, uno Stato paria, che si ripetono in un ciclo infinito.

I palestinesi continueranno a essere massacrati e gli israeliani continueranno a chiudere gli occhi? Difficile da credere. Verrà un tempo in cui più israeliani apriranno gli occhi e riconosceranno che il loro Paese sopravvive nutrendosi di sangue. Senza spargimento di sangue, ci viene detto, non potremmo esistere, e con questa orribile affermazione mettiamoci l’anima in pace.

Non solo crediamo che un Paese del genere possa esistere per sempre, siamo convinti che senza l’apporto di sangue non potrebbe esistere. Ogni tre anni un massacro a Gaza, ogni quattro anni in Libano. Nel mezzo c’è la Cisgiordania e, occasionalmente, un’incursione sanguinaria verso obiettivi aggiuntivi. Non esiste un altro Paese come questo al mondo.

Il sangue non può essere il carburante del Paese. Proprio come nessuno immaginerebbe di guidare un’auto alimentata dal sangue, non importa quanto economica, è difficile immaginare 10 milioni di abitanti disposti a vivere in un Paese che si alimenta col sangue. La guerra a Gaza è uno spartiacque. È così che andremo avanti?

I media cercano di convincerci che questa sia una necessità. Attraverso campagne che demonizzano e disumanizzano i palestinesi, un coro unito e mostruoso di commentatori ci sta vendendo con successo l’idea che possiamo vivere per l’eternità di sangue. “Taglieremo l’erba” a Gaza ogni due anni, giustizieremo generazioni dopo generazioni di giovani oppositori del regime, imprigioneremo decine di migliaia di persone nei campi di concentramento, espelleremo, abbatteremo, esproprieremo e, naturalmente, uccideremo, ed è così che vivremo: nel Paese insanguinato.

Abbiamo già ucciso il popolo palestinese. Abbiamo iniziato con le uccisioni di massa a Gaza, e ora ci siamo dedicati alla Cisgiordania. Anche lì verrà versato sangue a litri, se nessuno fermerà le armi. L’uccisione è sia fisica che mentale. Ora non rimane più nulla di Gaza.

I detenuti, gli orfani, i traumatizzati, i senzatetto, non torneranno mai più a essere ciò che erano. I morti di certo non lo faranno. Ci vorranno generazioni perché Gaza si riprenda, se mai ci riuscirà. Questo è un genocidio, anche se non dovesse soddisfare la definizione legale. Un Paese non può vivere di una simile ideologia, certamente non quando intende andare avanti in questo modo.

Supponiamo che il mondo continui a permetterlo. La domanda è se noi, gli israeliani, siamo disposti a permetterlo. Per quanto tempo possiamo vivere con la consapevolezza che la nostra esistenza dipenda dal sangue. Quando ci chiederemo se non ci sia davvero alcuna alternativa a un Paese insanguinato? Dopotutto, non c’è nessun altro Paese come questo.

Israele non ha mai seriamente provato un’altra strada. È stato programmato e diretto per comportarsi come un Paese che si nutre di sangue, ancora di più dopo il 7 ottobre. Come se quel giorno terribile, dopo il quale tutto è lecito, avesse suggellato il suo destino di Paese insanguinato.

Il fatto è che non è stata discussa alcuna altra alternativa possibile. Ma un Paese insanguinato non è un’opzione, proprio come non lo è un’auto alimentata a sangue. Quando ce ne renderemo conto inizieremo a cercare le alternative, anche solo per mancanza di altre opzioni. Queste sono lì e aspettano di essere messe alla prova. Potrebbero sorprenderci, ma nella realtà attuale è impossibile anche solo proporle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In esclusiva per Haaretz | Israele sta reclutando richiedenti asilo africani per operazioni potenzialmente letali nella guerra a Gaza, promettendo permessi di soggiorno permanenti

Yaniv Kubovich e Bar Peleg

15 settembre 2024 – Haaretz

I funzionari degli apparati di sicurezza israeliani offrono come incentivo il permesso di soggiorno permanente ai richiedenti asilo che accettano di partecipare a operazioni talvolta potenzialmente letali a Gaza. Secondo alcune fonti le critiche dall’interno di questa forma di sfruttamento sono state messe a tacere: “Si tratta di una questione molto problematica”.

L’apparato di difesa israeliano sta offrendo la propria assistenza nell’ottenimento del permesso di soggiorno permanente ai richiedenti asilo africani che contribuiscano – rischiando le loro vite – allo sforzo bellico a Gaza. Questo secondo le testimonianze personali raccolte da Haaretz.

Funzionari della difesa sostengono in via confidenziale che il progetto è condotto in modo organizzato, sotto la guida di consulenti legali del sistema difensivo israeliano.

Le implicazioni etiche del reclutamento di richiedenti asilo invece non sono state affrontate. Fino a oggi nessuno dei richiedenti asilo che hanno contribuito allo sforzo bellico ha ottenuto il permesso di soggiorno.

Al momento sono circa 30.000 gli africani richiedenti asilo che vivono in Israele, la maggior parte dei quali giovani uomini. Circa 3.500 sono cittadini del Sudan con permessi temporanei rilasciati dal tribunale perché lo Stato non ha evaso le loro richieste di asilo.

Tre richiedenti asilo furono uccisi durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre. In seguito, molti si sono offerti volontari per lavori agricoli e centri di comando civili [centri che forniscono alcuni servizi essenziali in caso di conflitto, concepiti sulla falsariga dei centri di comando militari, quelli civili si attivano in situazioni di emergenza per provvedere ai più disparati bisogni che possono insorgere sul fronte interno, offrendo servizi come l’ospitalità agli sfollati o il babysitteraggio per i lavoratori essenziali, pasti caldi ed equipaggiamento per i soldati al fronte, ecc. n.d.t.], mentre alcuni si sono arruolati nell’esercito israeliano. I funzionari dell’esercito si sono resi conto che i richiedenti asilo potevano tornare utili e che il loro desiderio di ottenere un permesso di soggiorno permanente in Israele poteva essere sfruttato come incentivo.

Un uomo che chiede di pubblicare solo l’iniziale del suo nome, A., è arrivato in Israele all’età di 16 anni nel contesto di una grande ondata migratoria. Il permesso di soggiorno temporaneo che gli è stato rilasciato gli assicura la maggior parte dei diritti riconosciuti agli israeliani, ma deve essere periodicamente rinnovato presso l’Autorità per l’immigrazione e la popolazione del Ministero dell’Interno, e non gli garantisce il soggiorno permanente. In passato, come molti altri richiedenti asilo che trovano nell’esercito il modo migliore per integrarsi nella società israeliana, aveva cercato di arruolarsi.

In uno dei primi mesi di guerra, A. ha ricevuto una telefonata da qualcuno che sosteneva di essere un ufficiale di polizia e che gli intimava di recarsi immediatamente a una struttura di sicurezza, senza fornire ulteriori spiegazioni.

“Vieni qui e poi parliamo” gli è stato detto, secondo quanto A. riferisce. Quando è arrivato, si è reso conto che era andato a incontrare i “tipi della sicurezza”, come li chiama lui. “Mi hanno detto che stavano cercando persone speciali che si unissero all’esercito. Mi hanno detto che era una questione di vita o di morte per Israele”, ha riferito a Haaretz. Si trattava del primo di una serie di incontri con un uomo che si è presentato come un ufficiale di sicurezza che stava reclutando richiedenti asilo per l’esercito. Gli incontri hanno avuto luogo nell’arco di circa due settimane e sono terminati quando A. ha deciso di non arruolarsi.

A. ha incontrato nuovamente l’ufficiale, questa volta in un luogo pubblico. L’uomo gli ha dato 1.000 shekel (circa 240 euro) in contanti come rimborso per le giornate di lavoro perse a causa degli incontri. Gli ha anche assicurato che la paga che avrebbe ricevuto per il servizio militare sarebbe stata simile a quella che guadagna con il suo lavoro.

“Gli ho chiesto, cosa me ne viene? Anche se non voglio niente in particolare. Ma poi mi ha detto – Se fai così puoi ricevere documenti dallo Stato di Israele. Mi ha chiesto di mandargli una fotocopia della mia carta di identità e ha detto che si sarebbe occupato lui di queste cose”.

Dopo che è stato fissato un appuntamento per il suo arruolamento, A. ha cominciato ad avere dei ripensamenti. “Volevo andare, facevo sul serio, ma poi ho pensato – solo due settimane di addestramento e poi prendere parte alla guerra? Non ho mai toccato un’arma in vita mia”. Poco prima che il suo addestramento cominciasse, A. ha detto al suo contatto che aveva cambiato idea. L’uomo si è arrabbiato, dice A. “Ha detto che non se l’aspettava da me”, ma non ha rinunciato completamente. “Ha detto: continuiamo a parlarne e se vuoi puoi entrare in un secondo momento”.

A. non sa per quale motivo proprio lui sia stato contattato invece di altri, e dice: “Il tipo mi ha detto che stavano cercando persone speciali. Gli ho chiesto che cosa mi rendesse speciale, lui non mi conosce per niente”.

Fonti dell’esercito dicono che l’apparato di difesa ha fatto ricorso ai richiedenti asilo in diverse operazioni, alcune delle quali sono state riportate dai media. Haaretz ha appreso che alcune persone si sono opposte a questa pratica in quanto sfrutta persone che sono fuggite dai propri Paesi a causa della guerra. Tuttavia, secondo quelle fonti, queste voci sono state messe a tacere.

“Si tratta di una questione molto problematica” ha detto una fonte. “Il coinvolgimento di giuristi non assolve nessuno dall’obbligo di tenere conto dei valori secondo i quali aspiriamo a vivere in Israele”.

Alcune fonti che hanno parlato con Haaretz hanno rivelato che, anche se ci sono state alcune richieste di informazioni circa la concessione di permessi di soggiorno a richiedenti asilo che hanno preso parte ai combattimenti, nessuno in realtà ha ottenuto tali permessi.

Haaretz ha inoltre appreso che il Ministero dell’Interno ha preso in considerazione la possibilità di arruolare nell’esercito israeliano i figli di richiedenti asilo che abbiano completato gli studi nelle scuole israeliane. In passato, il governo ha permesso ai figli di lavoratori stranieri di prestare servizio nell’esercito israeliano in cambio della concessione di permessi di soggiorno ai componenti del nucleo famigliare.

L’organo competente della Difesa ha risposto ad Haaretz che tutte le sue azioni sono condotte secondo la legge. Il modo in cui l’esercito israeliano utilizza i richiedenti asilo sul campo è materia in merito alla quale è proibita la pubblicazione.

(Traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)