Gli israeliani non possono riconoscere il terrorismo che li fissa dallo specchio

di Amira Hass, 26 settembre 2016

Haaretz

Mentre gli esperti stanno di nuovo spiegando perché la “calma” è finita, ciò che davvero avrebbe bisogno di spiegazione è la moderazione palestinese a fronte della violenza di Israele.

Si sono nuovamente scatenate le aggressioni col coltello? L’ondata del terrore è di nuovo in piena attività? State sbagliando, signore e signori. L’ondata è un oceano, il terrore non è mai cessato e la sua impudenza sta semplicemente aumentando. Non è chiamata col suo vero nome – viene definita “sicurezza” e chi la attua se ne va in giro liberamente, obbedendo all’ordine di intimidire quattro milioni di esseri umani.

Volete che ve lo traduca? Il regime militare che noi imponiamo, in atto da decenni, è terrorismo quando ci sono di mezzo i palestinesi.

Anch’io credo che si tratti di terrore, perché la gente è intimidita al punto che la vita viene loro strappata e la loro salute, il loro benessere e le loro proprietà vengono danneggiate, a beneficio dei nostri diritti di padroni, in nome del raggiungimento di vantaggi politici, economici e territoriali quali Sussia (villaggio palestinese minacciato di demolizione da Israele, ndt) o Kfar Adumim (colonia israeliana situata nel centro della Cisgiordania, ndt), l’irrigazione di lucrose erbe aromatiche nella valle del Giordano o l’esportazione di armi. Creare terrore è il senso delle decine di migliaia di uomini armati dislocati in Giudea e Samaria (nomi che gli israeliani attribuiscono all’attuale Cisgiordania, ndtr.), come anche nella Gerusalemme riunificata. Mettono paura perché sono stati mandati là per assicurare un crudele ordine di espropriazione.

Una persona armata di fucile guarda in uno specchio e si spaventa dell’immagine di qualcuno che le sta puntando contro un fucile. Non è un’illusione ottica, ma cognitiva. Sembra che non possiamo vedere noi stessi come la causa, come gli aggressori e, sì, come terroristi agli occhi di coloro che da quando sono nati sono vissuti sotto una legislazione militare, con i nostri fucili, carri armati, aerei, elicotteri e droni che gli scagliano contro ordigni mortali.

Non possiamo vederlo anche noi? Mi correggo. Noi ci rifiutiamo di vedere noi stessi come la causa. Con un logoro e snervante riflesso pavloviano, i nostri media definiscono gli accoltellamenti un’ “ondata” e con dotte analisi spiegano ripetutamente perché la “calma” è finita. Può essere persino patetico: “Una terrorista di tredici anni ha cercato di compiere un accoltellamento al checkpoint di Eliyahu. E’ stata colpita e leggermente ferita”, ha riferito Canale 7, il canale dei coloni che ragionano. Il reportage non è cambiato neanche dopo che è emerso che la borsa “sospetta” che aveva la ragazza non conteneva niente che potesse ferire i nostri soldati (per esempio un coltello, un cacciavite, una matita appuntita). Un giornalista della radio israeliana ha continuato a descrivere i suoi movimenti al checkpoint come un tentativo di aggressione. I giornalisti e gli opinionisti vanno e vengono, ma il titolo resta: “I palestinesi hanno ricominciato ad attaccare noi, i poveri nebechs (poveraccio o stupido in yiddish, ndt) usciti dal ghetto”.

Il titolo, “preoccupazioni per lo scoppio di incidenti (che minano la sicurezza)” è posto in apertura della home page del sito web di Haaretz. Non compare per raccogliere notizie su dozzine di ragazzi palestinesi resi invalidi sparandogli nelle ginocchia proiettili Ruger (proiettili letali utilizzati dall’esercito israeliano contro i manifestanti, anche se nel 2001 erano stati vietati per quell’uso dalla stessa avvocatura militare, ndt.) dell’esercito. Non ci sono titoli di questo genere sull’imperversare dei divieti di muoversi dalla Striscia di Gaza, o su un’altra ondata di soldati che uccidono palestinesi che non hanno minacciato la loro vita: ad al-Fawar (Mohammed Hashash), a Silwad (Iyad Hamed), a Shoafat (Mustafa Nimer). Non troverete un titolo che riassume l’orgia quotidiana di raid militari (almeno 116 tra il 9 e il 21 settembre). Per esempio, a Bil’in la mattina di mercoledì scorso: i nebechs usciti dal ghetto irrompono.nelle case di attivisti dei Comitati di Resistenza Popolare, spaventando i bambini e confiscando (cioè rubando) computers e telefoni cellulari. Non sono state riportate vittime tra le nostre forze. L’unica vittima non citata è la realtà.

Le notizie di una nuova ondata di terrore vengono date quando ebrei, soldati e poliziotti di frontiera sono feriti o si sentono minacciati. Decine di migliaia di storie e racconti, soprattutto in Haaretz, che hanno a che fare con la perdurante violenza militare e burocratica israeliana si disperdono come se fossero eventi casuali. L’intollerabile e continuo flusso di deliberate vessazioni nei confronti dei palestinesi, che nasce dal fatto che siamo una forza occupante straniera, non viene percepito dai sensori dei giornali come un continuum.

Il giornalismo predilige i drammi e le tragedie. Quando il disastro è permanente, non è più una notizia, soprattutto quando la causa del disastro siamo noi. La routine delle disgrazie che causiamo ai palestinesi non esiste nella realtà di Israele. Ecco perché non ottengono costantemente le prime pagine e la loro assenza, a sua volta, forgia nelle nostre menti una realtà in cui tutto va bene. E allora ecco una realtà differente, con la gente che chiede “ Ma perché questi palestinesi ci stanno di nuovo attaccando?”

Un cittadino giordano e sei palestinesi, compresi quattro minori, sono stati uccisi dal fuoco israeliano in meno di una settimana, nel corso di aggressioni, tentate o presunte . Il 9 settembre un bengala dell’esercito israeliano ha ucciso il sedicenne Abdel Rahman al-Dabbagh mentre dimostrava contro il blocco di Gaza, vicino al muro. Alla domanda se non ci sia altro modo se non uccidere tutta questa gente la risposta probabilmente sarebbe l’affermazione che l’uccisione è avvenuta nel rispetto delle regole d’ingaggio.

La negazione cognitiva impedisce agli israeliani di rendersi conto di quanto moderati siano in realtà i palestinesi. In mezzo a quattro milioni di vittime di un terrorismo costante , solo pochissimi esprimono la propria disperazione con azioni che quasi sicuramente li porteranno alla morte. E’ questa moderazione collettiva, non il limitato numero di attacchi col coltello o con l’automobile, che necessita di una spiegazione. C’è saggezza in questa moderazione, dato che non è il momento di una lotta di massa. Questa moderazione esprime disperazione perché quelli che nel mondo ascoltano non possono decidere e quelli che decidono non ascoltano.

Nella moderazione palestinese c’è anche speranza: la giustizia ed il futuro stanno dalla loro parte, perché lottano per la propria libertà.

 

Traduzione di Cristiana Cavagna

 




Non ci sarà pace finché Israele non accetterà le proprie responsabilità per la Nakba

 

di Gideon Levy – 22 settembre 2016

Haaretz

Non ci sarà pace finché gli israeliani non sapranno e non capiranno come tutto questo è iniziato.

Il governo di Israele lo ha confermato ancora una volta: furono commessi crimini di guerra nel 1947-48; ci furono massacri, espulsioni, ci fu pulizia etnica – ci fu una Nakba, una Catastrofe, come i palestinesi chiamano la loro esperienza in quegli anni. Come lo sappiamo?

Il governo sta per prolungare la secretazione di uno dei documenti più importanti dell’archivio delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano. Ndtr.] che riguarda la creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Sessantotto anni sono passati e Israele sta occultando a se stesso la verità degli archivi – ci potrebbe essere una prova più chiara che c’è qualcosa da nascondere? Un alto funzionario ha spiegato al corrispondente diplomatico di Haaretz Barak Ravid (“Commissione guidata da Shaked probabilmente intende mantenere riservato il “Nakba file” nell’archivio dell’IDF”, 20 settembre): “Quando ci sarà la pace, sarà possibile aprire questi materiali alla visione del pubblico.”

La pace non ci sarà finché gli israeliani non sapranno e non capiranno come tutto questo è iniziato. La pace non ci sarà finché Israele non ne accetterà la responsabilità, non chiederà perdono e non offrirà compensazioni. Non c’è pace senza questo. Forse ci potrebbero essere commissioni per la verità e la riconciliazione come in Sud Africa o una genuflessione e riparazioni come in Germania. Ciò potrebbe essere il modo per esprimere pentimento al popolo palestinese, ritorno parziale e parziale compensazione per le proprietà sottratte nel 1948 e da allora in poi. Solo non la negazione e il sottrarsi alle proprie responsabilità.

La pace non sarà ostacolata perché i palestinesi stanno insistendo sul diritto al ritorno. Sarà principalmente impedita perché Israele non è pronto a interiorizzare il punto di partenza storico: un popolo senza un Paese è arrivato in un Paese con un popolo e questo popolo ha vissuto una terribile tragedia che continua fino ad oggi.

Quel popolo non dimentica. E Israele non sarà in grado di farglielo dimenticare. Israele odia i negazionisti dell’Olocausto – e giustamente. In molti Paesi è un reato penale. In Israele la gente è arrabbiata con la Polonia, che ha proibito per legge di far riferimento alla sua partecipazione allo sradicamento dei suoi ebrei. Anche l’Austria, che non ha mai fatto i conti in modo adeguato con il suo passato, è meritevole di condanna.

E Israele ha fatto i conti con il suo passato? Mai. Il mondo ebraico chiede compensazioni per le proprietà che ha lasciato dietro di sé nell’Europa orientale e nei Paesi arabi. Agli ebrei è consentito tornare alle proprietà ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Fare i conti con il nostro passato non è esattamente quello che facciamo. Per noi valgono leggi diverse, leggi del popolo eletto e il doppio standard. Distogliamo lo sguardo dalla gobba sulla nostra schiena – quella nascosta negli archivi e che sorge alta da ogni campo profughi e da ogni villaggio in rovina – noi guardiamo da un’altra parte.

E’ possibile fin da subito fare a meno dell’ira per il paragone con l’Olocausto: non c’è paragone. Ma ci sono disastri nazionali che non sono un olocausto e tuttavia sono disastri. Un terribile disastro è avvenuto al popolo palestinese e Israele nega questo disastro e le sue responsabilità in merito. La sua portata è lontana da quella dell’Olocausto, ma è un terribile disastro. Le negazioni sono confrontabili: la negazione della Nakba batte la negazione dell’Olocausto.

Quello che è successo al popolo palestinese nel 1948 ed è continuato dopo la nascita dello Stato [di Israele] non può essere rimosso per sempre. Se Israele è certo che ciò sia giusto, apra gli archivi e lo provi. Infatti, uno dei documenti che Israele ha secretato è uno studio che David Ben Gurion [il padre della patria di Israele. Ndtr.] commissionò con l’intento di provare che gli arabi scapparono. Se tutto è stato morale, giusto e legale, perché non lo stanno rendendo pubblico?

E’ sufficiente vedere la fotografia che accompagna il reportage nella versione in ebraico di Haaretz per confutare la propaganda sionista: due arabi spingono una carretta piena di cianfrusaglie, tappeti e beni di famiglia, un vecchio con una canna arranca dietro di loro e tre uomini dell’Haganah [milizia armata sionista. Ndtr.] li accompagnano con i fucili spianati. Haifa, 12 maggio 1948. Così appare la “fuga volontaria” che gli arabi sono accusati di aver scelto. E questa naturalmente non è l’immagine più scioccante dell’espulsione.

Il senso di colpa è molto pesante. Non si allevierà. Per l’espulsione, ed ancora di più per aver impedito un ritorno alle loro case quando i combattimenti sono cessati. La giustizia totale non prevarrà qui e la condanna non ricade solo sulle spalle di Israele. Ma la negazione deve finire. Convinti della nostra rettitudine e forti nel nostro Stato, è arrivato il momento di guardare in faccia la verità e arrivare all’ovvia conclusione: Israele ha sovraccaricato il calderone delle sofferenze che ha causato al popolo palestinese da molto tempo. Da molto tempo.

(traduzione Amedeo Rossi)




I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Sì, Netanyahu, parliamo pure di pulizia etnica

Haaretz – 11 settembre 2016

di Gideon Levy

Trasformare i coloni israeliani in vittime è l’atto di impudenza più strabiliante da parte del primo ministro fino ad ora.

L’unica pulizia etnica di massa che ha avuto luogo qui è stata nel 1948, quando circa 700.000 arabi sono stati obbligati a lasciare le loro terre.

Israele ne sa qualcosa di pulizia etnica. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ne sa qualcosa di propaganda. Il video che ha postato venerdì dimostra entrambe le cose. Ecco la verità, ancora un’altra testimonianza della faccia tosta israeliana: l’evacuazione dei coloni dalla Cisgiordania (che non è mai avvenuta, e presumibilmente non avverrà mai) è pulizia etnica.

Sì, lo Stato che ti ha portato la grande pulizia etnica del 1948, che non ha mai, in fondo al suo cuore, abbandonato il sogno dell’espulsione, e che non ha mai smesso di portare avanti metodicamente micro-espulsioni nella Valle del Giordano, nelle colline meridionali di Hebron, nella zona di Ma’aleh Adumim [grande colonia nei pressi di Gerusalemme est. Ndtr.] e anche nel Negev [zona meridionale di Israele, da cui vengono espulse le comunità beduine con cittadinanza israeliana. Ndtr.] – questo Stato chiama lo spostamento dei coloni pulizia etnica. Questo Stato paragona gli invasori dei territori occupati ai figli della terra che si aggrappano alle loro terre e case.

Netanyahu ha dimostrato ancora una volta di essere quello vero, il più autentico rappresentante della “israelicità”, che ha creato una realtà tutta sua: trasformare la notte in giorno, senza vergogna e senza alcun senso di colpa, senza inibizioni.

In Israele molta gente, forse la maggioranza, lo prenderà per buono. I coloni della Striscia di Gaza sono diventati “espulsi”, la loro evacuazione una “deportazione”. Non solo è legittimato un atto aggressivo e violento – la colonizzazione -, ma i suoi attori sono vittime.

Gli ebrei sono vittime. Sempre gli ebrei, solo gli ebrei. Un primo ministro israeliano meno sfrontato ed arrogante di Netanyahu non oserebbe pronunciare il termine “pulizia etnica”, per via della trave nel suo stesso occhio. Poche campagne di propaganda oserebbero arrivare così lontano. Eppure ogni tanto la realtà si intromette.

E la realtà è affilata come un rasoio. L’unica pulizia etnica di massa che ha avuto luogo qui è stata nel 1948. Circa 700.000 esseri umani, la maggioranza, sono stati obbligati a lasciare le loro case, le loro proprietà, i loro villaggi e le terre che sono state loro per secoli. Alcuni sono stati espulsi con la forza, fatti salire su dei camion e portati via; alcuni sono stati intenzionalmente spaventati perché scappassero; altri ancora se ne andarono, forse senza ragione. Non gli è mai stato consentito di tornare, tranne pochi, anche solo per ricuperare le loro cose.

Non poter tornare è stato ancora peggio che essere espulsi. Ciò prova che la pulizia etnica è stata intenzionale. Non è rimasta neanche una comunità araba tra Jaffa e Gaza, e tutte le altre aree sono sfregiate dai resti di villaggi, le vestigia della vita. Questa è una pulizia etnica – non c’è altro termine per definirla. Più di 400 villaggi e cittadine sono stati spazzati via dalla faccia della terra, le loro rovine coperte da comunità ebraiche, foreste e bugie. La verità è stata celata dagli ebrei israeliani e ai discendenti dei deportati è stato vietato di commemorarli – né un monumento né una lapide, per parafrasare Eugeny Yevtushenko.

Il numero dei coloni ora supera quello degli espulsi. Hanno invaso una terra che non era loro, con l’appoggio dei vari governi israeliani e l’opposizione del mondo intero, e sapevano che la loro impresa era costruita sul ghiaccio. Loro e i governi israeliani non solo hanno brutalmente violato le leggi internazionali, che non sono minimamente rispettate in Israele. Hanno violato anche la legge israeliana, con l’appoggio di una magistratura assoggettata.

Il furto di terra è anche una violazione della legge messa in pratica in Israele e nei territori. Quando israeliani, e il resto del mondo, hanno cominciato ad abituarsi a questa situazione, ad accettarla come inevitabile, salta fuori il primo ministro e alza il livello della sua sfacciataggine: i coloni sono in realtà vittime. Non quelli che loro hanno espulso, non quelli che hanno spogliato della loro terra. Nella realtà, secondo Netanyahu, i coloni che hanno costruito con il proposito di escludere un compromesso con i palestinesi non sono un ostacolo, e lui li equipara ai ” she’erit haplita” – ciò che resta dei palestinesi che sono rimasti in Israele, per prendere in prestito un termine da ciò che è restato dopo l’Olocausto.

Il linguaggio può essere distorto per qualunque scopo, propaganda per ogni perversione morale. Addio, realtà, qui tu non conti più niente.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La crisi idrica di Israele non è finita:

i livelli del Mar Morto, del lago Kinneret e delle falde acquifere sono tutti bassi

Di Nir Hasson, Noa Shpigel, Ido Efrati e Zafrir Rinat

Haaretz 6 settembre 2016|

La desalinizzazione ha alleviato la scarsità d’acqua, ma la prolungata siccità, l’eccessivo pompaggio e le esigenze di una popolazione in crescita stanno facendo scempio dell’ecologia del paese.

La maggior parte dell’opinione pubblica crede che la desalinizzazione abbia aiutato Israele a superare la sua cronica crisi idrica, ma gli esperti affermano che non è affatto vero e mettono in guardia contro l’autocompiacimento.

Il rapporto mensile di agosto, pubblicato dal Servizio Idrologico dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, quest’estate mostra una diminuzione più grave del solito del livello del Lago Kinneret [il lago di Tiberiade, nel nord del paese, ndt], del Mar Morto, dei corsi d’acqua nel nord e di tutti gli acquiferi sotterranei. Peggio ancora, le stime nazionali ed internazionali prevedono che almeno la prima metà dell’inverno sarà senza precipitazioni. Se queste previsioni verranno confermate, il Kinneret quest’anno scenderà al suo livello più basso degli ultimi 10 anni.

Benché gli impianti israeliani di desalinizzazione soddisfino una crescente quantità del consumo di acqua del paese, a livello locale la crisi attuale potrebbe causare gravi danni all’agricoltura ed all’ambiente.

Secondo il rapporto dell’Autorità per l’Acqua, il mese scorso il livello del Lago Kinneret è sceso di 26 cm., fino a 32 cm. al di sotto della linea rossa di minima – il livello in cui inizia il danno all’equilibrio ecologico e la qualità dell’acqua peggiora. Questo è il livello più basso registrato il 1 settembre negli ultimi 6 anni, benché il pompaggio dell’acqua del lago a beneficio dell’acquedotto nazionale sia stato significativamente ridotto.

Intanto il livello del Mar Morto è sceso di 13 cm. in agosto. Dall’inizio dell’anno idrologico (che comincia in ottobre) il livello del Mar Morto è sceso di 103 cm., il 22% in più rispetto al periodo corrispondente del precedente anno idrologico. Nel corso degli ultimi 25 anni, il livello del Mar Morto è diminuito di quasi 25 metri. Attualmente non riceve quasi più acqua dal fiume Giordano, le cui acque sono deviate per fornire acqua potabile a Giordania, Siria, Libano ed Israele.

E’ stata rilevata anche una forte diminuzione nei bacini acquiferi montani e costieri del paese, anche se restano al di sopra della linea rossa. Però il bacino acquifero della Galilea occidentale, un’importante sorgente d’acqua per quella regione, è sceso sotto la linea rossa.

L’ultima grave crisi idrica in Israele risale al 2008, quando il governo lanciò un’importante campagna per il risparmio dell’acqua e accelerò la costruzione degli impianti di desalinizzazione, da aggiungere a quello già operativo ad Ashkelon. Le strutture di desalinizzazione a Palmahim, Hadera, Nahal Sorek e Ashdod sono diventate velocemente operative; nello scorso anno hanno prodotto 500 milioni di metri cubi d’acqua, il 40% dell’acqua del paese. Per il prossimo anno si prevede di arrivare a 600 milioni di metri cubi.

‘Problema risolto’

“Israele ha risolto il problema dell’acqua”, dichiara il portavoce dell’Autorità per l’Acqua, Uri Shor. “Oggi più della metà di tutta la fornitura d’acqua è prodotta dall’uomo (incluso il trattamento delle acque reflue, N.H.). Ciò assicura stabilità ed un approvvigionamento sostenibile”.

Gli esperti concordano sul fatto che il problema della fornitura d’acqua è stato alleviato dalla desalinizzazione, ma dipingono un quadro più complesso, in cui la desalinizzazione gioca un ruolo solo parziale.

“Per costruire un impianto di desalinizzazione ci vogliono tre anni”, dice il prof. Daniel Kurtzman del Volcani Center [centro israeliano di ricerche agronomiche, ndt.], “ma costruire l’infrastruttura atta a trasportare l’acqua su lunghe distanze implica molti anni. Hanno iniziato a costruire il quinto acquedotto per Gerusalemme nel 2003, e ci vorranno ancora molti anni per completarlo.” Così, le zone distanti dagli impianti di desalinizzazione devono continuare a contare sulle sorgenti d’acqua naturale e patiranno durante un periodo di siccità, nonostante gli impianti di desalinizzazione di Israele.

“La siccità è soprattutto un dramma ecologico; in un anno di siccità vediamo come i corsi d’acqua del Golan ed il lago Hula [nel nord di Israele. ndt] si prosciugano, e non ci possiamo fare niente; è un disastro,” dice Amon Sofer, professore emerito di geografia e scienze ambientali all’università di Haifa.

“Poi c’è il più ampio impatto sull’estetica del paesaggio, della flora e della fauna, ed addirittura sulla sopravvivenza derivante dal turismo dei kayak,” dice Sofer.

“Ci sono zone in Israele che non sono rifornite dalla desalinizzazione – per esempio le alture del Golan, dove esiste un grave problema idrico,” dice Kurtzman.

“Non dovete pensare che le alture del Golan necessitino di soluzioni idriche del tipo che oggi immaginiamo; ma quelle sono soluzioni adatte al deserto di Arava [a sud di Israele, dal golfo di Aqaba alle sponde meridionali del mar Morto, ndt], non al Golan.”

Certamente gli agricoltori del Golan, che contano soprattutto sui bacini di superficie, sono le principali vittime della situazione attuale. Negli anni di siccità questi bacini si riempiono poco e si svuotano velocemente.

Ora nel Golan ci sono impianti per scavare pozzi profondi, che destano preoccupazione tra le organizzazioni ambientaliste.

“Stanno iniziando a parlare di perforare lo strato di basalto per fornire acqua potabile e per l’agricoltura, qualcosa che non è mai stata fatta,” dice Yehoshua Shkedy, capo ricercatore dell’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi. “Il problema è che una simile perforazione prosciugherà le sorgenti e gli affluenti, che sono la linfa vitale delle alture del Golan.”

Shkedy poi aggiunge: “Un altro anno così e non ho idea di che cosa faremo. Stiamo parlando di un possibile prosciugamento del Banias [affluente del Giordano, che scorre in Siria e in Israele, ndt], per cui sarà impossibile scendere in kayak per il fiume Giordano.”

Intanto, se vi state chiedendo perché negli ultimi anni sembra che cada più pioggia nel sud che nel nord [di Israele, ndt], non siete i soli. Gli esperti fanno fatica a spiegare perché l’area delle piogge sembra essersi fermata a Netanya [sulla costa centro settentrionale di Israele, ndt.].

Cambiamenti globali

Uno studio di Amir Givati, capo della gestione delle acque di superficie dell’Autorità Israeliana per l’Acqua, punta il dito su un cambiamento climatico globale che colpirà la regione in futuro. Lo studio sostiene che le classiche depressioni barometriche dell’inverno israeliano, che si spostano da nord a sud, si sono indebolite e sono state sostituite da piogge che arrivano piuttosto dal sud.

Gli scienziati ottimisti però dicono che alcuni anni di siccità non sono sufficienti per stabilire una regola.

“Io sono relativamente ottimista”, dice Kurtzman. “Nel 2001 abbiamo raggiunto la linea nera nel lago Kinneret, che sembrava proprio quanto di peggio ci potesse essere, e poi il 2002-2003 è stato un anno molto piovoso, e l’umore è cambiato. In base alla mia esperienza, è possibile che ci siano dei cicli ampi di 30 o 40 anni. Tra il 1965 e il 1995 abbiamo avuto un periodo di piogge, e dal 1995 abbiamo un periodo di piogge più scarse. Ci possono essere dei cambiamenti.”

Traduzione di Cristiana Cavagna

 




L’esercito israeliano sta conducendo una campagna di gambizzazione in Cisgiordania?

di Amira Hass,

27 agosto 2016, Haaretz

Il numero dei palestinesi feriti da pallottole vere sta aumentando, e i ragazzi che tirano pietre dicono che viene loro comunicato che sfidare i soldati può renderli zoppi per tutta la vita.

La manifestazione in onore dei feriti del campo profughi di Deheisheh è iniziato quasi in orario, alle 20,20 di domenica scorsa. Nella via principale, parzialmente chiusa al traffico, sono state sistemate file di sedie. Gli automobilisti che utilizzavano l’altra strada erano pazienti e si muovevano in entrambe le direzioni, creando due ingorghi di traffico che miracolosamente hanno lasciato passare un’ambulanza a sirene spiegate. Qualcuno ha instradato il traffico a destra e a sinistra ed in pochi secondi si è creato un varco. Dopo il passaggio dell’ambulanza, si sono di nuovo formati gli ingorghi, sotto le bandiere rosse del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e sul lato opposto di un enorme memoriale in cemento, con la forma della mappa della Palestina.

Recentemente, tre incursioni dell’esercito israeliano in meno di due settimane nel campo a sud di Betlemme si sono concluse con qualche arresto, ma 15 persone sono rimaste gravemente ferite da colpi di fucile.

Questo alto numero di palestinesi colpiti alle ginocchia dai soldati, probabilmente rimasti disabili per sempre, hanno ricordato a tutti molti altri feriti in modo simile nei recenti raid.

“I notiziari vi dicono che non ci sono stati morti, solo feriti, perciò tutti si tranquillizzano senza rendersi conto delle sofferenze che stiamo passando,” dice N., 23 anni, in una conversazione con Haaretz. Dice di essere stato colpito a una gamba da una pallottola due anni fa, mentre soccorreva un altro ferito e lo portava in salvo. Si parlò di amputargli la gamba, ma lui era deciso a tenerla e ha trovato delle cure adeguate in Germania. Tuttora cammina con una stampella, ma non parla del suo dolore.

Due ragazzi di 15 e 16 anni e uomini intorno ai vent’anni, arrancano con le stampelle per i vicoli scoscesi del campo. Sono stati feriti durante lo scorso anno, o prima ancora. Ognuno di loro ha subito complessi interventi chirurgici, e ne subiranno altri. E ciascuno deve affrontare un costante monitoraggio e ripetute pulizie alle ferite per rimuovere i frammenti dei proiettili, ed assumere farmaci antinfiammatori e sostituire le protesi di platino. Uno dei giovani ha avuto la gamba amputata.

Questi ragazzi parlano con cognizione di causa di farmaci anticoagulanti, di differenti tipi di antidolorifici e di operazioni. Raccontano di lunghi mesi in cui non potevano fare una doccia o andare al bagno senza essere accompagnati, di muscoli indeboliti, del desiderio di camminare senza assistenza.

Qualcuno ha visto il cecchino che li ha colpiti prendere la mira, con un ufficiale alle sue spalle. Qualcuno ricorda i mirini telescopici sul fucile, altri parlano di un treppiede usato dal cecchino. Qualcuno ipotizza che sono stati colpiti da un cecchino posizionato sull’alto edificio fuori dal campo.

Alcuni dei feriti hanno ottenuto le stampelle dove potevano – a volte sono spaiate, e alcune hanno la gomma così consumata che li fa scivolare. Le cure sono costose ed anche prendere un taxi per andare all’ospedale per i controlli è un peso economico.

Molti di loro non hanno assicurazione sanitaria, ma gli interventi chirurgici vengono comunque eseguiti. Però talvolta solo un’operazione all’estero potrebbe salvare una gamba e ciò rappresenta un problema finanziario più grave. Ci vogliono capacità e determinazione per ottenere una donazione da una delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Parecchi di loro sono stati arrestati subito dopo l’intervento chirurgico, o prima di una seconda operazione, e condannati ad alcuni mesi di carcere e ad una multa. La convinzione dei feriti – di rappresentare il proprio popolo ed un principio, e di contrastare gli attacchi nemici al loro campo tirando pietre – viene sostituita da uno schiacciante senso di solitudine nel momento in cui affrontano le conseguenze delle loro ferite.

Molti nel campo di Deheisheh sono convinti che dietro tutto ciò ci sia la mano del “capitano Nidal” – un ufficiale del servizio di sicurezza dello Shin Bet che si accanisce sul campo perché qualcuno lo ha fotografato durante uno dei raid e lo ha postato su Facebook.

A febbraio è comparso nel campo uno striscione con i simboli di Fatah e dell’FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo storico della resistenza marxista, ndtr.). Con una spacconata tipica della parte più debole l’avviso conteneva la promessa che le pietre del campo avrebbero colpito “Nidal e i soldati”.

Nel campo si racconta che durante gli interrogatori, al telefono o nelle visite notturne nelle case del campo, il capitano Nidal dice ai ragazzi che non ci saranno martiri nel campo, ma “tutti voi finirete sulle stampelle”. O, secondo un’altra versione, “Vi renderemo tutti disabili”.

Il capitano Nidal (il nome che ha adottato è sacrilego, poiché significa “lotta” in arabo) fece la sua comparsa nel campo 18 mesi o due anni fa – i miei interlocutori non riescono a ricordare esattamente quando. Qualcuno ha detto ad Haaretz che diverse organizzazioni internazionali hanno denunciato il suo comportamento brutale. E’ scomparso per alcuni mesi, ma poi è ritornato.

E’ anche emerso che nel villaggio di Tekoa, più ad est, circa altri venti ragazzi sono stati colpiti alle gambe nell’arco di pochi mesi. Nel loro caso, si tratta di un “ capitano Imad” dello Shin Bet (è questo il nome che i funzionari del comune ricordano, benché non ne siano sicuri al 100 percento). Gli abitanti dicono che lui promette ai giovani che se affronteranno i soldati quando fanno le incursioni verranno azzoppati. E molte delle ferite da pallottole nel villaggio di Al-Fawwar, attaccato anch’esso dall’esercito due settimane fa, erano alle ginocchia.

In altri termini, Deheisheh non è solo, non è l’unico.

Un portavoce dell’esercito dice che i soldati usano fucili Ruger nei loro raid. I giornalisti (e probabilmente il portavoce) dicono che si tratta di un’arma non letale. Ma questa affermazione è falsa, o è un tentativo di trarre in inganno. Almeno quattro palestinesi disarmati, compreso un minore, sono stati uccisi dalle pallottole calibro 22 sparate da fucili Rugers negli ultimi 18 mesi. Sembra che il diciottenne Mohammed Abu Hashash [colpito durante scontri con le forze israeliane, ndt] sia stato anch’egli ucciso nello stesso modo ad Al-Fawwar [campo profughi nei pressi di Hebron, ndt] la settimana scorsa.

Ad Hebron e Deheisheh sono stati creati dei comitati per prendersi cura dei feriti. In molti luoghi sta crescendo l’impressione che l’esercito stia intensificando l’uso di pallottole vere negli scontri con ragazzi disarmati che tirano pietre, e che le ferite provocate siano deliberatamente più gravi. Ci devono essere più di 100 persone in Cisgiordania, compresi molti minori, che sono stati azzoppati dall’esercito israeliano nello scorso anno. Ma non si dispone ancora di informazioni o di dati che confermino l’apparente tendenza.

L., di Tekoa, dice che suo padre era così arrabbiato con lui quando è stato ferito, che si è rifiutato di andarlo a trovare in ospedale o di parlargli per i primi due giorni; solo più tardi si è calmato. L. confessa che non sfiderà nuovamente i soldati israeliani, anche se si trovava molto lontano da loro quando è stato colpito da un cecchino.

Y., un quindicenne di Deheisheh, è tornato dall’ospedale solo la settimana scorsa dopo avervi trascorso due settimane. Suo padre, che è sempre stato accanto a lui, ha detto: “Sono stati i soldati a venire verso di noi, verso le nostre case. Non siamo andati noi da loro.”

Ho incontrato 12 persone ferrite in tre giorni. Per i “fortunati”, la pallottola ha colpito solo i loro muscoli. Altri hanno avuto le ossa fratturate o i nervi ed i tendini lacerati o bruciati, o entrambe le cose.

A. è stato colpito da due pallottole ed è rimasto in coma 10 giorni. Tutti pensavano che sarebbe morto. I suoi amici non hanno lasciato il suo letto finché non si è svegliato, bianco come un cencio.

In alcuni casi la pallottola è entrata in una gamba, ne è uscita ed è entrata nell’altra, provocando un esteso danno. Alcuni ragazzi sono stati colpiti dai soldati due volte, in ognuna delle gambe. E’ ciò che è successo a Y. ed al suo amico H., che cercava di soccorrerlo.

Y. era fuori dalla sua casa all’alba quando ha visto avvicinarsi 20 soldati. E’ stato colpito ad una gamba ed è caduto. H., di 18 anni, è corso in suo aiuto, lo ha sollevato e si è diretto verso la loro casa. Allora un soldato ha sparato ad H., che cercava di andare avanti, mentre sorreggeva Y. Ma un soldato gli ha sparato di nuovo, lui è inciampato ed entrambi sono caduti. Allora Y. è stato nuovamente colpito all’altra gamba.

L’altro effetto farfalla

“Appena sono stato colpito, il mio piede tremolava come un pezzo di carta al vento”, racconta M., diciannove anni, di Deheisheh, a cui hanno sparato lo scorso dicembre. Ha subito sette operazioni, ma tuttora non può reggere alcun peso sul suo piede. Dice anche che i soldati sparavano alle persone che cercavano di soccorrerlo. Tra uno svenimento e l’altro, si è reso conto che veniva trasportato dai suoi amici dalla casa al cortile e dal cortile alla casa, per metterlo su una macchina che lo portasse all’ospedale.

L., il ragazzo di Tekoa, ha ripetuto ciò che il suo medico aveva descritto: la pallottola agisce come una farfalla, muovendosi dentro la gamba e distruggendo ciò che trova prima di fuoruscire. La gente che riferisce delle ferite nella zona di Hebron ha usato un’altra immagine – quella di un trapano.

La maggior parte dei ragazzi feriti ha deciso di non spiegare le circostanze del loro ferimento con un giornalista israeliano. Hanno preferito non ammettere che stavano tirando pietre ai soldati che sono comparsi all’alba o dopo mezzanotte nei vicoli del campo per arrestare i loro amici o vicini, o per consegnare una convocazione di interrogatorio.

Uno ha raccontato che gli era successo di svegliarsi presto quel mattino, un altro che stava viaggiando fuori Betlemme, un terzo che stava pregando, un quarto che stava lavorando al supermercato. “In breve, stavate tutti andando a comprarvi un gelato alle tre del mattino,” ho concluso io, e loro si sono messi a ridere.

Yazan Laham, comunque, non stava andando a comprare un gelato alle 2 e mezza del mattino del 28 luglio, e non stava nemmeno affrontando i soldati. Il ventiduenne era stato fuori con gli amici e stava accompagnando a casa uno di loro con la jeep di suo padre.

Laham è un ufficiale del Mukhabarat (il servizio di intelligence palestinese). Ha studiato sicurezza per 4 anni all’università Al-Istiqlal di Gerico, che forma reclute per i servizi di sicurezza palestinesi. Suo padre, Mohammed Laham, è un membro di Fatah al parlamento palestinese; è un membro veterano del movimento che, durante la seconda intifada, ha impedito a uomini armati a Deheisheh di fare fuoco dall’interno del campo, in modo che l’esercito non avesse la scusa per distruggerlo.

Il giovane Laham ha raccontato ad Haaretz che due soldati sulla strada principale hanno intimato a lui e ai suoi tre amici di fermarsi e scendere dalla jeep vicino distributore di benzina di Al-Huda, a nord del campo. Laham ha detto loro di far parte delle forze di sicurezza palestinesi, ma questo non li ha impressionati. Uno di loro era un cecchino. I soldati hanno detto loro di mettersi accanto ad un negozio di gommista lì vicino. Di tanto in tanto, il cecchino sparava e poi correva con un altro soldato dietro la jeep di Laham.

I soldati hanno detto a Laham di dire ai ragazzi che tiravano pietre di smetterla. Lo hanno fatto, ma poi i soldati hanno ricominciato a sparare. Lui ha protestato e discusso con loro e i soldati lo hanno picchiato, dice. Dopo più di un’ora, lo hanno lasciato tornare alla jeep con i suoi amici. Stava andando verso la jeep, a distanza di 10 metri, quando è stato colpito alla gamba sinistra. Non ha visto chi gli ha sparato, ma lo ha fatto con un fucile Ruger. Ha subito due operazioni e cammina con le stampelle, incapace di appoggiare il piede. Lo attende un lungo periodo di fisioterapia.

Suo padre, Mohammed, quella notte era a Ramallah. Suo cognato, Nasser Laham – giornalista e capo redattore del sito web Maan – è riuscito a raggiungerlo solo alle 10 del mattino del giorno seguente. “Mi ha detto che cosa era successo a Yazan,” dice Mohammed Laham. “Gli ho chiesto se fosse morto. Nasser mi ha assicurato di no, perciò gli ho detto ‘allora non va così male’. Che cosa potevo dire?

Non ho parlato pubblicamente di questo. Ci sono così tanti feriti. Ogni giorno ne visito qualcuno, quindi perché dovrei parlare solo di mio figlio? Ma quella notte ho parlato con il presidente (Mahmoud Abbas). Gli ho detto che c’era un’evidente escalation da parte di Israele. Perché c’è bisogno di 50 soldati per recapitare una convocazione di interrogatorio? Gli ho detto che erano tecnici, non soldati, quelli che sparavano. Sono tecnici con dei cavalletti che mirano attentamente alle ginocchia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha risposto a queste accuse affermando: “Le nostre forze in Giudea e Samaria [la Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt] seguono le regole di ingaggio, che non sono state cambiate di recente. Ogni incidente con pallottole vere viene riferito ai comandanti. Le attività dell’esercito nel campo di Deheisheh sono normalmente accompagnate da azioni di disturbo violente e dal lancio di congegni esplosivi verso le nostre forze.

Nei due incidenti a cui si riferisce questa storia l’esercito è entrato nel campo per eseguire degli arresti. Durante l’operazione sono stati lanciati ordigni esplosivi contro le nostre forze e ne sono seguiti violenti disordini. L’esercito ha risposto impiegando misure per disperdere i tumulti, compresi colpi di fucili Rugers. Un’indagine preliminare ha dimostrato un comportamento non inusuale da parte dell’esercito, ma vi saranno ulteriori indagini.”

Lo Shin Bet intanto ha risposto: “Nell’ambito delle attività degli ufficiali dei servizi di sicurezza al fine di garantire la sicurezza della regione e proteggere i residenti dalle minacce dei terroristi, essi mantengono un dialogo quotidiano con i residenti del luogo. Le accuse sollevate nel vostro articolo sono state prese in esame e riscontrate prive di fondamento.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




In Cisgiordania le discriminazioni non scarseggiano quando si tratta di acqua

Haaretz

di Amira Hass – 2 luglio 2016

Israele sta chiedendo il rinnovo del Comitato Congiunto per l’Acqua, ma i palestinesi hanno sperimentato che la commissione si limita a rafforzare le colonie e a perpetuare il controllo israeliano sulle risorse idriche

“Convocare il Comitato Congiunto per l’Acqua.” Questo è il mantra israeliano tirato fuori in risposta alle vicende relative alla scarsità d’acqua in Cisgiordania. Da quando i palestinesi hanno iniziato a boicottare per parecchi anni il lavoro del Comitato, si continua a sostenere che non si è potuto ammodernare e riparare le infrastrutture idriche.

Questa è stata anche la replica che Haaretz ha ricevuto la scorsa settimana dall’Autorità Israeliana per l’Acqua e dall’ufficio di coordinamento delle attività governative nei territori, in risposta a un quesito sul perché dall’inizio di giugno la compagnia israeliana delle acque (Mekorot) ha ridotto la quantità di acqua che vende ai palestinesi nel distretto di Salfit e a Nablus.

Mekorot ha dato una risposta simile al settimanale Makor Rishon [giornale di destra e vicino al movimento dei coloni. Ndtr.], che una settimana fa ha dato notizia di una riduzione nell’erogazione dell’acqua in numerose colonie, quartieri e avamposti illegali in Cisgiordania.

Effettivamente dalla fine del 2010 i palestinesi hanno smesso di approvare le richieste di progetti per l’acqua e le fognature presentati dalla controparte israeliana al Comitato Congiunto per l’Acqua (JWC). Inizialmente hanno rifiutato di firmare i verbali delle riunioni. Poi hanno smesso di parteciparvi. Il primo ministro palestinese del tempo era Salam Fayyad, mentre il capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua era il ministro Shaddad Attili. I palestinesi erano arrivati alla conclusione – qualcuno dice con troppo ritardo – che, con il pretesto della condivisione e della reciprocità, Israele stava estorcendo loro un consenso scritto e una manifesta approvazione che consentiva lo sviluppo delle infrastrutture idriche nelle colonie e persino di incrementarne la fornitura d’acqua. Allo stesso tempo stava limitando lo sviluppo e l’espansione delle infrastrutture idriche palestinesi e perpetuando l’ineguale divisione dell’acqua tra israeliani e palestinesi.

Nel 2014, dopo che Rami Hamdallah è diventato primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Attili – che gli israeliani consideravano un guastafeste e la causa del problema – è stato sollevato dall’incarico; Mazen Ghoneim è stato nominato al suo posto. Tuttavia, nonostante qualcuno abbia interpretato questo come un cedimento alle pressioni israeliane per riprendere il lavoro del Comitato, la posizione dei palestinesi non è cambiata.

“Il Comitato si riunisce” – cioè è richiesta l’approvazione dell’altra parte – “solo quando si tratta di progetti per i palestinesi,” ha detto la scorsa settimana ad Haaretz il ministro Ghoneim. “Gli israeliani fanno tutto quello che vogliono nelle colonie, quando vogliono. Non chiedono il nostro permesso di costruire ed espandere insediamenti e avamposti, perciò perché dovrebbero ottenere la nostra approvazione per gli acquedotti?”

Un chiara prova è arrivata la scorsa settimana: il 20 giugno il sito web dell’amministrazione per gli appalti del governo israeliano ha pubblicato un bando per un condotto fognario congiunto israelo-palestinese, che sarà posto di fianco al percorso della rete fognaria già esistente tra Givat Ze’ev, Bir Naballah e Al Jib [la prima è una colonia, gli altri due sono villaggi palestinesi. Ndtr.]. L’Autorità Palestinese per l’Acqua ha detto ad Haaretz che ciò viene fatto a sua insaputa.

Secondo COGAT [il Coordinamento per le Attività Governative nei Territori, ente del ministero della Difesa israeliano che si occupa delle attività civili nei Territori Occupati. Ndtr.], si tratta solo di una risistemazione e di un lavoro di manutenzione di una conduttura già esistente, e di conseguenza non richiede il consenso del Comitato. Tuttavia, secondo fonti palestinesi, quando il JWC era operativo i palestinesi dovevano chiedere l’approvazione israeliana per la ristrutturazione (sostituzione e manutenzione) di ogni tubatura esistente – persino nelle aree A e B, che sono sotto il controllo dell’ autorità civile palestinese. Senza tale approvazione, anche per le aree A e B, i Paesi donatori, e soprattutto gli Stati Uniti, non avrebbero finanziato i progetti.

L’articolo 40 degli accordi interinali del 1995 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che tratta di questioni relative ad acqua e sistema fognario, stabiliva che i palestinesi sarebbero stati nelle condizioni di estrarre circa 118 milioni di m³ annui dall’Acquifero Montano in Cisgiordania. In più l’accordo stabiliva che Israele avrebbe venduto ai palestinesi altri 30 milioni di m³ e che durante il periodo dell’accordo (fino al 1999) avrebbero potuto incrementare la quota di altri 80 milioni di m³ annui dai loro pozzi di perforazione nel bacino orientale o “da altra fonte”.

Secondo i calcoli della Banca Mondiale, la quantità destinata ai palestinesi in Cisgiordania era circa il 20% delle estrazioni dall’Acquifero Montano. Il resto dell’acqua – cioè la maggior parte del totale – era destinata ad Israele per il consumo delle colonie e all’interno di Israele. Il ruolo del JWC era quello di mettere in pratica gli impegni delle parti in base all’articolo 40 e di gestire i sistemi idrici e fognari in Cisgiordania.

All’inizio i palestinesi videro questa norma come una base per estendere la propria indipendenza nel settore idrico. Oggi, 17 anni dopo che l’accordo avrebbe dovuto terminare, secondo i calcoli dell’Autorità Palestinese delle Acque i palestinesi stanno ricevendo solo 103 m³ all’anno dall’Acquifero Montano.

In confronto, secondo uno studio di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani. Ndtr.], i cui dati sono stati aggiornati nel 2013, 28 siti di perforazione di Mekorot nella Valle del Giordano (il Bacino Orientale) producono circa 32 milioni di m³ all’anno, cioè poco meno di un terzo del totale dell’acqua che i palestinesi stanno estraendo da tutto l’Acquifero Montano. La grande maggioranza di quei 32 milioni di m³ è destinata a circa 10.000 coloni ebrei nella Valle del Giordano, per usi domestici ed agricoli, rispetto ai 103 milioni di m³ destinati a tutti i 2,7 milioni di palestinesi della Cisgiordania.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è cresciuta di circa un milione dal 1995. In seguito a ciò ora i palestinesi non hanno altra alternativa che comprare una maggiore quantità di acqua da Israele rispetto a quella stabilita originariamente.

Uno studio inglese pubblicato nel 2013 ha rilevato che la discriminazione contro i palestinesi è stata applicata anche dal JWC. Il ricercatore, Jan Selby dell’università del Sussex, ha scoperto che tra il 1995 e il 2008 la proporzione tra i progetti palestinesi approvati dal Comitato (cioè, approvata anche dalla parte israeliana) è stata minore dei progetti che sono stati approvati nelle colonie: è stato approvato non più del 66% delle domande palestinesi di perforare pozzi rispetto al 100% delle richieste israeliane; tra il 50% e l’80% delle richieste per reti di fornitura idrica per la popolazione palestinese è stato approvato, rispetto al 100% per i coloni; e il 58% delle domande di impianti per la purificazione di acque di scolo dei palestinesi rispetto al 96% per i coloni.

Selby ha anche scoperto che la portata degli impianti approvati di stoccaggio dell’acqua degli israeliani è circa cinque volte maggiore di quella delle loro controparti palestinesi – 4.723 cm³ per gli israeliani rispetto ai 965 cm³ per i palestinesi. E il diametro più frequente delle tubature per i palestinesi è di 2 pollici, rispetto agli 8 e 12 pollici per gli israeliani.

Durante lo stesso periodo, i 174 progetti di cisterne/riserve di stoccaggio per i palestinesi avevano una capienza totale di 167.950 cm³ rispetto ai 28 impianti simili per gli israeliani con una capienza totale di 132.250 cm³.

Selby conclude che l’espansione delle infrastrutture nelle colonie è stata portata avanti con l’approvazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, perché è apparso chiaro che altrimenti Israele non avrebbe consentito la ristrutturazione e lo sviluppo delle infrastrutture idriche palestinesi.

Fonti dell’Autorità Palestinese per le Acque preferiscono dire oggi che nei primi anni “abbiamo firmato progetti di interesse comune (cioè condutture comuni per le colonie e le comunità palestinesi). Progressivamente ci si è preteso da noi che approvassimo progetti solo per le colonie in cambio dell’approvazione dei nostri progetti.”

Queste fonti hanno aggiunto che i progetti più grandi, che avrebbero potuto essere messi in atto solo nell’area C [sotto totale controllo israeliano e dove si trovano le riserve idriche. Ndtr.] sono anche passati per la complicata burocrazia dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ndtr.], che a volte ha ritardato o bloccato la loro messa in opera. E Selby ha scoperto anche che, prima ancora che un progetto venisse sottoposto al processo di approvazione dell’Amministrazione Civile, un progetto israeliano è stato approvato dal Comitato Congiunto delle Acque mediamente entro due mesi, mentre per un progetto palestinese ce ne sono voluti 11.

La ricerca di Selby riassume la crescente frustrazione palestinese e spiega la decisione di lasciare il Comitato Congiunto.

Una portavoce del COGAT ha affermato che “il miglioramento delle condizioni delle infrastrutture idriche in Cisgiordania richiede la progettazione di nuove condutture, in quanto quelle esistenti hanno raggiunto la portata massima e quindi è necessario convocare il Comitato Congiunto per le Acque.”

Ha aggiunto: “Notiamo che alla luce delle difficoltà che l’Autorità Nazionale Palestinese sta continuando a porre al comitato, i progetti idrici e fognari sono stati approvati unilateralmente per dare una prima risposta al problema dell’acqua per entrambe le popolazioni della regione.”

Uri Schor, un portavoce dell’Autorità Israeliana per le Acque, ha detto ad Haaretz: “Nel novembre 2011 il direttore dell’Autorità per le Acque, nel quadro del Comitato Congiunto, ha dato la sua approvazione ai palestinesi per 43 progetti per la ristrutturazione di punti di perforazione esistenti, per la sostituzione e per nuovi punti di perforazione. “Nell’ottobre 2012,” ha scritto, “c’è stato un accordo tra le due parti per fissare il prezzo dell’acqua in più per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.” Una fonte palestinese ha detto ad Haaretz che le richieste di perforazione approvate dall’autorità erano state presentate molto tempo prima e che l’accordo sui prezzi era stato stabilito solo per un anno.”

Dall’ottobre 2012, ha aggiunto Schor, “il governo palestinese ha preso la decisione politica di non approvare nessun altro progetto israeliano (contravvenendo all’accordo sull’acqua) silurando in tal modo un contesto di collaborazione che ha reso possibile rifornire entrambe le popolazioni della Cisgiordania.”

Invece i palestinesi affermano che il recente taglio massiccio nella fornitura di acqua alle loro comunità ha lo scopo di ricattarli per farli tornare al Comitato Congiunto per le Acque e per “far loro approvare i progetti esclusivamente destinati alle colonie illegali, in modo da renderli apparentemente legali.”

All’Autorità Palestinese per le Acque fanno notare che, proprio come lo status dell’area C e le relazioni economiche (il Protocollo di Parigi), destinate ad essere provvisorie, anche l’articolo 40 e le quote di acqua imposte ai palestinesi dovevano essere temporanei.

Ma quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. I palestinesi dicono che le loro richieste di emendare l’articolo 40 non hanno ricevuto risposta. Oggi l’unica soluzione realistica, affermano, è permettere loro di cominciare subito a perforare nel più ricco Bacino occidentale dell’Acquifero Montano.

Da parte sua, il ministro Ghoneim riassume la posizione israeliana: “Israele ci tratta come clienti di un’impresa e non come un popolo che ha un diritto legale sulle fonti idriche del nostro Paese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Sono andata a vedere il dramma delle colonie inaridite. Ho trovato una piscina

Mentre Israele ha ridotto le forniture idriche ai palestinesi, ho visitato due colonie in cui gli abitanti si presume stiano anche loro soffrendo.

Haaretz

di Amira Hass | 28 giugno 2016

Dunque venerdì il deputato della Knesset Bezalel Smotrich (del partito “Casa Ebraica” [della destra ultranazionalista, rappresentante dei coloni fondamentalisti nazional-religiosi. Ndtr.]) ha twittato: “Non si scherza: siamo tornati indietro di 100 anni!” Ha riferito di cinque cisterne d’acqua potabile che erano state piazzate quella mattina nella colonia di Kedumim [prima colonia costruita nella Cisgiordania centro-settentrionale. Ndtr.].

Quel giorno il settimanale sionista-religioso Makor Rishon ha pubblicato un articolo intitolato “La crisi dell’acqua in Giudea e Samaria [la Cisgiordania nella denominazione dei nazionalisti israeliani. Ndtr.]: nella colonia di Eli grandi contenitori di acqua potabile sono stati distribuiti ai residenti.”

Così sono andata in due insediamenti per testimoniare questa sofferenza. Sono partita prima di vedere il tweet di un tal Avraham Benyamin in risposta a quello di Smotrich: “Stiamo aspettando una serie di articoli solidali su Haartez. Continueremo ad aspettare.”

In effetti la scorsa settimana ho iniziato a scrivere la mia serie annuale di articoli sul sistematico furto d’acqua a danno dei palestinesi. Sono rimasta sorpresa di non aver trovato nessun servizio giornalistico sui problemi idrici delle colonie. Non ce n’era nessuno sulla radio dell’esercito né su Radio Israele – che notoriamente sostengono clandestinamente il movimento BDS. Ma non ho trovato nessun riferimento nemmeno sui siti web legati alla lobby dei coloni.

Dopo tutto, fin dall’inizio di giugno, quando Mekorot, l’impresa nazionale dell’acqua, ha iniziato a ridurre le forniture idriche del 30% fino al 50% ai palestinesi nelle zone di Salfit e Nablus, i portavoce israeliani hanno sostenuto che era in atto una riduzione anche nelle colonie (o, con le parole per niente asettiche di un impiegato palestinese dell’amministrazione civile [denominazione ufficiale del governo militare israeliano nei territori occupati. Ndtr.]: “Stanno tagliando agli arabi in modo che ci sia acqua per i coloni”).

Il giornalista di Makor Rishon Hodaya Karish Hazony ha scritto: “Nelle comunità di Migdalim, Yitzhar, Elon Moreh, Tapuah, Givat Haroeh, Alonei Shiloh ed altre ci sono state interruzioni nell’erogazione dell’acqua. ‘A questo proposito siamo tra la follia e la disperazione,’ ha detto un residente.”

Così sono andata a verificare la scarsità d’acqua che sta portando la gente tra la follia e la disperazione ad Eli. Ho cercato persone in fila per l’acqua. Non le ho trovate. Allora ho viaggiato dal centro del lussureggiante insediamento all’isolata “Collina n° 9”, il luogo del sobborgo di Hayovel citato nell’articolo.

Lì ho trovato due grandi contenitoti blu pieni dell’Autorità delle Acque, con dei rubinetti attaccati. Una scritta chiedeva di “mantenere l’ordine” nell’attesa e ricordava che “sarebbe stata data priorità agli anziani, ai malati ed ai bambini.”

Alle 15 circa non ho visto nessun anziano, malato o bambino in attesa vicino ai rubinetti. Neppure un adulto qualunque. Qualche goccia scendeva dai rubinetti e bagnava l’asfalto. Gente saliva e scendeva dalle auto. Erba artificiale adornava le zone nei pressi delle case prefabbricate del quartiere.

Vicino al posto di guardia dei soldati, a circa 50 metri da un contenitore d’acqua, c’era un’area di erba naturale che era assolutamente verde. Lì vicino c’erano alcuni alberelli, e il terreno attorno a loro era bagnato, con parecchie pozzanghere. Un soldato ha detto che durante la settimana ci sono state varie interruzioni del servizio idrico, e pensava che i contenitori fossero stati portati giovedì. L’articolo parlava di mercoledì.

In un piccolo edificio pubblico lì vicino, il gabinetto era aperto e perfettamente pulito. Lo sciacquone scorreva abbondantemente, e acqua rinfrescante usciva dal rubinetto del lavandino. Una donna che è uscita dalla sua auto vicino al contenitore pieno d’acqua ha detto, timidamente: “L’ho usata qualche volta.” E perché non più spesso? “E’ sgradevole; l’acqua è tiepida.”

Più avanti, nel centro di Eli, ho incrociato ragazze che portavano borse con asciugamani e costumi da bagno. “La piscina è aperta? Dov’è?”, ho chiesto.

Seguendo le loro indicazioni sono arrivata alla piscina di Eli. Da dietro la recinzione si potevano sentire il rumore dell’acqua e le grida allegre dei bagnanti. L’erba attorno alla piscina era naturale e verde. Mi sono chiesta: “Dov’è la solidarietà? Perché non prendono l’acqua dal centro di Eli e la portano al quartiere che sta soffrendo a causa dell’altezza [della collina, per la mancanza di pressione nelle tubature. Ndtr.]?

Makor Rishon ha citato Meir Shilo, responsabile delle infrastrutture del consiglio regionale di Mateh Binyamin: “Il problema è l’eccessivo consumo dovuto all’aumento della popolazione (dei coloni) e soprattutto, pare, per il consumo dell’acqua per l’agricoltura.”

Dror Etkes, un ricercatore indipendente della politica di colonizzazione israeliana, ha detto ad Haaretz che nei blocchi di insediamenti che circondano Shiloh “i coloni stanno coltivando 2.746 dunams (circa 274 ettari, la maggior parte attorno a Shiloh: 260 ettari]. Di questi, 213 ettari sono terre private dei palestinesi.”

Il che significa: negli ultimi anni i coloni hanno scoperto che la pirateria (contrapposta al furto di Stato) per fini agricoli facilita l’appropriazione di ancor più terreni palestinesi di quanto facciano la costruzione di ville o di case prefabbricate.

L’esercito, impedendo ai legittimi proprietari palestinesi di raggiungere la loro terra, ha reso possibile questa forma di pirateria. E questa agricoltura privata illegale determina anche l’aumento nel consumo di acqua a spese dei palestinesi, della loro agricoltura ed acqua potabile.

Da Eli ho viaggiato verso ovest fino alla colonia di Kedumim, dove mi hanno accolta le strade lussureggianti. Ho cercato le cisterne d’acqua di cui aveva parlato Smotrich nel suo tweet.

Dal parabrezza della mia auto ho visto un cartello: “La piscina di Kedumin è aperta. Iscriviti adesso.” Forse si sono dimenticati di toglierlo dallo scorso anno.

Nel quartiere di Rashi sono arrivata fino ad una cisterna per la distribuzione dell’acqua, sotto la tettoia della sala di studi religiosi di Rashi. Dalla parte opposta c’era un camion con una grande cisterna di acqua. Qualcuno tornava da lì con un secchio e si è diretto alle case prefabbricate in cima alla collina.

“Sì, ci sono interruzioni nell’erogazione dell’ acqua,” ha confermato. “Un’opportunità di sperimentare l’assedio di Gerusalemme [durante il quale venne rigidamente razionata anche l’acqua. Ndtr.], ” ha aggiunto, riferendosi agli avvenimenti del 1948.

E perché non andare giù per rifornirsi d’acqua nei quartieri bassi di Kedumim? “E’ più comodo in questo modo, vicino a casa,” ha risposto.

Al rubinetto c’erano bambini che stavano riempiendo vari contenitori. La ragazza vicino al sacco rosso ha detto all’uomo che la stava fotografando: “Assicurati che nella foto si veda la bottiglia.”

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu se ne andrà, ma il “Bibismo” resterà

Anche se il primo ministro fosse rimosso, i suoi principi ispiratori si sono radicati nell’opinione pubblica israeliana e nei media.

Haaretz

Di Rogel Alpher, 9 luglio 2016

Anche se i più profondi desideri delle vecchie elite diventassero realtà e la loro nemesi, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, venisse esautorato, Israele non cambierebbe strada. I “Bibisti” – Yair Lapid, Naftali Bennet, Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Moshe Ya’alon e Gideon Sa’ar –  resterebbero al comando. Il “Bibismo” continuerebbe a governare lo Stato. I principi del Bibismo godono di un ampio consenso tra gli ebrei israeliani e nei mezzi di informazione importanti – canali 2 e 10, Israel Hayom, Yedioth Aaronoth, la radio dell’esercito e la radio di Israele. 

Non è stato “Bibi” a creare questo movimento, che è antico quanto lo Stato stesso. Lui ne è solo  la  somma espressione, il più grande ideologo, e colui che lo ha gestito con maggior successo. Questo movimento esiste indipendentemente da lui, ed il suo destino non è intrecciato con quello di  costui. Il Bibismo si fonda su tre principi base:

  1. L’Olocausto non è mai terminato. Come un tumore in fase di remissione, è sempre suscettibile di recidivare. Gli ebrei israeliani non possono ottenere una completa guarigione dalla maligna ed eterna Shoah e lasciarsela alle spalle. Le aggressive metastasi dell’antisemitismo compaiono in tutto il mondo, continuamente. Ogni critica alla politica del governo israeliano scaturisce da questo antisemitismo. Il movimento nazionale palestinese è la continuazione dell’Olocausto con altri mezzi. Insieme al terrorismo estremista islamico e all’Islam hitleriano, cerca di eliminare gli ebrei israeliani.

Lo scopo della vita degli ebrei israeliani è di garantire che l’Olocausto non si ripeta. Ma la Shoah non è solamente la nostra ragione di vita: è anche la conseguenza della nostra esistenza in Israele. Ne è la prova il fatto che siamo in un perenne stato di minaccia alla nostra esistenza. Gli ebrei quindi sono le eterne vittime della storia: se non ci fossero ebrei in Israele, le forze dell’Olocausto sarebbero riuscite a distruggere gli ebrei. D’altro lato, l’esistenza degli ebrei in Israele incentiva ancor di più  le forze dell’Olocausto a distruggere gli ebrei.

E’ una trappola, e la soluzione è che gli ebrei non hanno altra scelta che vivere sempre con la spada sguainata. Questo è il destino degli ebrei. Non è necessariamente una brutta cosa. Di fatto dà un senso alla nostra vita comunitaria. E’ la nostra fiamma vitale.

Dato che l’Olocausto è solo in remissione, gli ebrei israeliani si identificano anzitutto e soprattutto come ebrei, non come israeliani. Non sono una componente della nazione israeliana – il 20% dei cui membri sono arabi – ma piuttosto una parte della nazione ebraica nella Diaspora. Sono perseguitati da un perpetuo antisemitismo perché sono ebrei. Sono massacrati dai terroristi palestinesi perché sono ebrei. E questa è la prova che non vi è occupazione né apartheid. Non sono le azioni degli ebrei a scatenare il terrorismo palestinese. Le cosiddette occupazione ed apartheid altro non sono che misure preventive che hanno lo scopo di difendersi contro il terrorismo.

  1. L’Esercito Israeliano è sacro. Per impedire un’altra Shoah, Israele deve essere forte. La ragion d’essere di ogni ebreo israeliano è proteggere lo Stato. Al di sopra di ogni altra cosa, egli è un anello dell’infinita catena ebraica. L’ebreo israeliano deve essere disposto a sacrificare sé stesso per il popolo ebraico. La sua più alta aspirazione è morire da eroe, in combattimento. Ecco perché l’esercito è sacro. Esso ci protegge. E’ la sola cosa che si erge tra noi e un altro Olocausto. Ma è difficile per la gente morire per il proprio Paese se non può credere che l’esercito israeliano è, effettivamente, il braccio teso di Dio.

Dio ha promesso questa terra agli ebrei e ci ha prescelti tra tutti i popoli. L’Esercito ha realizzato la “Sua” politica. L’Esercito è la continuazione di Dio con altri mezzi.

  1. E’ un gioco a somma zero. Loro o noi. Perciò, credere totalmente o parzialmente che la narrazione palestinese sia giusta è tradimento. Il “Bibismo” è la narrazione nazionale degli ebrei di Israele.                                (traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dopo Mahmoud Abbas, il diluvio per i palestinesi

Haaretz, 29 giugno 2016

di Amira Hass

Se il presidente avesse prestato attenzione alla realtà, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua come un esempio della situazione assurda in cui gli israeliani hanno intrappolato i palestinesi

Ancora una volta Mahmoud Abbas ha provocato imbarazzo. Nel suo discorso al parlamento europeo, ha ripetuto cose senza senso in un “rapporto” che era comparso nei media palestinesi pochi giorni prima, secondo il quale il presidente del “Consiglio delle Colonie” avrebbe ordinato di avvelenare i pozzi palestinesi e l’acqua potabile in CIsgiordania.

Nel suo discorso il presidente palestinese lo ha modificato così: “Solo una settimana fa, una settimana, un gruppo di rabbini in Israele ha annunciato, in un comunicato esplicito, la richiesta al loro governo di avvelenare, di avvelenare, l’acqua dei palestinesi.” Un giorno dopo ha smentito questa affermazione attraverso il suo ufficio.

Ma il danno era stato fatto. Abbas è stato accusato di spargere una sanguinaria diffamazione anti-semita – un’accusa logora e scontata che ignora i reali e seri problemi che caratterizzano i massimi dirigenti palestinesi: la loro inconsapevolezza della realtà quotidiana del loro popolo; la mancanza di coordinamento e di scambio di informazioni e di idee tra diversi uffici del governo; il ricorso ad amici, adulatori e mezzi di comunicazione locali, che non verificano le cose, tutti quanti troppo frequentemente sono approssimativi ed esagerano persino quando la verità sulle politiche israeliane è di per sé compromettente.

Secondo la Reuters, la dichiarazione su riportata non era inclusa nella versione ufficiale del discorso (opaco e scontato) che l’ufficio di Abbas ha distribuito in anticipo. Sembra che si sia trattato di un’improvvisazione, come succede nelle riunioni del suo movimento, Fatah, o in un incontro con studenti israeliani, quando ha dichiarato che il coordinamento per la sicurezza con Israele è “sacro”.

Secondo il New York Times il “rapporto” è apparso su un sito web di qualche ufficio dell’OLP (senza specificare quale fosse), da lì è stato ripreso dal sito ufficiale turco “Anadolu” e da un giornale di Dubai. Palestinian Media Watch [organizzazione israeliana che monitora i media palestinesi, in particolare per quanto riguarda il terrorismo. Ndtr.] ha rintracciato un servizio trasmesso dall’emittente televisiva ufficiale palestinese il 20 giugno, che affermava che un’organizzazione dei diritti umani israeliana aveva “rivelato” l’ordine da parte di un rabbino di nome Shlomo Melamed.

Ma non c’è nessuna organizzazione che si chiami “Consiglio delle Colonie”, non c’è nessun rabbino che si chiami Shlomo Melamed e, secondo un articolo del Jerusalem Post (citato da Palestinian Media Watch), nessuna organizzazione israeliana dei diritti umani ha “rivelato” le sue parole.

Se Abbas fosse stato attento alla situazione, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua – un problema scottante per il suo popolo, soprattutto durante l’estate – come un esempio dell’assurdità nella quale i palestinesi sono intrappolati. “Noi (e l’Europa con noi)”, potrebbe aver detto, “stiamo rispettando gli accordi di Oslo 17 anni dopo che sono scaduti, come un cammino che porta alla costituzione di uno Stato palestinese. Ma guardate come Israele approfitta della nostra pazienza e continua ad imporre la stessa divisione inumana dell’unica fonte di acqua di cui disponiamo.”

Oggi gli israeliani usano l’86% dell’acquifero montano, mentre le briciole che rimangono – il 14% – sono lasciate ai palestinesi. Invece di dire fesserie sull’avvelenamento dell’acqua, avrebbe potuto parlare della compagnia delle acque Mekorot, che sta tagliando i rifornimenti d’acqua nella zona di Salfit per soddisfare l’aumento della domanda nelle colonie.

E’ vero, non mancano rabbini che hanno detto cose terribili sugli arabi o sui non ebrei in generale. Oltretutto, come parte delle continue vessazioni dei villaggi palestinesi da parte di cittadini ebrei israeliani in Cisgiordania, ci siamo imbattuti nel metodo di gettare carcasse di animali morti nelle cisterne – benché cisterne per l’acqua piovana, come nel villaggio di Kharruba nelle colline a sud di Hebron, o cisterne per raccogliere il flusso d’acqua dalle sorgenti, come a Madma, a sud di Nablus.

Tuttavia, non ci voleva molto per capire che questo “rapporto” era dubbio. Israele e palestinesi bevono dallo stesso acquifero. Quindi “l’avvelenamento dell’acqua” avrebbe colpito tutti. Ed una scarsa conoscenza storica sarebbe stata sufficiente per mettere in guardia Abbas dall’associare acqua, veleno ed ebrei.

Ma così vanno le cose quando si è abituati al ruolo di capo supremo le cui parole sono legge, che viola le decisioni della dirigenza collettiva (e non eletta), che ripetutamente rimanda le elezioni all’interno di Fatah e dell’OLP, che beneficia di un parlamento paralizzato e che non consente un processo democratico per scegliere il suo successore in modo da risparmiare al suo popolo un pericoloso vuoto politico una volta che se ne sia andato.

(traduzione di Amedeo Rossi)