Netanyahu se ne andrà, ma il “Bibismo” resterà

Anche se il primo ministro fosse rimosso, i suoi principi ispiratori si sono radicati nell’opinione pubblica israeliana e nei media.

Haaretz

Di Rogel Alpher, 9 luglio 2016

Anche se i più profondi desideri delle vecchie elite diventassero realtà e la loro nemesi, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, venisse esautorato, Israele non cambierebbe strada. I “Bibisti” – Yair Lapid, Naftali Bennet, Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Moshe Ya’alon e Gideon Sa’ar –  resterebbero al comando. Il “Bibismo” continuerebbe a governare lo Stato. I principi del Bibismo godono di un ampio consenso tra gli ebrei israeliani e nei mezzi di informazione importanti – canali 2 e 10, Israel Hayom, Yedioth Aaronoth, la radio dell’esercito e la radio di Israele. 

Non è stato “Bibi” a creare questo movimento, che è antico quanto lo Stato stesso. Lui ne è solo  la  somma espressione, il più grande ideologo, e colui che lo ha gestito con maggior successo. Questo movimento esiste indipendentemente da lui, ed il suo destino non è intrecciato con quello di  costui. Il Bibismo si fonda su tre principi base:

  1. L’Olocausto non è mai terminato. Come un tumore in fase di remissione, è sempre suscettibile di recidivare. Gli ebrei israeliani non possono ottenere una completa guarigione dalla maligna ed eterna Shoah e lasciarsela alle spalle. Le aggressive metastasi dell’antisemitismo compaiono in tutto il mondo, continuamente. Ogni critica alla politica del governo israeliano scaturisce da questo antisemitismo. Il movimento nazionale palestinese è la continuazione dell’Olocausto con altri mezzi. Insieme al terrorismo estremista islamico e all’Islam hitleriano, cerca di eliminare gli ebrei israeliani.

Lo scopo della vita degli ebrei israeliani è di garantire che l’Olocausto non si ripeta. Ma la Shoah non è solamente la nostra ragione di vita: è anche la conseguenza della nostra esistenza in Israele. Ne è la prova il fatto che siamo in un perenne stato di minaccia alla nostra esistenza. Gli ebrei quindi sono le eterne vittime della storia: se non ci fossero ebrei in Israele, le forze dell’Olocausto sarebbero riuscite a distruggere gli ebrei. D’altro lato, l’esistenza degli ebrei in Israele incentiva ancor di più  le forze dell’Olocausto a distruggere gli ebrei.

E’ una trappola, e la soluzione è che gli ebrei non hanno altra scelta che vivere sempre con la spada sguainata. Questo è il destino degli ebrei. Non è necessariamente una brutta cosa. Di fatto dà un senso alla nostra vita comunitaria. E’ la nostra fiamma vitale.

Dato che l’Olocausto è solo in remissione, gli ebrei israeliani si identificano anzitutto e soprattutto come ebrei, non come israeliani. Non sono una componente della nazione israeliana – il 20% dei cui membri sono arabi – ma piuttosto una parte della nazione ebraica nella Diaspora. Sono perseguitati da un perpetuo antisemitismo perché sono ebrei. Sono massacrati dai terroristi palestinesi perché sono ebrei. E questa è la prova che non vi è occupazione né apartheid. Non sono le azioni degli ebrei a scatenare il terrorismo palestinese. Le cosiddette occupazione ed apartheid altro non sono che misure preventive che hanno lo scopo di difendersi contro il terrorismo.

  1. L’Esercito Israeliano è sacro. Per impedire un’altra Shoah, Israele deve essere forte. La ragion d’essere di ogni ebreo israeliano è proteggere lo Stato. Al di sopra di ogni altra cosa, egli è un anello dell’infinita catena ebraica. L’ebreo israeliano deve essere disposto a sacrificare sé stesso per il popolo ebraico. La sua più alta aspirazione è morire da eroe, in combattimento. Ecco perché l’esercito è sacro. Esso ci protegge. E’ la sola cosa che si erge tra noi e un altro Olocausto. Ma è difficile per la gente morire per il proprio Paese se non può credere che l’esercito israeliano è, effettivamente, il braccio teso di Dio.

Dio ha promesso questa terra agli ebrei e ci ha prescelti tra tutti i popoli. L’Esercito ha realizzato la “Sua” politica. L’Esercito è la continuazione di Dio con altri mezzi.

  1. E’ un gioco a somma zero. Loro o noi. Perciò, credere totalmente o parzialmente che la narrazione palestinese sia giusta è tradimento. Il “Bibismo” è la narrazione nazionale degli ebrei di Israele.                                (traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dopo Mahmoud Abbas, il diluvio per i palestinesi

Haaretz, 29 giugno 2016

di Amira Hass

Se il presidente avesse prestato attenzione alla realtà, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua come un esempio della situazione assurda in cui gli israeliani hanno intrappolato i palestinesi

Ancora una volta Mahmoud Abbas ha provocato imbarazzo. Nel suo discorso al parlamento europeo, ha ripetuto cose senza senso in un “rapporto” che era comparso nei media palestinesi pochi giorni prima, secondo il quale il presidente del “Consiglio delle Colonie” avrebbe ordinato di avvelenare i pozzi palestinesi e l’acqua potabile in CIsgiordania.

Nel suo discorso il presidente palestinese lo ha modificato così: “Solo una settimana fa, una settimana, un gruppo di rabbini in Israele ha annunciato, in un comunicato esplicito, la richiesta al loro governo di avvelenare, di avvelenare, l’acqua dei palestinesi.” Un giorno dopo ha smentito questa affermazione attraverso il suo ufficio.

Ma il danno era stato fatto. Abbas è stato accusato di spargere una sanguinaria diffamazione anti-semita – un’accusa logora e scontata che ignora i reali e seri problemi che caratterizzano i massimi dirigenti palestinesi: la loro inconsapevolezza della realtà quotidiana del loro popolo; la mancanza di coordinamento e di scambio di informazioni e di idee tra diversi uffici del governo; il ricorso ad amici, adulatori e mezzi di comunicazione locali, che non verificano le cose, tutti quanti troppo frequentemente sono approssimativi ed esagerano persino quando la verità sulle politiche israeliane è di per sé compromettente.

Secondo la Reuters, la dichiarazione su riportata non era inclusa nella versione ufficiale del discorso (opaco e scontato) che l’ufficio di Abbas ha distribuito in anticipo. Sembra che si sia trattato di un’improvvisazione, come succede nelle riunioni del suo movimento, Fatah, o in un incontro con studenti israeliani, quando ha dichiarato che il coordinamento per la sicurezza con Israele è “sacro”.

Secondo il New York Times il “rapporto” è apparso su un sito web di qualche ufficio dell’OLP (senza specificare quale fosse), da lì è stato ripreso dal sito ufficiale turco “Anadolu” e da un giornale di Dubai. Palestinian Media Watch [organizzazione israeliana che monitora i media palestinesi, in particolare per quanto riguarda il terrorismo. Ndtr.] ha rintracciato un servizio trasmesso dall’emittente televisiva ufficiale palestinese il 20 giugno, che affermava che un’organizzazione dei diritti umani israeliana aveva “rivelato” l’ordine da parte di un rabbino di nome Shlomo Melamed.

Ma non c’è nessuna organizzazione che si chiami “Consiglio delle Colonie”, non c’è nessun rabbino che si chiami Shlomo Melamed e, secondo un articolo del Jerusalem Post (citato da Palestinian Media Watch), nessuna organizzazione israeliana dei diritti umani ha “rivelato” le sue parole.

Se Abbas fosse stato attento alla situazione, a Bruxelles avrebbe parlato di acqua – un problema scottante per il suo popolo, soprattutto durante l’estate – come un esempio dell’assurdità nella quale i palestinesi sono intrappolati. “Noi (e l’Europa con noi)”, potrebbe aver detto, “stiamo rispettando gli accordi di Oslo 17 anni dopo che sono scaduti, come un cammino che porta alla costituzione di uno Stato palestinese. Ma guardate come Israele approfitta della nostra pazienza e continua ad imporre la stessa divisione inumana dell’unica fonte di acqua di cui disponiamo.”

Oggi gli israeliani usano l’86% dell’acquifero montano, mentre le briciole che rimangono – il 14% – sono lasciate ai palestinesi. Invece di dire fesserie sull’avvelenamento dell’acqua, avrebbe potuto parlare della compagnia delle acque Mekorot, che sta tagliando i rifornimenti d’acqua nella zona di Salfit per soddisfare l’aumento della domanda nelle colonie.

E’ vero, non mancano rabbini che hanno detto cose terribili sugli arabi o sui non ebrei in generale. Oltretutto, come parte delle continue vessazioni dei villaggi palestinesi da parte di cittadini ebrei israeliani in Cisgiordania, ci siamo imbattuti nel metodo di gettare carcasse di animali morti nelle cisterne – benché cisterne per l’acqua piovana, come nel villaggio di Kharruba nelle colline a sud di Hebron, o cisterne per raccogliere il flusso d’acqua dalle sorgenti, come a Madma, a sud di Nablus.

Tuttavia, non ci voleva molto per capire che questo “rapporto” era dubbio. Israele e palestinesi bevono dallo stesso acquifero. Quindi “l’avvelenamento dell’acqua” avrebbe colpito tutti. Ed una scarsa conoscenza storica sarebbe stata sufficiente per mettere in guardia Abbas dall’associare acqua, veleno ed ebrei.

Ma così vanno le cose quando si è abituati al ruolo di capo supremo le cui parole sono legge, che viola le decisioni della dirigenza collettiva (e non eletta), che ripetutamente rimanda le elezioni all’interno di Fatah e dell’OLP, che beneficia di un parlamento paralizzato e che non consente un processo democratico per scegliere il suo successore in modo da risparmiare al suo popolo un pericoloso vuoto politico una volta che se ne sia andato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Omicidi efferati da ambo le parti del conflitto israelo-palestinese

Si sono versate lacrime a Kiryat Arba, Sa’ir e altrove. Le ragioni sono diverse, ma i risultati sono identici ed orrendi

Haaretz

di Gideon Levy – 3 luglio 2016

“Hubb”, lo chiamavano, “Amore”, e lo portavano con loro ovunque. Era il loro figlio e fratello e lo mostravano con affetto. Era indifeso. Era nato con la sindrome di Down.

Il soldato gli ha sparato da breve distanza allo stomaco, poi se n’è andato con i suoi compagni senza controllare le condizioni di Hubb o chiamare aiuto. Lo hanno lasciato sanguinante sul terreno pietroso. Poche settimane dopo è morto in seguito alle ferite.  Arif Jaradat, del villaggio di Sa’ir, è morto a 23 anni.

Il portavoce dell’IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.] ha detto che “i soldati hanno avvistato un palestinese che stava lanciando una bottiglia molotov” e hanno sparato “per eliminare la minaccia”. Questa affermazione è vergognosamente falsa.

Innanzitutto, i testimoni oculari hanno affermato che Arif ha solo gridato ai soldati per paura, come faceva sempre quando incontrava dei militari. E, indipendentemente dal fatto che i soldati potessero vedere o meno che si trovavano davanti un giovane affetto da sindrome di Down, era chiaro che se si fosse trattato di una bomba incendiaria, i soldati avrebbero arrestato Arif dopo averlo ferito. Ma gli hanno sparato e se ne sono andati.

A pochi kilometri da Sa’ir, a Kiryat Arba, durante il fine settimana è stato commesso lo sconvolgente omicidio di Hallel Yaffa Ariel mentre stava dormendo. Anche lei era indifesa, anche lei era giovane ed innocente. “Come puoi uccidere una tredicenne?” ha gridato sua madre. Ha ragione. E come puoi uccidere un giovane con la sindrome di Down? I cuori sono scossi, le lacrime scorrono e le gole si chiudono, sia a Kiryat Arba che a Sa’ir.

Pochi giorni fa Mahmoud Rafat Badran, un ragazzo di 15 anni, se ne stava tornando a casa con alcuni amici dopo essere stato in un parco acquatico. I soldati israeliani hanno crivellato la sua auto con 15 proiettili, pensando che i passeggeri avessero lanciato delle pietre sulla Strada 443. Rafat è rimasto ucciso e quattro suoi amici sono stati gravemente feriti dal fuoco indiscriminato. L’esercito ha affermato che si è sparato per “errore”.

Venerdì la famiglia Mark stava viaggiando a sud del monte Hebron, in Cisgiordania. Alcuni palestinesi hanno crivellato la loro auto con 19 proiettili, uccidendo il padre, Michael, e ferendo gravemente sua moglie e due figli. I primi a correre in loro aiuto sono stati dei passanti palestinesi, uno dei quali era un medico, che ha rianimato la madre, e un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Di nuovo una vita stroncata, di nuovo lacrime che scorrono.

Tutte queste uccisioni sono diverse, eppure simili. Per la maggior parte degli israeliani questi episodi non si possono confrontare. Il solo fatto di parlare di somiglianza  li fa infuriare. Ma la verità è che una persona indifesa è una persona indifesa, che si tratti di una ragazzina che dorme nel suo letto o di un giovane con la sindrome di Down. Ucciderli è un atto efferato.

Anche crivellare di proiettili un’auto è efferato. E’ vero, i palestinesi che hanno sparato alla macchina di Otniel volevano uccidere i passeggeri, mentre i soldati che hanno sparato contro l’auto di Beit Ur al-Tahta hanno detto di aver ucciso per sbaglio, ma il loro errore risulta inaccettabile.

Quindici proiettili per sbaglio? Hanno sparato indiscriminatamente ad un’auto senza l’intenzione di ucciderne i passeggeri? I palestinesi sparano come parte della loro resistenza all’occupazione. Gli israeliani sparano come parte della loro resistenza contro la resistenza. I motivi sono diversi, i risultati sono identici e orrendi, anche se vengono uccisi molti più palestinesi.

La maggior parte degli israeliani vive negando la realtà  in conseguenza del lavaggio del cervello a cui sono sottoposti. Il terrorismo esiste solo dalla parte dei palestinesi, solo loro agiscono con brutalità e disumanità. La realtà parallela rimane nascosta ai loro occhi – chi mai ha sentito parlare dell’uccisione di un giovane indifeso di Sa’ir? Ciò che è peggio, non c’è la volontà di prendere in considerazione l’episodio dal punto di vista palestinese.

Dietro a tutto ciò si nasconde il concetto più profondamente radicato in Israele – che i palestinesi non sono esseri umani come noi. Il loro sangue non è il nostro, versarlo non è malvagio come spargere il nostro.

Il giorno in cui più israeliani vorranno paragonare l’uccisione di Arif Jaradat a quella di Hallel Yaffa Ariel, il giorno in cui più israeliani riconosceranno l’ingiustizia ed i crimini commessi dal loro Paese, si farà il primo passo per ridurre lo spargimento di sangue. Fino ad allora continuerà. Niente lo fermerà.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’acqua è l’unica questione che mette (ancora) in difficoltà Israele con il pretesto della sicurezza e di dio.

di Amira Hass | 22 giugno 2016 | Haaretz

I portavoce israeliani hanno pronte tre risposte da utilizzare quando rispondono alle domande sulla carenza d’acqua nelle città palestinesi della Cisgiordania, che emerge chiaramente rispetto al pieno soddisfacimento idrico delle colonie:

1) Le condutture palestinesi sono vecchie e di conseguenza vi sono perdite d’acqua; 2) i palestinesi si rubano l’acqua tra loro e la rubano agli israeliani; 3) in generale, Israele nella sua grande generosità, ha raddoppiato la quantità d’acqua che distribuisce ai palestinesi in confronto a quella stabilita dagli accordi di Oslo.

Distribuzione”, i portavoce scriveranno nelle loro risposte. Non diranno mai che Israele vende ai palestinesi 64 milioni di m³ d’acqua all’anno invece dei 31 milioni di m³ stabiliti dagli accordi di Oslo. Accordi che sono stati firmati nel 1994 e che era previsto scadessero nel 1999. Non diranno che Israele vende ai palestinesi l’acqua dopo avergliela rubata.

Complimenti per la demagogia. Complimenti per rispondere solo con un ottavo della verità. L’acqua è l’unica questione per cui Israele è (ancora) in difficoltà nel difendere la sua politica discriminatoria, oppressiva e devastante con il pretesto della sicurezza e di dio. Per questo deve confondere e stravolgere questo fatto fondamentale: Israele controlla le risorse idriche. Ed avendone il controllo, impone il contingentamento della quantità di acqua che i palestinesi hanno il permesso di produrre e consumare. In media i palestinesi consumano 73 litri pro capite al giorno. Al di sotto della quantità minima necessaria. Gli israeliani consumano in media 180 litri al giorno, e c’è chi afferma che sono anche di più. E qui, a differenza di là, non troverete migliaia di persone che consumano 20 litri al giorno. D’estate.

Vero, alcuni palestinesi rubano l’acqua. Contadini disperati, i soliti imbroglioni. Se non ci fosse la mancanza d’acqua ciò non accadrebbe. Una gran parte dei ladri sta nell’area C, sotto il pieno controllo di Israele. Per cui, per favore, lasciate all’IDF e alla polizia il compito di trovare tutti i criminali. Ma giustificare la crisi con il furto, questo è un inganno.

Con gli accordi di Oslo, Israele ha imposto una suddivisione vergognosa, razzista , arrogante e brutale delle risorse idriche in Cisgiordania: l’80% agli israeliani (su entrambi i lati della Linea Verde) e il 20 % ai palestinesi ( da pozzi perforati prima del 1967, che i palestinesi continuano a sfruttare; dalla Mekorot, l’azienda idrica, da pozzi da trivellare in futuro dal bacino acquifero montano; da pozzi e da sorgenti per uso agricolo. Tra l’altro, molte sorgenti, si sono prosciugate a causa dei pozzi israeliani troppo profondi o perché i coloni se ne sono impadroniti. Le vie del furto non conoscono confini.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Israele riconosce di aver tagliato le forniture idriche alla Cisgiordania ma incolpa l’Autorità Nazionale Palestinese

Israele sostiene che l’intensa ondata di calore nella regione, insieme al rifiuto dell’Autorità Palestinese per le Acque di approvare un incremento delle infrastrutture ha portato “all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria.”

di Amira Hass – 21 giugno 2016- Haaretz

Dall’inizio di questo mese decine di migliaia di palestinesi hanno patito i pesanti effetti di un drastico taglio nelle forniture idriche della Mekorot, la compagnia israeliana dell’acqua.

Nella regione di Salfit, in Cisgiordania, e in tre villaggi a est di Nablus le abitazioni sono rimaste senza acqua corrente per più di due settimane. Alcune fabbriche hanno chiuso, orti e vivai sono andati in rovina e animali sono morti di sete o sono stati venduti ad allevatori al di fuori delle zone colpite.

La gente ha cercato di arrangiarsi attingendo acqua da pozzi agricoli, comprando acqua minerale o pagando acqua distribuita da grandi cisterne per uso domestico e per innaffiare le loro coltivazioni. Ma procurarsi acqua in questo modo è estremamente dispendioso.

Fonti ufficiali dell’Autorità Palestinese per le Acque hanno affermato ad Haaretz che personale di Mekorot ha detto loro che i tagli nelle forniture dureranno per tutta l’estate. Queste fonti sostengono che gli è stato detto dagli israeliani che c’è una carenza d’acqua e che si deve fare il possibile per garantire che i serbatoi locali di acqua (situati nelle colonie) rimangano pieni in modo da mantenere la pressione necessaria per far scorrere l’acqua attraverso le condutture che portano alle altre colonie ed alle comunità palestinesi.

Impiegati municipali palestinesi affermano che i lavoratori palestinesi dell’Amministrazione civile [in realtà militare, autorità israeliana che governa sui territori occupati. Ndtr.], inviati a regolare le quantità di acqua nelle condutture di Mekorot [compagnia israeliana dei servizi idrici, che fornisce anche i palestinesi. Ndtr.] hanno detto loro che le interruzioni nelle forniture sono state fatte per soddisfare la richiesta di acqua da parte degli insediamenti della zona, in aumento per le alte temperature. Tagli nelle forniture simili ci sono stati lo scorso anno nelle stesse aree, quando avvennero gravi interruzioni del servizio idrico, anche in quel caso durante il Ramadan.

Mekorot non ha voluto rispondere alle domande, indirizzando Haaretz all’Autorità Israeliana delle Acque e al ministero degli Esteri. Uri Schor, portavoce dell’Autorità per le Acque, ha scritto che la quantità di acqua che Israele vende ai palestinesi in tutta la Cisgiordania, compresa la zona di Salfit, è aumentata durante gli anni.

“Si è determinata una carenza idrica sia per israeliani che per palestinesi localizzata nel nord della Samaria a causa del consumo particolarmente elevato dovuto al caldo intenso nella regione,” ha scritto Schor. Ha aggiunto che la carenza è dovuta al fatto che l’Autorità Palestinese delle Acque si rifiuta di approvare un aumento delle infrastrutture idriche in Cisgiordania attraverso il comitato dell’acqua congiunto, “che ha portato all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria nella regione.”

Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che anche gli insediamenti [isrealiani] si stanno lamentando della carenza d’acqua.

I palestinesi smentiscono questo ostruzionismo e dicono che l’acqua arriva alle colonie.

Un importante funzionario dell’Autorità Palestinese per le Acque ha negato che il rifiuto palestinese abbia contribuito alla mancanza d’acqua.

“L’Autorità Israeliana sta mentendo all’opinione pubblica,” ha affermato. “Le tubature non necessitano di potenziamento. USAID [agenzia statale USA che si occupa degli aiuti all’estero. Ndtr.], per esempio, ha appena terminato un nuovo condotto a Deir Sha’ar per rifornire la popolazione di Hebron e di Betlemme. Israele dovrebbe aumentare il flusso dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar e più di mezzo milione di palestinesi riceverebbero la quantità di acqua che gli spetta.

“Peraltro Israele ha proposto un progetto per aumentare la portata di una conduttura che serve le colonie israeliane nella zona di Tekoa, e l’Autorità Israeliana delle Acque sta ricattando l’Autorità Palestinese perché approvi questo progetto in cambio dell’aumento delle forniture dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar.”

Schor ha fatto l’esempio dei mesi di gennaio-maggio degli ultimi quattro anni, che mostra che quest’anno c’è stato effettivamente un aumento da 2.7 milioni di m³ nel 2013 a 3.48 milioni di m³ della quantità di acqua fornita ai distretti di Salfit e Nablus,.

Ma i dati dell’Autorità Palestinese delle Acque mostrano che nel maggio di quest’anno c’è stato un taglio nelle forniture di acqua alla città di Bidya, con 12.000 residenti, da 50.470 m³ in marzo a 43.440 m³ in maggio. Nel maggio dello scorso anno, Bidya ha ricevuto 45.000 m³.

Nella cittadina di Qarawat Bani Hassan in maggio il consumo è stato superiore a quello di marzo (17.000 m³ rispetto a 15.000 m³), ma nel maggio dell’anno scorso il consumo aveva raggiunto 20.000 m³ e, secondo un funzionario palestinese, non c’è modo di spiegare la riduzione del consumo se non con una caduta delle forniture.

Nel contempo la riduzione delle forniture in giugno è stata molto più netta, fino al 50% all’ora.

Gli accordi di Oslo, che dovevano rimanere in vigore fino al 1999, hanno mantenuto il controllo israeliano sulle fonti idriche della Cisgiordania e sono discriminatorie nella distribuzione dell’acqua. In base agli accordi, Israele riceve l’80% dell’acqua dall’acquifero delle montagne della Cisgiordania, mentre il resto va ai palestinesi. L’accordo non pone limiti alla quantità di acqua che Israele può prelevare, ma impone ai palestinesi un massimo di 118 milioni di m³ dai pozzi esistenti prima degli accordi, e di altri 70 milioni di m³ da nuove perforazioni.

Per varie ragioni tecniche e per imprevisti errori di trivellazione nel bacino orientale dell’acquifero (l’unica parte in cui l’accordo consente ai palestinesi di effettuare perforazioni), in pratica i palestinesi producono meno acqua di quanto stabilito dagli accordi. Secondo B’Tselem [ong israeliana per i diritti umani. Ndtr.], fino al 2014 i palestinesi hanno avuto solo il 14% dell’acqua dell’acquifero. E’ anche per questo che Mekorot sta vendendo ai palestinesi il doppio della quantità di acqua previsto nell’accordo di Oslo, 64 milioni di m³, invece di 31.

Il coordinatore delle attività governative nei territori ha detto: “A causa dell’incremento dei consumi di acqua durante l’estate, è necessario controllare e regolare il flusso per rendere disponibile la maggior fornitura possibile di acqua a tutte le popolazioni. Dato questo problema, il capo dell’Amministrazione Civile ha approvato un regolamento d’emergenza per mettere in funzione la trivella “Ariel 1” e incrementare la quantità di acqua per i residenti della Samaria settentrionale, soprattutto nell’area di Salfit; altri 5.000 m³ di acqua all’ora sono stati approvati anche per le colline di Hebron, a sud.”

Il coordinatore ha anche sottolineato che l’Amministrazione Civile deve lottare contro i furti dalle condutture che arrivano alle comunità palestinesi. Ha detto che solo ieri ha scoperto due furti di acqua dalla conduttura che fornisce l’area di Salfit.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo l’attacco di Tel Aviv i palestinesi manifestano poca gioia ma comprendono le ragioni di chi ha sparato

Ogni settimana, centinaia di palestinesi sono soggetti a colpi di arma da fuoco da parte degli israeliani e scappano terrorizzati. Secondo loro quello che hanno provato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

di Amira Hass | 10 giugno, 2016 |

Haaretz

Wafa, l’agenzia ufficiale di notizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [OLP], ha messo sul suo sito una spettacolare fotografia dei fuochi d’artificio a Gaza in onore del sacro mese musulmano del Ramadan e non per inneggiare all’attacco armato di mercoledì a Tel Aviv. Anche se ci sono stati palestinesi che hanno espresso soddisfazione per l’attacco di fronte alle telecamere che li hanno trovati proprio nel momento e nel luogo giusti, né la soddisfazione né l’appoggio[all’attacco] potrebbero descrivere con precisione i sentimenti della maggior parte dei palestinesi sulla sparatoria.

C’è una generale comprensione riguardo al motivo che ha spinto [ad agire]i due attaccanti della città cisgiordana di Yatta, insieme all’apprezzamento per quello che è apparso il loro coraggio. Vi è anche molta preoccupazione rispetto a quale sarà la risposta di Israele.

L’agenzia Wafa ha anche pubblicato una condanna dell’attacco proveniente dall’ufficio del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas. Sicuramente gli israeliani non si accontenteranno di questo, mentre allo stesso tempo i palestinesi si arrabbiano per la sua equidistanza. “L’ufficio di presidenza ha espresso la sua ripetuta condanna di ogni azione da qualunque parte provenga che prenda di mira i civili indipendentemente da quello che potrebbero essere le motivazioni,” afferma il comunicato. Ha anche affermato che la creazione di un clima positivo e la realizzazione di una giusta pace potrebbero garantire la sicurezza dei civili.

L’opposizione di Abbas a qualsiasi escalation ha avuto un riflesso concreto. Per esempio, le sue forze di sicurezza stanno arrestando e imprigionando gli attivisti che non sono stati arrestati da Israele e che hanno guidato le manifestazioni contro il muro di separazione a Betlemme. Di conseguenza sono cessati gli scontri in uno dei punti più caldi. Ma con questo suo comunicato moderato, Abbas ha evidentemente cercato di evitare di urtare la suscettibilità del suo pubblico.

Il suo partito Fatah non ha potuto condannare l’attacco di Tel Aviv. Un comunicato dell’organizzazione ha definito la sparatoria “una risposta individuale e naturale” alla violenza dello Stato israeliano. Un portavoce ha spiegato che per “violenza dello Stato” si intendeva la politica delle demolizioni delle case e lo sradicamento dei palestinesi dalle loro comunità, le “irruzioni dei coloni” sulla spianata delle moschee di Al-Aqsa a Gerusalemme e “gli omicidi a sangue freddo di palestinesi ai checkpoint”.

Da parte sua il movimento Hamas ha elogiato l’attacco, mentre il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [FPLP] lo ha definito un punto di svolta nell’attuale intifada e una condivisibile reazione al gran numero di palestinesi uccisi da Israele. Riferendosi al luogo dell’attacco di Tel Aviv, avvenuto di fronte al Ministero della difesa, [il FPLP] ha detto che si è trattato di una sfida al nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, e che è la conferma che la lotta armata è il modo migliore per garantire i diritti dei palestinesi.

Il comunicato del Fronte Popolare si avvicina allopinione prevalente nell’opinione pubblica palestinese rispetto alle posizioni di Abbas o di Fatah, come riportato dal sondaggio pubblicato questa settimana dal Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro palestinese di ricerca e analisi politica]. Il sondaggio ha rivelato che il 58% degli intervistati (il 68% nella Striscia di Gaza e il 52% in Cisgiordania) è convinto che la rivolta degli attacchi individuali esplosa a ottobre, caratterizzata in prevalenza da attacchi all’arma bianca e che si sta trasformando in un’intifada armata, potrebbe essere più utile agli interessi nazionali palestinesi rispetto ai negoziati con Israele.

L’appoggio agli attacchi all’arma bianca è diminuito. Solamente il 36% degli intervistati nella Cisgiordania è solidale. Nella più lontana Gaza, invece, gli attacchi all’arma bianca sono stati appoggiati dal 75% degli intervistati.

In altre parole, vi è un ampio sostegno a parole da parte di coloro che sono lontani e che non sono coinvolti, mentre quelli che possono agire sono restii a farlo.

L’uso delle armi conserva nelle analisi e nelle dichiarazioni la propria aura quale punto più alto della lotta nazionale contro l’occupazione israeliana. Ma né il FPLP, né Hamas o Fatah hanno cercato o osato trasformare l’escalation dell’anno scorso in una lotta armata, perché non possono oppure sanno che fallirebbe, o che la gente non è realmente interessata o preparata.

I programmi televisivi che hanno mostrato gli israeliani che scappavano terrorizzati dagli attentatori sono scene familiari ai palestinesi. Giorno dopo giorno, sperimentano la paura asfissiante degli israeliani armati. Ogni settimana centinaia di palestinesi sono esposti alle sparatorie degli israeliani e fuggono terrorizzati; qualche volta sono feriti o uccisi. Secondo la loro opinione, quello che hanno passato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

I palestinesi si prendono qualche rivalsa se viene sconvolta la normalità di Tel Aviv, solo a un’ora di macchina dalle zone di disperazione individuale e nazionale a Gaza e in Cisgiordania. La maggior parte è ben consapevole che questo sconvolgimento non cambierà l’orientamento e il comportamento degli israeliani. Tuttavia neppure le dimostrazioni pacifiche, le trattative diplomatiche e i resoconti dei media hanno trasformato gli israeliani in sostenitori del Meretz [partito sionista della sinistra moderata sostenitore della soluzione dei due Stati, ndt]. Quindi tutto quello che rimane è una soddisfazione momentanea di vendetta.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Perché le donne palestinesi attaccano i checkpoint israeliani ?

 

Che cosa spinge le donne palestinesi ad attaccare i checkpoint israeliani rischiando la morte?

I palestinesi temono che parlare delle motivazioni personali possa sollevare Israele dalla responsabilità di uccidere le donne che si avvicinano ai checkpoints armate di coltelli.

Di Amira Hass – Haaretz, 12 giugno 2016

 

La figura di una donna avvolta in una veste nera con il viso coperto da un velo ha attirato l’attenzione degli automobilisti. Il suo vestito sembrava ancora più nero sullo sfondo grigio degli alberi di ulivo impolverati dalle vicine pietraie.

Giovedì 2 giugno camminava verso ovest, in direzione del checkpoint di Einav, in un tratto di strada dove raramente si vedono passanti (eccetto i residenti dei villaggi vicini diretti ai loro uliveti) – certo non nelle ore più torride della giornata.

Questo checkpoint, che separa l’enclave di Tul Karm verso est dalle colonie della zona, non consente il passaggio di pedoni, ma solo di veicoli.

Almeno un automobilista, che trasportava bombole del gas, si è fermato per chiedere alla donna se avesse bisogno di aiuto. Lei ha detto che stava aspettando qualcuno che la venisse a prendere. Questo accadeva a circa 200 metri di distanza dal checkpoint.

Un’altra persona si trovava sul lato ovest ed ha visto con spavento quando la donna ha raggiunto le lastre di cemento intorno al posto di blocco. Ha raccontato ad Haaretz di aver diretto velocemente la vettura verso di lei. Si è fermato e l’ ha avvertita che le sarebbe accaduto qualcosa, che i soldati l’ avrebbero uccisa se fosse rimasta là.

“Non mi ha risposto,” ha raccontato. Non si potevano vedere i soldati tra i blocchi di cemento o lungo la corsia delle auto. Ha sentito uno di loro gridare dalla cima della torretta intimandogli di proseguire, e che se non lo avesse fatto gli avrebbero sparato.

“Sono andato avanti, non volevo morire”, ha detto. E’ convinto che gli automobilisti che la oltrepassavano erano giunti alla conclusione, come lui, che lei avesse deciso di morire. L’opinione diffusa è che i soldati israeliani oggi sparano per uccidere.

Una terza persona l’ha vista e gli ha fatto ricordare Maram Hassouna, che il primo dicembre si presentò allo stesso checkpoint con un coltello e fu uccisa dai soldati. Questa volta i soldati gli hanno permesso di avvicinarsi a piedi e di parlare con la donna.

“I soldati ti spareranno, vieni con me,” le ha detto la terza persona. “Allahu Akhbar,” ha risposto lei, ed ha estratto dalla borsa un lungo coltello, puntando la lama contro di lui in modo minaccioso. Si è spaventato ed è corso via.

Il primo automobilista, quello con le bombole del gas, è tornato indietro. Ha detto che, quando si è fermato davanti al checkpoint, ha notato la donna che usciva dai blocchi di cemento e stava in piedi di fronte a due soldati.

Stavano a due o tre metri da lei, forse un po’ di più. Lei ha alzato le braccia, ha riferito al ricercatore di B’Tselem Abed al-Karim Saadi, che ha rintracciato anche gli altri testimoni ed ha parlato con loro. E allora sono stati esplosi i colpi.

Le parole “voleva morire” non sono state dette chiaramente a Qaffin, il villaggio da dove proveniva la venticinquenne Ansar Hirsha, la donna che i soldati hanno ucciso. La sua famiglia e l’amministrazione locale erano preoccupati in merito a quando le autorità israeliane avrebbero restituito il corpo per poterlo seppellire. Poiché fino a sabato [11 giugno, ndt.] il suo cadavere non era ancora stato consegnato, non si sa ancora quante pallottole l’hanno colpita e dove.

Un figlio e una figlia  

L’Ufficio del portavoce dell’esercito israeliano non ha risposto alla domanda di Haaretz, che è anche la domanda posta dalla famiglia: perché non era possibile arrestare Hirsha o al limite soltanto ferirla? Dopotutto, era già rimasta alcuni minuti al checkpoint e la sua presenza là non aveva preso di sorpresa i soldati, che l’hanno vista dalla torretta da cui sono poi scesi.

Il portavoce dell’esercito non ha neanche risposto su come tre o quattro soldati non siano stati in grado di aver ragione di una donna senza doverla ammazzare. Il giorno dopo l’uccisione, il sito web Sikha Mekomit (della rivista +972) ha pubblicato quattro fotografie tratte dal filmato della telecamera di sicurezza, che mostrano che i soldati si tenevano ad una distanza da Hirsha tale da non poter essere feriti.

Un’altra domanda rimasta senza risposta è se l’esercito intenda pubblicare il filmato come prova della sua versione dei fatti, secondo cui i soldati erano in pericolo.

Il portavoce dell’esercito ha solamente detto che “in base all’esame preliminare eseguito giovedì scorso, 2 giugno 2016, le forze dell’esercito israeliano al checkpoint di Einav hanno identificato una persona sospetta che si avvicinava al checkpoint ed hanno iniziato la procedura prevista per l’arresto di un sospetto. La terrorista era armata di un coltello ed ha cercato di accoltellare i soldati. Per impedire la minaccia questi hanno risposto con colpi di arma da fuoco, dai quali la terrorista è stata uccisa.”

Ansar Hirsha lascia il marito Shadi e due bambini. Nei primi due giorni dopo la sua morte, Yaman, di quattro anni, ha continuato a chiedere dove fosse sua mamma e non voleva credere che lei fosse a Tul Karm, come gli hanno detto gli adulti.

Quando la casa ed il cortile del nonno si sono riempiti di visitatori, lui ha chiesto con rabbia chi fossero e che cosa ci facessero lì. Poi ha detto: “La mamma è morta, vero?”

“Capisce quello che è successo meglio di un ragazzo di vent’anni”, dice il nonno, Mohammed Hirsha. Mohammed e suo figlio Shadi hanno cercato invano di calmare il bambino, con gelato, pizza, una macchina giocattolo.

La sua sorellina Talia di due anni ancora non capisce. Quando hanno appeso dei poster in memoria di sua mamma nella casa e sui muri del villaggio, Talia è corsa verso il ritratto sul poster chiamando “Mamma, mamma” ed ha cercato di abbracciare il suo viso con le mani.

Ansar Hirsha non ha lasciato alcuna lettera o post su Facebook, ha detto Shadi Hirsha, di 28 anni, che lavora nel settore edilizio in Israele. Sia a lui che a suo padre è stato ora vietato di lasciare la Cisgiordania per andare a lavorare. Suo padre ha lavorato in Israele per decenni ed ora il suo permesso è stato revocato, come i permessi di una dozzina di altri parenti.

Shadi ha detto che Ansar ha cominciato a coprirsi il volto circa sette mesi fa. Gli ha detto che era la sua volontà; lui non sa perché. Nel poster, il suo volto è scoperto. La fotografia risale ad un anno e mezzo fa, alla cerimonia di laurea dell’Università Aperta di Al-Quds (Gerusalemme, ndt.), dove studiava amministrazione aziendale.

Nel poster, che il movimento giovanile di Qaffin si è affrettato a stampare, lei viene definita una shahida, una martire. Dei versetti del Corano ed una poesia proclamano che la morte di un martire è fonte di orgoglio. Ma nei discorsi del villaggio nessuno ipotizza che lei sia andata verso il checkpoint in quanto membro della lotta contro l’occupazione. E’ l’unica persona del villaggio ad essere stata uccisa durante l’ultima ondata di violenza.

Secondo l’associazione per i diritti B’Tselem il numero dei palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane (e dai civili) da settembre è di 171. Alcuni hanno compiuto attacchi terroristici letali, alcuni hanno provocato feriti, altri hanno minacciato persone o erano sospettati di prepararsi ad attaccare un israeliano.

Parole d’ordine

Hirsha è una delle 16 donne uccise, la maggior parte ai checkpoint. La prima è stata Hadeel al-Hashlamoun, che come Hirsha aveva il volto coperto ed era vestita di nero. E’ arrivata ad un checkpoint di Hebron con un coltello, e l’inchiesta dell’esercito israeliano ha rivelato che i soldati avrebbero semplicemente potuto arrestarla.

Una giovane donna, Samah Abdallah, è stata uccisa a fucilate dai soldati dell’esercito mentre si trovava nell’auto di suo padre. Neppure l’esercito sostiene che abbia cercato di attaccare i soldati. Riguardo ad un’altra madre, Mahdia Hammad, è stato sostenuto che aveva cercato di investire dei soldati. Un’inchiesta di B’Tselem solleva dubbi su questa tesi.

Riguardo alle donne che hanno cercato di accoltellare israeliani o che brandivano coltelli, c’è un forte divario tra ciò che la gente pensa e dice in privato ed il modo in cui i media e le autorità palestinesi presentano il fenomeno. Fino alla morte di Hadeel al-Hashlamoun l’opinione comune era che le donne che si recavano ai checkpoint e minacciavano i soldati con un coltello volessero essere arrestate – ed in tal modo fuggire dai problemi che avevano in casa: diverse forme di violenza, una lite con il padre o il fratello, una depressione non curata.

Le parole d’ordine erano “motivazioni sociali”, contrapposte a “ragioni nazionaliste”. A livello ufficiale e pubblico, attraverso l’arresto, il processo e il rilascio, le donne erano dipinte come persone che lottavano contro l’occupazione.

Negli scorsi anni, a causa del numero crescente di incidenti in cui i soldati israeliani hanno ucciso i palestinesi ai checkpoint, il “ desiderio di essere arrestate per motivi sociali” è stato sostituito dalla “volontà di suicidarsi”.

In una società tradizionale e religiosa che non vede di buon occhio il suicidio, è possibile che la morte per mano di un soldato appaia come una valida via d’uscita. Se la morte è una via d’uscita, significa che le donne non sanno come e a chi chiedere aiuto. La discussione sul pericolo di questo fenomeno in crescita esiste – soprattutto tra le attiviste femministe ed in diversi gruppi della società civile – ma non pubblicamente.

Alla domanda sul perché, le attiviste femministe hanno dato ad Haaretz diverse risposte. Soprattutto all’inizio dell’attuale rivolta individuale, le donne erano arrabbiate per il fatto che la gente sospettava che una giovane donna che si univa alla sollevazione e cercava di aggredire un soldato fosse spinta da motivi non “nazionalisti”. Vedevano questo come un ulteriore elemento di denigrazione delle donne.

Inoltre, come ha detto una militante di una storica organizzazione femminista, “come tutta la popolazione, noi rifiutiamo le pretese israeliane che ogni palestinese, uomo o donna, ucciso ad un checkpoint intendesse veramente aggredire un soldato o un civile israeliano. In ogni caso, siamo convinte che non ci fosse bisogno di uccidere. I soldati adesso ci terrorizzano più di prima, sono più violenti che mai.”

I palestinesi temono che la discussione sulle motivazioni personali possa contribuire ad esonerare Israele dalla responsabilità delle uccisioni. Ma le donne attiviste di varie organizzazioni ora vogliono fare distinzione tra le due cose e concentrare l’attenzione sul loro ruolo sociale, ma lontano dai riflettori dei media.

“Non sono solo donne ad andare ai checkpoint in modo sospetto e per disperazione, ma anche giovani uomini.”, ha detto un’attivista.

“E indipendentemente dal fatto che la disperazione dipenda da motivi personali, come è possibile distinguerla dalla generale disperazione della giovane generazione, che proviene direttamente dalla dominazione israeliana, che non consente di guadagnarsi da vivere e di produrre un cambiamento, dall’umiliazione quotidiana, dalla paura costante?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il sistema giudiziario militare d’Israele sembra essersi spinto troppo lontano.

Editoriale Haaretz 6 giugno, 2016

La crescente resistenza violenta all’occupazione non deve dare a Israele e al suo apparato di sicurezza il diritto di negare la libertà a persone innocenti.

La parlamentare palestinese Khalida Jarrar è stata rilasciata venerdì dopo 14 mesi di detenzione in una prigione israeliana. Jarrar era una prigioniera politica e la sua detenzione è stata una detenzione politica.

Dapprima Israele voleva tenerla in prigione senza processarla; solamente dopo una protesta internazionale è stata giudicata da una corte militare per una serie di accuse, la maggior parte delle quali erano ridicole e assurde: aver partecipato ad una fiera del libro, aver pagato una telefonata di condoglianze a una famiglia palestinese e cose simili. Il fatto che Jarrar, in quanto rappresentante eletta, goda di un certo livello di immunità parlamentare è ininfluente per il sistema giudiziario militare; ci sono altri parlamentari palestinesi nelle carceri israeliane.

Jarrar, che presiedeva la commissione del Consiglio legislativo palestinese sui prigionieri politici, ha trascorso molti anni a lavorare a favore dei prigionieri palestinesi, cercando di ottenere il loro rilascio. Ma 700 palestinesi detenuti amministrativi sono attualmente nelle prigioni israeliane, alcuni dei quali sono stati incarcerati da lungo tempo senza processo. Mentre Jarrar era in carcere è stato raggiunto un altro record; 61 donne palestinesi, 14 delle quali sono minorenni, sono tenute nelle galere israeliane. Il Servizio israeliano delle prigioni [IPS] ha dovuto aprire una nuova ala nel carcere di Damon in aggiunta a quello di Hasharon per tenerle tutte in detenzione.

Insieme il numero totale di minori detenuti da Israele, più di 400 secondo B’Tselem, questi dati sono una prova dell’intollerabile e ignobile politica del sistema giudiziario militare nei confronti dei palestinesi. Nessuno si aspetta che agisca come un vero sistema di giustizia penale, ma persino per un sistema militare di giustizia sembra che si sia spinto troppo lontano nei mesi scorsi, [in quanto] Israele si è arrogato il diritto di negare la libertà alle persone che vivono sotto la sua occupazione in modo quasi illimitato.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




“Un popolo, una nazione”: una rappresentazione visiva dell’ignoranza .

Se una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia israeliana.

di Asher Schechter, 13 maggio 2016

Haaretz

Mercoledì sono iniziati i festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.

Mentre i soldati passavano da una formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza della storia: “un popolo, una nazione.”

E’ una frase che, se la pronunciate in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le parole “un Fuhrer”.

Per essere chiari, Israele non è affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.

Tuttavia, è difficile immaginare una raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.

Nel respingere risolutamente ogni similitudine tra la frase e lo slogan nazista, la ministra della Cultura Miri Regev (che era la responsabile della cerimonia) in qualche modo è riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere semplicemente il proprio errore.

Anche in assenza di scomodi riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini? Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?

La frase “un popolo, una nazione” è l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che, come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica dei primi dieci).

Il mese scorso un sondaggio condotto dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.

“Un popolo, una nazione”, dunque, può essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.) stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”, che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è passato in prima lettura a marzo.

L’esclusione e la persecuzione degli arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il calendario a sette bracci e la colomba della pace.

Ma neanche il riferimento storico, pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver “ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come “intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo che probabilmente voleva parlare.

Non è la prima volta che la foga antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana, quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.

Benjamin Netanyahu è un appassionato studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne sapevano di più.

E proprio questa può essere la cosa peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata dall’ignoranza della storia.

Gli israeliani imparano molte cose a scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”

Come recita il vecchio adagio, coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Solo il boicottaggio può cambiare Israele

di Gideon Levy

Internazionale 1152, 6/12 maggio 2016

In un articolo uscito il 28 aprile il direttore di Haaretz, Aluf Benn, invitava a non essere troppo ottimisti sull’efficacia di un boicottaggio contro Israele per la sua occupazione dei territori palestinesi. Sono d’accordo con Benn, ma in ogni caso non possiamo non riconoscere che la strategia Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è l’unico modo per cambiare le cose, l’ultima speranza per ottenere il cambiamento che anche Benn desidera. È l’unico mezzo per impedire a Israele di proseguire con i suoi crimini. L’alternativa è lo spargimento di sangue, che nessuno desidera.

Le sanzioni e il boicottaggio sono lo strumento più legittimo e nonviolento a disposizione (Israele chiede continuamente al mondo di usarlo contro i suoi nemici) e hanno dimostrato di essere estremamente efficaci. Anche chi nutre le stesse perplessità di Benn (e io condivido alcuni dei suoi dubbi) deve ammettere che il direttore non offre alcuna alternativa più realistica. Il suo appello alla sinistra israeliana non ha alcuna speranza di successo, considerando fino a che punto la società sia ormai caratterizzata dal lavaggio del cervello, dall’ignoranza, dalla cecità, dall’amore per la bella vita, dalla mancanza di opposizione e dall’aumento dell’estremismo.

Questa è una situazione criminale che deve essere risolta, non possiamo permetterci di restare immobili in attesa che l’opinione pubblica ci faccia la grazia di cambiare. Non lo farà mai di sua spontanea volontà, e non avrà nessun motivo di farlo finché non pagherà per i suoi crimini e sarà punita. Una nuova vetta di arroganza è stata raggiunta: permettere alla tirannia, all’abuso e all’oppressione di perdurare in nome della democrazia.

Nel suo articolo Benn ipotizza che il mondo possa imporre sanzioni contro Israele. In verità spesso

anch’io ho accarezzato questa ipotesi, che non è altro che l’espressione del profondo desiderio di qualcuno che osserva i peccati ogni giorno e vorrebbe vedere anche la punizione. Quando gli agenti della polizia di frontiera uccidono una donna incinta e suo fratello sostenendo che avevano “lanciato un coltello” e la società reagisce con uno sbadiglio annoiato, cresce il desiderio di punire questa società. Non è un desiderio di vendetta, ma un desiderio di cambiamento. Benn è convinto che il boicottaggio radicalizzerebbe ulteriormente Israele. Ma l’esperienza ci insegna che è vero il

contrario. Israele ha sempre fatto delle concessioni dopo aver pagato un prezzo elevato o davanti a una minaccia. È vero che Cuba e la Corea del Nord non si sono piegate alle sanzioni, ma è altrettanto vero che non si tratta di democrazie e che nei due paesi l’opinione pubblica ha un peso relativo.

Basandoci sulle esperienze passate possiamo ritenere che gli israeliani siano molto più viziati dei cubani o dei nordcoreani. Chiudiamo l’aeroporto internazionale di Tel Aviv per due giorni e poi vedremo quanti sono in favore dell’insediamento di Yitzhar. Imponiamo un visto per qualsiasi breve vacanza all’esterno e vedremo quanti continueranno a usare il motto nazionalista “la terra di Israele per il popolo di Israele”. Per non parlare delle ristrettezze materiali e della crisi economica che spingerebbero inevitabilmente Israele a chiedersi: vale davvero la pena soddisfare questo capriccio dell’occupazione? Siamo pronti a pagare di tasca nostra e a sacrificare il nostro stile di vita per regioni del paese che la maggior parte degli israeliani non ha mai visto e in cui non ha nessun interesse concreto?

Probabilmente la prima reazione a un boicottaggio sarebbe quella descritta da Benn: la società farebbe quadrato e prevarrebbe la linea dura. Ma presto comincerebbero le domande, poi le proteste. Gli israeliani del 2016 non sono fatti per vivere a Sparta e neanche a Cuba. Non accetterebbero di guidare auto degli anni cinquanta e fare la fila per la carne pur di mantenere l’insediamento di Esh Kadosh. Rinuncerebbero all’insediamento di Elkana pur di continuare ad andare in vacanza in Bulgaria, ed è un bene. E se questo dovesse significare che Elkana diventerà parte di un unico stato democratico binazionale, tanto meglio. L’ipotesi che un palestinese come Marwan Barghouti venga eletto a capo del governo non mi spaventa affatto.

Il movimento Bds non ha ancora cominciato ad avere effetti sulle nostre vite. Al momento non esiste una vera guerra economica, ma solo iniziative che stanno cambiando gradualmente il dibattito internazionale su Israele. Ai margini esistono forse elementi di antisemitismo, ma in sostanza si tratta di un movimento di protesta animato da persone che hanno una coscienza e vogliono fare qualcosa. Il declino economico che ne risulterebbe potrebbe arrivare presto, e non sarebbe necessariamente graduale. Nel Sudafrica dell’apartheid a un certo punto gli imprenditori sono andati dal governo e hanno detto: “Ora basta, non si può andare avanti così”. Anche in Israele potrebbe succedere qualcosa di simile. E questo mi dà speranza, perché non vedo nessuna alternativa.

Haaretz

(Traduzione di Andrea Sparacino)