Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è?

Hagai El-Had

13 maggio 2024 – Haaretz Opinion

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo lOlocausto la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme allepoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dellOlocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dellattuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra dIsraele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso loppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le ripetute fasidel conflitto con Gaza, la violenza dellesercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dellhasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi quelli che si trovano ancora a Gaza non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui trattiamo gli arabi. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e laltra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più'”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sullidea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dallAlta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né allestero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dallessere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per lOlocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un palestinese rilasciato dal carcere israeliano descrive i pestaggi, la violenza sessuale e la tortura

Gideon Levy e Alex Levac

28 aprile 2024 – Haaretz

Amer Abu Halil, un abitante della Cisgiordania che è stato attivista di Hamas ed è stato incarcerato senza processo, racconta la quotidianità in tempo di guerra che ha vissuto nel carcere israeliano di Ketziot

Non vi è somiglianza tra il giovane seduto insieme a noi per ore nel suo cortile questa settimana e il video del suo rilascio dalla prigione la settimana scorsa. Nella clip lo stesso giovane – con la barba, trasandato, pallido e scarno – sembra camminare a stento; ora è ben curato e sfoggia una giacca rossa con un fazzoletto a quadretti infilato nel taschino. Per 192 giorni in prigione è stato costretto a indossare gli stessi abiti – forse questo spiega la sua attuale estrema eleganza.

E non vi è neppure somiglianza tra ciò che lui racconta in un ininterrotto fiume di parole che è difficile arrestare – resoconti sempre più scioccanti, uno dopo l’altro, supportati da date, esemplificazioni fisiche e nomi – e ciò che sapevamo finora riguardo a quanto accade nelle strutture carcerarie israeliane dall’inizio della guerra. Dal momento del suo rilascio lunedì della scorsa settimana non ha mai dormito di notte per la paura di essere nuovamente arrestato. E vedere un cane per strada lo terrorizza.

La testimonianza di Amer Abu Halil, della città di Dura vicino Hebron, già attivista di Hamas, su quanto avviene nel carcere di Ketziot nel Negev è persino più scioccante dello spaventoso racconto riportato su queste colonne un mese fa da un altro prigioniero, Munther Amira di 53 anni, detenuto nella prigione di Ofer. Amira paragonava la sua prigione a Guantanamo, Abu Halil chiama Abu Ghraib il suo carcere, evocando la famigerata struttura nell’Iraq di Saddam Hussein utilizzata in seguito dagli alleati dopo la caduta di Saddam.

Tra i candidati alle sanzioni USA il Servizio Penitenziario Israeliano dovrebbe essere il prossimo della lista. È palesemente l’ambito in cui gli istinti sadici del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir trovano sfogo.

Siamo stati accompagnati in visita a casa di Abu Halil a Dura questa settimana da due ricercatori sul campo di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: Manal al-Ja’bari e Basel al-Adrah. Il trentenne Abu Halil è sposato con la 27enne Bushra ed è padre di Tawfiq di 8 mesi, nato mentre lui era in prigione. Abu Halil lo ha incontrato per la prima volta la scorsa settimana, ma per lui è ancora emotivamente difficile tenere in braccio il neonato.

Abu Halil è laureato in comunicazioni all’università Al-Quds di Abu Dis, adiacente a Gerusalemme, dove è stato attivo nel settore scolastico di Hamas ed è un ex portavoce dell’agenzia palestinese per le comunicazioni cellulari e wireless Jawwal.

Dal suo primo arresto nel 2019 ha passato un periodo totale di 47 mesi nelle carceri israeliane, molti dei quali in “detenzione amministrativa” – in cui il detenuto non è sottoposto a processo. Una volta lo ha trattenuto anche l’Autorità Nazionale Palestinese, ma non ha riferito dell’interrogatorio. Come alcuni dei suoi fratelli Amer è attivista di Hamas, ma non è “una figura di spicco di Hamas”, dice nelle poche parole in ebraico apprese in carcere.

I fratelli: Umar, di 35 anni, vive in Qatar; Imru, che soffre di un tumore, è detenuto nel carcere di Ofer per la sua attività in Hamas e ha passato sette anni in carceri israeliane e 16 mesi in una prigione palestinese; il 23enne Amar è seduto con noi in una veste bianca e una kefiah – è imam della moschea di Dura e spera di ricoprire presto lo stesso ruolo in una moschea in Nord Carolina, dove vorrebbe emigrare. Dal 2013 tutti i fratelli – Amer, Amar, Imru e Umar, non si sono mai seduti insieme a un pranzo di festa. Qualcuno di loro era sempre in carcere.

Una volta Amer Abu Halil è stato convocato per un interrogatorio dal servizio di sicurezza (interna) Shin Bet con una telefonata a suo padre: “Perché ultimamente non sei andato a pregare in moschea?” gli ha chiesto l’agente dello Shin Bet. “La tua tranquillità è sospetta”. “Quando sono tranquillo mi sospettate, quando non lo sono, ugualmente”, ha detto a chi lo interrogava. Ecco come lo hanno “incastrato”, come si suol dire.

È passato da un interrogatorio all’altro fino al 4 dicembre 2022 quando la sua casa è stata devastata nel cuore della notte, lui è stato nuovamente arrestato e nuovamente posto in detenzione amministrativa senza processo. Questa volta è stata per 4 mesi, rinnovati per due volte, ogni volta per ulteriori 4 mesi. Abu Halil doveva essere scarcerato nel novembre 2023. Ma è scoppiata la guerra e nelle carceri è avvenuto un cambiamento radicale. I termini previsti per il rilascio di tutti i prigionieri di Hamas, tra i quali Abu Halil, sono stati prorogati automaticamente e radicalmente.

Nell’ultimo periodo lavorava come cuoco nel braccio del carcere riservato a Hamas. Il giovedì prima dello scoppio della guerra pensava di preparare dei falafel per i 60 detenuti del reparto, ma poi ha deciso di rimandare i falafel a sabato. Venerdì ha tenuto il sermone per le preghiere del pomeriggio ed ha parlato di speranza.

Sabato si è svegliato alle 6 del mattino per preparare i falafel. Ma i detenuti non avevano più il permesso di prepararsi il cibo o tenere sermoni. Poco più tardi Channel 13 trasmette immagini di fuoristrada di Hamas che attraversano Sderot e una pioggia di razzi sparati da Gaza cade nell’area del carcere, che si trova a nord di Gerusalemme, in Cisgiordania. “Allahu akbar” – “Dio è grande” – dicono i prigionieri di conseguenza, come una benedizione. Si sono rifugiati sotto i letti per ripararsi dai razzi; per un attimo hanno pensato che Israele fosse stato conquistato.

Intorno a mezzogiorno sono arrivati gli agenti penitenziari ed hanno requisito tutte le televisioni, le radio e i telefoni cellulari che erano stati fatti entrare di contrabbando. Il mattino seguente non hanno aperto le celle. L’ammanettamento, le percosse e le violenze sono cominciati il 9 ottobre. Il 15 ottobre numerose forze sono entrate nel carcere ed hanno confiscato tutti gli oggetti personali nelle celle, compresi orologi e addirittura l’anello che portava Abu Halil ed era appartenuto al defunto padre. Quello è stato l’inizio di 192 giorni durante i quali non ha potuto cambiarsi d’abito. La sua cella, prevista per ospitare cinque persone, ne conteneva 20, poi 15 e più di recente 10. Molti di loro dormivano sul pavimento.

Il 26 ottobre numerose forze dell’unità Keter del Servizio Penitenziario, un’unità di intervento tattico, accompagnate da cani di cui uno slegato, sono entrate nel carcere. I guardiani e i cani si sono scatenati attaccando i detenuti le cui urla hanno gettato nel terrore l’intera prigione, ricorda Abu Halil. I muri si sono presto imbrattati del sangue dei reclusi. “Voi siete Hamas, voi siete ISIS, avete stuprato, ucciso, rapito e adesso è arrivato il vostro turno”, ha detto una guardia ai prigionieri. I colpi che sono seguiti sono stati brutali, i detenuti sono stati incatenati.

Le percosse sono diventate quotidiane. A volte le guardie chiedevano ai prigionieri di baciare una bandiera israeliana e declamare “Am Yisrael Chai!” – “Il popolo di Israele vive”. Gli si ordinava anche di ingiuriare il profeta Maometto. La solita chiamata alla preghiera nelle celle è stata proibita. I prigionieri avevano paura di pronunciare qualunque parola con la iniziale “h” per timore che le guardie sospettassero che avessero detto “Hamas”.

Il 29 ottobre è stata interrotta la fornitura di acqua corrente nelle celle, tranne che tra le 14 e le 15,30. E a ogni cella veniva concessa solo una bottiglia per riempirla d’acqua per l’intero giorno, che doveva essere spartita tra 10 compagni, compreso l’uso del bagno dentro la cella. Le porte dei bagni erano state eliminate dalle guardie; i detenuti si coprivano con una coperta quando facevano i loro bisogni. Per evitare il fetore nella cella cercavano di trattenersi fino a che l’acqua fosse disponibile.

Durante l’ora e mezza in cui vi era acqua corrente i prigionieri assegnavano cinque minuti nel bagno ad ogni compagno di cella. In assenza di prodotti per la pulizia, pulivano la toilette e il pavimento con il poco shampoo che gli era fornito, usando le mani nude. Non vi era elettricità. Il pranzo consisteva in una piccola scodella di yogurt, due piccole salsicce mezze crude e sette fette di pane. Alla sera ricevevano una ciotolina di riso. A volte le guardie consegnavano il cibo gettandolo in terra.

Il 29 ottobre i detenuti nella cella di Abu Halil hanno chiesto uno straccio per pulire il pavimento. La risposta è stata mandare nella loro cella la terribile unità Keter. “Ora farete come i cani”, ha ordinato la guardia. Le mani dei prigionieri sono state ammanettate dietro la schiena. Anche prima di essere ammanettati è stato loro ordinato di muoversi solo con la schiena curva. Sono stati portati in cucina dove sono stati denudati e costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro, una pila di 10 prigionieri nudi. Abu Halil era l’ultimo. Sono stati picchiati con bastoni e gli hanno sputato addosso.

Poi una guardia ha cominciato a infilare carote nell’ano di Abu Halil e degli altri prigionieri. Ora, seduto in casa raccontando la sua storia, Abu Halil abbassa lo sguardo e il flusso di parole rallenta. E’ molto in imbarazzo nel parlarne. Poi, continua, i cani si sono avventati su di loro attaccandoli. Infine gli è stato permesso di mettersi le mutande prima di essere riportati in cella, dove hanno trovato i loro vestiti gettati in un mucchio.

L’altoparlante nella stanza non taceva un secondo, con insulti al leader di Hamas Yahya Sinwar o una prova suono nel mezzo della notte sulle note di “Svegliatevi maiali!”, per privare del sonno i prigionieri. Le guardie druse insultavano e offendevano in arabo. Sono stati sottoposti a controlli con un metal detector mentre erano nudi e lo strumento è stato usato anche per colpire i testicoli. Durante un controllo di sicurezza il 2 novembre sono stati costretti a cantare “Am Yisrael am hazak” (“Il popolo di Israele è un popolo forte”), una variazione sul tema. I cani hanno urinato sui loro sottili materassi, lasciando un’orribile puzza. Un prigioniero, Othman Assi di Salfit, nella Cisgiordania centrale, ha implorato un trattamento meno severo: “Sono disabile”. Le guardie gli hanno detto: “Qui nessuno è disabile”, ma hanno acconsentito a togliergli le manette.

Ma il peggio doveva ancora arrivare.

5 novembre. Era una domenica pomeriggio, ricorda. L’amministrazione ha deciso di spostare i prigionieri di Hamas dal blocco 5 al blocco 6. I detenuti delle celle 10, 11 e 12 sono stati fatti uscire con le mani legate dietro la schiena e la solita camminata curva. Cinque guardie, i cui nomi Abu Halil riferisce, li hanno portati nella cucina. Sono stati nuovamente denudati. Questa volta sono stati presi a calci sui testicoli. Le guardie gli si avventavano addosso e colpivano, ancora ed ancora. Una brutalità senza tregua per 25 minuti. “Noi siamo Bruce Lee”, gridavano le guardie. Li hanno sbattuti e spinti come palle da un angolo all’altro della stanza, poi li hanno spostati nelle loro nuove celle del blocco 6.

Le guardie sostenevano di aver sentito Abu Halil dire una preghiera per Gaza. A sera l’unità Keter è entrata nella sua cella e ha cominciato a picchiare tutti, compreso il 51enne Ibrahim al-Zir di Betlemme, che è ancora in prigione. Aveva un occhio quasi fuori dall’orbita per i colpi. Poi i prigionieri sono stati fatti stendere a terra mentre le guardie li calpestavano. Abu Halil ha perso conoscenza. Due giorni dopo c’è stato un altro pestaggio ed è nuovamente svenuto. “Questa è la vostra seconda Nakba”, hanno detto le guardie, riferendosi alla catastrofe subita dai palestinesi quando fu fondato Israele. Una delle guardie ha colpito Abu Halil alla testa con un elmetto.

Tra il 15 e il 18 novembre sono stati picchiati tre volte al giorno. Il 18 novembre le guardie hanno chiesto chi di loro fosse di Hamas e nessuno ha risposto. I colpi non hanno tardato ad arrivare. Poi è stato chiesto “Chi di voi è Bassam?” Di nuovo nessuno ha risposto, perché nessuno di loro si chiamava Bassam – e di nuovo è stata chiamata l’unità Keter. Sono arrivati la sera. Abu Halil dice che questa volta è svenuto prima che lo colpissero, per lo spavento.

In quel periodo Tair Abu Asab, un prigioniero di 38 anni, è morto nel carcere di Ketziot. Si sospetta che sia stato picchiato a morte dalle guardie per aver rifiutato di chinare la testa come ordinato. 19 guardie sono state trattenute per essere interrogate col sospetto di aver aggredito Abu Asab. Tutte sono state rilasciate senza accuse.

In risposta ad una richiesta di commento, questa settimana il portavoce del Servizio Penitenziario ha inviato a Haaretz la seguente dichiarazione:

L’Autorità Penitenziaria è una delle organizzazioni di sicurezza di Israele ed agisce secondo la legge, sotto la stretta supervisione di molte autorità di controllo. Tutti i prigionieri sono trattenuti secondo la legge e con rigorosa protezione dei loro diritti fondamentali sotto la supervisione di un personale penitenziario professionale e qualificato.

Non conosciamo le denunce descritte (nel vostro articolo) e per quanto ne sappiamo non sono corrette. Tuttavia ogni prigioniero e detenuto ha il diritto di lamentarsi tramite i canali riconosciuti e i loro reclami verranno esaminati. L’organizzazione opera sulla base di una chiara politica di tolleranza zero di ogni azione che violi i valori del Servizio Penitenziario.

Riguardo alla morte del prigioniero dovreste contattare l’unità per le indagini degli agenti carcerari.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Da quando è iniziata la guerra intere zone della Cisgiordania sono state svuotate delle loro comunità palestinesi

Hagar Shezaf

5 maggio 2024 – Haaretz

Il 7 ottobre ha portato al massimo la violenza dei coloni: da allora 18 comunità di pastori palestinesi sono state espulse dalle proprie case, e ora gli abitanti vivono in abitazioni di fortuna nei pressi di altri villaggi, impoveriti e in ansia per il loro futuro.

Ibrahim Mohammed Malihat guarda verso la valle del Giordano. Dalla zona in cui vive, a circa 20 minuti di macchina da Gerusalemme, si possono vedere ampie distese dove la gente del suo villaggio era solita pascolare le greggi, ma che ora sono sbarrate.

“Ora da qui a Gerico tutto è vuoto. Non andiamo giù o a sud. Tutto è rimasto in mano solo ai coloni, non ci sono posti in cui le greggi possano pascolare,” afferma.

Nel villaggio di Maghayyir A-Dir un gregge di pecore vaga e mangia erba secca sparsa sul terreno. “Le teniamo solo tra le case,” nota Malihat. “Qui ci sono delle telecamere,” aggiunge, indicando una zona presso il villaggio, “e se le pecore escono, i coloni le vedono e mandano uomini con il volto coperto. Ci dicono: ‘Noi siamo la polizia e l’esercito.’”

Il 7 ottobre, dall’inizio della guerra a Gaza, nell’area quattro comunità di pastori sono state cacciate dalle loro zone di residenza a causa di minacce e violenze dei coloni. Altre quattro comunità vicine erano state cacciate nei due anni precedenti, tra il villaggio di Duma e quello di Malihat. Anche un’altra comunità più a sud è stata espulsa. Ciò ha un effetto drammatico sia sulle vite delle comunità rimaste sul posto che su quelle che se ne sono andate. I loro abitanti descrivono un processo di impoverimento e una grande paura per il futuro.

Secondo le stime del ricercatore Dror Atkes dell’ong [israeliana] Kerem Navot che monitora le politiche di insediamento e di gestione del territorio israeliane in Cisgiordania, attualmente nella zona ci sono circa 125.000 dunam (12.500 ettari) in cui ai palestinesi è impedito l’ingresso per timore di violenze e a causa delle restrizioni imposte dai coloni e dall’esercito.

Le terre ad est della strada Allon (la 458), che corre tra Maghayyir A-Dir e Duma, sono state svuotate delle comunità che vi vivevano. Rimangono per lo più colonie e avamposti ebraici. “Qualche anno fa sono arrivati qui coloni della zona di Nablus e Duma, quelli con i riccioli lunghi,” dice Ibrahim, indicandone la lunghezza con le mani. “Gradualmente si sono spostati a sud finché sono arrivati qui. Nessuno del governo gli ha detto di fermarsi. Vai in ogni villaggio della zona e vedrai che là hanno distrutto tutto.”

Avvisi di evacuazione

Una delle maggiori comunità espulse nei mesi dall’inizio della guerra è stata quella del villaggio di Wadi al-Siq, separato da Maghayyir A-Dir solo da un bellissimo “wadi” [torrenti secchi in buona parte dell’anno, ma le cui acque sotterranee consentono, a volte, la crescita della vegetazione, n.d.t.] verde. Nei pressi delle rovine del villaggio, che sono ancora visibili, oggi pascolano vacche del vicino avamposto fondato solo circa un anno fa. La strada che univa i villaggi ora è bloccata da pietre.

Secondo Ibrahim il giorno in cui gli abitanti di Wadi al-Siq sono stati espulsi un gruppo di coloni che conosce, e con cui in precedenza aveva avuto buoni rapporti, è entrato nel suo villaggio. Dice che hanno raccomandato che gli abitanti se ne andassero per 10 giorni perché i coloni erano “arrabbiati” in seguito al 7 ottobre.

Come altre comunità della zona la gente di Wadi al-Siq ha subito violenze e minacce anche prima dello scoppio della guerra, ma dopo sono notevolmente aumentate. I circa 180 abitanti di più o meno 20 famiglie che compongono la comunità sono fuggiti per salvarsi la vita dopo un attacco contro il villaggio il 12 ottobre e le minacce che lo hanno preceduto. Gli abitanti si sono divisi e oggi vivono in rifugi provvisori nei pressi di vari villaggi palestinesi, su terreni su cui non hanno diritti e che temono saranno obbligati ad abbandonare.

“L’11 ottobre abbiamo portato donne e bambini da parenti in un altro villaggio perché dormissero lì. Pensavamo che sarebbe stato per due o tre giorni e poi li avremmo riportati indietro,” racconta Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh dalla sua nuova residenza temporanea su terreni agricoli nei pressi del villaggio di Taybeh. Il giorno dopo, mentre alcuni abitanti del villaggio erano occupati a preparare le loro cose per andarsene, sono arrivati sul posto coloni e soldati e li hanno aggrediti. Vari abitanti e attivisti che erano arrivati per aiutarli sono stati arrestati e detenuti per ore all’interno del villaggio. Alcuni, come già riportato da Haaretz, sono stati picchiati e maltrattati, anche con gravi percosse, ustioni e tentativi di violenza sessuale.

“Ci hanno detto che avevamo mezz’ora per andarcene, la gente è scappata via,” ricorda Ka’abneh. Ingobbito, sembra avvilito mentre descrive quello che è successo: “Non sapevamo dove andare. All’inizio ce ne siamo andati a piedi. C’erano bambini piccoli portati dai genitori e giovani che si sono nascosti nel wadi. Quando è venuto buio la gente dei villaggi di Ramun e Taybeh ci ha dato delle tende.” La polizia ha detto ad Haaretz che sono in corso indagini sull’attacco contro Wadi al-Siq, mentre l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha dato la stessa risposta riguardo a un’inchiesta da parte del reparto investigativo penale dell’esercito sulla condotta dei soldati. Haaretz è venuto a sapere che come parte dell’indagine alcuni soldati e un civile sono stati interrogati e ammoniti. A ottobre l’IDF ha congedato il comandante della forza militare dell’unità della Frontiera del Deserto coinvolta nell’incidente.

Gli abitanti non osano tornare alle proprie case dato che l’esercito non è in grado di assicurare che non verranno aggrediti. Da quando sono scappati le uniche volte che, in coordinamento con l’Amministrazione Civile [l’ente militare che gestisce le questioni civili nei territori palestinesi occupati, ndt.] e scortati da attivisti, sono tornati al villaggio per prendere le cose che avevano lasciato lì hanno scoperto che la maggior parte dei loro beni era sparita.

“Hanno rubato tutto quello che c’era in casa mia. Hanno distrutto e preso tutto: la stufa, gli utensili da cucina, gli armadi,” dice Ka’abneh. “Non abbiamo trovato praticamente niente.” Stima che il valore delle proprietà rubate dalla casa sia di circa 200.000 shekel (circa 50.000 euro).

Nel tentativo di recuperare quello che avevano perso membri della comunità hanno contratto prestiti, venduto parte del loro gregge e ricevuto donazioni da alcune associazioni. “Avevo 100 pecore e ne ho vendute 40 per niente, perché c’era un conflitto e siamo scappati,” dice Suleiman

Lui e la sua famiglia ora vivono nei dintorni del villaggio di Ramun, vicino ad altri abitanti. “Personalmente ho un debito di 40.000 shekel (circa 10.000 euro)” aggiunge. La perdita di pascoli ha colpito gravemente i mezzi di sussistenza degli abitanti, in parte a causa del fatto che ora sono obbligati a cercare foraggio per le greggi a un prezzo significativamente più alto di prima.

Alla fine di marzo gli abitanti, insieme all’organizzazione per i diritti umani Torat Tzedek, hanno presentato una petizione in cui chiedono che lo Stato smantelli gli avamposti costruiti nei pressi del loro villaggio in modo che possano tornare alle proprie case. Nel ricorso, presentato dall’avvocato Tamir Blank, si sostiene che, dato che l’avamposto è fonte di violenza ed è coinvolto in scorrerie sui terreni, lo Stato deve dare la priorità e accelerare la sua evacuazione.

Finché la questione non verrà risolta gli abitanti devono affrontare un futuro incerto. Per esempio Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh e la sua famiglia vivono su un terreno privato di proprietà di un abitante di Taybeh. È temporaneo. Qui non siamo in affitto e l’accordo è che ce ne andremo dopo la guerra. Non pensavamo che la guerra durerasse così tanto,” dice.

La provvisorietà è evidente persino nei minimi dettagli, come il fatto che l’attuale abitazione non ha il bagno. “Non c’è futuro, questa è la fine,” dice Suleiman Ka’abneh. “Questa è la terra di qualcun altro. Ci lasceranno stare qui per quattro mesi, sei mesi, un anno, ma alla fine è la loro terra e non ci vogliono qui.”

Vigilanza costante

Dall’inizio della guerra l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha documentato l’espulsione dalle proprie case di 18 comunità di pastori in Cisgiordania. Secondo Etkes, riguardo a quanto avvenuto nella zona della strada Allon, bisogna tener conto di un’area più grande di 126.000 dunam [12.6000 ettari] tra Duma e Maghayyir A-Dir. Spiega che, dati gli espropri di terre da parte dello Stato e l’espulsione di altre comunità nella zona tra [la colonia di] Ma’aleh Adumim e le colonie della Valle del Giordano, in effetti ora ci sono circa 160.000 dunam [16.000 ettari] in cui i palestinesi non possono più pascolare [le greggi].

Oltre a quest’area, dall’inizio della guerra altre cinque comunità di pastori nelle colline a sud di Hebron sono state espulse o spostate e due comunità sono state mandate via anche prima della guerra.

A Khirbet Zanuta, la più grande delle comunità espulse dal 7 ottobre nella zona delle colline meridionali di Hebron, la locale scuola è stata danneggiata molto gravemente in quello che sembra essere stato un atto di vandalismo. Durante una visita sul posto circa sei mesi dopo l’espulsione degli abitanti i libri di testo erano sparsi sul terreno tra le macerie e un poster scolastico in inglese pendeva ancora su uno dei muri. Fuori una scritta in arabo adornava quello che rimaneva dell’edificio: “Abbiamo il diritto di studiare,” affermava.

L’espulsione delle comunità è inestricabilmente legata agli avamposti vicini alle terre palestinesi. Gli avamposti sono notevolmente aumentati negli ultimi anni ed è chiaro che gli Stati Uniti e altri Paesi che hanno iniziato a imporre sanzioni contro i coloni lo riconoscono.

Per esempio la comunità di Khirbet Zanuta viveva nei pressi della fattoria Meitarim di Yinon Levy, un avamposto illegale che era sottoposto a sanzioni USA sulla base del fatto che è stato coinvolto in aggressioni e minacce contro i palestinesi. Nel caso di Wadi al-Siq il vicino avamposto che è stato creato all’inizio del 2023 si chiama Havat Machoch e il suo leader è Neria Ben-Pazi, un colono pastore ben noto che nelle scorse settimane è stato anche lui sottoposto a sanzioni USA.

Per qualche mese è stato persino escluso dalla Cisgiordania su ordine del comandante del Comando centrale israeliano. In seguito a questo ordine parecchi rabbini sionisti religiosi, tra cui Dov Lior e Shmuel Eliyahu [noti per le loro posizioni estremiste, ndt.], sono andati a visitare l’avamposto di Ben-Pazi come atto di solidarietà. Le sanzioni contro i coloni sono state accolte con dure proteste da ministri estremisti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Prima della guerra Mohammed Suleiman Malihat, abitante della comunità di pastori chiamata Maraja’at, attraversava con il suo gregge la strada nei pressi del suo villaggio. Dall’altra parte della strada negli scorsi anni è stato costruito l’avamposto chiamato Fattoria di Zohar: a un certo punto, dopo essere stati ripetutamente cacciati da coloni della zona circostante, tutti i pastori rimasti hanno rinunciato ad attraversarla.

“Dal momento in cui è iniziata la guerra, se i coloni mi vedevano entrare anche solo due metri nella zona arrivavano immediatamente. Mi sono reso conto che per la mia sicurezza non potevo più farlo,” dice Malihat. Ha anche venduto una parte del suo gregge a causa della riduzione della sua terra da pascolo. Dice che da quando anche un’altra zona di pascolo che porta alla colonia di Mevo’ot Yericho è diventata inaccessibile per gli abitanti della comunità, egli pascola solo su terreni vicini al villaggio.

Pochi giorni prima che Haaretz visitasse Maraja’at, nelle vicinanze di Ras al-Uja, un altro dei villaggi della zona, due strutture di proprietà di famiglie fuggite sono state incendiate. Sul posto sono stati ripresi dei coloni e una fonte militare ha confermato ad Haaretz che, secondo quanto a conoscenza dell’IDF, sono stati i coloni a incendiare l’edificio. Il messaggio ha avuto una forte ripercussione tra gli abitanti di Maraja’at. La famiglia di Malihat dice anche che in piena notte a volte i coloni armati si piazzano all’ingresso della loro casa senza dire una parola.

In seguito a ciò la comunità vive in costante allerta. Durante la nostra visita sul posto gli abitanti hanno notato un gregge di proprietà dei coloni che pascolava sopra la collina e la figlia di Malihat, Aaliya, è corsa là a filmarlo mentre altri abitanti chiamavano la polizia. Secondo loro la sensazione di minaccia è peggiorata negli ultimi mesi, soprattutto dopo che la comunità vicina se n’è andata a causa delle vessazioni. “I coloni sono riusciti a cacciarli e ciò ha stimolato la loro ingordigia [di terra],” riflette Malihat. “Da allora hanno iniziato a venire più spesso da noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tel Aviv-Giaffa, la fortezza del pluralismo, sta iniziando a crollare

Odeh Bisharat

22 aprile 2024 – Haaretz

Ron Huldai, il sindaco di Tel Aviv-Giaffa, ha arruolato nella sua coalizione nel consiglio comunale Chaim Goren, un “sionista religioso.” Ma la storia non finisce qui: non sarebbe mai successo senza il supporto di tre consiglieri comunali del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.]. La decisione avrà conseguenze disastrose, non solo per gli abitanti di Tel Aviv, ma per tutti noi. 

Prima di tutto dobbiamo chiarire che la partecipazione di un partito che crede nella supremazia ebraica danneggerà l’immagine liberale e cosmopolita della città. È come prendersi un pugno in faccia: perdi sangue dal naso, hai la vista annebbiata e ti gira la testa. Certo il nome “Tel Aviv-Giaffa” resta, ma lo spirito ha lasciato la città. 

Sorprendentemente il virus fascista non ha conquistato la città con la forza, come fanno gli invasori stranieri, non è neppure entrato di soppiatto come un ladro. Il portone principale era spalancato per far entrare i razzisti. Esther Hayut, ex presidentessa della Corte Suprema, una volta disse “la fortezza non è caduta.” Si riferiva alla corte stessa e aveva completamente ragione perché la fortezza non è caduta ma è stata silenziosamente occupata anni prima del tentativo del colpo di stato giudiziario. E adesso succede anche a Tel Aviv.

Ricordo un’intervista radiofonica nel maggio 2021 con Huldai in cui attaccava i garinim hatorani’im (gruppi di ebrei ortodossi trasferitesi nei quartieri arabi di città miste ebraiche-arabe) dicendo che Tel Aviv aveva [già] una grande maggioranza ebraica. Questi gruppi venivano per convincere gli ebrei a essere ebrei? Aveva anche difeso gli abitanti arabi della città in un momento in cui crescevano le provocazioni contro di loro. Cosa dirà ora il sindaco agli ebrei e agli arabi? La rovina si espande senza che nessuno lo noti. 

Poi un colpo veramente doloroso è stato assestato quando il Meretz ha aggiunto un tocco tragico al collasso della città e della collaborazione ebraico-araba. Si rivolge agli arabi come alleati, ma in pratica mantiene una collaborazione con un partito razzista che vede gli arabi come inferiori e idealmente vorrebbe liberarsene. A chi dovremmo credere, al Meretz che parla di collaborazione o al Meretz che si allea con gli odiatori degli arabi?

Perché lo chiamo un colpo? Perché ci sono arabi che ci dicono che sì, i valori dichiarati dal Meretz, fratellanza, pace e uguaglianza, ci ispirano, ma alla fine loro e tutti gli altri, sinistra, destra, liberali e fascisti, si raccolgono sotto la bandiera esclusionista del nazionalismo. Si può capire, anche se con una certa difficoltà, che la gente si unisca quando un disastro minaccia tutti, ma in questo caso si stanno unendo con un atto volontario per dare generosamente una fetta di potere ai fascisti. È triste: il messaggio per gli arabi è che in un momento cruciale noi vi abbandoneremo.

Questa è un’annosa tradizione della sinistra sionista. Nel 1948, il partito Mapam, madre spirituale di Meretz, parlava di “fratellanza delle nazioni” e fu sconvolto dall’espulsione di massa degli arabi. Ma non fece quasi nulla e quando arrivò il momento di distribuire il bottino fu il primo della fila. Gli enormi patrimoni dei kibbutz dicono tutta la verità.

Il Meretz è visto da molti arabi come un movimento con cui si può dialogare, anche se è sionista, il suo sionismo è diverso, è un sionismo con cui si può convivere. Oggi quella fiducia è stata distrutta, non solo riguardo al Meretz stesso, ma in generale ai movimenti ebraici-arabi. Gli arabi diranno a quelli di noi che credono alla collaborazione che siamo degli ingenui e che quando arriverà il momento della verità loro ci abbandoneranno.

La decisione autolesionista del Meretz a Tel Aviv è triste, ma in nessun modo renderà “disilluse” me e tante brave persone, non opteremo per l’isolamento e l’odio dell’altro. Non siamo una foglia che fluttua nel vento, siamo un olivo con radici profondamente radicate nella terra. Ciò vale per gli arabi come per gli ebrei che hanno fatto un lungo viaggio insieme. È importante guardare all’onta per quello che è e gridare forte: non nel nostro nome.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia non aprirà finché non verrà raggiunto un cessate il fuoco, affermano un’artista israeliana e le curatrici

Naama Riba e Rachel Fink

16 aprile 2024 – Haaretz

Nel contesto di appelli per l’esclusione di Israele dall’evento artistico internazionale e timori di atti di vandalismo, l’artista Ruth Patir e le curatrici della sua esposizione hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi e hanno affermato che “il padiglione israeliano aprirà quando queste cose verranno raggiunte.” A quanto pare il governo israeliano non sarebbe stato informato di questa protesta.

Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia, che avrebbe dovuto aprire alla fine della settimana, rimarrà chiuso al pubblico “finché non verranno raggiunti un cessate il fuoco e un accordo per la liberazione degli ostaggi” tra Israele ed Hamas, secondo un comunicato dell’artista israeliana Ruth Patir e delle curatrici della mostra, Mira Lapidot e Tamar Margalit.

I tre lavori di videoarte dell’artista Ruth Patir che compongono l’esposizione (M)otherland saranno riprodotti nel padiglione e i passanti potranno vederli attraverso i vetri delle finestre.

Il padiglione è curato da Mira Lapidot, curatrice del Museo d’Arte di Tel Aviv, e Tamar Margalit, curatrice del Centro di Arte Contemporanea. Lapidot ha detto ad Haaretz che sono “molto orgogliose della mostra. Abbiamo discusso fino all’ultimo minuto su cosa fare.”

Lapidot ha spiegato le due ragioni che hanno portato alla decisione di non aprire il padiglione, affermando: “L’arte ha bisogno di un cuore aperto, che ora non esiste, quindi è meglio rimanere chiusi. Ma, cosa più importante, come esseri umani, donne e cittadine, non possiamo stare qui mentre niente cambia nella situazione degli ostaggi. Fino all’ultimo minuto abbiamo pensato che stavamo dirigendoci verso una direzione diversa e che c’è un accordo sul tavolo.”

“Abbiamo messo un cartello affermando che apriremo il padiglione quando sarà raggiunto un cessate il fuoco e un accordo per gli ostaggi, e speriamo che ciò avvenga durante i sette mesi della Biennale,” ha continuato. Margalit, la seconda curatrice, ha detto al New York Times che il governo israeliano non è stato informato in anticipo della protesta dall’artista e dalle curatrici. Il ministero della Cultura ha scelto l’artista ed è il principale finanziatore dell’esposizione.

Lapidot ha sottolineato che il padiglione non verrà completamente chiuso. “A differenza di quello russo, questo non verrà chiuso. Rimarrà illuminato e pronto ad aprire. I video verranno proiettati.”

La decisione di non aprire il padiglione giunge contestualmente ad appelli per il boicottaggio di Israele e la sua esclusione dalla Biennale di Venezia da parte di un’organizzazione di artisti e attivisti, ANGA, che sta per “Art Not Genocide Alliance”[Alleanza per l’Arte e non per il Genocidio]. La petizione dell’ANGA è stata firmata da decine di migliaia di persone. La Biennale in febbraio ha risposto alla lettera con un comunicato ufficiale in cui afferma che ogni Paese riconosciuto dal governo italiano è invitato ad esporre alla mostra internazionale e che appelli o petizioni per escludere la partecipazione di un Paese non saranno accolti.

Nell’esibizione generale della Biennale curata da Adriano Pedrosa verranno esposti i lavori di vari artisti palestinesi, alcuni direttamente legati alla guerra a Gaza. Inoltre uno degli eventi collaterali della Biennale, South West Bank [Sud della Cisgiordania], è stato iniziato da un collettivo di artisti palestinesi che mostreranno il proprio lavoro. Nel Centro della Cultura Europea a Palazzo Mora verrà esposta anche una mostra del Museo Americano Palestinese.

L’esposizione nel padiglione israeliano ruota attorno alla fertilità. Patir, che ha meno di 40 anni, ha creato una serie di video riguardo all’argomento da un punto di vista personale e israeliano. Quando aveva 35 anni ha scoperto di essere portatrice (come la curatrice Lapidot) del gene BRCA2 che, se muta, aumenta notevolmente le possibilità di sviluppare un cancro al seno o alle ovaie.

A causa del discutibile privilegio di essere portatrice del gene, Patir, che non è sposata e non ha figli, ha ottenuto dallo Stato una cura gratuita per la preservazione della fertilità.

Il video artistico presentato nell’esposizione mostra l’artista mentre attraversa l’umiliante mondo della medicina istituzionale dominata dai maschi. I video si basano sulla sua auto-documentazione durante tre sedute di congelamento degli ovuli, mentre parla con ginecologi e medici, tecnici, membri della famiglia e con il suo compagno dell’epoca.

Nei video è interpretata da una figurina archeologica che muove il proprio corpo in risposta ai movimenti di Patir attraverso sensori (l’artista non compare nei video e si può sentire solo la sua voce).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il governo israeliano sta eliminando la Linea Verde – con i soldi Bilancio dopo bilancio, legge dopo legge: dall’obbligo per le imprese di telefonia mobile di estendere la copertura ai territori occupati alle leggi che agevolano il trasferimento di fondi pubblici alle colonie, ecco come il governo di estrema destra di Netanyahu sta lavorando verso un’annessione di fatto.

Tali Heruti-Sover

9 aprile 2024 – Haaretz

A febbraio, con la guerra in corso, il ministero dell’Economia ha inviato un annuncio ai giornalisti a nome del ministro Nir Barkat riguardo a un nuovo programma pilota per la formazione di 5.000 lavoratori israeliani nell’edilizia. Guarda un po’, l’annuncio ha specificato che l’iniziativa verrà effettuata “in collaborazione con l’Impresa per lo Sviluppo di Gush Etzion e con il Centro Israeliano per l’Edilizia.” Chi segue da vicino il comportamento dell’attuale governo non si è certo stupito per la combinazione tra un’iniziativa economica pilota che dovrebbe servire all’edilizia e un’impresa fondata per sviluppare le colonie nel blocco di Etzion, in Cisgiordania.

Riempirsi le tasche (di verde)

L’attuale governo non è il primo ad impegnarsi nel rafforzare il movimento delle “nuove colonie”. Tuttavia dimostra attivismo e creatività straordinari nel farlo. Il governo ha intrapreso una serie di misure con lo scopo di cancellare la Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndt.] e di annettere de facto la Cisgiordania a Israele.

Tra queste ci sono: la creazione di un nuovo ministero dedicato – il ministero delle Colonie e delle Missioni nazionali; la promozione di un programma che è già stato convertito in legge e consente il trasferimento di fondi dalle autorità locali in Israele alle loro omologhe nei territori [palestinesi] occupati;l’imposizione dell’obbligo alle compagnie private in possesso di licenze governative di investire denaro nei territori; il tentativo di espandere il controllo dei coloni e dei loro rappresentanti in ogni area della vita in Cisgiordania, relegando nel contempo ai margini l’Amministrazione Civile, che per decenni è stato l’ente militare responsabile delle attività di governo nelle aree civili del territorio.

Giustizia redistributiva per le colonie”

Negli ultimi giorni il processo di cancellazione della Linea Verde si è accentuato dopo che la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in seconda e terza lettura una legge presentata dal parlamentare Yaakov Asher di Giudaismo Unito per la Torah [partito religioso ortodosso ashkenazita attualmente al governo, ndt.], che era stata congelata dall’inizio della guerra. La nuova legge (un emendamento dell’Ordinanza per le Amministrazioni locali) autorizza il ministero dell’Interno a decidere che la tassa sulle proprietà economiche raccolta dalle aree industriali e commerciali sia divisa tra le autorità locali in cui queste zone si trovano e quelle limitrofe.

Apparentemente si tratta di un modo per distribuire equamente le risorse. Ma Asher ha voluto far emanare questa legge soprattutto a beneficio delle casse delle colonie israeliane al di là della Linea Verde, comprese quelle ultra-ortodosse.

Quindi la legge renderà possibile, per esempio, obbligare Modi’in-Maccabim-Reut [area che si trova nei pressi della Linea Verde sul lato israeliano, ndt.] a condividere le entrate delle sue zone industriali e commerciali, che lo stesso Comune di Modi’in si è assiduamente impegnato a creare, con le municipalità povere di Modi’in Illit e Betar Ilit, che si trovano dall’altra parte della Linea Verde. Durante il processo legislativo Asher non ha nascosto le sue intenzioni, affermando: “Ciò riguarda la giustizia redistributiva anche per le colonie di Giudea e Samaria [la definizione israeliana di Cisgiordania, ndt.].”

Durante il dibattito sulla legge alla Commissione Affari Interni della Knesset, presieduta da Asher, i deputati Naama Lazimi del partito Laburista e Naor Shiri di Yesh Atid [partiti di centro, ndt.] hanno sostenuto che il progetto avrebbe portato all’annessione de facto dei territori occupati. Asher ha replicato a questo proposito: “De jure, de facto, di Mosè, io non perdo tempo con queste cose.”

Nonostante gli avvertimenti del ministero della Giustizia che ciò potrebbe costituire una violazione delle leggi internazionali, e nonostante l’opposizione della Federazione degli Amministratori Locali, la legge è passata facilmente alla commissione e nella seduta plenaria della Knesset.

Tuttavia, anche se la legge è stata approvata, la sua applicazione è soggetta alla discrezionalità del ministero dell’Interno. Qualsiasi decisione in tal senso da parte sua potrebbe portare a una significativa rivolta dell’opinione pubblica, così come all’opposizione giudiziaria da parte dell’autorità a cui viene richiesto di cedere una parte che le spetta a favore di un’altra amministrazione. Di conseguenza le probabilità che ciò avvenga presto sono basse.

Una legge approvata lo scorso anno, anch’essa non ancora messa in pratica, riguarda la creazione di un fondo finanziato con un’imposta sugli immobili (Arnona) destinata alla redistribuzione di entrate dalle tasse sulle proprietà commerciali tra autorità locali, incoraggiando nel contempo la costruzione di appartamenti residenziali i cui versamenti delle tasse sugli immobili non coprono il costo dei servizi richiesti per i nuovi abitanti. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra dei coloni Sionismo Religioso, ndt.] ha messo tutto il suo peso politico per la creazione di questo fondo.

In apparenza anch’esso è inteso a una redistribuzione equa: le amministrazioni locali più forti trasferiscono una parte proporzionale delle loro entrate grazie alle tasse sulle proprietà commerciali a un fondo comune che verrà distribuito a quelle più deboli. Tuttavia una delle preoccupazioni sollevate da chi si oppone alla legge è che il flusso di denaro si baserebbe su considerazioni politiche.

Durante la discussione della legge sono state sollevate anche preoccupazioni riguardo al funzionamento del fondo con le autorità locali nei territori [palestinesi] occupati. Per la prima volta è stata approvata una legge che potrebbe vedere il trasferimento di fondi dalle autorità locali all’interno del territorio israeliano alle colonie.

Secondo alcuni critici della legge, mentre il diritto internazionale consente alle colonie di ricevere finanziamenti dallo Stato, proibisce loro di trasferire fondi ad altre autorità locali all’interno del territorio israeliano. Quindi, se alle colonie viene richiesto di trasferire fondi al fondo delle tasse sugli immobili, questa verrà considerata una violazione delle leggi internazionali. Nel tentativo di risolvere questo problema sono state aggiunte alla legge disposizioni riguardanti le amministrazioni locali in Cisgiordania.

In ogni caso, anche se il fondo della tassa sugli immobili avrebbe già dovuto essere attivato, di fatto non lo è ancora. L’Alta Corte ha già discusso ricorsi contro di essa, uno dei quali ha sollevato problemi sull’opportunità di includere le colonie nel fondo. L’Alta Corte ha chiesto alla Procura Generale di esprimere la propria opinione in materia.

Benché non ancora operativo, il fondo della tassa sugli immobili, potrebbe essere importante nel futuro in vista del previsto boom edilizio nelle colonie.

Il 2023 è stato un anno eccezionale in termini del numero di progetti edilizi promossi al di là della Linea Verde: più di 12.000 unità abitative sono state alla fine approvate dagli organi preposti alla pianificazione. Secondo Peace Now [organizzazione israeliana contraria all’occupazione, ndt.], che monitora queste decisioni, si tratta del più alto numero di unità abitative approvato dalla firma degli Accordi di Oslo.

La creazione di un ufficio specifico per le colonie

Per agire in modo efficiente al fine di cancellare la Linea Verde il governo ha creato un ufficio dedicato alle attività “civili” nei territori, il Ministero delle Colonie e delle Missioni Nazionali. Il suo principale obiettivo, anche se non dichiarato esplicitamente, è di fungere da braccio operativo del ministro Bezalel Smotrich che non è solo ministro delle Finanze ma anche uno dei ministri del ministero della Difesa per un flusso massiccio di finanziamenti verso i territori.

Il ministero delle Missioni Nazionali, guidato dalla deputata di Sionismo Religioso Orit Strock, ne ha beneficiato doppiamente: non solo è stato formato ed ha dato lavoro alla ministra e ai suoi sodali, ma, mentre il bilancio di tutti gli altri ministeri è stato tagliato a causa della guerra, quello di Strock non solo è stato risparmiato, ma è persino ottenuto di più. Appena prima della chiusura del bilancio 2023 il ministero ha ricevuto un aumento addizionale di 378 milioni di shekel (circa 95 milioni di euro), per cui il suo bilancio è salito a 543 milioni di shekel (circa 137 milioni di euro), con la guerra in corso.

Recentemente il governo ha persino deciso di trasferire la Divisione per le Colonie dell’Organizzazione Sionista Mondiale, che opera principalmente nei territori, dal ministero dell’Agricoltura all’ufficio di Strock, insieme a un generoso finanziamento supplementare. Tra le altre cose, ha deciso che d’ora in poi il controllo finanziario delle operazioni della divisione sarà fatto dalla ragioneria dello Stato invece che da un revisore esterno.

Inoltre la stessa Strock approverà i servizi forniti dalla divisione, senza dover passare prima attraverso il governo. Anche le decisioni riguardanti la creazione di nuove colonie verranno prese solo con l’approvazione di Strock, senza la necessità dell’approvazione da parte del ministero dell’Edilizia. Durante l’iter le spese generali della divisione saranno aumentate del 10% 40 milioni di shekel (oltre 9 milioni di euro) all’anno finanziati dal bilancio di base del ministero delle Missioni Nazionali. Strock non sta lavorando da sola. È stato nominato un vice-direttore generale del ministero delle Finanze, Israel Malachi. Meno ufficialmente egli è noto come la persona responsabile dei finanziamenti oltre la Linea Verde. Malachi lavora insieme a Strock ed è noto nel ministero delle Finanze come uno specialista nell’ottimizzazione del trasferimento di fondi alle colonie della Cisgiordania.

L’indebolimento dell’Amministrazione Civile

In più lo scorso anno è iniziato un significativo spostamento nella gestione della vita civile in Cisgiordania, dovuto ad una clausola negli accordi di coalizione tra il partito Sionismo Religioso di Smotrich e il Likud di Netanyahu. Secondo questo accordo verrà creato un nuovo ente governativo, l’“Amministrazione delle Colonie”, che si occuperà della gestione di ogni aspetto della vita nelle colonie. Invece l’Amministrazione Civile si occuperà esclusivamente dei palestinesi.

L’Amministrazione delle Colonie, che è in via di formazione, dovrebbe essere un ente civile indipendente, non soggetto a un ministero, e controllare ogni questione riguardante la pianificazione, la costruzione, la creazione ed espansione di colonie, infrastrutture e strade, senza la necessità di consultare il governo.

L’Amministrazione delle Colonie sarà anche responsabile della legalizzazione degli avamposti, di elettricità, acqua e infrastrutture per la comunicazione e avrà anche la responsabilità su siti archeologici, natura, riserve naturali e fattorie agricole. Nel febbraio 2023 il collega di partito di Smotrich Yehuda Eliahu è stato nominato capo dell’Amministrazione.

Tuttavia attualmente c’è una lotta sulla nomina di un vice-capo dell’Amministrazione Civile, una posizione che finora non esisteva. Smotrich sostiene per quel ruolo Hillel Roth, un colono della Cisgiordania e importante figura del Consiglio Regionale della Samaria. L’esercito israeliano si oppone a quella nomina, sostenendo che obbligherebbe i comandanti di brigata regionali a motivare varie operazioni nei territori ad enti civili invece che al capo del comando centrale dell’esercito, come succede ora.

Grandi finanziamenti, persino in tempo di guerra

Uno dei chiari meccanismi per cancellare la Linea Verde è l’iniezione di miliardi di shekel nelle colonie con l’aiuto di vari meccanismi di bilancio, compresi fondi della coalizione. Secondo i controlli di Peace Now, nei bilanci 2023-2024 in totale circa 620 milioni di shekel (circa 153 milioni di euro) dei fondi di coalizione sono stati destinati alle colonie.

Dopo lo scoppio della guerra è stato deciso di tagliare circa 140 milioni di shekel (circa 35 milioni di euro) dai fondi della coalizione per le colonie, ma allo stesso tempo si è deciso di trasferire fondi addizionali, come quelli per l’ufficio di Strock. In pratica nel 2024 i fondi della coalizione per i coloni ammonteranno a più di 737 milioni di shekel (circa 186 milioni di euro) invece dei 275 milioni di shekel (69 milioni di euro) stanziati a questo scopo nelle decisioni originarie del governo da maggio 2023.

Inoltre il ministero dell’Interno attualmente ha circa 330 milioni di shekel (circa 83 milioni di euro) stanziati solo per le colonie. Di questi 75 milioni di shekel (18 milioni di euro) sono destinati a questioni di sicurezza ed altri 75 milioni di shekel al “bilancio continuo per le colonie.”

Costruzione di strade ed espansione della rete per cellulari nei territori

L’oscuramento della Linea Verde include anche investimenti nelle infrastrutture in Cisgiordania, per esempio nel campo dei trasporti e delle reti per i cellulari. Con la formazione del governo i ministeri delle Finanze e dei Trasporti si sono accordati su un piano strategico quinquennale (2023-2027) che destina circa il 24% del bilancio per lo sviluppo viario a strade nelle colonie.

A causa della guerra e in attesa dell’approvazione del bilancio aggiornato per il 2024, nel gennaio 2024 il governo ha deciso di tagliare il bilancio per lo sviluppo del ministero dei Trasporti nel 2024-2027. Tuttavia, secondo la bozza di decisione discussa nel governo, gli investimenti in strade per le colonie rimarranno circa il 20% dell’investimento totale del governo in viabilità.

Un’altra area in cui il governo promuove investimenti in infrastrutture per le colonie è quella delle comunicazioni, soprattutto nella ricezione dei cellulari. Il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi ha criticato la cattiva ricezione in Cisgiordania e sostenuto che la situazione potrebbe mettere a rischio vite umane.

All’inizio di marzo sono entrate in vigore ordinanze emanate dal capo del Comando Centrale dell’esercito, generale Yehuda Fox, che obbligano le compagnie telefoniche a fornire la copertura dei cellulari sulle strade che raggiungono le colonie in Cisgiordania, simili agli obblighi che vigono all’interno di Israele. Le ordinanze consentono l’imposizione di multe sulle imprese se non soddisfino i requisiti.

Oltretutto il ministero delle Comunicazioni ha annunciato un piano per il posizionamento di infrastrutture per i cellulari nei territori con uno stanziamento dedicato di 50 milioni di shekel. Questo piano dovrebbe essere messo in pratica durante il 2024. Il capo dello Yesha Council [che unisce i consigli municipali delle colonie in Cisgiordania, ndt.], Shlomo Neeman, ha ringraziato Karhi per il suo “deciso impegno nella storica iniziativa” nel campo della ricezione dei cellulari.

D’altra parte sembra che Karhi, che lavora decisamente per i coloni, sia meno preoccupato dei problemi della copertura dei cellulari nelle comunità arabe in Israele, che soffrono di interruzioni nella ricezione dei telefonini e nella connessione a internet. Se il ministero delle Comunicazioni investisse altri 50 milioni di shekel nelle comunità arabe del nord del Paese là le cose andrebbero diversamente.

Conquista sotto le vesti della conservazione della natura

All’inizio della scorsa settimana la ministra della Protezione Ambientale Idit Silman, insieme a Smotrich e al capo del Consiglio della Valle del Giordano David Elhayani, si sono recati a Nahal Yitav – il nome in ebraico di Wadi Auja. Durante l’incontro è stato annunciato che, con l’aiuto di un investimento finanziario di una cifra indefinita, il posto sarebbe stato dichiarato riserva naturale, che include sentieri con segnavia e cartelli. Ciò presumibilmente è una risposta a un attacco terroristico avvenuto qualche giorno prima sulla Route 90 nei pressi del luogo.

La visita dei due ministri sul posto potrebbe aver creato l’impressione che si tratti di un sito naturalistico che verrà utilizzato da tutta la popolazione. Di fatto, sotto le vesti del lavoro nel campo delle riserve naturali, il ministero della Protezione dell’Ambiente sotto Silman ha piantato bandierine sulle terre della Cisgiordania.

Per esempio nel maggio 2023 Silman ha annunciato un piano per definire Sebastia [villaggio nei pressi di Nablus, in Cisgiordania, ndt.] parco nazionale, con un investimento di 32 milioni di shekel, che da allora è stato in parte tagliato. In un annuncio riguardo al progetto la ministra ha twittato all’epoca: “Stiamo riportando l’antica gloria. La Terra di Israele è nostra e continueremo a espanderci e stabilirci in essa.”

Questi tentativi di cancellare la Linea Verde sono aumentati nel corso degli anni e continuano anche ora. Lo scorso lunedì la parlamentare Limor Son Har-Melech di Potere Ebraico [estrema destra dei coloni, ndt.] ha presentato una proposta di legge che intende obbligare l’Autorità per lo Sviluppo del Negev ad operare anche nelle colonie del sud della Cisgiordania, come se fossero parte dei territori dello Stato di Israele.

“Le sfide della regione del Negev… la sua posizione periferica e distanza dal centro del Paese non escludono i cittadini della regione di Giudea e Samaria (il nome biblico della Cisgiordania), che sono anche a sud della linea che definisce la regione del Negev,” ha scritto nelle note esplicative del progetto di legge.

Questa proposta non arriva dal nulla: l’Autorità per lo Sviluppo del Negev, che è in parte finanziata dallo Stato, è sottoposta alla supervisione del ministro per lo Sviluppo del Negev e della Galilea Yitzhak Wasserlauf – membro del partito di Son Har-Melech.

Secondo l’avvocato Michael Sfard, esperto di diritto internazionale e attivista di sinistra, uno dei principi delle leggi sull’occupazione è il divieto di spostare la popolazione della potenza occupante sul territorio occupato. Di conseguenza ogni azione intesa a costruire una infrastruttura per le colonie può essere considerata una violazione delle leggi internazionali.

Un altro principio fondamentale delle norme sull’occupazione è il divieto di annessione unilaterale, da cui deriva la natura problematica del fatto di trattare i territori di Israele e Cisgiordania come una stessa unità dal punto di vista giuridico, burocratico, amministrativo, economico o infrastrutturale. E ciò è esattamente ciò che il governo israeliano cerca di normalizzare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una petizione firmata da migliaia di artisti e curatori chiede di escludere Israele dalla Biennale di Venezia

Naama Riba

26 febbraio 2024 – Haaretz

In una lettera aperta alla mostra internazionale d’arte i firmatari auspicano che non ci sia un ‘padiglione del genocidio’ e sostengono che la prevista esposizione israeliana rappresenta uno Stato ‘implicato in atrocità contro i palestinesi’.

Una lettera aperta, che nei giorni scorsi sta avendo grande successo tra migliaia di artisti, curatori e personaggi della cultura, chiede alla Biennale di Venezia di escludere la partecipazione di Israele all’esibizione internazionale prevista in aprile.

La lettera afferma che “mettere in mostra un’arte che rappresenta uno Stato coinvolto nelle continue atrocità contro i palestinesi a Gaza è inaccettabile. No a un padiglione del genocidio alla Biennale di Venezia.” Essa specifica che il gruppo proponente, l’Alleanza per l’Arte non per il Genocidio, è stato creato specificamente a questo proposito. Finora la petizione è stata pubblicata su siti isolati come il sito online ARTNET.

Uno dei firmatari della lettera è Faisal Saleh, il fondatore del Palestinian Museum US, situato in Connecticut. Saleh ha criticato il rifiuto della Biennale di accogliere un padiglione palestinese per il fatto che l’Italia non riconosce la Palestina.

Il padiglione israeliano prevede di esporre le opere dell’artista Ruth Patir, curate da Mira Lapidot e Tamar Margalit. L’esposizione, intitolata “Madrepatria”, verrà collocata in una specie di padiglione della “fertilità e creatività”, che occupa tre piani pieni di nuovi video che verranno posizionati in tre spazi, ciascuno con un differente disegno e carattere, ma tutti riconducibili al mondo emotivo e materiale dei luoghi descritti nei film: un museo, una clinica, un sito archeologico e una casa.

La petizione contro la partecipazione di Israele è stata firmata finora da personalità come la fotografa ebrea americana Nan Goldin; la storica dell’arte britannica Claire Bishop; il fotografo ebreo sudafricano Adam Broomberg, che lavora nei territori palestinesi; la studiosa israeliana Ariella Azoulay, che vive negli Stati Uniti; l’artista israeliano Oreet Ashery, che vive nel Regno Unito e il direttore israeliano Eyan Sivan, che vive in Francia.

Secondo quanto scritto nella lettera aperta, che è circolata nei gruppi WhatsApp in tutto il mondo, per anni la Biennale è stata invitata a riconoscere le “atrocità” commesse dai Paesi partecipanti. Per esempio, tra il 1950 e il 1968 il Sudafrica non ha esposto alla Biennale a causa della condanna diffusa in tutto il mondo e degli appelli a boicottarlo per il suo regime di apartheid. È stato applicato un divieto ufficiale a partire dal 1968, sulla base della Risoluzione ONU 2396 che prevedeva di sospendere “gli scambi con il regime razzista.” Il Sudafrica non è stato riammesso come Paese partecipante alla Biennale fino al 1993, quando il governo di apartheid stava per essere abolito.

La lettera specifica inoltre che nel 2022, con l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, la Biennale e i suoi curatori hanno rilasciato diverse dichiarazioni pubbliche di sostegno al diritto del popolo ucraino all’autodeterminazione, alla libertà e all’umanità. La condanna pubblica da parte della Biennale della “inaccettabile aggressione militare della Russia” comprendeva la dichiarazione di rifiuto di “ogni forma di collaborazione con coloro che hanno condotto o sostenuto un così atroce atto di aggressione”. Dall’inizio della guerra in Ucraina la Russia non ha aperto il suo padiglione per partecipare alla Biennale.

La Biennale è rimasta in silenzio rispetto alle atrocità contro i palestinesi. Siamo sgomenti per questo doppio standard. L’aggressione di Israele a Gaza rappresenta uno dei più intensi bombardamenti nella storia”, asserisce la lettera. “Dalla fine di ottobre 2023 Israele ha già sganciato tonnellate di esplosivi su Gaza di potenza equivalente alla bomba nucleare sganciata su Hiroshima in Giappone nel 1945.” La lettera non fa riferimento al massacro compiuto dai terroristi di Hamas in Israele il 7 ottobre, in cui 1200 persone, in maggioranza civili, sono state uccise e centinaia rapite e portate nella Striscia di Gaza. Non fa neppure menzione del fatto che il padiglione israeliano è stato imbrattato a novembre con la frase “autorizzati a commettere un genocidio pianificato” scritta con lo spray sull’edificio e vernice rossa spruzzata sulla facciata e sul marciapiede.

La lettera aperta fa anche riferimento al tema principale della mostra di Patir nel padiglione: “Mentre il pool di curatori di Israele programma il “Padiglione della Fertilità” riflettendo sulla maternità contemporanea, Israele ha assassinato più di 12.000 bambini ed impedito l’accesso alle cure riproduttive e alle strutture mediche. Il risultato è che le donne palestinesi subiscono il taglio cesareo senza anestesia e partoriscono per strada.” In conclusione la petizione afferma che “ogni rappresentazione ufficiale di Israele sulla scena culturale internazionale è un sostegno alle sue politiche e al genocidio a Gaza.”

Haaretz ha sollecitato commenti da parte della Biennale di Venezia, del Ministro degli Esteri israeliano, dei curatori del padiglione israeliano e di Patir. Non è stata ancora ricevuta alcuna risposta.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Se l’esercito israeliano invade Rafah, cosa ne sarà dei più di 1,5 milioni di palestinesi che vi si sono rifugiati?

Amira Haas

10 febbraio 2024 – Haaretz

Un’invasione israeliana di Rafah porterà a un esodo di massa di circa un milione di palestinesi in preda al panico. L’IDF pianifica di conciliarlo con l’ordinanza della CIG secondo cui Israele deve prendere ogni misura per evitare atti di genocidio.

Dato che Yahya Sinwar, i suoi stretti collaboratori e i miliziani di Hamas non sono mai stati trovati, prima a Gaza City e poi neppure a Khan Younis, l’esercito israeliano sta prendendo in considerazione di estendere la sua campagna di terra nella città meridionale di Rafah a Gaza. L’esercito sta facendo questo perché ritiene che Sinwar e i suoi aiutanti si nascondano nei tunnel sotto questa zona del sud della Striscia di Gaza, presumibilmente insieme agli ostaggi israeliani che sono ancora in vita. La stragrande maggioranza degli abitanti della Striscia di Gaza, 1,4 milioni di persone, è concentrata a Rafah. Decine di migliaia stanno ancora fuggendo nella cittadina da Khan Younis, dove i combattimenti continuano. Il pensiero che Israele invaderà Rafah e che vi avranno luogo combattimenti in mezzo ai civili terrorizza gli abitanti della città e le persone che vi si trovano come sfollati interni. Il terrore che provano è acuito dalla conclusione che nessuno possa impedire a Israele di mettere in atto le sue intenzioni, neppure la sentenza della CIG che ordina a Israele di prendere ogni misura per evitare azioni di genocidio. I corrispondenti militari israeliani riportano e ipotizzano che l’esercito intenda ordinare agli abitanti di Rafah di spostarsi in una zona sicura. Da quando la guerra è iniziata l’esercito ha sventolato questo ordine di evacuazione come una prova che sta agendo per prevenire danni a “civili non coinvolti”. Tuttavia questa zona sicura, che è stata ed è ancora bombardata da Israele, si sta progressivamente stringendo. In realtà l’unica zona sicura che rimane e che ora l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] sta indicando alla massa di persone a Rafah è Al-Mawasi, un’area costiera del sud di Gaza di circa 16 km2. Non è ancora chiaro con quali formulazioni a parole l’IDF e i suoi esperti giuridici intendano conciliare il fatto di ammassare così tanti civili con le indicazioni impartite dalla CIG. “La zona umanitaria indicata dall’esercito è più o meno delle dimensioni dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion (circa 16,3 km2),” hanno concluso i giornalisti di Haaretz Yarden Michaeli e Avi Scharf nel loro articolo all’inizio di questa settimana. Il reportage, intitolato “I gazawi scappano dalle loro case. Non hanno nessun posto a cui tornare,” ha svelato le estese distruzioni nella Striscia di Gaza riprese da immagini satellitari. Il paragone con l’aeroporto internazionale Ben-Gurion ci spinge a ipotizzare una densità al di là dell’immaginabile, ma i commentatori della televisione israeliana non vanno molto più in là dell’approfondita opinione secondo cui l’invasione di terra a Rafah in effetti “non sarà poi così semplice”. Anche se difficile, dobbiamo immaginare ciò che attende i palestinesi a Rafah se il piano dell’esercito verrà messo in pratica. Lo dobbiamo fare non tanto per considerazioni di carattere umanitario o morale, che dopo il 7 ottobre non sono così importanti per la maggioranza dell’opinione pubblica ebrea israeliana, ma a causa delle complicazioni di carattere militare, umanitario e, alla fine, giuridico e politico che sicuramente sono prevedibili se continuiamo su quella strada.

La compressione

Anche se “solo” circa un milione di palestinesi scapperanno per la terza o quarta volta ad Al-Mawasi, un’area che è già piena di gazawi sfollati, la densità sarà all’incirca di 62.500 persone per km2”. Ciò avverrà in una zona aperta senza grandi edifici per ospitare gli sfollati, dove non ci sono acqua corrente, privacy, mezzi di sostentamento, ospedali o ambulatori medici, pannelli solari né la possibilità di caricare i telefonini e tutto il resto, mentre le organizzazioni umanitarie dovranno attraversare o passare nei pressi delle zone di combattimento per distribuire quel poco di cibo che entra nella Striscia di Gaza. Pare che l’unica condizione in cui questa ristretta area potrebbe accogliere tutti quanti sarebbe se stessero in piedi o in ginocchio. Forse sarà necessario formare commissioni speciali che stabiliranno accordi per dormire a turno: qualche migliaio si sdraierà mentre gli altri continueranno a stare svegli in piedi. Sopra il ronzio dei droni e sotto i pianti dei bambini nati durante la guerra e le cui madri non avranno latte o non ne avranno abbastanza, questa sarà la snervante colonna sonora.dell’IDF e le battaglie a Gaza City e Khan Younis, è chiaro che l’operazione di terra a Rafah, se effettivamente ci sarà, durerà molte settimane. Israele crede che la CIG considererà la compressione di centinaia di migliaia o un milione di palestinesi in un piccolo fazzoletto di terra come una “misura” adeguata per evitare un genocidio?

La marcia per fuggire

Prima della guerra nel distretto di Rafah vivevano circa 270.000 palestinesi. Il milione e mezzo che attualmente vi si trova patisce fame e malnutrizione, sete, freddo, malattie ed epidemie, pidocchi nei capelli ed eruzioni cutanee; soffrono di esaurimento fisico e mentale e mancanza cronica di sonno.Si ammassano in scuole, ospedali e moschee, in quartieri di tende che sono spuntati dentro e attorno a Rafah, in alloggi che ospitano decine di famiglie di sfollati. Decine di migliaia di loro sono feriti, alcuni con arti amputati per gli attacchi dell’esercito o le operazioni chirurgiche che ne sono conseguite. Hanno tutti parenti o amici, bambini, neonati e genitori anziani, che sono stati uccisi negli ultimi 4 mesi.

Una delle tante tende di fortuna eretta a Rafah nel sud della Striscia. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le case della maggior parte di loro sono state distrutte o gravemente danneggiate. Tutto ciò che possedevano è andato perso. Il loro denaro è stato speso a causa del prezzo esorbitante del cibo. Molti sono sfuggiti alla morte solo per caso e hanno assistito a scene spaventose di cadaveri. Non hanno ancora pianto i morti perché il trauma continua. Insieme alle dimostrazioni di appoggio e solidarietà ci sono state anche discussioni e scontri. Alcuni hanno perso la memoria e la salute mentale per tutto quello che hanno subito. Come è stato fatto in altre zone della Striscia, per mantenere l’effetto sorpresa, l’IDF diffonderà un avvertimento circa due ore prima di un’invasione di terra a Rafah. Quel giorno ciò lascerà un lasso di tempo di qualche ora per evacuare la città. Immaginate questa carovana di sfollati e il panico di massa delle persone che scappano verso Al-Mawasi a ovest. Pensate agli anziani, ai malati, ai disabili e ai feriti che saranno “fortunati” ad essere trasportati su carri trainati da asini o da carretti improvvisati e in macchine che viaggiano con olio da cucina. Tutti gli altri, malati o sani, dovranno andarsene a piedi. Probabilmente dovranno lasciarsi dietro il poco che sono riusciti a raccogliere e portare con sé nei precedenti spostamenti, come coperte e teli di plastica come riparo, vestiti pesanti, un po’ di cibo e oggetti indispensabili come piccoli fornelli.

Distruzione a Rafah giovedì 8 febbraio 2024 a Rafah. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Questa fuga forzata probabilmente attraverserà le rovine di alcuni edifici bombardati da Israele non molto tempo fa, o i crateri creati sulla strada dagli attacchi. Tutto il convoglio allora si fermerà ancora finché non avrà trovato una deviazione.Alcuni inciamperanno, un carretto rimarrà impantanato. E tutti,affamati e assetati, terrorizzati dall’imminente attacco o dal bombardamento incombente dei carrarmati, continuerà ad andare avanti. Bambini piangeranno e verranno persi. Persone si sentiranno male. Squadre mediche lotteranno per raggiungere chiunque abbia bisogno di cure. Solo 4 km separano Rafah da Al-Mawasi, ma ci vorranno ore per arrivarci. Le persone in marcia verranno tagliate fuori da ogni possibilità di comunicare, anche solo a causa della quantità di gente in marcia e del sovraffollamento. Nella zona dovranno lottare per trovare lo spazio dove sistemare una tenda. Dovranno lottare con chi riesce a stare più vicino possibile a un edificio o a un pozzo per l’acqua. Sveniranno per la sete e la fame. Questa immagine si ripeterà svariate volte nei prossimi giorni: una marcia di palestinesi affamati e terrorizzati inizia a scappare nel panico ogni volta che l’IDF annuncia un’altra zona i cui abitanti dovrebbero evacuare, mentre carrarmati e truppe di fanteria avanzano verso di loro. Il bombardamento e le truppe di terra saranno più vicini agli ospedali che stanno ancora funzionando. Carrarmati li accerchieranno e a tutti i pazienti e al personale medico verrà chiesto di andarsene nell’affollata zona di Al-Mawasi.

L’operazione di terra

È difficile sapere quanti di loro decideranno di non andarsene. Come abbiamo imparato da quello che è successo nei distretti settentrionali di Gaza e di Khan Younis, un numero significativo di abitanti preferisce rimanere in una zona che è destinata a un’operazione di terra. Tra loro ci saranno decine di migliaia di sfollati, gazawi malati e gravemente feriti che sono stati ricoverati negli ospedali, donne incinte e altri che decideranno di rimanere nelle proprie case e in quelle di parenti o nelle scuole trasformate in rifugi. Le poche informazioni che avranno dalle zone di concentrazione di Al-Mawasi saranno sufficienti a scoraggiarli dal raggiungerle. Soldati e comandanti dell’IDF, tuttavia, interpretano l’ordine di evacuazione in modo diverso: chiunque rimanga nella zona destinata all’invasione di terranon è considerato un civile innocente, non è considerato “non coinvolto”. Chiunque rimanga nella propria casa ed esca per prendere l’acqua da una struttura della città che stia ancora funzionando o da un pozzo privato, personale medico chiamato per curare un paziente, una donna incinta che cammina verso un ospedale vicino per partorire, tutti, come abbiamo visto durante la guerra e le scorse campagne militari, sono considerati criminali agli occhi dei soldati. Sparare e ucciderli segue le regole di ingaggio dell’IDF. Secondo l’esercito questi attacchi avvengono rispettando le leggi internazionali perché tali individui sono stati avvertiti che dovevano andarsene. Persino quando i soldati fanno irruzione in case durante i combattimenti i gazawi, per lo più uomini, rischiano la morte colpiti da armi da fuoco. Un soldato che spara a qualcuno perché si sente minacciato o segue gli ordini, non importa. È successo a Gaza City e può avvenire a Rafah. Così come le squadre di soccorso non sono autorizzate o non sono in grado di raggiungere il nord della Striscia di Gaza per distribuire cibo, non potranno distribuirlo nelle zone dei combattimenti a Rafah. Il poco cibo che gli abitanti sono riusciti a conservare gradualmente finirà. Chi rimane nella propria casa sarà obbligato a scegliere il minore tra due mali:o esce e rischia di essere colpito dal fuoco israeliano o muore di fame in casa. La maggior parte già soffre per la grave carenza nutrizionale. In molte famiglie gli adulti rinunciano al cibo in modo che i figli possano essere nutriti. C’è il concreto pericolo che molti muoiano di fame mentre sono a casa propria quando fuori i combattimenti infuriano.

I bombardamenti

Da quando è iniziata la guerra l’esercito ha bombardato edifici residenziali, zone aperte e auto di passaggio in ogni luogo che aveva definito come “sicuro” (ai cui abitanti non era stato chiesto di andarsene). Non importa se gli attacchi hanno preso di mira strutture di Hamas, i miliziani dell’organizzazione o altri membri che sono rimasti con le loro famiglie o che erano usciti dai nascondigli per andarli a trovare, i civili sono quasi sempre uccisi.I bombardamenti non sono ancora neppure finiti a Rafah. Giovedì notte due case sono state bombardate nel quartiere occidentale di Rafah, Tel al-Sultan a Rafah. Secondo fonti palestinesi 14 persone, tra cui 5 minori, sono state uccise.

Una scena di dolore per la morte di un bambino ucciso in un bombardamento a Rafah l’8 febbraio. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le fonti hanno anche affermato che il 7 febbraio una madre e la figlia sono state uccise in un attacco israeliano contro una casa nel nord di Rafah e che il giorno prima un giornalista è stato ucciso insieme a madre e sorella nella parte occidentale di Rafah. Sempre il 6 febbraio, secondo le fonti, sei poliziotti palestinesi sono stati uccisi in un attacco israeliano mentre stavano proteggendo un camion di aiuti nell’est di Rafah.Questi attacchi segnalano che i calcoli sui cosiddetti danni collaterali approvati dagli esperti giuridici dell’IDF e dall’ufficio del procuratore generale sono estremamente permissivi. Il numero di palestinesi non coinvolti che è “permesso” uccidere per colpire un bersaglio dell’esercito è più alto che in qualunque altra guerra. La gente di Rafah teme che l’IDF applicherà questi criteri permissivi anche ad Al-Mawasi e attaccherà anche là se nella zona c’è un obiettivo tra le centinaia di migliaia che vi si rifugeranno. È così che un riparo annunciato come sicuro diventerà una trappola mortale per centinaia di migliaia di persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il voto per espellere il deputato della Knesset Cassif perché ha appoggiato la richiesta alla Corte Internazionale di Giustizia contro Israele è una persecuzione politica

Editoriale di Haaretz

30 gennaio 2024 – Haaretz

Con la decisione della Commissione parlamentare di espellere il deputato Ofer Cassif ([della lista di sinistra] Hadash-Ta’al) a causa del suo sostegno alla richiesta presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la Knesset e lo Stato toccano il fondo in modo inaudito.

In quella denuncia il Sudafrica ha sostenuto che Israele è colpevole di genocidio nella Striscia di Gaza. La legge fondamentale della Knesset le consente di espellere un parlamentare sia per razzismo che per il sostegno alla lotta armata contro Israele. Ma niente di quello che Cassif ha affermato rientra in questa definizione.

La decisione della commissione di cacciare Cassif emana un puzzo di persecuzione politica. Se la Knesset fosse davvero decisa a espellere i razzisti al suo interno non ci sarebbero stati abbastanza parlamentari per formare l’attuale governo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Il parlamentare Oded Forer ([del partito di estrema destra laica, ndt.] Yisrael Beiteinu), che ha guidato la corsa per espellere Cassif, ha messo in luce la logica contorta che lo ha spinto: “Si può considerare la denuncia all’Aia come se fosse stata presentata dallo stesso Cassif,” ha affermato. “E se ciò fosse stato ottenuto avrebbe minacciato la sicurezza di Israele.” Perché? Perché l’obiettivo di Cassif è stato “fermare i combattimenti,” ha continuato Forer, e poi “Hamas si sarebbe ripreso,” il che avrebbe dato come risultato “un danno per i nostri soldati.”

Dei 120 membri della Knesset 85 hanno firmato la richiesta di espellere Cassif, tutti meno i deputati del partito Laburista e dei partiti arabi. E martedì hanno votato per cacciarlo 14 dei 16 membri della commissione del parlamento.

Le anime illuminate che vogliono liberarsi di Cassif includono Moshe Saada (del Likud), che non molto tempo fa ha affermato: “E’ chiaro a chiunque che dobbiamo distruggere Gaza,” e Tzvika Foghel ([del partito di estrema destra religiosa] Otzma Yehudit), che un mese fa ha affermato che “prima sconfiggeremo Hamas ed Hezbollah, e per completare il tutto metteremo a posto la Corte Suprema.” Ma persino Matan Kahana e Zeev Elkin del centrista Partito dell’Unità Nazionale e Naor Shiri del partito di opposizione Yesh Atid hanno appoggiato l’espulsione.

Cassif ha tutto il diritto di pensare che Israele stia commettendo crimini di guerra. In effetti all’Aia i giudici più importanti del mondo hanno accettato di discutere di questa stessa questione. Ma la legge che consente l’estromissione [dei parlamentari, ndt.] è stata fin dall’inizio promulgata per liberarsi dei rappresentanti arabi alla Knesset, che intendono fare di Israele una vera democrazia e si identificano con la lotta dei palestinesi per liberarsi dall’occupazione. Questi deputati non appoggiano il terrorismo e sicuramente non l’attacco di Hamas del 7 ottobre, come ha ripetuto ancora una volta Cassif.

È piuttosto paradossale che la Knesset trovi qualcuno che a suo parere merita di essere cacciato solo qualche giorno dopo che a Israele è stato consegnato un ordine internazionale perché punisca gli istigatori e i razzisti che lo hanno portato davanti all’Aia e due giorni dopo una conferenza al Centro Congressi Internazionali di Gerusalemme in cui ministri e parlamentari hanno invocato il trasferimento di 2,3 milioni di gazawi.

L’approvazione dell’espulsione da parte della commissione non è la fine del percorso. Ci sono altre due fermate lungo il cammino: primo, l’approvazione da parte di tutta la Knesset, in cui 90 dei 120 deputati dovrebbero appoggiarla, e poi la Corte Suprema, se Cassif decidesse di presentare ricorso contro la pronuncia. Là presumibilmente i giudici rimedieranno al disastro della Knesset, come in genere fanno, e ribalteranno la decisione. Ma la macchia sulla democrazia israeliana non sarà cancellata facilmente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)