Il ballo in maschera dell’Israele liberale: un apartheid più sofisticato

Hagai El-Ad

30 gennaio 2023 – Haaretz

Dalle elezioni del primo novembre Israele si è rapidamente “tolto la maschera”, un processo evidenziato dagli accordi di coalizione prima dell’insediamento del il nuovo governo di Benjamin Netanyahu il 29 dicembre. In tali accordi la Legge Fondamentale del 2018 su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico evidenzia palesemente e ampiamente la supremazia ebraica ovunque Israele comandi tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Gli esempi sono molteplici. Il governo ha iniziato con questa dichiarazione programmatica: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra di Israele.” Oltre a ciò, ci sono passi per “legalizzare” avamposti dei coloni in Cisgiordania e il tentativo di affrontare “la bilancia demografica” nel Negev e in Galilea, e un’iniziativa per espandere la legge sulle commissioni di ammissione [che concedono a una persona il permesso di abitare in una certa zona della Galilea o del Negev e che escludono sistematicamente i palestinesi, ndt.] a comunità con 600 o più famiglie rispetto alle attuali 400.

In un Paese in cui “l’insediamento ebraico” è un “valore nazionale”, come stabilito dalla Legge Fondamentale che non è stata bocciata dalla Corte Suprema, la bussola è la supremazia ebraica. Il trentasettesimo governo sta ampiamente avendo cura di ostentare tutto ciò.

Ma, mentre alcune maschere sono state rimosse, ne sono state messe in vendita delle altre. La storia secondo cui “i territori stanno occupando Israele” ci propone la nostalgia dell’Israele illuminato che verrà occupato in ogni minuto dal Selvaggio West dei territori. Dopotutto da questo lato della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] abbiamo democrazia, uguaglianza e stato di diritto, mentre nei territori l’apartheid si sta approfondendo. Quello che succede “lì” potrebbe avvenire “qui”, ci viene detto.

Tutto ciò è lontano sia dalla storia che dalla realtà. Dopotutto Israele non ha solo occupato i territori [palestinesi], ha anche messo in atto “lì” pratiche che aveva introdotto “qui” a partire dal 1948. Queste pratiche includono l’imposizione di un governo militare e la promozione dell’“insediamento ebraico”, l’appropriazione ebraica di terra palestinese e una riprogettazione del potere politico, della geografica e della demografia. Tutto è iniziato “qui”, e dal 1967 [la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza, ndt.] è stato messo in pratica anche “lì”: la stessa ideologia e le stesse politiche “in tutte le zone della Terra di Israele.”

Il rimpianto per come stanno le cose ora porta a un fenomeno veramente grottesco se consideriamo le reazioni alle modifiche che il nuovo governo ha previsto al progetto di espropriazione da parte di Israele in Cisgiordania. Si è duramente protestato contro questi cambiamenti, un “trasferimento di poteri” dall’esercito a un ente civile, uno schiaffo all’“indipendenza” del consulente giuridico dell’esercito per la Cisgiordania e l’illegalità di queste iniziative in base alle leggi internazionali.

La lotta contro il governo di estrema destra deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano, non la grande menzogna che cerca di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale israeliana. Ma di cosa hanno paura i manifestanti [contro il nuovo governo Netanyahu, ndt.], che diventi evidente che non c’è una sovranità “separata” in Cisgiordania? Che l’Amministrazione Civile dell’establishment della difesa abbia sempre messo in pratica lì le politiche governative invece di una politica indipendente realizzata dal capo del comando centrale dell’esercito in base al suo profondo rispetto delle leggi internazionale e della comunità palestinese?

Il consigliere giuridico per la Cisgiordania si è sempre adoperato per fornire il beneplacito al furto di terra palestinese da parte di Israele. Ciò era vero sotto un governo “di sinistra” e lo sarà sotto il governo “totalmente di destra”. Le politiche israeliane nei territori, in parte responsabilità di quell’organizzazione burocratica chiamata l’Amministrazione Civile, sono sempre state solo questo: le politiche israeliane nei territori, non un’amministrazione separata o un regime separato.

Nessuno stava ad aspettare la nomina di un membro dell’“estrema destra” a ministro incaricato di questi problemi nel ministero della Difesa. Ministri e parlamentari da uomini di Stato, procure e ufficiali dell’esercito hanno definito l’infrastruttura politica, amministrativa e giudiziaria di Israele per portare avanti queste politiche.

Anche la Corte Suprema ha svolto fedelmente il proprio ruolo. Dalla sera alla mattina gli israeliani ripetono il mantra secondo cui dobbiamo proteggere la Corte dai demolitori della democrazia e dello stato di diritto. Che cosa stanno cercando di nascondere qui?

Soprattutto il ruolo della Corte nell’approvare il progetto di spoliazione dei palestinesi e nell’impedire che i criminali responsabili di ciò fossero chiamati a risponderne. Come ha detto lo scorso mese Elyakim Rubinstein, ex procuratore generale e giudice della Corte Suprema: “Chi è il nostro giubbotto antiproiettile contro l’Aia [la Corte Penale Internazionale, ndt.]? Soprattutto la Corte Suprema… Indebolire la Corte significa indebolirci all’Aia.”

In altre parole, non abbiamo una Corte che protegge i diritti umani, abbiamo una Corte che protegge israeliani dall’essere chiamati a rispondere per aver minato i diritti umani dei palestinesi.

E perché noi si possa continuare così senza un intervento internazionale, dobbiamo salvaguardare l’“indipendenza” della Corte. La Corte continuerà, in modo indipendente, ad approvare la demolizione di case palestinesi, il furto di terra palestinese, il fatto di sparare a manifestanti palestinesi e ucciderli, la continua detenzione di palestinesi in sciopero della fame che stanno per morire e tutto quello che il regime di supremazia ebraica desidera per portare avanti i nostri diritti esclusivi.

La menzogna definitiva, che tutte queste cose non si trovano al centro del consenso al regime di supremazia ebraica, ma sono un’esclusiva dei “partiti dell’estrema destra radicale”, è stata menzionata in un editoriale del New York Times lo scorso mese. Gli stessi “estremisti” stanno chiedendo di “estendere e legalizzare colonie in un modo che renderebbe effettivamente impossibile uno Stato palestinese in Cisgiordania,” ha scritto il Times.

Questo è davvero un nuovo programma di estrema destra? Non hanno forse tutti i governi israeliani dal 1967 costruito, esteso e legalizzato colonie? Non è stato il (non estremista) partito Laburista a patrocinare tutto questo? Non hanno giocato le (non estremiste) Procura generale e Corte Suprema un ruolo nell’approvare il progetto?

L’idea che la formazione di uno Stato palestinese “sia impossibile” è una vecchia politica israeliana al centro degli accordi che hanno reso possibile il precedente “governo del cambiamento”. I leader di questa politica non sono considerati “estremisti”. È una posizione di centro: garantire ai palestinesi non uguaglianza e libertà, ma apartheid.

Cos’è ancora limitato solo agli “estremisti”, secondo il New York Times? “Modificare lo status quo sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee, ndt.], un atto che rischia di provocare un nuovo ciclo di violenze tra arabi e israeliani.” Questa è veramente una questione imprevedibile e delicata. Ma nientemeno che il precedente primo ministro non estremista e non di destra, Yair Lapid, quando ha riassunto alla Knesset i successi del suo governo liberale, ha affermato che “l’anno scorso un numero record di ebrei ha visitato il Monte del Tempio”.

Ci sono probabilmente delle persone che credono che, con l’aiuto di tali maschere, possiamo costruire delle barricate migliori dietro le quali combattere il nuovo governo e i pericoli che esso rappresenta. Ma una barricata costruita sulle menzogne è una barricata inefficace, destinata a crollare. Dopo tutte queste bugie, la stessa “lotta” è diventata una grande menzogna che sta cercando di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale, come se i suoi fautori dicessero: “Se solo vivessimo ancora nel mondo ugualitario e illuminato del 31 ottobre 2022 [il giorno prima delle ultime elezioni, ndt.]!”

Non c’è nient’altro che nostalgia per un apartheid un poco più raffinato, un poco meno banditesco, l’apartheid di Benny Gantz [politico centrista ed ex generale, ndt.] e Elyakim Rubinstein, dio ce ne scampi non di Benjamin

Ovviamente non dobbiamo sottovalutare il pericolo rappresentato dal nuovo governo e dalle sue politiche. Ma la grande esplosione che potrebbe scatenarsi in qualunque momento implica che dobbiamo rifiutare di chiudere gli occhi sul quotidiano orrore sanguinoso che sono le vite dei palestinesi all’ombra del potere israeliano. Esattamente perché è un momento così pericoloso, vergognoso e razzista, dobbiamo combatterlo con onestà e non basare la lotta su menzogne.

Non può essere una lotta per “lo stato di diritto” (al servizio degli ebrei), o per il “senso dello Stato” (ebraico) o “uno Stato ebraico e democratico” (per gli ebrei). Deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano. Una lotta senza maschere.

Hagai El-Ad è un il direttore esecutivo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’incursione israeliana a Jenin ha provocato l’attacco terroristico che aveva proclamato di voler contrastare

Gideon Levy

29 gennaio 2023- Haaretz

Cosa stavate pensando? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo B’Tselem, la maggior parte dei quali non combattenti, sarebbe stata accettata docilmente? Che l’uccisione di circa 30 persone ad oggi nell’ultimo mese sarebbe passata in sordina?

Che i residenti del campo profughi di Shoafat, maltrattati ogni giorno e ogni notte da poliziotti e agenti della polizia di frontiera che invadono le loro case in pretestuose operazioni, dalle incursioni fiscali agli arresti notturni, distruggendo i loro beni e la loro dignità, facciano piovere riso sui loro aguzzini? Che qualcuno il cui nonno è stato assassinato da un colono e il cui amico di 17 anni è stato ucciso la scorsa settimana dalla polizia di frontiera non fosse incentivato a commettere un attacco?

E cosa stavano pensando i comandanti della folle operazione di giovedì nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo dell’operazione, a parte una dimostrazione di potere? Sopprimere il terrorismo? Ha solo alimentato le fiamme.

Sapevano che se avessero fatto irruzione nel centro del campo ne sarebbe derivato un grande spargimento di sangue. Le forze di difesa israeliane e l’unità speciale antiterrorismo della polizia non possono più invadere questo coraggioso e determinato campo profughi senza versare molto sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno di Israele” sarebbe stato sventato dall’operazione, come ha proclamato venerdì la voce dell’IDF nota anche come Yedioth Ahronoth. Hanno invaso il campo la mattina, mentre i bambini stavano andando a scuola – fortunatamente, almeno le scuole dell’UNRWA quel giorno erano in sciopero – solo perché potevano farlo.

“Se il Maggior General Yehuda Fuchs, capo del comando centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato, avrebbe potuto non approvarlo”, ha detto il giornalista Alon Ben-David a Channel 13 News. E qual’ era l’opinione generale, che ci fosse un’altra opzione? In fin dei conti tutti sapevano che l’operazione Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro, ho scritto qui dopo la mia visita circa tre settimane fa (Haaretz.com, 12 gennaio), e nessun massacro nel campo potrebbe passare inosservato.

I capi militari possono aver pensato di sventare attacchi terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attacchi e lo sapevano. Ne consegue, quindi, che non solo il sangue dei morti a Jenin, ma anche a Gerusalemme, indirettamente, è sulle mani di coloro che hanno effettuato l’operazione nel campo di Jenin.

Ancora una volta, Israele è quello che ha iniziato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di eventi. Oggi nel campo profughi di Jenin ci sono dozzine di giovani uomini armati disposti a sacrificare la propria vita. Uccidere alcuni di loro non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo può essere oggi paragonato solo a quello nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è sorta nei vicoli i cui abitanti sono cresciuti sapendo che la patria gli era stata tolta e che sono condannati a una vita di miseria. La tortura in corso sotto forma di uccisioni quasi quotidiane negli ultimi mesi in Cisgiordania doveva anche portare a Neve Yaakov [colonia israeliana a Gerusalemme est presso la cui Sinagoga è avvenuto l’attacco in risposta ai fatti di Jenin, ndt] e a Silwan [uno dei quartieri più popolati di Gerusalemme Est, ndt] .

Il fatto schiacciante che entrambi gli attacchi sono avvenuti negli insediamenti non può essere ignorato. Non c’è differenza tra Neve Yaakov e la Città di Davide, tra Esh Kodesh e Havat Lucifer [altre colonie israeliane, ndt]. Sono tutti nei territori occupati, tutti ugualmente illegali secondo il diritto internazionale, anche se Israele ha inventato un proprio mondo di concetti.

Anche ciò che verrà dopo è nelle mani di Israele. È dubbio che una terza intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà olio sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva non farà che aggravare la situazione, anche se soddisfa la sete di vendetta della destra.

Arrestare 42 membri della famiglia? A che fine, se non per soddisfare questa sete?

Radere al suolo la casa del colpevole? Dopotutto, la precedente demolizione a Shoafat, che comprendeva l’invasione del campo da parte di non meno di 300 poliziotti, grandi distruzioni e l’uccisione di un ragazzo innocente di 17 anni, ha solo spinto il residente del campo Khairi Alkam a prendere la pistola venerdì sera ed uscire per uccidere gli ebrei a Neveh Yaakov, lasciando Israele scioccato solo per la crudeltà dei palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Netanyahu incassa una crisi politica – e un messaggio personale – dall’Alta Corte

Gidi Weitz

19 gennaio 2023, Haaretz 

 

Ribadendo che non si dimetterà dal suo ministero, Arye Dery ha lanciato la bomba al primo ministro

Arye Dery aveva effettivamente previsto il voto in anticipo – 10 a 1. Aveva giustamente previsto che 10 degli 11 giudici nell’udienza degli appelli contro la sua nomina avrebbero ordinato a Benjamin Netanyahu di licenziarlo, e che il giudice Yosef Elron sarebbe rimasto una minoranza contraria.

Per questo, nei giorni precedenti la pubblicazione del verdetto, alti esponenti di Shas [partito politico di ebrei ortodossi di cui Dery è membro, ndt.] hanno lanciato minacce esplicite rivolte anche a Netanyahu: se Dery non sarà ministro, non ci sarà governo.

Il Primo Ministro e il suo alleato capiscono bene di trovarsi ora in una situazione giuridica e politica molto complessa. Per loro il verdetto è un ostacolo quasi insormontabile. O come ha detto un anziano consulente giuridico, “li hanno chiusi da ogni parte e hanno gettato la chiave in un pozzo”.

Quanti sono vicini al Procuratore Generale Gali Baharav-Miara credono che una volta rimosso Dery dal tavolo di governo nessun trucco costituzionale, per quanto creativo, ce lo riporterà.

I giudici hanno addotto due motivi principali per squalificare Dery: il primo è la ripetuta condanna di Dery per violazioni fiscali; il secondo è la sua falsa dichiarazione quando ha affermato che intendeva dimettersi dal potere per sempre, il che aveva portato il Presidente della Corte di Gerusalemme, il magistrato Shmuel Herbst, ad approvare un patteggiamento indulgente. “Non solo queste due cause non si escludono, si sostengono a vicenda”, ha scritto il giudice Ofer Grosskopf.

La menzogna è stata la causa su cui si sono basati i giudici conservatori che Ayelet Shaked [Ministro degli Interni nel precedente governo, ndt.] aveva nominato, e che anche Yariv Levin [già Ministro della Giustizia e portavoce del Parlamento, ndt.] ha giudicato plausibile. Pertanto, anche l’idea strampalata di abrogare la clausola di ragionevolezza [principio costituzionale che sanziona le incoerenze del sistema di governo, ndt.] non libererà Dery dall’avviso di sfratto che gli è stato notificato.

In effetti, anche il giudice Elron non ha detto che la nomina fosse accettabile, ha invece affermato che Netanyahu debba rivolgersi al presidente del Comitato Elettorale Centrale, il giudice Noam Sohlberg, per determinare se Dery è marchiato da condotta immorale.

Quando è stato raggiunto l’accordo, alcuni politici vicini a Dery lo hanno supplicato di non sfidare nuovamente il destino, di rinunciare al seggio in Parlamento e al governo e di mantenere la sua posizione di figura di potere in Shas e attore chiave nella politica israeliana. “Gestisci il partito e i ministri dal tuo ufficio privato, e intanto fai la tua vita”, gli dissero. Dery ha scelto di ignorare il consiglio che avrebbe risparmiato a lui e a Netanyahu l’attuale crisi. Voleva stare vicino al potere, ai bilanci, alle nomine, alle buste sigillate, agli incontri con i vertici delle agenzie di sicurezza, alle decisioni incendiarie e drammatiche.

Nei prossimi giorni i membri del governo e i loro lacchè nei media grideranno probabilmente che l’Alta Corte ha preso una decisione politica e che i giudici cercano di rovesciare il governo per ostacolare il suo piano di indebolire la Corte. È un tuffo nel passato: nel settembre 1993 Dery fu costretto a rinunciare alla carica di Ministro degli Interni nel governo di Yitzhak Rabin. Due collegi della Corte Suprema, guidati dal presidente della Corte Meir Shamgar e dal vicepresidente Aharon Barak, avevano stabilito che il primo ministro dovesse licenziare Dery e il viceministro nominato dallo Shas Rafael Pinhasi a causa delle accuse contro di loro.

Il governo deve fungere anche da regolatore delle norme di condotta del gabinetto e agire in modo da generare fiducia”, aveva stabilito Shamgar nel verdetto, e Barak aggiunto: “Ragionevolezza non è un termine fisico o metafisico. La ragionevolezza non è uno stato d’animo. Ragionevolezza è un termine normativo”. Il verdetto di Esther Hayut di mercoledì fa eco alle parole del suo predecessore 30 anni fa.

[Allora,] Dery scelse di risparmiarsi la scena umiliante del licenziamento. “Lo Stato di diritto è un valore fondamentale”, scrisse nella sua lettera di dimissioni, “ma quando un giudice, perfino in uno stato di diritto, si apre la strada con un rullo compressore di potere e malvagità, si può dire che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente”.

Rabin si infuriò per il verdetto. Haim Ramon ha detto che quando ne fu informato, il Primo Ministro parlò del vicepresidente del tribunale con parole inadatte alla stampa. Non era solo il vecchio scontro tra i due, aperto [nel 1977] quando l’allora procuratore generale Barak decise di incriminare Leah Rabin per il suo conto bancario all’estero, costringendo l’allora Primo Ministro Rabin a dimettersi ponendo fine al suo primo mandato da premier.

Nel 1993 Rabin si trovava a un bivio storico e aveva un disperato bisogno del sostegno politico di Shas. Appena cinque giorni dopo la pronuncia del verdetto, Rabin e Yasser Arafat firmavano una dichiarazione di principi tra Israele e l’OLP sul prato della Casa Bianca. Il giorno successivo, Shas abbandonò il governo.

Rabin riteneva il verdetto Dery-Pinhasi una sentenza infondata e purista che poteva ostacolare qualsiasi decisiva azione diplomatica, ma non come una licenza per cambiare il regime in base alle proprie esigenze. Né lo stesso Dery la pensava così. Un ministro dichiarò che era inaccettabile che l’Alta Corte si sostituisse al Parlamento e al governo, e l’avvocato difensore del leader dello Shas Dan Avi-Yitzhak ipotizzò che la sentenza avrebbe portato a una riduzione dei poteri dell’Alta Corte, ma in pratica non è cambiato nulla. L’allora leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, tra l’altro, chiese al Likud [allora all’opposizione, ntd.] di non festeggiare il duro colpo al governo per non offendere Shas. Netanyahu è sempre stato lungimirante.

Questa settimana Dery ha dichiarato che non si sarebbe dimesso volontariamente. Così facendo, ha rilanciato la bomba al Primo Ministro, che mercoledì si è affrettato ad annunciare che si sarebbe mosso per correggere l’ingiustizia fatta al suo alleato.

Alcuni intorno a Netanyahu hanno esaminato la possibilità di chiedere un voto di sfiducia costruttivo e costituire un nuovo governo in cui Dery sarebbe Primo Ministro in alternanza. È molto difficile credere che questo trucco supererà il test Baharav-Miara e l’Alta Corte, soprattutto alla luce del verdetto di mercoledì. E nonostante lo scenario stravagante, questa non è certamente l’opzione preferita del sospettoso Netanyahu, che non ha mai nominato un proprio sostituto se non quando le circostanze gli hanno imposto Benny Gantz.

“Se c’è qualcosa che gli toglie il sonno è la possibilità che Baharav-Miara lo porti all’impeachment perché sta calpestando l’accordo sul conflitto di interessi”, ha detto ad Haaretz un uomo molto vicino a Netanyahu, che aggiunge: “Rabbrividisce all’idea di avere un sostituto già pronto, anche se si chiamasse Arye Dery”.

Rivoluzione di regime

In concomitanza con gli sforzi per risolvere lo scontro su Dery, la coalizione dovrebbe accelerare l’avanzamento della rivoluzione di regime [una serie di cambiamenti nell’assetto dello Stato, ndt.] che sta effettuando. Non sembra un caso che anche in questa sentenza i giudici si siano lasciati uno spiraglio per intervenire in casi estremi sulle Leggi Fondamentali.

A una delle persone coinvolte nella formulazione della “riforma” questa settimana è stato chiesto cosa potrebbe accadere se l’Alta Corte avesse abrogato il pacchetto legislativo promosso da Netanyahu, dal Ministro della Giustizia Yariv Levin e dal Presidente della commissione per la costituzione del Parlamento Simcha Rothman, e avesse stabilito che le proposte si scontrano frontalmente con le fondamenta del sistema democratico. “Anche contro questa eventualità c’è un improvvisato meccanismo esplosivo “, ha risposto. “Una legislazione rapida per ridurre l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema”, ovvero l’impeachment immediato di diversi giudici, consentendo la nomina di sostituti fedeli al governo.

Questo blitz è tutto finalizzato a uno scopo: districare Netanyahu dal suo processo. I casi di corruzione contro il Primo Ministro possono anche non essere menzionati nel verdetto di Dery, ma vi aleggiano sopra. Non sembra un caso che alcuni giudici abbiano scritto, in un modo o nell’altro, che “il verdetto dell’elettore non sostituisce il verdetto del tribunale, né può sostituirlo”. Questo è un messaggio per Netanyahu: anche se i suoi elettori credono che le accuse siano truccate, non possono sostituirsi ai giudici attraverso il voto e la fiducia riposta nel Primo Ministro dal pubblico votante non gli consente di usare il suo potere di governo per sfuggire alla giustizia .

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Calore umano e coraggio nel campo profughi di Jenin

Gideon Levy

12 gennaio 2023, Haaretz

Nel campo profughi di Jenin ho visto tante cose belle. Non libri di poesie di Rachel o di Natan Alterman, come il narrante di una canzone di Naomi Shemer diceva di aver trovato negli avamposti dell’esercito israeliano nel Sinai, ma un accampamento coraggioso, determinato, ben organizzato e intriso di uno spirito combattivo forse senza uguali nella storia.

Sono passati quattro anni dalla mia ultima visita. Da un anno le forze di difesa israeliane non osano invadere il campo ma solo la sua periferia. Per anni l’Autorità Nazionale Palestinese non è stata in grado di entrarvi. Né nessun giornalista israeliano, a parte Amira Hass, lo ha visitato o vi è stato accolto dopo tutte le delusioni che i giornalisti israeliani hanno inflitto ai residenti del campo.

Ma questa settimana ci sono tornato con il fotografo Alex Levac. È stata una visita molto emozionante, intima, commovente ma anche istruttiva.

Nella città di Jenin solo nell’ultimo anno sono stati uccisi 60 abitanti. Di questi, 38 erano residenti nel campo, il luogo più simile alla Striscia di Gaza sia nello spirito che nella sofferenza; si ritrova nel campo di Jenin lo stesso calore umano e lo stesso coraggio.

Una terza sezione del cimitero dei martiri è già piena e se ne deve trovare un’altra per le vittime a venire. Se le forze di difesa israeliane invaderanno il campo, dicono qui, ci sarà un massacro. Lo dicono senza ombra di paura o di vanto.

Dalla mia ultima visita il proprietario del negozio di hummus all’ingresso del campo ha subito un intervento chirurgico di bypass. La moglie di un alto funzionario di Hamas nel campo, che è imprigionato in Israele, ha perso la vista. Vicino al campo è stato aperto un moderno ospedale e Jamal Zubeidi, il più coraggioso e nobile di tutti, nell’ultimo anno ha perso sia suo figlio Naeem che suo genero Daoud. Daoud era fratello e nipote di Zakaria Zubeidi [leader rivoluzionario e artista fuggito nel 2021 dalla prigione israeliana e in seguito ricatturato – non è mai stato processato per il suo arresto originale del 2019, ma gli è stata inflitta un’ulteriore condanna a cinque anni per la fuga, ndt.]

Abbiamo visitato il campo nel 40° giorno di lutto per Naeem. Jamal sedeva da solo in una stanza e riceveva gli ospiti, proprio nel luogo in cui l’esercito israeliano gli ha già demolito due volte la casa, circondato da foto e manifesti dei sei membri della sua famiglia uccisi. Anche una delegazione della setta ebraica Neturei Karta in visita a Jenin si era recata qui per porgere le proprie condoglianze, ma uomini armati del campo li hanno fatti scappare a colpi di arma da fuoco.

Il figlio più giovane di Jamal, Hamoudi, che avevamo incontrato la prima volta quand’era un bambino birichino, è ora l’uomo del campo più ricercato da Israele; è membro della Jihad islamica. I figli degli uomini che avevano combattuto per il laico Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ora combattono per la Jihad Islamica, l’organizzazione più potente del campo. E questa è in breve tutta la storia.

Gli uomini armati hanno sui loro cellulari un numero segreto che chiamano ogni volta che qualcuno vede le forze dell’esercito israeliano avvicinarsi alla città o al campo profughi. Quel numero di telefono fa suonare automaticamente un allarme in tutto il campo. Di solito succede di notte. L’intero campo viene svegliato e decine di uomini armati lasciano le loro case e si dirigono rapidamente verso gli ingressi del campo e della città. È così che sono stati uccisi 38 residenti del campo.

Le distinzioni tra le diverse organizzazioni militanti sono qui sfumate; collaborano tra loro più di quanto non facciano in qualsiasi altra parte della Cisgiordania o a Gaza. Reti mimetiche coprono alcuni vicoli per impedire ai droni dell’esercito israeliano di monitorare ciò che sta accadendo.

Un giovane tira fuori una fotografia aerea del campo che molto probabilmente è stata abbandonata in città dai soldati, anche se secondo la leggenda locale è stata rubata dalla tasca di un soldato. La foto è stata scattata durante la Coppa del Mondo e l’esercito israeliano ha etichettato alcuni dei vicoli del campo con i nomi dei paesi in competizione: vicolo Portogallo, vicolo Francia e vicolo Brasile.

Una casa nella foto è etichettata come habira; i giovani pensavano che si riferisse alla casa di un “amico” (“haver” in ebraico, che deriva dalla stessa radice ebraica) – in altre parole, un collaboratore.

L’auto più popolare nel campo è il SUV ibrido C-HR Toyota. Ne abbiamo visti diversi correre per i vicoli. Sono stati rubati a Israele quasi nuovi di zecca. Dopo tutto ciò che Israele ha rubato ai palestinesi, da ciò che resta delle loro terre a ciò che resta della loro dignità, c’è una giustizia poetica in queste Toyota rubate di cui i giovani sono così orgogliosi.

Non c’è qui una casa che non abbia subito un lutto, una famiglia che non abbia avuto un familiare reso permanentemente disabile o imprigionato. All’ingresso del campo, i giovani hanno eretto barricate di ferro brunito “come in Ucraina”. Non è ancora l’Ucraina, ma il campo profughi di Jenin potrebbe diventare un giorno, forse molto presto, una nuova versione della città ucraina di Bucha. Nessun israeliano dovrebbe rallegrarsene.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La legge israeliana pensata per escludere gli arabi da certe comunità adesso è usata contro gli ebrei

Meirav Arlosoroff

7 gennaio 2023 – Haaretz

Potrebbe sembrare che il nuovo governo stia espandendo il numero di comitati di ammissione in piccole comunità per escludere gli arabi. In realtà si vuole evitare che altri ebrei competano con i locali per terreni a basso costo

Nell’ultimo rapporto biennale pubblicato due mesi fa dall’Ufficio Centrale di Statistica in Israele solo cinque autorità locali si collocano nel Gruppo 10, più alto dal punto di vista socio-economico. Omer, un consiglio comunale con una popolazione di 8.000 abitanti situato appena a nord di Be’er Sheva, è uno di questi cinque posti privilegiati. 

Pini Badash è stato sindaco di Omer per 32 anni ed è certamente un amministratore esperto e di successo. La scorsa settimana, in un’intervista a Makor Rishon [giornale di destra e vicino al movimento dei coloni, N.d.T.], ha detto: “Adesso c’è una nuova area destinata all’edilizia residenziale a Omer e ho deciso di destinarne una parte al personale di carriera dell’esercito che opera nella zona e un’altra parte ad abitanti che vivono già a Omer. Sono stati immessi sul mercato libero sei lotti [per una casa], ma se un beduino ne comprasse uno, io bloccherò la vendita.” 

Badash ha continuato dicendo che “ci sono cittadini israeliani qui, nostri vicini, con carte di identità come le nostre che, alla resa dei conti e in un momento di crisi, sono il nemico. Io ero a una riunione sulla sicurezza con un militare che ha descritto così la situazione: ‘Immagina di costruire una casa, una casa magnifica, di installarci videocamere e una recinzione, così nessuno può entrarci. Ma cosa succede? Le termiti della casa hanno divorato te.’ Questa è la nostra situazione. C’è un esercito forte, ci sono i servizi segreti, ma alla fine siamo annientati dall’interno.” 

The Marker [quotidiano economico in ebraico pubblicato in Israele dal gruppo Haaretz, N.d.T.] ha chiesto a Badash se volesse scusarsi per aver paragonato i beduini alle termiti e di ritrattare la sua dichiarazione in cui dice che intende impedire ai cittadini beduini di comprare terreni a Omer. Badash ha rifiutato di commentare.

Badash ha un problema. Ai sensi della legislazione attuale è vietato negare a chiunque il diritto di acquistare una casa nella comunità che governa o persino di mostrare preferenze sulla vendita di una casa a una persona più che a un’altra, eccetto in casi in cui si applichi una di queste due condizioni. 

La prima condizione è che l’acquirente sia un “nativo.” In altre parole, è una preferenza che consente ai membri della seconda generazione di vivere vicino ai propri genitori, sebbene anche questa sia parziale. Questa eccezione si applica ad alcuni, ma non a tutti i lotti che sono sul mercato a Omer e certamente non impedisce ai beduini di acquistare case per sé. La seconda condizione si applica solo a piccole comunità fino a un massimo di 400 famiglie che vogliono mantenere la propria individualità tramite i comitati di ammissione. 

Queste due eccezioni sono più o meno simili e sono intese a garantire che solo io e quelli come me hanno il diritto di vivere in certe zone. In pratica mi danno il diritto di discriminare gli altri unicamente perché non mi assomigliano. 

Ci sono molti “altri” che non riusciranno a superare gli ostacoli dei comitati di ammissione: mizrahi [ebrei originari di Paesi arabi o musulmani che vivono in Israele, N.d.T.] in una comunità ashkenazita [ebrei di origine europea, N.d.T.], persone religiosamente osservanti in un ambiente laico, laici in un contesto osservante, comunità che accettano solo vegani e, ovviamente, arabi. Del resto i comitati di ammissione sono sorti come risposta alla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia nel 1995 sul caso Kaadan, quando la causa relativa a una famiglia araba di Baka al-Garbiyeh che aveva cercato di comprare una casa nella vicina comunità di Katzir e si era vista opporre un rifiuto si rivolse alla Corte Suprema che giudicò illegale la discriminazione. In seguito si trovò un modo per aggirare quella sentenza tramite la legge dei Comitati di Ammissione del 2011: la concessione a piccole comunità del diritto di esaminare le persone che vogliano trasferirvisi. 

Non è un caso che gli accordi della coalizione firmati dal Likud con Sionismo Religioso e Otzma Yehudit [entrambi partiti di estrema destra, N.d.T.], lo scellerato trio Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu, riguardino i comitati di ammissione. I due accordi con i due partner di coalizione includono una clausola che autorizza le comunità fino a 1000 famiglie (due volte e mezza il limite precedente di 400) a creare tali comitati. Il diritto di selezionare i candidati e limitare l’ammissione delle famiglie sta quindi per essere applicato come minimo a decine di altre comunità, colonie incluse. 

E come se questo non fosse abbastanza, l’accordo di coalizione Likud-Sionismo Religioso contiene anche un’altra clausola speciale che permette di insediare un comitato di ammissione in una cittadina che conti fino a 2000 famiglie, in questo caso Kasif, la città progettata nel Negev per gli haredi [ebrei ortodossi ed ultra-ortodossi, N.d.T.]. La clausola è pensata per garantire che tutte le prime 2000 famiglie di Kasif siano ebree (e fra loro neppure una beduina), come parte del fine dichiarato che Kasif, che si intende far sorgere nel cuore della zona in cui vivono i beduini e che alla fine offrirà una soluzione abitativa per 25.000 famiglie, sia una città esclusivamente ebraica. 

Comunque concentrarsi sull’odio contro gli arabi e sul desiderio di impedire loro di comprare case in insediamenti ebraici, un obiettivo che Badash ammette apertamente, fa perdere di vista il punto principale. Gli arabi raramente acquistano case in comunità ebraiche. Badash ammette che anche a Omer non ci sono che poche famiglie beduine benestanti. (“Al momento ci sono 25 famiglie beduine che vivono qui: giudici, medici, ingegneri e due ‘collaboratori’ [membri delle forze di sicurezza palestinesi] stipendiati dallo stato.”) 

Gli arabi preferiscono stare vicini alle proprie comunità anche solo per poter mandare i figli alle scuole arabe. Inoltre giustamente non vogliono vivere dove non sono graditi. Al contrario quelli che vogliono abitare in queste comunità ebraiche sono altri ebrei, meno abbienti di quelli che ambiscono alla qualità di vita dei quartieri residenziali. Il vero motivo dei comitati di ammissione è quello di tenere a debita distanza questi ebrei. 

Preservare i privilegi economici

A causa dei seri danni che possono causare, al momento la legge autorizza i comitati di ammissione solo in zone rurali di aree periferiche. Inevitabilmente finiscono per creare comunità omogenee, in cui solo io e quelli come me possono vivere, offrendo di fatto un permesso per discriminare. Costituiscono un grave colpo alla possibilità di alleviare la crisi degli alloggi, rendendo impossibile rimpolpare tali comunità (la maggioranza bloccata a 400 famiglie) e continuare a crescere. Hanno anche un basso tasso di utilizzo, dato che fungono da licenza per alcuni di arricchirsi a spese dei terreni demaniali.

L’ultimo punto è il più importante. I comitati di ammissione, come i diritti della “seconda generazione” o di un “nativo,” sono strumenti per arricchirsi. In fin dei conti sono formati da privati cittadini incaricati di distribuire le terre nelle loro comunità e di decidere chi, e se, le comprerà. È la loro occasione per speculare sul prezzo dei terreni nella comunità e anche un segnale di via libera a corruzione e abusi. 

Inoltre questo è uno stratagemma inteso a garantire che l’assegnazione dei lotti nella comunità sia esente da gare pubbliche aperte a tutti: verrà invece fatta una scelta personale tra chi avrà diritto alle proprietà e chi no. In tal modo si raggiungeranno due obiettivi fondamentali. Il primo è che saranno i compari dei membri del comitato che acquisteranno i lotti nella comunità (in pratica è anche possibile fare in modo che l’assegnazione agli abitanti locali ecceda il tetto stabilito per legge). Il secondo, il loro prezzo sarà inferiore in assenza della concorrenza per l’acquisto dei lotti. Così i membri della famiglia potranno acquistare case nella comunità a prezzi convenienti. 

Analogamente questo spiega perché è importante per Otzma Yehudit e Sionismo Religioso estendere il fenomeno dei comitati di ammissione anche alle colonie. Non perché i palestinesi cercheranno di comprare terreni nelle colonie, non lo faranno, ma perché i figli dei coloni potranno comprare lotti a prezzi bassi. Quindi, sia i coloni che molte decine di comunità che contino fino a 1000 famiglie, che non avranno più il loro status precedente, condizioneranno il costo dei terreni per ottenere per i propri figli un prezzo conveniente. 

Nonostante le urla e lo strepito di Badash, 25 famiglie beduine benestanti e istruite che possono permettersi i costi delle case a Omer non distruggeranno il carattere agiato della prestigiosa comunità. Badash, e come lui le piccole comunità facoltose del Consiglio Regionale di Misgav, a nord, che si sono aggregate ai kibbutz della Galilea, e il forum di estrema destra che sostiene le colonie ebraiche al grido di “salviamo la Galilea”, vogliono proteggere i loro privilegi economici. Vogliono creare una situazione in cui solo loro e i loro colleghi e amici avranno l’opportunità di acquistare proprietà nelle loro comunità e se è necessario usare razzismo e odio contro gli arabi per raggiungere l’obiettivo – allora tutto è lecito.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ahmed Mahajana, “il dottore di tutti”

Barry Danino

Haaretz 11 dicembre 2022

Ho parlato la prima volta all’inizio di dicembre con Ahmed Mahajana, da quattro anni interno in chirurgia cardiotoracica presso l’ospedale universitario Hadassah di Gerusalemme ad Ein Karem, che è stato sospeso a metà novembre. L’ho chiamato per dimostrargli il mio sostegno e per dirgli che molti medici israeliani veterani e personale paramedico, sia ebrei che arabi, sono dalla sua parte. Non mi aspettavo delle scuse da Btsalmo [gruppo di destra che sbeffeggia l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem, ndt.]. L’organizzazione di di destra ha ritirato la sua richiesta di licenziare Mahajana, ma ora chiede che il medico renda pubblica (quando sarà reintegrato) una dichiarazione di condanna per ogni terrorismo e attacco a persone innocenti. Il mio lavoro in ospedale non prevede tale disposizione.

Il caso di Mahajana sarà negoziato tra l’ospedale Hadassah e l’Associazione medica israeliana, intervenuta in sua difesa, davanti al giudice in pensione Hila Gerstel. Nel frattempo, nonostante tutto quello che è venuto alla luce negli ultimi giorni, dovrà rimanere a casa.

Mi è chiaro che nell’atmosfera attuale in Israele è sufficiente per qualsiasi ebreo, figuriamoci un agente di polizia, “avere un brutto presentimento nei confronti” di un arabo, che la situazione vada fuori controllo. Quello che non mi è chiaro è perché Mahajana non abbia prima d’ora ricevuto un chiaro sostegno da tutti noi, suoi colleghi medici. Non un appoggio tacito, a porte chiuse, nelle telefonate o nei moltissimi post sui social media, ma un messaggio forte e chiaro che dica “Basta”, firmato dalle persone con nome completo. Com’è possibile che in un’organizzazione che si vanta di essere egualitaria, “un’isola di sanità mentale”, un medico possa essere falsamente accusato e sospeso solo perché è arabo? Come è possibile che il Ministro della Salute, esponente del partito di sinistra Meretz, sia rimasto in silenzio?

La scorsa settimana ho invitato Mahajana a una riunione del personale medico e infermieristico, inclusi medici anziani, amministratori e infermieri, ebrei e palestinesi, per dimostrargli sostegno. Non tutti quelli che ho contattato avevano sentito parlare della questione, e non tutti quelli che ne avevano sentito parlare volevano venire. Molti avevano delle riserve: “Perché dovrei farlo, poi la gente dirà che ho incontrato un sostenitore del terrorismo”, “Potrebbe influenzare il mio studio medico privato”, “Non voglio finire nei guai” – sono le spiegazioni che ho sentito. Mahajana ha raccontato a coloro che erano presenti cosa era successo quell’orribile pomeriggio a lui – a un eccellente medico che lavora giorno e notte e all’improvviso deve sottoporsi a un’udienza umiliante per poi essere licenziato dal suo incarico e persino sottoposto al test della macchina della verità.

Mahajana aveva già raccontato la sua storia ad Haaretz, ma quando la senti raccontata di persona non si può rimanere indifferenti. Il giorno in cui è stata pubblicata la notizia diffamatoria secondo cui “si è fatto un selfie con un terrorista e gli ha dato un dolce” è stato, ha detto, il peggiore della sua vita, e da allora ha ricevuto un numero di telefonate anonime minacciose. Sebbene non sia “amato da tutti”, è “il medico di tutti”. Laureato all’Università di Tel Aviv, ha superato con lode il primo esame di specialità medica (Fase 1), stava finendo la specializzazione all’Hadassah e ha tutte le carte in regola per comparire nella lista dei medici più richiesti del prossimo decennio. Il sistema medico israeliano sa vantarsi del successo di medici arabi come lui, quando vuole.

Il Ministero della Sanità è stato il primo ministero del governo a “raccogliere il guanto di sfida” dopo la pubblicazione del rapporto Palmor (emanato da un comitato interministeriale per la lotta al razzismo, risultato della protesta della comunità ebraica etiope). Circa quattro anni fa il Ministero ha pubblicato le raccomandazioni del comitato che coordina i temi del razzismo, della discriminazione e dell’esclusione nel sistema sanitario. All’inizio della relazione, il prof. Itamar Grotto, all’epoca vicedirettore generale del dicastero, scriveva:

“Quando sono stato nominato presidente del comitato, il mio primo pensiero è stato: ‘Razzismo? Nel sistema sanitario?’ … Nel corso dei lavori del comitato, ho ascoltato testimonianze, discussioni e visto documenti che segnalavano situazioni in cui esistono discriminazione, esclusione e razzismo nel sistema sanitario. Per convincermi che questi fenomeni esistono davvero ho anche intrapreso un percorso personale, e alla fine ho raggiunto la consapevolezza che azioni o decisioni che avevo preso in passato potevano essere percepite ed essere intese come discriminatorie o addirittura razziste.”

Il caso di Mahajana dimostra che anche se noi, personale medico, siamo certi che tra i “camici bianchi” non ci siano discriminazione e razzismo, eppure ci sono. Il sospetto intrinseco nei confronti del personale arabo non è iniziato e non finisce in ospedale. Oggi è Mahajana e domani sarà qualcun altro il cui arabo suonerà minaccioso per qualcuno. Fino a quando il processo di negoziazione non sarà completato e Hadassah non si scuserà sinceramente per l’ingiustizia commessa, il personale medico di tutto il paese deve sostenerlo e gridare contro l’abominevole ingiustizia – non solo per il suo bene, ma soprattutto per il nostro bene e per il bene dei nostri pazienti.

Il dottor Barry Danino è medico senior presso il Centro Medico Sourasky di Tel Aviv (Ospedale Ichilov).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’accordo tra le polizie di UE e Israele potrebbe essere modificato dopo che sono state sollevate obiezioni riguardo alla condivisione di dati sulla Cisgiordania

Jonathan Shamir

5 dicembre 2022 – Haaretz

Preoccupazioni relative al fatto che i dati dell’Europol possano essere utilizzati in Cisgiordania hanno suggerito alla Commissione Europea di tornare al tavolo negoziale, ma questa volta avrà a che fare con il governo israeliano entrante, di estrema destra

Un accordo di collaborazione che ha richiesto cinque anni di negoziati tra le forze di sicurezza dell’Unione Europea e quelle israeliane ha subito una battuta d’arresto lunedì, quando la Commissione Europea ha annunciato che dovrà riprendere i negoziati per precisare l’inapplicabilità dell’accordo nei territori [palestinesi] occupati. Ciò potrebbe mettere la commissione in contrasto con i partiti di estrema destra del governo israeliano entrante.

Nel 2018 Israele firmò un accordo operativo con Europol per contrastare il crimine transfrontaliero. Un’estensione di questo accordo, raggiunto in settembre, ma non ancora firmato o ratificato, consentirebbe di scambiare informazioni personali, compresi dati biometrici su razza, etnia, fede religiosa e politica e persino orientamento sessuale, per combattere “gravi delitti e terrorismo”,

Ma, mentre il precedente e più ridotto accordo di collaborazione tra Israele ed Europol non limitava esplicitamente la sua applicazione ai confini di Israele prima del 1967 [cioè escludeva i territori palestinesi occupati dopo la guerra del ‘67, ndt.], la bozza di accordo più recente vieta di estendere la condivisione di dati ai territori occupati da Israele.

Nel contempo prevede quelle che una fonte europea ha descritto come eccezioni “senza precedenti”. Esse includono “la prevenzione di un reato penale nel caso di un’imminente minaccia alla vita,” o, con il consenso europeo, quando “necessaria per la prevenzione, l’indagine, la detenzione o il perseguimento di reati penali.”

Ma mentre l’accordo operativo precedente e più limitato tra Israele ed Europol non limitava esplicitamente la sua applicazione ai confini di Israele prima del 1967, la bozza di accordo più recente vieta di estendere la condivisione dei dati ai territori occupati da Israele.

Il rappresentante israeliano presso l’UE Haim Regev aveva già salutato l’accordo di settembre come una “pietra miliare”, ma un parere giuridico del Servizio Legale del Consiglio Europeo e la crescente opposizione da parte di Stati membri rendono sempre più improbabile che si concretizzi.

Il parere legale chiede di eliminare le eccezioni in quanto non rispettano la politica dell’Unione Europea che dal 2012 “specifica inequivocabilmente ed esplicitamente l’inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967.”

Secondo l’eurodeputato svedese Evin Incir, almeno 13 su 27 Stati membri “hanno reagito duramente” all’uso di questi dati nei territori palestinesi occupati.

Pur riconoscendo che, nella complessa situazione sul terreno, “dati e informazioni non sono vincolati territorialmente”, Rob Rozenburg, capo della Cooperazione nell’Applicazione della Legge nella Commissione Europea, ha detto al Comitato per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari Interni che “varie delegazioni sono preoccupate riguardo… alla clausola territoriale e alle eccezioni che sono state proposte.”

Rozenburg ha aggiunto che è stata inviata una lettera all’ambasciatore israeliano presso la UE per avviare una quinta tornata di negoziati, ma il nuovo governo di estrema destra potrebbe dimostrarsi meno collaborativo dei suoi predecessori.

A essere incaricato di supervisionare l’applicazione di questo accordo sarà Itamar Ben-Gvir, nominato ministro della Sicurezza Nazionale. Esponente dell’estrema destra portato al potere da una base elettorale favorevole ai coloni, difficilmente arriverà a un compromesso sull’argomento.

A seconda delle tendenze del suo governo Israele ha opposto differenti livelli di resistenza alla politica di differenziazione dell’Unione Europea. A causa della stessa “clausola territoriale” che impedisce di estendere il progetto alle istituzioni israeliane in Cisgiordania, a settembre Naftali Bennett [ex-primo ministro ed esponente dell’estrema destra dei coloni, ndt.] ha posto il veto all’ingresso di Israele in Creative Europe, un programma di collaborazione culturale con l’Unione Europea.

Con una mossa inconsueta, un protocollo d’intesa tra Unione Europea, Israele ed Egitto sul gas naturale firmato nel giugno 2022 ha omesso di citare tale clausola territoriale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Zona militare chiusa agli attivisti di sinistra

Editoriale di Haaretz

4 dicembre 2022 – Haaretz

Venerdì circa 300 persone si sono recate a Hebron per un tour organizzato da 30 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndt.], l’Associazione per i diritti civili in Israele, Peace Now [organizzazione sionista di sinistra contraria all’occupazione, ndt.] e B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sulla scia di diversi recenti episodi di violenza contro palestinesi e attivisti di sinistra in città. Ma le persone che hanno cercato di protestare contro la violenza sia nei loro confronti e dei palestinesi hanno scoperto che l’esercito aveva dichiarato Hebron zona militare chiusa.

“Sulla base della nostra valutazione della situazione, abbiamo deciso di dichiarare una zona militare chiusa in diverse parti della città di Hebron per evitare attriti in quelle aree”, hanno detto le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] “In linea con questo ordine, è stato vietato l’ingresso ai civili che non vivono in questa zona “.

La decisione dell’IDF di dichiarare Hebron zona militare chiusa al fine di impedire un tour delle organizzazioni per i diritti umani invia un messaggio politico inequivocabile: gli attivisti di sinistra sono da condannare per la violenza dei soldati contro di loro. Nel mondo capovolto dei territori occupati la fonte della violenza sono le persone che protestano contro di essa. La linea di fondo è che le IDF hanno soddisfatto la richiesta espressa sui cartelli tenuti dai contromanifestanti di Im Tirtzu [organizzazione israeliana di estrema destra, ndt.]: “Il popolo di Israele chiede che gli anarchici siano tenuti fuori da Hebron”. Hanno chiesto e ottenuto soddisfazione.

Le IDF hanno ricordato solo tardivamente che conviene prevenire “attriti” e “disturbi della quiete pubblica” limitando l’ingresso in città di non residenti. Dov’era questa idea responsabile due settimane fa, quando l’esercito ha fatto entrare a Hebron decine di migliaia di israeliani per la celebrazione annuale della porzione [parashah] di Hayei Sarah Torah [La parashah racconta le storie delle trattative di Abramo per assicurare un luogo di sepoltura alla moglie Sarah e la missione del suo servo per garantire una moglie a Isacco, figlio di Abramo e Sarah Isacco, ndt], israeliani che hanno provocato disordini, distrutto proprietà, lanciato pietre contro le case, picchiato e insultato sia abitanti palestinesi che membri delle forze di sicurezza e hanno persino ferito una soldatessa? Non solo l’esercito non ha impedito loro di entrare in città, ma ha ordinato agli abitanti palestinesi di Hebron di entrare nelle loro case e ha proibito le attività commerciali.

La scorsa settimana un soldato della Brigata Givati ha picchiato un partecipante a un tour dell’organizzazione Bnei Avraham, e un altro è stato filmato mentre diceva a un secondo membro del gruppo che “Ben-Gvir [politico di estrema destra e futuro ministro della Sicurezza Interna, ndt.] imporrà l’ordine qui” e a un terzo attivista, “ti spaccherò ala faccia”. Certo, il soldato che ha minacciato è stato mandato in cella per 10 giorni, ma poi la sua pena è stata ridotta a quattro giorni.

E a chi l’esercito ha vietato l’ingresso a Hebron? A un attivista palestinese che vive in città, Issa Amro, che ha filmato i soldati della Brigata Givati. Il giudice militare lo ha escluso dal suo stesso quartiere, Tel Rumeida, per sei giorni, dopo che un rappresentante della polizia lo ha definito un “istigatore” perché accompagna i tour degli attivisti israeliani a Hebron e ha affermato che questi “creano tensione”.

La decisione dell’IDF di escludere dalla città gli attivisti di sinistra è stata una decisione politica che mette soldati e coloni da una parte e persone di sinistra e palestinesi dall’altra. Dà slancio alla violenza contro i palestinesi e la sinistra. Se è così che si comporta l’esercito ancor prima che Benjamin Netanyahu abbia formato un governo con Itamar Ben-Gvir, l’indicazione è chiara: il peggio deve ancora venire.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale in Israele sia in ebraico che in inglese.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Quattro ore di disastro: le testimonianze su un’incursione militare a Nablus sollevano interrogativi sulla versione degli eventi dell’esercito

Amira Hass

18 novembre 2022 – Haaretz

Sono passate quattro settimane dall’incursione dell’esercito e della polizia nella Città Vecchia di Nablus che ha causato la morte di 5 palestinesi. Le prove raccolte da Haaretz mostrano una grave violazione del protocollo da parte delle forze israeliane che ha causato la morte di due civili, un attacco alle forze dell’Autorità Nazionale Palestinese e la scoperta di un presunto “nascondiglio segreto” che in realtà era ben conosciuto

Ali Antar, un uomo di 26 anni, celibe, amava le moto e lavorava come barbiere. Anche Hamdi Sharaf, 36 anni, padre di due figli, era un barbiere. Nessuno dei due era armato né collegato alla Fossa dei Leoni [gruppo di resistenza palestinese di recente formazione, ndt.], ma sono stati comunque uccisi dalle forze israeliane in due diverse località della città di Nablus, in Cisgiordania. La loro colpa è stata trovarsi per strada nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, quando una forza congiunta di esercito, polizia e Shin Bet [l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele, ndt.] ha invaso Nablus e ha circondato la Città Vecchia.

Il portavoce dell’esercito israeliano ha successivamente rilasciato una dichiarazione in cui precisava l’obiettivo principale, il 31enne Wadi al-Hawwah, ucciso durante l’operazione.

Alcuni media israeliani hanno riferito che oltre ad al-Hawwah, altri quattro palestinesi sono stati uccisi nel corso di “scambi di fuoco”. Ma secondo testimoni oculari, sia Antar che Sharaf non sono stati coinvolti in alcun scambio di fuoco incrociato, ma sono stati colpiti da cecchini israeliani.

Da allora sono passate quasi quattro settimane, ma un’incursione armata come quella lascia delle impressioni profonde sui palestinesi e quindi merita questo articolo per quanto tardivo.

Le dichiarazioni congiunte dell’esercito e della polizia con indiscrezioni “da fonti anonime” riportate poco dopo l’incursione sono state accettate in Israele come descrizione da parte del narratore onnisciente. Nel confronto fra questi primi rapporti, concisi e spogli, l’esercito prevale sempre, e chiunque cerchi un quadro più completo si trova in difficoltà: non gli resta altro da fare che raccogliere testimonianze oculari e porre domande. Inizieremo da qui.

Nascondiglio segreto’

Secondo il portavoce dell’esercito le forze israeliane hanno trovato al-Hawwah in quella che secondo lui sarebbe il suo “nascondiglio segreto”. L’appartamento in cui alloggiava appartiene alla famiglia al-Hawwah e dà sul cortile (“Hosh” in arabo) prospiciente a delle case ad arco in pietra vecchie più di un secolo. Tutti sapevano che l’appartamento apparteneva alla famiglia e alcuni sapevano che era stato recentemente ristrutturato nella speranza che Wadi si sposasse presto. Il piano sottostante l’appartamento appartiene alla famiglia Atout e funge da diwan, una stanza per le riunioni di famiglia.

Alla richiesta di informazioni il portavoce dell’esercito ha indirizzato Haaretz al suo omologo della polizia che non ha spiegato perché l’appartamento fosse stato definito un “nascondiglio segreto”. In risposta, ha affermato che gli agenti dello Yamam [antiterrorismo] insieme all’esercito e allo Shinbet e ad altri agenti della polizia di frontiera hanno agito per eliminare un’infrastruttura di terrorismo violento a Nablus. Le forze di sicurezza si sono coordinate pienamente nell’operazione e di conseguenza hanno sparato contro uomini armati che rappresentavano un pericolo per le nostre forze”.

Fabbrica di bombe

Il portavoce dell’esercito ha affermato che il “il nascondiglio segreto” fungeva da fabbrica di bombe, che “le nostre forze hanno fatto saltare in aria”. L’appartamento, come si presentava il 30 ottobre, mostrava chiari segni di un attacco dall’esterno da parte di diversi razzi Matador [munizioni anticarro, ndr.], come riportato: mobili e finestre rotti, cardini di metallo e ferro divelti, schermi di televisore e computer danneggiati e fusi, tappezzeria strappata, segni di colpi di arma da fuoco sui muri, resti di droni e drive di computer sparsi qua e là.

Ma se fossero stati fatti saltare in aria degli esplosivi molto probabilmente il danno sarebbe stato molto peggiore, anche alle spesse mura della casa, quindi all’appartamento stesso. Eppure non erano evidenti segni di incendio da materiale esplosivo fatto esplodere all’interno dell’appartamento. Nello stesso Hosh, il complesso di edifici in pietra adiacenti al punto in cui si trova l’appartamento, non c’erano evidenti segni di danneggiamento che indicassero [la presenza di] una carica esplosiva.

C’era forse un altro appartamento che fungeva da “fabbrica di materiali esplosivi” che è stato fatto saltare in aria e la sottoscritta autrice dell’articolo non ne è a conoscenza? Il portavoce della polizia è stato interpellato ma non ha risposto.

Ingresso di soldati

Secondo diversi media israeliani – ma non secondo la dichiarazione del portavoce dell’esercito – i militari israeliani sono entrati nel “nascondiglio segreto” e hanno fatto esplodere il materiale esplosivo trovato nella “fabbrica di bombe”. Secondo gli abitanti palestinesi del quartiere, i soldati e l’unità Yamam della polizia di frontiera non sono mai entrati nell’appartamento.

Un altro appartamento

Secondo i vicini i militari hanno fatto irruzione in un secondo appartamento nella Città Vecchia, in Nasser Street, a nord dell’appartamento della famiglia al-Hawwah. Un vicino ha detto che l’appartamento era disabitato. Era un ampliamento recente e meno solido rispetto ad una struttura in pietra più antica. Tuttavia, non ci sono segni evidenti di un’esplosione, quindi è altrettanto improbabile che la “fabbrica di esplosivi” si trovasse lì. I vicini hanno avuto l’impressione che l’esercito e la polizia avessero stabilito lì un loro quartier generale. Il portavoce della polizia non ha risposto alle domande.

Spari contro la polizia palestinese

Secondo i media israeliani “all’inizio dell’operazione” l’esercito ha notificato alle forze di sicurezza palestinesi la sua incursione, in modo che si ritirassero nel loro quartier generale. Ma non c’è stata necessità di tale avvertimento poiché le forze speciali israeliane avevano già reso nota la loro presenza sparando e ferendo il personale di sicurezza palestinese di stanza in Piazza dei Martiri.

Almeno cinque palestinesi sono rimasti feriti nella piazza dal fuoco israeliano due dei quali membri delle forze di sicurezza palestinesi e due dell’intelligence militare, oltre a un uomo che ha cercato di soccorrerli.

Sparare al personale di sicurezza palestinese di stanza in luoghi coordinati noti all’esercito viola i termini degli accordi di sicurezza congiunti tra le due parti. L’esercito, la polizia e lo Shin Bet hanno deciso in anticipo di mettere in pericolo la vita del personale di sicurezza palestinese (e quella parte delle norme fondamentali che impongono di avvertire i palestinesi prima di un ingresso nell’Area A [sotto il pieno controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.])? Oppure le truppe che hanno sparato contro di loro non erano a conoscenza delle regole o non sapevano che i palestinesi erano regolarmente di stanza nei loro posti? L’ufficio del portavoce della polizia ha rifiutato di rispondere.

Cinque località

Le forze israeliane sono rimaste a Nablus per quattro ore, lasciando dietro di sé cinque morti e trenta feriti in cinque diverse località, con testimoni oculari in ogni zona. Alcuni di loro sono stati precisi nelle loro descrizioni mentre altri sembrano aver messo insieme racconti sentiti da altri o aver sostituito ciò che avevano dimenticato con valutazioni e interpretazioni.

Questo il quadro che emerge dai loro racconti:

Prima di mezzanotte le forze israeliane – unità di polizia sotto copertura e forse anche soldati si erano posizionate sui tetti di due edifici gli edifici Al-Rif e Beirut sulla Montagna del Nord(sul Monte Ebal) che domina la città. A., uno degli inquilini, che era tornato a casa cinque minuti prima di mezzanotte, ha detto ad Haaretz che quando ha parcheggiato la sua auto mi hanno puntato contro [puntatori] laser [montati su fucile] e hanno inviato un drone verso di me. Ho pensato che ci fossero dei soldati, ma ancora non sapevo dove si trovassero“.

Il drone si è librato tra l’edificio e la Città Vecchia, racconta A. Lui e gli altri inquilini della casa si sono accorti che i soldati erano sul tetto del loro edificio e di quello adiacente solo quando la polizia o i soldati hanno sparato in direzione della Città Vecchia e delle strade circostanti.

Ritiene che la distanza tra il suo edificio e la Città Vecchia sia di circa un chilometro e mezzo. Altrove a Nablus, la gente ha parlato di diversi altri edifici in cui erano posizionate unità sotto copertura e da cui in seguito hanno iniziato a sparare. Uno di questi era un grande centro commerciale in Piazza dei Martiri.

Diverse attività commerciali negli edifici che circondano Piazza dei Martiri, compresi diversi negozi e ristoranti, erano ancora aperte nonostante l’ora tarda. H. si trovava insieme ad un gruppo di giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni che chiacchieravano, fumavano narghilè, facevano uno spuntino notturno o ripulivano il locale per la successiva giornata di lavoro.

Nella piazza diversi membri armati del personale di sicurezza palestinese stavano in piedi sotto le palme come fanno regolarmente, giorno e notte nelle rispettive postazioni. Quando non c’è nessuno i residenti di Nablus presumono che l’esercito israeliano abbia notificato alle forze di sicurezza un’incursione pianificata e che essi siano tornati al quartier generale.

Erano circa le 0:30, o le 0:15, ha detto H. ad Haaretz. Inizialmente abbiamo sentito una forte esplosione e in seguito molti colpi di arma da fuoco. Ho sbirciato fuori dalla finestra e ho visto un agente di sicurezza palestinese sparare in aria. Non miravano a niente in particolare perché non sapevano da dove provenisse il fuoco”.

H. si è reso conto che diverse persone erano state ferite dal fuoco israeliano e una di loro si era rifugiata nel negozio dove si trovava H., il quale ha poi aiutato l’uomo a salire su un’ambulanza che era riuscita a raggiungere la zona. H. stima che i soldati o la polizia israeliani stessero sparando dal centro commerciale della città.

F. è un volontario di una delle squadre di soccorso medico e suo fratello è uno dei quattro agenti della sicurezza palestinese feriti quella notte. F. ha parlato con Haaretz riferendosi al resoconto di suo fratello, dicendo che un veicolo civile si è fermato accanto agli ufficiali palestinesi per avvertirli che le “forze speciali” israeliane erano nell’area.

“L’autista non ha avuto la possibilità di finire la frase prima che iniziassero a sparare”, ha detto F. Gli agenti di sicurezza palestinesi hanno sparato in aria in quel momento non sapevano da dove provenisse il fuoco. Poi sono fuggiti». Riferisce che la sparatoria proveniva sia dal centro commerciale che dalle postazioni improvvisate allestite sugli edifici del Monte del nord.

La prima forte esplosione che F. e la sua squadra medica hanno sentito arrivava dal quartiere di Ras al-Ain a sud della Città Vecchia. Successivamente è emerso che l’esplosione proveniva da un’auto appartenente a Hamdi Qayyim, successivamente identificato come sostenitore di Hamas e membro della Fossa dei Leoni. È stato anche riferito che i paramedici hanno successivamente recuperato il suo corpo carbonizzato dall’auto.

Stava andando al centro della Città Vecchia? Una bomba che trasportava nel veicolo è esplosa da sola o sotto i colpi sparati contro la sua auto? Non è chiaro. Più o meno nello stesso momento si sono sentite delle esplosioni nel centro della Città Vecchia. Alcuni abitanti hanno detto che la prima esplosione non è stata quella dell’auto di Qayyim ma quella del razzo che ha colpito l’appartamento dove alloggiava al-Hawwah.

Gli abitanti dei quartieri più distanti sono stati svegliati dall’esplosione e da quelle successive. Con il crescere degli spari si sono moltiplicate le sirene delle ambulanze, le persone hanno iniziato a scambiare informazioni e voci mentre la paura aumentava.

Durante quelle quattro ore non siamo riusciti a dormire. Sembrava di essere nel bel mezzo di una guerra e avevamo paura. Era come se fossimo tornati ai giorni della seconda intifada, ha detto ad Haaretz un abitante di un quartiere a ovest della Città Vecchia. Oltre a tutto ciò, alcune zone della città hanno subito un blackout.

Verso le 0:40 del mattino decine di veicoli dell’esercito e della polizia hanno iniziato a riversarsi speditamente attraverso i quattro ingressi di Nablus: Tel, al-Tur, Huwara e Asira al-Shamliya. I giovani e i più coraggiosi hanno risposto alle chiamate della Fossa dei Leoni per accorrere nella Città Vecchia e ostacolare l’incursione lanciando pietre e incendiando pneumatici. La sottoscritta autrice dell’articolo non sa quanti di loro siano stati feriti dal fuoco dell’esercito e quanti dei feriti giunti negli ospedali fossero armati e impegnati in scontri a fuoco con le forze israeliane.

Nessun luogo sicuro

Quattro giorni dopo il funerale collettivo dei cinque morti la famiglia di al-Hawwah ha iniziato a parlare con i media. Hanno detto di aver parlato con gli amici di Wadi che quella notte erano con lui nell’appartamento e sulla base dei loro racconti hanno potuto ricostruire il raid che lo ha ucciso. Non tutto di quei resoconti di seconda mano appare chiaro.

Da queste e da altre fonti emerge però che non vi è stato alcun tentativo di arrestare al-Hawwah e i suoi amici. Le forze israeliane sono arrivate con l’intento di uccidere.

Secondo i suoi amici diversi droni di sorveglianza sono entrati nell’appartamento attraverso la finestra a nord, cogliendoli di sorpresa. Membri della famiglia hanno detto che gli è stato riferito che al-Hawwah avrebbe sparato contro i droni.

Allo stesso tempo, proiettili Matador sono stati sparati contro l’appartamento da sud mentre uno o più droni emettevano gas lacrimogeni. Il personale medico palestinese ha riferito che al-Hawwah è stato ucciso da cinque proiettili che lo hanno colpito al petto, apparentemente sparati da una posizione fuori dall’appartamento, sempre secondo i servizi medici palestinesi. Uno degli amici di al-Hawwah, Mishal Baghdadi, è stato gravemente ferito ed è morto mentre si recava in ospedale. F., che era arrivato con la sua équipe medica in una piazza accanto alla Moschea Nasser, dice di aver sentito il boato di sei potenti esplosioni.

F. riferisce che gli israeliani hanno sparato contro la sua ambulanza mentre cercava di raggiungere diversi feriti. “L’autista e io siamo stati costretti a lasciare l’ambulanza e nasconderci per evitare di essere feriti”, dice. Anche altre squadre mediche hanno riferito di essere state colpite dalle forze israeliane, essendo così costrette a fare delle deviazioni e ad arrivare in ritardo sul luogo. La polizia non ha risposto all’accusa.

Hamdi Sharaf, il barbiere di 36 anni, era a casa dei suoceri con la moglie e i due figli. Quando sono giunte voci secondo cui “l’esercito era in città“, Sharaf e un altro membro della famiglia hanno pensato di andare a vedere cosa stesse succedendo. Ma altri famigliari li hanno convinti a non farlo. Poi hanno sentito un’esplosione e hanno insistito per uscire per scoprire cosa capitasse. Hanno fatto un po’ di giri, hanno lasciato la Città Vecchia, non hanno visto uomini armati o israeliani sotto copertura, e hanno deciso di tornare a casa.

Entrambi sono stati colpiti vicino alla casa dei suoceri. Non erano armati, non c’è stato alcuno scambio di colpi di arma da fuoco nella zona. Secondo i resoconti giunti ad Haaretz, i colpi sono stati sparati con i silenziatori. Poco dopo l’una di notte, il Ministero della Sanità palestinese ha dichiarato Sharaf morto.

A mezzanotte il barbiere Ali Antar era ancora seduto con gli amici al Cafe Z’abub nel quartiere Bassatin (giardini) fuori dalla Città Vecchia, a pochi isolati a ovest di Piazza dei Martiri. La sera, quando il bar è pieno, i clienti spesso portano le sedie sul marciapiede davanti a un negozio di abbigliamento chiuso per tutto quel giorno. Antar si trovava lì con i suoi amici al momento del boato della prima esplosione. Si sono tutti dileguati. Antar, come si può vedere nel video della telecamera di sicurezza del bar, prima di andarsene ha pagato il suo conto.

Tre giorni dopo l’incursione il suo migliore amico R. ha raccontato ad Haaretz cosa è successo dopo. Abito a poche centinaia di metri dal caffè in via al-Fatimiyyeh [che si estende a ovest della Città Vecchia]. Dopo aver sentito l’esplosione abbiamo deciso che sarebbe stato più sicuro che gli amici che vivono in quartieri più lontani venissero a casa mia”, ha detto.

A. è salito sull’auto di un amico mentre Antar montava sulla sua moto, portando con sé un amico. “Ci siamo fermati davanti alla casa e all’improvviso abbiamo sentito degli spari”, racconta. Non sapevamo se provenissero dall’esercito o dall’Autorità nazionale palestinese. Io e il mio amico ci siamo riparati dietro l’auto, inginocchiandoci, mentre gli spari continuavano. Ho pensato tra me e me, l’ANP non può volerci uccidere”.

In quel momento non sapevo che si trattava dell’esercito. All’improvviso qualcosa ha colpito il retro dell’auto. Non sapevamo cosa fosse. Siamo fuggiti nell’appartamento dei miei genitori senza voltarci indietro.

Ho visto la morte. Ho strisciato, ho strisciato su per le scale tremando. Ho avuto un cedimento nervoso, il giorno dopo il funerale sono finito anche io in ospedale», racconta R., e aggiunge che l’amico, che quella notte era alla guida dell’auto, ha subito un trauma ancora più grave. Non è in grado di parlare. Ora si sa che a colpire l’auto è stata la moto di Antar. L’amico che era con lui è rimasto ferito ma è riuscito a mettersi al riparo.

“Qualcuno dall’altra parte della strada ha visto Ali sdraiato sull’asfalto. Ali ha cercato di rialzarsi ed è stato colpito di nuovo. Quel ragazzo ha cercato di attraversare la strada per salvare Ali, ma gli israeliani gli hanno sparato. sparavano a qualsiasi cosa si muovesse Tutto quello che volevamo fare era raggiungere un luogo sicuro. Ma nessun luogo era sicuro”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu è solo una diversa sfumatura della stessa supremazia ebraica

Hagai El-Ad

14 novembre 2022 Haaretz

Ahmad Zahi Bani-Shamsa è stato la prima vittima a Beita, villaggio in Cisgiordania, nello scontro con la colonia di Evyatar sotto lo sguardo del governo uscente. È stato ucciso prima di celebrare il suo sedicesimo compleanno, raggiunto alla testa da un colpo sparato alle spalle. 

È stato ammazzato mentre cercava di appendere su un olivo una bandiera palestinese. È morto il giorno dopo, il quinto del mandato del “governo del cambiamento.” Fino ad ora le manifestazioni a Beita contro Evyatar hanno causato sette morti.

Il processo di legalizzazione del furto delle terre a Beita a vantaggio di Evyatar è cominciato con il governo uscente e probabilmente continuerà e sarà ancora più rapido, nel nord della Cisgiordania e nel resto di quella zona, con il nuovo governo. 

Si può immaginare che entro pochi giorni un soldato israeliano aprirà il fuoco e ucciderà la prima vittima del trentasettesimo governo di Israele. Questa sarà seguita da altre morti. In un regime di supremazia ebraica certe cose non cambieranno mai fra il Mediterraneo e il fiume Giordano [cioè in Israele e nei territori palestinesi occupati, N.d.T.].

Tuttavia, un momento prima che il governo uscente sprofondi nell’oblio, esso merita un’ulteriore riflessione. Cos’è veramente accaduto nell’ultimo anno e mezzo e cosa ci dice per il futuro?

In un’intervista a Channel 12 con la conduttrice televisiva Yonit Levi e Jonathan Freedland di The Guardian, Shimrit Meir, consigliera politica dell’ex primo ministro Naftali Bennett, ha spiegato che la precondizione dell’esistenza del governo uscente era la sospensione del conflitto israelo-palestinese, dato che nel momento in cui quel tema è emerso, il destino del governo è stato segnato. 

La prima mossa nella formazione della coalizione è stata che non si poteva discutere l’“ideologia”, quindi nessuna annessione o creazione di uno Stato palestinese e nessun cambiamento del carattere “ebraico e democratico” dello Stato. 

Vale la pena soffermarsi sulle parole della Meir per la notevole franchezza con cui ha descritto, dal cuore stesso dell’ufficio del primo ministro, la realtà politica continuata per “quasi un anno di normalità,” il periodo in cui il governo uscente ha governato fino al crollo della coalizione.

Quello che infatti si è sostenuto è che la realtà a Beita, e in ogni zona che Israele controlla, non è una questione di “ideologia,” dato che il regime di supremazia ebraica non è un tema politico o ideologico.

È semplicemente il modo in cui vanno, andavano e andranno le cose. La situazione in cui i sudditi palestinesi sono ammazzati uno dopo l’altro, a Beita o altrove, equivale a un conflitto latente, dato che non si può avere un regime di dominazione senza un calcolato massacro di chi vi viene sottomesso. Un altro anno di totale controllo israeliano è semplicemente un’espressione di normalità.

Nella sua intervista Meir ha espresso il concetto politico prevalente in ampi strati dell’opinione pubblica ebraica in Israele. Un concetto che non vede la realtà della supremazia ebraica, dell’apartheid o dell’occupazione come qualcosa di inusuale, ma come una situazione normale che è impegnata a rafforzarsi, espropriando sempre più terre dei palestinesi per tentare di concentrarli in enclave affollate che sono più facili da controllare, poiché gestite da subappaltatori che sono finanziati da risorse internazionali.

Questa posizione, questa visione del mondo, non solo sono immorali nel più profondo senso del termine, ma sono anche lontane dalla realtà. Dopotutto quello che si chiama il “conflitto,” cioè una chiarissima relazione di potere in cui la metà israeliana-ebraica della popolazione fra il fiume e il mare controlla la terra, la demografia e il potere politico a spese della metà palestinese, non è stata “sospesa” neppure per un momento. 

È viva e vegeta tutto il tempo, nei momenti in cui proiettili veri uccidono un palestinese e nei momenti di eterna burocrazia, quando permessi e checkpoint, ingiunzioni e regolamenti dominano le vite dei palestinesi in nome del regime suprematista ebraico.

In questo contesto si dovrebbe parlare del possibile membro del governo Itamar Ben-Gvir e di Gadi Eisenkot [sostenitore della soluzione a due Stati, N.d.T.], ex capo di stato maggiore delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, N.d.T.] il protagonista e antagonista delle ultime elezioni. 

Eisenkot parla come uno statista di “governabilità,” mentre Ben-Gvir chiede rudemente “chi comanda qui?”. Ma il tono da statista è solo un codice trasparente che tutti capiscono, cioè che quando gli ebrei in Israele si lamentano di una perdita di “governabilità” nel Negev e in Galilea, nell’Area C e a Gerusalemme, vogliono dire che non si sentono “il boss” in quelle zone.

Il dibattito non riguarda veramente la fine della democrazia. Dopo tutto qui non ce n’è una, dato che tutti i palestinesi sono esclusi, parzialmente o completamente, dal processo politico. È un dibattito sul modo e la misura in cui si usa la forza contro i palestinesi. 

Eisenkot e i suoi sodali credono che il loro approccio più misurato all’aggressiva oppressione dei palestinesi garantisca sia il successo dell’oppressione che la stabilità: Ben-Gvir e quelli come lui pensano che questo processo possa essere velocizzato e numeri crescenti di votanti concordano con lui.

Ma la gran maggioranza delle persone che hanno delle riserve su quest’ultimo punto accetta la situazione esistente e i suoi processi, concorda che la supremazia ebraica sia la base dell’ordine politico, geografico e demografico fra il fiume Giordano e il Mediterraneo e trovi ospitalità per queste sue idee in tutti i partiti sionisti. 

Dopo tutto, quando un giovane palestinese ha appeso una bandiera su un olivo e la terra si è imbevuta del suo sangue, del trentaseiesimo governo facevano parte Yesh Atid, [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, N.d.T.], il partito laburista e il Meretz [partito della sinistra sionista, N.d.T.]

Questo non significa che “sono tutti uguali.” Il fatto che la realtà per i palestinesi fosse già intollerabile anche prima delle elezioni non significa che le cose non possano peggiorare e diventare rapidamente più orrende e sanguinose. 

Jewish Power (Otzma Yehudit) [Potere ebraico, il partito di estrema destra di Ben-Gvir, N.d.T.] è uno dei punti di uno spettro: dire questo non significa che la gamma delle posizioni lungo questo spettro sia un tema marginale non degno di riflessioni. Lo spettro delle posizioni ha un significato, ma è significativa anche l’affinità fra le diverse posizioni lungo questo spettro.

Si può urlare, e la gente lo fa, contro il successo di Ben-Gvir. Ma esattamente chi ne è il responsabile? Non solo nel senso stretto della congiuntura politica che l‘ha causata, ma in un senso più profondo. 

Ciò che ha causato il collasso del governo uscente non è lo scioglimento del conflitto da un immaginario gelo, e ciò che ha fatto crescere Ben-Gvir non è stato un evento specifico. La forza trainante è la realtà stessa. Questa realtà va cambiata. A partire dalle sue fondamenta.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, N.d.T.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)