Lavoratori palestinesi costretti a scendere da un autobus israeliano per far posto a passeggeri ebrei

Redazione di MiddleEastEye

9 agosto 2022, MiddleEastEye

Un uomo che si fingeva funzionario del Ministero dei Trasporti ha fatto pressioni sull’autista perché facesse scendere circa 50 lavoratori palestinesi dall’autobus

Secondo Haaretz tre passeggeri ebrei, uno dei quali fingendosi funzionario del Ministero dei Trasporti, hanno costretto alcuni palestinesi a scendere da un autobus diretto nella Cisgiordania occupata.

L’incidente è avvenuto giovedì scorso; circa 50 lavoratori palestinesi sono scesi dall’autobus nella città di Bnei Brak dopo che i passeggeri ebrei avevano chiesto all’autista di farli scendere.

Tnufa Transportation Solutions, proprietaria dell’autobus, gestisce le tratte tra Tel Aviv e l’insediamento coloniale di Ariel in Cisgiordania, portando i lavoratori palestinesi con permesso di lavoro da Israele alla Cisgiordania occupata.

“Sono passati alcuni autobus e non si sono fermati, perché l’autobus 288 è riservato solo agli ebrei, poi uno che era vuoto e senza ebrei a bordo si è fermato per noi e siamo saliti”, ha detto ad Haaretz uno dei passeggeri palestinesi.

“Tre ebrei sono saliti a Bnei Brak [cittadina israeliana abitata soprattutto da ultraortodossi, ndt.] e hanno chiesto che tutti gli arabi scendessero”.

L’autista ha chiamato i suoi superiori e poi ha chiesto ai palestinesi di scendere.

La legge vieta agli operatori dei trasporti di segregare ebrei e arabi che utilizzano i loro servizi. L’amministratore delegato di Tnufa Transportation Solutions ha negato le accuse.

“Non abbiamo percorsi separati per palestinesi o ebrei… Ci sono linee che vanno ai valichi [tra Israele e la Cisgiordania] e naturalmente i palestinesi le usano di più, ma se un ebreo vuole salire non ci sono restrizioni”, ha detto .

Su richiesta di Haaretz, la compagnia ha condotto un’indagine e ha affermato che l’autista “è stato vittima di una vergognosa manipolazione da parte di un passeggero che si è spacciato per dipendente del Ministero dei Trasporti”, affermando che quelle erano le nuove istruzioni del Ministero per quella particolare tratta.

“L’autista, uno nuovo, ha detto di aver discusso con l’impostore, che però gli ha detto che avrebbe potuto perdere il lavoro o ricevere una grossa multa se non avesse seguito immediatamente le istruzioni”, ha affermato la società in una nota.

“Sembra che a causa delle pressioni esercitate l’autista abbia ceduto alla manipolazione razzista e sia stato costretto a lasciare i passeggeri alla fermata dell’autobus. L’autista non ha denunciato il fatto al suo datore di lavoro”.

La compagnia ha sporto denuncia alla polizia israeliana, ha riaffermato il suo impegno a fornire un servizio uguale a palestinesi ed ebrei e si è scusata con i passeggeri palestinesi per lo ” spiacevole evento”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In prima linea nell’umiliare i palestinesi

Amira Hass

2 agosto 2022 – Haaretz opinion

Poco dopo le tre del mattino squilla il telefono nella sala operativa dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento per la Sicurezza palestinese. L’ufficiale in servizio ascolta assonnato la voce del suo omologo, un assonnato soldato dell’Amministrazione Civile israeliana, che annuncia che l’esercito sta per fare irruzione in questa o quella località palestinese. Ciò significa che tutti i poliziotti palestinesi devono rientrare immediatamente nei propri uffici. Nel gergo interno dell’Amministrazione Civile, questo compito è noto come “ripiegamento SHOPIM”, con SHOPIM che è l’acronimo ebraico di “poliziotti palestinesi”. L’avviso telefonico e il “ripiegamento” sono una routine che entrambe le parti si assicurano di rispettare, perché “nessuno vuole che una parte spari contro l’altra”, come ha detto ad Haaretz un ex soldato dell’unità.

Ricorda che il lasso di tempo concesso ai palestinesi per ripiegare” è di circa mezz’ora. Un’ex soldatessa dell’unità ricorda 45 minuti. Un altro veterano di sesso maschile ricorda come i palestinesi si sbrigassero ad obbedire; lei invece ricorda il loro tergiversare. Tutti ricordano il divieto di rivelare l’obiettivo e lo scopo (arresto, mappatura, ricerca di armi, confisca di fondi, dimostrazione di “autorevolezza”) dell’incursione.

Questi sono tre fra le decine di ex soldati che hanno prestato servizio nell’Amministrazione Civile e hanno testimoniato a proposito dell’unità militare a Breaking the Silence [ONG israeliana che raccoglie le testimonianze da parte di militari dell’esercito israeliano sulla quotidianità delle loro esperienze nei territori palestinesi occupati, ndt.] nel loro nuovo opuscolo, “Military Rule”, pubblicato lunedì. Questa organizzazione di protesta continua ad analizzare meticolosamente il regime militare sui palestinesi, smascherando la menzogna della “sicurezza” e la falsità della “moralità“.

I soldati in servizio non parlavano ai loro colleghi palestinesi di “ripiegamento di poliziotti” quanto piuttosto del fatto che c’era “un’attività” in corso. Nel gergo delle forze di sicurezza palestinesi, la sparizione dei poliziotti dalle strade a causa di un imminente incursione è chiamata zero-zero”. Una fonte della sicurezza palestinese non conosceva il termine “ripiegamento SHOPIM” e ha detto che era umiliante. Ma la realtà – il fatto cioè che i poliziotti palestinesi si affrettino a nascondersi nelle loro roccaforti poco prima che i soldati israeliani irrompano nella casa di una famiglia puntando fucili contro donne e bambini appena svegliati – è ancora più umiliante. Mortalmente umiliante è vietare alla sicurezza palestinese di difendere il proprio popolo non solo dai soldati, ma anche dai civili israeliani che lo attaccano nei loro campi e frutteti, a casa e quando sono fuori a pascolare le loro mandrie. E’ umiliante il rispetto di questo divieto da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ed è umiliante anche il comportamento opposto rispetto al ripiegamento: quando la parte palestinese ha bisogno di chiedere l’approvazione israeliana affinché i suoi poliziotti si rechino da una determinata città a un villaggio vicino che si trova nell’Area B [sotto controllo congiunto israeliano e palestinese, ndt.], o perché si trovano su una strada che attraversa l’Area C [sotto controllo esclusivo israeliano, ndt.] Non fanno una mossa senza che glielo diciamo noi. … Anche se non ci sono coloni di mezzo, [anche se] vanno senza uniformi, senza armi, se devono indagare solo su un incidente d’auto: devono comunque coordinarsi con la squadra”, si afferma in una delle testimonianze del libretto.

Il fattore dell’umiliazione altro strumento del regime ostile di una giunta militare si ritrova sia nel contesto che tra le righe del libretto: nell’arabo stentato parlato dai soldati presso agli sportelli per i palestinesi, nel trattamento sprezzante anche verso coloro chi e hanno la stessa età dei loro nonni e nonne, nell’assegnare acqua ai coloni a spese di una comunità palestinese, nella revoca su larga scala dei permessi di movimento. L’umiliazione dell’altro è parte inseparabile della violenza burocratica assassina dell’anima, del tempo e della speranza che noi ebrei israeliani, espropriando un popolo della sua terra, abbiamo trasformato in una forma d’arte. Usiamo il potere degli editti che noi abbiamo scritto, le leggi, le procedure e le sentenze di onorevoli giudici per abusare continuamente delle altre persone. L’Amministrazione Civile non ha inventato il sistema, ma è la punta di diamante e l’arma di questa violenza burocratica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dall’Ungheria a Israele, il razzismo non si limita all’estrema destra

Zvi Bar’el

28 luglio 2022 – Haaretz

“Noi [ungheresi] non siamo una razza mista e non vogliamo diventare una razza mista”, ha detto lo scorso fine settimana il primo ministro ungherese Viktor Orban durante un discorso in un’università rumena di una provincia della Transilvania con una numerosa popolazione di etnia ungherese. “La migrazione ha diviso in due l’Europa, o potrei dire che ha diviso in due l’Occidente. Metà è un mondo in cui convivono popoli europei e non europei. Questi Paesi non sono più nazioni: sono soltanto un miscuglio di popoli”, ha affermato il leader che governa il suo Paese da dodici anni e che per un anno ha frequentato l’Università di Oxford.

Per un breve momento è sembrato che non fosse Orban a esporre la sua teoria sulla razza con una semplicità tanto agghiacciante, e che si trattasse piuttosto di un plagio dai politici israeliani, per cui il razzismo è un credo. E questo vale non solo per i partiti della “nazione pura” o del “salvare la razza”. Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, ndt.] e Itamar Ben-Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, Potere Ebraico, ndt.] non hanno il monopolio sul marchio del razzismo, ma il loro razzismo diretto ed esplicito, di cui sono così orgogliosi, fornisce un paravento di nobiltà liberale a tutti gli altri. Quando Benny Gantz [vice primo ministro dell’attuale governo israeliano dimissionario, ndt.) e Yair Lapid [attuale primo ministro di Israele, ndt.] parlano degli “estremisti” con i quali rifiuterebbero di sedere in una futura coalizione di governo, insinuano che, rispetto a Sionismo Religioso e a Otzma Yehudit, i membri di Yesh Atid [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, ndt.], Kahol Lavan [Blu e Bianco, partito di centro di Benny Gantz, ndt.], New Hope [Nuova Speranza, partito di destra formato da ex-membri del Likud, ndt.] e naturalmente Yamina [alleanza di partiti dell’estrema destra dei coloni, ndt.] insieme ad altri partiti “legittimi” sono esenti dalla macchia del razzismo. Ma il confronto è distorto e fallace. Il razzismo non è relativo. Un “po’ di razzismo” è razzismo.

Dopotutto, la stessa incontaminata coalizione di cui sono membri ha votato con entusiasmo la legge discriminatoria dello Stato-nazione. I suoi ministri danno la caccia ai richiedenti asilo e non si sono opposti alle decisioni del ministro dell’Interno, Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra Yamina nota per le sue posizioni oltranziste, ndt.].

È Shaked, non Smotrich o Ben-Gvir, ad aver riportato in vita il termine “Pale of Settlement” [Zona di residenza, regione occidentale della Russia imperiale istituita dal 1791 al 1917 in cui era consentito risiedere agli ebrei, ndt.] quando ha stabilito che i richiedenti asilo provenienti dall’Ucraina potranno lavorare solo in un numero limitato di posti di lavoro in 17 città israeliane. Questo regolamento si applicherà a tutti gli altri richiedenti asilo a partire da ottobre. Secondo le condizioni poste, coloro che violano la regola osando assumere lavoratori stranieri per lavori che non siano dei peggiori dovranno affrontare pesanti sanzioni. E qual è la fase successiva? Forse segnalare le aziende che impiegano lavoratori stranieri in violazione della legge? o ripristinare la struttura di detenzione di Holot? [centro di reclusione nel Negev in cui nel 2015 furono rinchiusi 1.178 richiedenti asilo eritrei, ndt.]

La tranquillità con cui è stata accolta questa contorta “procedura” – presentata da Shaked per ingannare l’Alta Corte di Giustizia – dimostra fino a che punto sia diffusa la metastasi del razzismo. Nessun membro della Knesset ha avuto paura di essere infettato dallo smotrichismo. Dopotutto, è stata Shaked – una dei nostri – a concepire e dare alla luce il mostro. E non è sola.

La legge sulla cittadinanza presentata da Shaked e dal parlamentare Simcha Rothman (di Sionismo Religioso), che impedisce il ricongiungimento di 1.680 famiglie palestinesi e israeliane, è stata sostenuta da 45 parlamentari – più di sette volte il numero dei seggi conquistati da Yamina nelle ultime elezioni.

Per inciso, agli occhi del suo partner ideologico, Shaked non è degna di una medaglia per razzismo. In un’intervista al sito religioso sionista Srugim circa tre settimane fa, Rothman ha chiarito che “chiunque abbia votato per un partito guidato da qualcuno che ha fatto affari con Mansour Abbas [leader di un partito arabo islamista entrato nella coalizione di governo con Shaked e altri esponenti di estrema destra, ndt.] e che in una fase successiva farà affari con la Lista Araba Unita [il partito di Abbas, ndt.] è già nel blocco di sinistra. Non credo che nessuna persona di destra che si rispetti voterà per Ayelet Shaked”. Sionismo Religioso sa come rintracciare quei finti razzisti e lanciare avvertimenti contro di loro. Dopotutto, il razzismo è una risorsa elettorale e la destra dal cuore tenero o i liberali di centro sinistra non possono essere autorizzati a rubare il marchio.

Quando nel 1993 Viktor Orban fu eletto presidente del suo partito, Fidesz era un classico partito liberale collocato a destra del centro. Nel giro di pochi anni, sotto la sua guida, è diventato un partito di destra radicale e razzista che si oppone ai diritti LGBTQ e al “trend dei no-gender”, così come ai lavoratori e residenti stranieri. Questo processo non è avvenuto nell’ombra e non sono necessarie approfondite ricerche per scoprirlo. Tutto è accaduto alla luce del sole.

Le impressionanti vittorie politiche di Orban hanno dimostrato che il razzismo è una potente leva politica. In Israele il processo è stato ancora più rapido. I partiti di sinistra devono avvicinarsi al centro per sopravvivere. I partiti di centro devono indossare un velo di destra e i partiti di destra sono già in competizione con i partiti della “nazione pura” per conquistare il trofeo del razzismo. Estremisti? Non tra di noi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Germania fornisce un timbro kosher all’occupazione israeliana

Avraham Burg

26 luglio 2022 – Haaretz

La destra israeliana razzista e conservatrice controlla le azioni della Germania riguardo agli ebrei, all’antisemitismo e a Israele

Qualche settimana fa ho preso parte ad un’importante conferenza in Germania sul sequestro della memoria dell’Olocausto e la nuova destra. E’ stata una delle più intense, particolari e impegnate conferenze a cui abbia mai partecipato.

L’establishment ebraico locale ha immediatamente reagito con una prevedibile risposta pavloviana: “Antisemiti!”, “Sostenitori del BDS!”. Ci sono state anche sgradevoli e scorrette insinuazioni riguardo ad uno dei più importanti storici della nostra generazione (ovviamente non ebreo). Io c’ero: mentono e distorcono la realtà. Ecco perché adesso mi è chiaro che è tempo di far scoppiare il bubbone di cui sono responsabili.

Negli anni scorsi si sono svolti in Germania parecchi eventi che hanno messo in questione il discorso ebraico-israeliano-tedesco. Uno scrittore ebreo, che sta fuori dal coro dei conservatori, è stato messo a tacere perché sua madre non è ebrea. Contemporaneamente il direttore del museo ebraico di Berlino è stato costretto a dimettersi a causa di un tweet sulla libertà di espressione.

Ora sono nel mezzo di una feroce campagna di delegittimazione nei confronti di alcune tra le più importanti istituzioni di ricerca e culturali sia in Germania che nel mondo: l’Einstein Forum e il Centro Internazionale di Berlino per lo studio dell’antisemitismo. Nella miglior tradizione della falsa propaganda, hanno rinominato quest’ultimo “l’istituzione per l’antisemitismo”.

Stanno cercando di intimidire e intimorire centri importantissimi e validi ricercatori la cui unica colpa è lottare per una ricerca in profondità e universale, senza che vengano imposte a priori delle mistificazioni demagogiche. Chiunque osi esprimere un’opinione o una posizione diversa dalla loro rischia di essere giustiziato pubblicamente.

La Germania ha un governo eletto, ma quando si tratta di sensibilità su questioni legate alla storia ebraica-tedesca o all’attuale problema dell’antisemitismo tutto viene controllato dal Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania. Questo ente dovrebbe rappresentare la totalità degli ebrei della Germania, ma di fatto ne rappresenta solo una piccola parte.

Sotto molti aspetti ciò è logico e giustificabile. Ma pochi colgono la catena di connessioni: l’estrema destra guida la politica dello Stato di Israele; Israele modella le posizioni del Consiglio Centrale e a sua volta questo ente detta la linea delle discussioni politiche più delicate in Germania. Ciò significa che la destra israeliana conservatrice e razzista ha il controllo di una gamma di sentimenti dei tedeschi relativi al loro passato riguardante gli ebrei, l’antisemitismo e Israele.

Come è successo? Israele ha trasformato l’antisemitismo in una potente arma diplomatica. Il suo governo conservatore ha ampliato molto questo concetto. Ogni critica è antisemita; ogni oppositore è un nemico; ogni nemico è Hitler; ogni anno è il 1938.

Questa è la struttura portante della sensibilità politica e dell’arte di governo di Israele e la Germania vi gioca un ruolo chiave: funge da certificazione kosher [di purezza dal punto di vista della religione ebraica, ndt.] per le ingiustizie perpetrate dagli ebrei israeliani. Lo Stato tedesco è terrorizzato da ogni confronto o chiarificazione con Israele sulla natura dell’antisemitismo contemporaneo e sulla questione di che cosa sia una critica corretta delle illegittime politiche israeliane.

Tramite questa elusione la Germania è diventata il maggior garante e complice della realtà in cui i palestinesi sono privi di diritti e di status nella loro stessa patria. Non ci sarà mai pace in Medio Oriente, né esisterà un Israele sano e duraturo, finché la Germania sarà prigioniera delle complessità del suo passato.

L’Olocausto e lo Stato di Israele devono rimanere componenti cruciali dell’identità politica ed etica della Germania – ma non si tratta di questo. In tutti gli ambiti relativi ad Israele e al popolo ebreo, in Germania attualmente non esiste una reale libertà di espressione. Viene attivata automaticamente una stretta e severa censura, anche se si può capire. Ma un meccanismo di cinico sfruttamento politico ha preso il controllo, trasformando l’Olocausto e la sua memoria in strumento per respingere ogni critica ad Israele.

Non esiste nessun altro Paese nell’Occidente democratico che nega i diritti naturali di milioni di persone a votare ed essere eletti, a vivere nel proprio Paese in virtù del diritto all’autodeterminazione, come fa Israele al popolo palestinese. Israele è in grado di fare questo perché gli Stati Uniti considerano giusta la loro visione distorta e la Germania sostiene ogni capriccio israeliano automaticamente e cecamente.

C’è ancora del vero antisemitismo nel mondo e non si deve mostrare alcuna comprensione o legittimazione verso di esso. In piccola parte si tratta del vecchio e tradizionale antisemitismo; in parte è una variante diffusa da gruppi anti-israeliani che usano il crimine dell’occupazione per attaccare tutti gli ebrei dovunque siano e negano la loro esistenza come individui e come comunità.

C’è anche un livello ancor più subdolo e pericoloso di antisemitismo: quello che si ammanta di un falso sostegno ad Israele per nascondere la propria xenofobia e odio per gli immigrati. E’ l’antisemitismo dei fascisti e dei neo-nazisti che “amano” Israele. E sorprendentemente parecchi ebrei perbene e tedeschi dell’establishment li sostengono perché, almeno per il momento, appaiono come filo-ebrei o filoisraeliani. In termini più chiari: ci sono ebrei e tedeschi che sostengono l’antisemitismo sottoforma di amore per Israele.

C’è un altro modo per combattere l’antisemitismo globale e l’odio per gli ebrei in Germania. E’ accettabile criticare Israele, esattamente come è accettabile difenderlo. Si può contestare le sue politiche, così come si può appoggiarle. Ed è persino possibile che esista un antisionismo ideologico e intellettuale che non è antisemitismo.

Inoltre la lotta contro il vero antisemitismo non è un problema solo per gli ebrei. Si deve costituire un’alleanza contro ogni forma di odio, sia locale che globale. Quando qualcuno odia un turco, odia anche me. Quando offende i musulmani, offende me. E quando perseguita gli immigrati, le donne e i membri della comunità LGBTQ+, anche io vengo perseguitato. Perché questo è il volto del vero ebraismo, dalla Bibbia a Martin Buber: una civiltà che non ignora mai i propri obblighi universali verso tutte le persone.

L’odio per gli ebrei non deve costituire un’eccezione nell’elenco di odi dei nostri tempi. Solo in questo modo, attraverso la solidarietà con tutte le vittime, possiamo ottenere la vittoria sulla coalizione degli odiatori e dei populisti. In questa lotta globale tedeschi ed ebrei hanno un ruolo strategico di enorme importanza. La Germania è la chiave dell’intero Occidente. È una vergogna che i suoi dirigenti siano un’irresponsabile banda di ebrei egocentrici e tedeschi incapaci di distinguere la luce dal buio.

Come presidente a mio tempo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e come ex presidente dell’Organizzazione Mondiale Sionista, che è stata coinvolta per molti anni in questa questione, chiedo al governo tedesco e a Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli ebrei in Germania: scegliete una data e un luogo e discutiamo del modo in cui l’Olocausto deve essere ricordato nel XXI secolo; del fatto che è vietato sfruttarlo per fini politici impropri; di come rappresentare gli ebrei e l’ebraismo. E soprattutto di come costruire un mondo in cui Israele sia un esempio per risolvere i conflitti e non un certificato kosher per tutti i meschini interessi nel mondo populista di oggi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Biden ha perso il contatto con la realtà

Odeh Bisharat

20 luglio 2022 – Haaretz

Nonostante le infinite dichiarazioni del presidente USA Joe Biden secondo cui la meta del suo viaggio era Israele e dopo aver incessantemente declamato quello che si pensava che avrebbe dichiarato durante la sua visita, sembra che qualcosa sia andato storto: la sua mente sveglia ha ritenuto di trovarsi sul suolo ucraino. Quando ha messo piede sulla pista dell’aeroporto internazionale Ben Gurion è diventato estremamente empatico con il Paese che sta lottando contro l’occupazione. Che errore imbarazzante.

Ma persino dopo che finalmente si è reso conto di essere in Medio Oriente e non in Ucraina è rimasto ossessionato dall’argomento dell’occupazione. Ha manifestato al proprio staff sorpresa riguardo al motivo per cui il primo ministro israeliano Yair Lapid non va in giro in uniforme come il presidente ucraino Vladimyr Zelenskyy, che sta combattendo contro i russi. Perché non sta infondendo nell’eroico popolo ebraico uno spirito combattivo. Dov’è lo spirito dei Maccabei [combattenti dell’insurrezione ebraica contro il re seleucide Antioco IV nel II secolo a.C., ndt.]?

Lo sfortunato entourage di Biden gli ha spiegato ancora una volta che qui la situazione è diversa e gli ha ricordato che Lapid nell’esercito ha fatto solo il giornalista. L’accorto Biden li ha corretti ed ha affermato che Lapid ha fatto il servizio militare nella Bamahane, e i suoi collaboratori sono stati ancora una volta costretti a spiegargli che Bamahane è il nome di un settimanale, non di una base militare.

Durante la sua visita Israele è sembrato a Biden un Paese che geme sotto l’occupazione palestinese, che lotta eroicamente per la sua libertà. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime e ha giurato di proteggerne la sicurezza. Se c’è l’America, Israele può riposare in pace, ha promesso. L’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu, comandante ancor prima di essere nato del Beitar, organizzazione clandestina pre-statale, che combatté contro i palestinesi e in precedenza contro i britannici, ha ottenuto la stima dell’accorto presidente. “Ti voglio bene,” gli ha detto, e così facendo ha cancellato una penosa vicenda di controversi rapporti tra il moderno Bar Kochba [condottiero ebreo che combatté contro i romani, ndtr.] e il partito Democratico USA.

La verità è che non è Biden ad essere rimbambito, è tutta l’America ad essere politicamente rimbambita (nel senso di perdere il contatto con la realtà), compresi i suoi scienziati, filosofi, politici, giornalisti, AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana, ndt.] e organizzazioni per i diritti umani. In effetti tutta l’America è una fonte di assurdità. Tratta ancora Israele come un lattante che ha bisogno di altri miliardi per rafforzare la propria sicurezza e per altre cerimonie in cui giura “mai più”, mentre il suo esercito calpesta un intero popolo. “Mai più” e l’orrore sta invadendo le colline e le valli.

Mai più, e le armi americane stanno riempiendo gli arsenali, non per liberare gli ebrei dall’oppressione, ma per rafforzare l’assedio e l’occupazione del popolo palestinese da parte di Israele. Ogni anno l’America arriva in Israele con miliardi di dollari, e ai palestinesi, assediati e sottoposti all’occupazione, 200 milioni, metà dei quali sono soldi arabi degli Emirati, per gli ospedali palestinesi. Miliardi per l’occupante, spiccioli per l’occupato. Mai più. E lo stupendo Israele e i discendenti dei Maccabei stanno entrando ovunque in Paesi vicini e lontani, nella forma di armi vendute al miglior offerente, non importa quante vittime provocheranno.

E sullo stesso argomento Yaya (Yair) Fink [ex-dirigente del partito Laburista israeliano, ndt.] scrive su Twitter: “La prossima volta che il presidente degli Stati Uniti atterrerà qui potrebbe incontrarsi con (Bezalel) Smotrich [noto politico di estrema destra, ndt.] come ministro della Giustizia, (Itamar) Ben-Gvir [dirigente del partito di estrema destra razzista “Potere ebraico”, ndt.] come ministro della Pubblica Sicurezza e Avi Maoz [politico dell’estrema destra religiosa, ndt.] come ministro delle Questioni religiose. C’è qualcun altro che sta pensando di non andare a votare?”

E io, alla luce di questo orrido post, ho pensato: “E se questo terrificante scenario diventasse realtà?” Nel mezzo del mio sconforto ho avuto una rivelazione: forse questo terrificante scenario è la chiave della salvezza dei palestinesi. Il mondo intero accoglie i bellissimi carcerieri israeliani, che stanno tenendo imprigionati milioni di palestinesi. Forse se sostituiamo i guardiani graziosi con quelli orribili, il flusso di empatia finirà e inizieranno a comprendere che farebbero bene a lavarsi le mani di questo abominio.

Ogni pentola ha il suo coperchio, dicono gli arabi, e niente è più apppropriato alla pentola dell’occupazione di orrendi coperchi come Ben-Gvir e Smotrich. Non quelli bellissimi come Yair Lapid. Forse in questo modo libereremo dall’incantesimo il nostro Joe Biden, che si riprenderà e smetterà di inviare miliardi e anche di appoggiare la macchina dell’occupazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il mondo spirituale delle bande ebraiche che promuovono l’espulsione dei palestinesi

Amira Hass

18 luglio 2022 – Haaretz

La scorsa settimana altre 16 famiglie palestinesi sono state costrette ad abbandonare i loro alloggiamenti. Cosa passa nella mente di quelli con lo zucchetto che ne sono responsabili?

Da dove viene a un ebreo l’energia mentale di sollevare una mazza e fratturare il cranio e un braccio a una donna di 47 anni in piedi all’ingresso della sua tenda? Cosa accade nella mente dei bei giovani con la kippa in testa quando danno fuoco al mangime per gli animali di una famiglia beduina e mandano i loro grassi greggi ebrei a mangiare l’orzo seminato dai palestinesi? Qual è il mondo spirituale dell’impettita banda ebraica che, sotto l’egida dei soldati israeliani, espelle i pastori palestinesi dai loro pascoli e dalle loro case?

Solo la scorsa settimana altre 16 famiglie sono state costrette ad abbandonare i propri accampamenti a causa della violenza degli ebrei, una famiglia ad est dell’incrocio di Taybeh su Alon Road e altre 15 famiglie nei dintorni di Ras a-Tin (comunità beduina, ndtr.). Questo in aggiunta alle oltre dodici famiglie solo in questi due siti del cui spostamento, passato inosservato, ho riferito la scorsa settimana.

Un testo, firmato da 33 gestori di avamposti di pastori in Cisgiordania, fornisce alcune risposte a queste domande. Pubblicato su Facebook alla fine del 2019, è riconfermato ad ogni aggressione ed espulsione.

Si tratta di una lettera di saluto e stima scritta da alcuni pastori ebrei ad Ariel Ben-David, che per alcuni anni ha guidato l’organizzazione Hashomer Yosh (Guardiano di Giudea e Samaria), che ha fornito agli avamposti manodopera e scagnozzi. Secondo Google, Ben-David è un avvocato che ha fondato a Ramle un cosiddetto “nucleo della Torah” (collettivo urbano per giovani famiglie religiose sioniste). 

Nell’aprile 2012, sul sito di notizie Hakol Hayehudi, ha spiegato che una delle considerazioni per l’istituzione di nuclei della Torah nelle città “miste” (cioè quelle da cui non siamo stati in grado di espellere tutti i residenti palestinesi nel 1948) è la demografia. “È una delle cose che ci spinge e ci dà la motivazione per andarci”, ha detto. Ben-David è anche tra i fondatori del movimento Komemiyut, il cui fondamento è “la supremazia della Torah”.

Dopo un duro esilio… siamo tornati a Sion… a ereditare la terra. Ai suoi spazi vasti e dolci ci sentivamo profondamente legati, tra le altre cose, nel pascolare i nostri sacri greggi”. Questo è l’inizio della lettera, che continua: “Sono passati gli anni sui monti della Giudea e sulle colline di Binyamin, sulle scogliere di Samaria e sulla pianura del Giordano, trascurati e disperati. La loro gloria divenne cespugli e rovi, la loro grandezza si riempì di ladri selvaggi, sulle loro alture si aggiravano i banditi delle tende di Keidar. [Ma] in questo decennio, e specialmente nella sua ultima metà, è giunto un altro spirito a restaurare la corona, e il luogo in cui erano gli sciacalli diventerà un’oasi d’amore; dove vagavano i malvagi, i pastori pascoleranno le sacre greggi. Non ci saranno più le disoneste tende dello straniero, piuttosto le dimore d’Israele ne abbatteranno i pali».

In linguaggio comune: come è già stato analizzato dagli attivisti anti-espulsione, il progetto degli avamposti dei pastori ebrei – di espellere i pastori palestinesi (“stranieri”) – è un’operazione organizzata e finanziata che ha acquistato slancio nell’ultimo decennio.

Gli autori della lettera riciclano la vecchia fandonia che la terra (cioé: la Cisgiordania) era desolata e in rovina fino all’arrivo di noi meravigliosi ebrei. Questa menzogna, allora come oggi, è un mezzo per superare la dissonanza tra valori come “non rubare”, “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, “non uccidere” ecc., e i modelli di comportamento del sionismo, con l’arrivo dei sopravvissuti all’Olocausto e di altri sfollati ed esiliati ebrei, con la brama di proprietà terriere e il desiderio di arricchirsi.

Chi ha scritto la lettera ribadisce più volte la calunnia collettiva secondo cui i palestinesi (Keidar: uno dei figli di Ismaele) sono ladri per natura. Gli autori, i costruttori delle fiorenti fattorie non autorizzate, si dilungano a instillare disonestamente la paura dei ladri, per spiegare perché Hashomer Yosh è entrato in scena. “E qui, come un angelo dal cielo, sei comparso, o nostro amato Ariel Ben-David… quando hai assunto il ruolo [di] Hashomer Yosh, ci hai preso nel tuo cuore… dalla polvere ci hai sollevato alla dignità, da un piccolo gruppo a un grande popolo, da una condizione ignorata ad una rispettata.

E per tutto il percorso, hai provveduto a trovare nuove strade. … Tu personalmente sei stato veloce ad arrivare e rimanere, ad ascoltare da vicino, a compatire e a vivere. … Tu e i tuoi collaboratori avete girato tutto il paese spiegando, avete stabilito legami con tutti i tipi di uditorio, per far conoscere loro il grande sogno che condividiamo. … Non c’è dubbio che noi, poveri pastori, non avremmo mai raggiunto un pubblico tanto molteplice riuscendo a muoverlo all’azione. Il grande investimento ha dato i suoi frutti e i volontari hanno iniziato ad affluire nelle fattorie per fare i turni di guardia e altre attività di volontariato. … Improvvisamente la notte non ci si sente così soli.”

E in effetti alla fine del 2020 Hashomer Yosh contava su 950 volontari, secondo il più recente rapporto al registro delle associazioni senza scopo di lucro pubblicato sul sito web Guidestar.

“Abbiamo aperto le porte ad accogliere ottimi finanziamenti”, conferma la lettera, “per sostenere il sistema del volontariato, e alcuni di noi hanno persino goduto di considerevoli sovvenzioni che ci sono state date in segno di apprezzamento e amore …” A testimonianza di ciò c’è il budget di Hashomer Yosh nel 2020, di 5.103.838 shekel ($ 1.473.143): oltre 500.000 shekel a 12 dipendenti e quasi 4,5 milioni in varie attività.

Noi che paghiamo le tasse in Israele abbiamo pagato alle guardie delle potenti fattorie e alle loro tattiche di espulsione 2.069.118 shekel – la sovvenzione del governo a Hashomer Yosh solo in quell’anno. In quattro anni (2018–2021) abbiamo pagato l’organizzazione con le nostre tasse per quasi 6 milioni di shekel. Senza contare il silenzio che la maggioranza israeliana mantiene di fronte alla rapina.

E così gli autori della lettera possono pregare con certezza: «Al Signore benedetto: per tutti coloro che fedelmente lavorano alle pubbliche necessità, preghiamo si paghi il loro salario e ci sia data alla fine la speranza che il nostro sogno di salvezza si avveri».

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Discriminazione da record contro gli arabi in una città israeliana

Editoriale

20 luglio 2022 – Haaretz

La scorsa settimana l’amministrazione comunale di Afula [cittadina in Galilea, ndt.] ha cercato di battere un nuovo record in fatto di razzismo con la proposta di vietare alle scuole guida di lavorare in città, esclusa la zona industriale, durante lo Shabbat e nei giorni festivi. Sia chiaro: questa non è una città che improvvisamente si è stancata di avere per strada allievi di autoscuole. Quello che dà fastidio ai membri del consiglio comunale di Afula non sono le auto, ma le persone che le usano durante lo Shabbat, cioè gli abitanti delle cittadine arabe dei dintorni, come Nein, Mukeibla, Shibli, Umm al-Ghanam e Na’ura, che fanno pratica per prepararsi a sostenere l’esame di guida nella città. Questa spregevole proposta mira a impedire l’ingresso ad Afula di studenti e istruttori di scuola guida arabi.

Non hanno neanche cercato di farlo di nascosto. I consiglieri comunali saranno anche razzisti, ma non sono degli ipocriti. “Chiunque entri in questa città deve sapere che è una città ebraica,” ha dichiarato Itai Cohen, il consigliere comunale che ha presentato la proposta senza un briciolo di vergogna. Il comune di Afula ha una lunga storia di gesti razzisti. E, cosa ancora più orrenda, i suoi membri se ne vantano pure. “È come nel 2015 quando abbiamo lottato per affermare la nostra verità contro la vendita di terre agli arabi,” ha detto Cohen, che aveva guidato quella protesta. Poi nel 2019 c’è stato il tentativo di chiudere il parco municipale a chiunque non fosse un residente di Afula per bloccare tutti i visitatori arabi. E non dimentichiamoci del giuramento fatto dai consiglieri comunali quello stesso anno di fare in modo che Afula rimanga ebraica.

Il sindaco Avi Elkabetz aveva a suo tempo guidato la battaglia per tener fuori gli arabi dal parco municipale. Durante la campagna elettorale aveva anche promesso di preservare il carattere ebraico di Afula e aveva persino messo in guardia contro “l’occupazione del parco.” Costanti sono stati i tentativi di escludere gli arabi dalla città e la battaglia delle scuole guida va vista come un altro fronte della guerra per preservare la purezza ebraica di Afula.

Sia l’Association for Civil Rights in Israel [la più antica associazione in difesa dei diritti umani in Israele, ndt.] che Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, hanno inviato lettere a Elkabetz chiedendogli di ritirare questa proposta dall’ordine del giorno, sostenendo che la città non ha alcuna autorità legale di affiggere cartelli per impedire l’ingresso in città di studenti delle autoscuole durante lo Shabbat e i giorni festivi, men che meno quando la decisione è guidata da motivi inaccettabili. La proposta discriminatoria viola le libertà di movimento e di impiego e il diritto al lavoro degli insegnanti arabi durante lo Shabbat.

Afula non è la prima a uscirsene con una proposta simile. Nel 2003 la cittadina di Carmiel [cittadina israeliana, anch’essa in Galilea, ndt.] aveva tentato la stessa manovra razzista, ma il tribunale aveva chiarito che non l’avrebbe autorizzata. Ieri il consiglio comunale ha deciso all’unanimità di nominare un comitato per mappare le strade che vorrebbe chiudere e accertarsi che il processo sia legale. Si spera che il comitato chiarisca al comune che la proposta è razzista e va accantonata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid.

Hagai El-Ad

12 luglio 2022 – Haaretz

Non so perché il primo ministro Naftali Bennett abbia deciso di dare le dimissioni. Una cosa può e dev’essere subito chiara: la ragione che ha citato – l’impossibilità di far approvare il rinnovo delle disposizioni d’emergenza che estendono le leggi israeliane ai cittadini in Cisgiordania – è una narrazione di convenienza, ma non è nient’altro che questo. Non sono le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria [definizione biblica della Cisgiordania, ndt.] che hanno fatto cadere il governo, non è riguardo ad esse che andremo a votare, e quello che è stato svelato è l’esatto contrario di quanto sostenuto: non è un dissidio che ha fatto sciogliere la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ma un consenso generalizzato.

Secondo la narrazione che prende a pretesto le disposizioni il 1 luglio 2022 avrebbe dovuto essere il giorno d’inizio del collasso dell’ordine pubblico nell’“area di Giudea e Samaria” e la demolizione dei legami tra Israele e quelle terre. Il primo giorno della “giungla”, del “caos” e dell’“anarchia” – tutte citazioni dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar alla Knesset. Il procuratore generale Gali Baharav Miara, che, per dirla in modo cortese, fa frequenti dichiarazioni pubbliche, non ha lesinato sforzi per descrivere l’abisso che si avvicinava nel conto alla rovescia da giugno a luglio. Un abisso con da una parte il beato ordine pubblico e dall’altra il minaccioso caos.

Dobbiamo finire nell’abisso o saremo salvati all’ultimo momento? Mai prima d’ora così tanti hanno atteso con il fiato così sospeso la decisione riguardo alle disposizioni, di cui la maggioranza non aveva mai sentito parlare. In ogni caso, possiamo stare tutti tranquilli. Prima di mezzanotte la Knesset si è sciolta e le disposizioni sono state automaticamente prorogate. Ma eravamo davvero sull’orlo del disastro?

Innanzitutto, disposizioni o meno, non sarebbe cambiato niente. Migliaia di prigionieri palestinesi non sarebbero usciti marciando da un lato all’altro della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndt.]. I coloni non sarebbero stati improvvisamente giudicati da tribunali militari e nessuna strenua muraglia dell’ordine pubblico si sarebbe sgretolata.

C’è un recente esempio di un’altra norma temporanea (certo, temporanea) che non si è riusciti a rinnovare: la legge razzista che vieta ai palestinesi di sposarsi a ovest della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] se uno di loro è residente a est di essa. La legge è scaduta nel luglio 2021. E poi cosa è successo?

Improvvisamente migliaia di coppie palestinesi hanno ottenuto uno status legale in Israele? Legge o non legge, la ministra degli Interni Ayelet Shaked ha continuato con la politica precedente. Dopo sei mesi l’Alta Corte di Giustizia ha detto qualcosa al riguardo, e due mesi dopo la legge è stata di nuovo approvata. Legge o non legge, i palestinesi non potrebbero, non possono e non potranno ottenere uno status legale qui. Disposizioni o non disposizioni, lo status degli ebrei nei territori non verrà declassato. In fin dei conti siamo i padroni della terra. Di tutta la terra.

Secondo, si noti la confusione concettuale che cerca di definire lo status quo (con le disposizioni) come “ordine” e opposto al disastro previsto (senza disposizioni) come “caos”. Com’è esattamente lo status quo, in cui milioni di sudditi vivono senza diritti da 55 anni: “ordine”? Perché un futuro non basato su disposizioni di apartheid è “caos”?

Una delle precondizioni fondamentali dello stato di diritto è l’uguaglianza davanti alla legge. Le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria, come molti altri aspetti del regime di apartheid, sono l’esatto contrario dell’uguaglianza davanti alla legge. Pertanto sono una parte essenziale del caos, dell’anarchia morale, del disordine insito in un regime che privilegia un gruppo etnico-nazionale rispetto a un altro.

Terzo, tutto il teatrino riguardante le disposizioni su Giudea e Samaria non rivela alcun dissidio. Al contrario svela il consenso generalizzato tra l’opinione pubblica e il parlamento (eletto dalla parte dell’opinione pubblica titolare di diritti politici) riguardo al regime di supremazia ebraica sui palestinesi. Il consenso è così vasto e così solido che tutti sanno molto bene che non cambierà nulla. Questa è l’unica ragione per cui hanno voluto “giocare con il fuoco” con le disposizioni, in quanto il fuoco è ovviamente spento. Se fosse stata in gioco una questione fondamentale, non ci saremmo mai arrivati vicino.

Disposizioni o meno, quello che l’attuale vicenda (proprio come la legge sulla cittadinanza dell’anno scorso) rivela è che il regime è più potente di qualunque legge. E dato che ciò che conta sono i fatti fondamentali del regime, e non passeggere mosse politiche, non c’è niente di cui essere entusiasti.

Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid, tutti ne fanno parte (e grazie al governo del cambiamento per aver messo in chiaro questo punto). Se necessario gli aspetti formali prima o poi verranno risolti e i palestinesi continueranno a vivere secondo le leggi della giungla morale che abbiamo imposto loro. Quello che chiamiamo lo stato di diritto.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




La striscia di Gaza: una crisi israeliana, non climatica

Dotan Halevy

28 giugno 2022 – Haaretz

L’Institute for National Security Studies [INSS- Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, centro di studi indipendente, ma legato all’esercito e diretto dall’ex-generale Amos Yadlin, ndtr.] di Tel Aviv ha pubblicato recentemente un rapporto allarmante sulle catastrofiche conseguenze nella Striscia di Gaza in conseguenza della crisi climatica. Il documento, pubblicato anche da Ynet, [sito di notizie del quotidiano Yedioth Ahronot, ndtr.] solleva preoccupati interrogativi sulle pessime condizioni della popolazione civile palestinese a Gaza e suggerisce varie possibili misure per bloccarne il declino.

Questa è davvero una questione cruciale. Il cambiamento climatico sta rapidamente colpendo il Medio Oriente e richiede analisi e azioni urgenti. Tuttavia l’INSS sembra ritenere che la situazione umanitaria a Gaza sia un dato di fatto, causato da una “combinazione di fattori”, fra cui il conflitto con Israele. Questo è un punto di vista errato che nasconde deliberatamente il fatto che il motivo principale per cui gli abitanti di Gaza sono significativamente più esposti agli effetti della crisi climatica è il blocco israeliano.

Condurre la popolazione civile di Gaza sull’orlo del disastro umanitario è un obiettivo deliberato e quasi dichiarato delle politiche israeliane nei confronti di Gaza. Perciò, indipendentemente da qualsiasi misura fantasiosa si prenda per alleviare la crisi idrica o quella energetica nella Striscia, il governo israeliano deve prima riconoscere che isolare Gaza dalla Cisgiordania e da Israele è immorale e inefficace e deve essere fermato.

Nel mondo in cui viviamo non esistono più le economie autarchiche basate sulle risorse. Eppure con il blocco di Gaza ci si aspetta che un territorio con 2,1 milioni di abitanti sussista con acqua desalinizzata pompata principalmente nel proprio territorio. La scadente qualità dell’acqua a Gaza è presentata dagli israeliani come il risultato di “estrazione eccessiva” dalle falde acquifere locali, nonostante il fatto che non esista una sola regione in Israele, o più precisamente nel mondo, che sia costretta a fornire acqua a milioni di persone con questo metodo.

L’INSS afferma che la fornitura elettrica di Gaza è limitata per mancanza di soldi e combustibile, ma quello che non dice è che Israele usa spesso misure punitive collettive contro la popolazione locale e impedisce l’ingresso al carburante anche quando ci sarebbero i fondi. Ma anche se il carburante fosse abbondante, quasi nessuna delle infrastrutture e degli impianti disponibili per distribuire l’energia sono funzionanti a causa dei recenti bombardamenti israeliani.

Israele sta ritardando l’ingresso di migliaia di pezzi di ricambio necessari al buon funzionamento di sistemi idrici ed elettrici e questo ne compromette la continuità operativa. Secondo l’organizzazione Gisha, [ong israeliana che protegge la libera circolazione dei palestinesi, in particolare di Gaza, ndtr] gli impianti idrici ed elettrici a Gaza hanno bisogno di migliaia di pezzi di ricambio. L’INSS concorda che limitare l’ingresso di parti che Israele classifica come a “doppio uso”, cioè di materiali necessari per la costruzione e lo sviluppo, ma che possono anche avere scopi militari, mina qualsiasi tentativo di ricostruire la rete elettrica. 

In breve, Israele sta deliberatamente condannando gli abitanti di Gaza a gelare d’inverno e a morire di caldo d’estate (immaginate una notte di agosto nelle pianure costiere israeliane senza un condizionatore d’aria o un ventilatore), limitando il pompaggio di acqua e il drenaggio fognario e restringendo a poche ore al giorno tutti i servizi essenziali, inclusi quelli medici.

L’inchiesta afferma, in un certo senso favorevolmente, che a Gaza la fornitura di elettricità si affida sempre di più ai pannelli solari. L’INSS la vede come un’opportunità per incoraggiare la dipendenza da energie rinnovabili. Che cinismo! Magari seguendo il modello della fornitura idrica, la rete elettrica di Gaza sarà limitata solamente allo sfruttamento dei raggi di sole che passano fra le recinzioni lungo i confini.

Potremmo analizzare molti altri esempi: dovremmo preoccuparci dell’aumento della concentrazione di CO2 nelle acque del Mediterraneo e del declino di pesce disponibile da consumare a Gaza come risultato della crisi climatica? Israele comunque espande e limita come meglio crede le zone di pesca di Gaza e impedisce intenzionalmente ai suoi pescatori di guadagnarsi da vivere con la loro unica risorsa naturale direttamente accessibile. Persino le discussioni sul declino della quantità d’acqua piovana possono aspettare. Per prima cosa gli elicotteri israeliani per l’irrorazione di pesticidi dovrebbero smettere di usarli quando distruggono le zone erbose intorno alle aree di confine (“ripulire il terreno”) danneggiando le zone agricole di Gaza adiacenti alle recinzioni perimetrali.

La Striscia di Gaza non è particolarmente esposta ai danni del cambiamento climatico a causa della sua posizione geografica o del suo clima. Non è una regione climaticamente unica e autonoma, ma è al contrario un’enclave politica incastrata entro confini artificiali. Dal 1949, con l’accordo sul cessate il fuoco con l’Egitto, Gaza è stata isolata dalle zone di espansione agricola e dai bacini idrici che la rifornivano d’acqua. Dopo il 1967 è stata utilizzata da Israele come un serbatoio di manodopera a basso costo e un mercato monopolizzato dai prodotti israeliani e dal 2007 con il blocco militare israeliano è stata trasformata in quello che molti considerano “la più grande prigione a cielo aperto nel mondo.” Oggi la tragica situazione umanitaria a Gaza non è un errore, ma una componente delle politiche israeliane. Con o senza la crisi climatica.

Se volessimo stabilire un nesso fra la situazione a Gaza e la crisi climatica sarebbe più preciso pensarlo come una finestra affacciata sul panorama da incubo di un mondo immerso nella rivalità per le risorse e la creazione di enclave ambientali per popolazioni indesiderabili. La Striscia di Gaza è essenzialmente un aquario dimenticato in cui forze esterne onnipotenti determinano l’ammontare, i tempi e le circostanze dell’ingresso di cibo e risorse. A seconda delle intenzioni di questo potere esterno il livello di sussistenza potrebbe precipitare al punto da mettere a rischio la sopravvivenza (un disastro umanitario) o, se invece lo volesse, il benessere sarebbe a disposizione.

In un momento di peggioramento delle condizioni ambientali non è da escludere il timore che Paesi potenti adottino il modello dell’Acquario Gaza, imprigionando popolazioni nemiche, restringendo il loro accesso ad acqua ed energia e nutrendole o affamandole a loro piacimento. Tutto ciò, naturalmente, in base a considerazioni di sicurezza nazionale e alle leggi degli Stati sovrani per proteggere se stessi. La miseria, la fame e la disperazione risultanti possono essere convenientemente spiegate come il risultato del riscaldamento globale.

Molti sostengono che Israele abbia un importante ruolo da giocare nell’implementare riforme globali verso una transizione verso energie pulite ed economie sostenibili. Non perché Israele sia un grande inquinatore di diossido di carbonio, ma perché la sua capacità tecnologica e la sua rilevanza geopolitica ne possono fare un modello e una fonte di soluzioni per altri Paesi. Noi possiamo solo sperare che il modello che gli altri sceglieranno di implementare non sia quello che Israele ha adottato per la Striscia di Gaza.

È buono e giusto considerare seriamente la nostra preparazione per gli scenari da incubo che potrebbero verificarsi a causa della crisi climatica. Ma è persino più decisivo che questo dibattito non nasconda il fatto che le ragioni per cui certe popolazioni sono più esposte di altre sono chiaramente politiche. 

Le soluzioni della crisi a Gaza non saranno trovate con metodi fantasiosi per evitare questo problema, mantenendo allo stesso tempo l’isolamento di Gaza dal resto del mondo, ma riconnettendola al suo contesto geografico ed economico, aprendo prima di tutto i checkpoint al flusso regolare di merci e persone e poi connettendo la Striscia alle reti energetiche e idriche israeliane. Vale la pena di menzionare che, a causa del considerevole controllo israeliano del territorio palestinese, il diritto internazionale e l’etica impongono che si occupi della popolazione civile sotto il suo controllo. 

Che a Israele piaccia o no, 40 anni di occupazione de facto e altri 15 anni di blocco militare di Gaza implicano delle responsabilità. I danni causati durante tutto questo tempo e che stanno ancora continuando non si possono più imputare alla crisi climatica.

Dotan Halevy è un ricercatore post-dottorato della Polonsky Academy presso il Van-Leer Jerusalem Institute.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il Museo della Tolleranza di Gerusalemme ha poco a che fare con i musei o la tolleranza

Nir Hasson

12-giugno-2022-Haaretz

In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, il museo di Gerusalemme costruito su un antico cimitero musulmano — non tratterà dell’Olocausto. Il grandioso progetto ospiterà invece convegni, sagre e concerti.

Negli ultimi 18 anni i gerosolimitani sono stati tenuti fuori dall’enorme complesso che si trova tra le strade di Hillel e Menashe Ben Yisrael, nel cuore della città. Solo dopo una serie infinita di lamentele – tra scandali, crisi e liti legali – l’enorme Museo della Tolleranza è stato finalmente completato e si è avuta una graduale risoluzione dell’enigma: qual è il vero scopo del grande edificio bianco?

Il termine “museo” qui è fuorviante. Anche i direttori del sito lo ammettono. Il complesso comprende due piccoli musei, ma costituiscono solo una piccola parte dello spazio assegnato e degli scopi designati per il centro. La maggior parte delle attività previste qui saranno culturali ed educative: spettacoli, convegni, proiezioni di film ed eventi legati al cibo. “Faremo rivivere il centro della città”, promettono i responsabili del museo. Nel frattempo, devono risolvere un’altra controversia con il comune.

La storia del Museo della Tolleranza è iniziata nel lontano 2004, a seguito di un accordo tra l’allora sindaco Ehud Olmert e il rabbino Marvin Hier per l’assegnazione di terreni per un nuovo progetto speciale. Hier è il direttore del Simon Wiesenthal Center e uno dei fondatori del Museum of Tolerance di Los Angeles. Ha ampi legami con donatori: politici e celebrità statunitensi. La visione originale era quella di costruire un museo progettato dal famoso architetto Frank Gehry su un lotto vuoto, tra Independence Park e la colloquialmente chiamata Cats’ Square.

Alla cerimonia di posa della pietra angolare partecipò l’allora governatore della California Arnold Schwarzenegger, che promise che i musei della tolleranza avrebbero promosso l’idea di tolleranza proprio come le palestre promuovono la salute. Ma, nonostante il fascino hollywoodiano, il progetto incontrò problemi sin dall’inizio: la posa delle fondamenta della struttura rivelò che il vecchio parcheggio era stato costruito su una parte dell’antico cimitero musulmano della città, con centinaia di scheletri che spuntavano. Ciò ritardò la costruzione del museo di diversi anni dopo che il Movimento islamico si rivolse all’Alta Corte di giustizia.

La corte alla fine permise la continuazione della costruzione. Gli scheletri furono rimossi con un controverso scavo archeologico e il museo iniziò a prendere forma. Poi arrivò la crisi economica del 2008 che fece sì che il Centro Wiesenthal incontrasse difficoltà finanziarie. Gehry decise di abbandonare il progetto a causa delle controversie finanziarie e venne sostituito dagli architetti israeliani Bracha e Michael Hayutin. Anche loro ebbero dissapori con gli impresari e abbandonarono il progetto, venendo sostituiti dall’architetto Yigal Levi. La costruzione riprese e il grande edificio bianco crebbe verso l’alto.

Il progetto ha subìto un’altra crisi in seguito allo scoppio del coronavirus. Mentre altre società di costruzioni hanno continuato a lavorare nonostante la pandemia, i lavori al museo si sono interrotti per quasi due anni perché veniva costruito senza l’utilizzo di una ditta appaltatrice. Gli impresari hanno acquistato una società di costruzioni israeliana e hanno costruito la struttura utilizzando lavoratori ed esperti provenienti principalmente dalla Cina. Quando è scoppiata la pandemia, i lavoratori erano bloccati in Cina, impossibilitati a tornare in Israele. L’anno scorso i lavori sono ripresi e l’edificio era quasi ultimato.

Nella costruzione del museo sono state utilizzate tecniche innovative e all’avanguardia. Ad esempio, dal Portogallo sono state importate decine di migliaia di pietre che ricoprono l’esterno. Rimangono appese con un sistema di ganci, con scale che sembrano sospese a mezz’aria. I direttori del museo sono orgogliosi dell’alta qualità della finitura, sconosciuta negli edifici pubblici israeliani.

Inoltre vengono utilizzati un intonaco acustico speciale importato dalla Germania, pavimenti laminati importati dagli Stati Uniti, eleganti bagni accessibili, con illuminazione all’ultimo grido, sistemi audio e multimediali all’avanguardia, nonché mobili esclusivi importati dall’Italia e dalla Spagna, finestre intelligenti, porte insonorizzate, un auditorium polifunzionale in grado di adattarsi a diversi scopi, soffitti mobili ed altro ancora. Fonti del Wiesenthal Center non dicono quali siano stati i costi totali fino ad ora, ma sono stimati in oltre mezzo miliardo di shekel (150 milioni di dollari).

Il carattere sfarzoso dell’edificio serve a sottolineare l’incertezza lunga anni sui suoi usi. In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, dedicato principalmente allo studio dell’Olocausto, il museo di Gerusalemme, sulla base delle richieste di Yad Vashem, starà lontano dall’argomento. Con il proseguimento dei lavori i funzionari del municipio si sono resi conto che non si trattava di un normale museo, ma di una combinazione di un centro culturale, una sala congressi, un luogo di intrattenimento e una piazza cittadina.

In un’intervista con Haaretz i direttori del museo rivelano i loro progetti futuri, chiedendo un po’ più di pazienza ai residenti di Gerusalemme, promettendo che la sede diventerà il cuore pulsante della città. “Saremo una casa per tutti, dalla tenda di Abramo all’arca di Noè. Immagina di prelevare il Peres Center for Peace da Jaffa e trasportarlo a Gerusalemme”, afferma Jonathan Riss, il cui titolo è responsabile delle operazioni ma che segue questo progetto da 21 anni. “Il museo farà rivivere il centro della città”, promette.

Secondo il piano strategico preparato da Ayelet Frisch, ex consigliere di Shimon Peres, l’edificio fungerà da centro culturale con annesso luogo di intrattenimento. Nella parte anteriore c’è un giardino che commemora leader e premi Nobel. Dal giardino si accede ad un anfiteatro con una capienza di 1.000 persone.

Tra i sedili e il palco c’è un pavimento in vetro, che ricopre parti di un antico acquedotto scoperto durante i lavori. Sul palco c’è un sistema audiovisivo. L’anfiteatro si trasformerà in un cinema all’aperto, uno spazio per eventi e spettacoli e un’area meeting. All’interno dell’edificio si trova un altro teatro con 400 poltrone importate dall’Italia. Nelle pareti e nel soffitto è presente un sistema di illuminazione che può cambiare l’atmosfera nell’auditorium. L’auditorium, secondo i costruttori, sarà un centro conferenze che ospiterà eventi aziendali e allestimenti di spettacoli. Dietro il palco ci sono stanze per artisti. Altre destinazioni d’uso dell’edificio sono feste enogastronomiche, eventi per bambini e laboratori artistici.

L’edificio ha altri auditorium, aule per conferenze, uno spazio per un negozio di articoli da regalo, un ristorante, tre gigantesche cucine (carne, latticini e pareve [cibo non contenente né carne né latticini e quindi consumabile con uno degli altri due, ndt]), balconi con vista sul cimitero musulmano e sul Parco dell’Indipendenza, una sala di studio religioso con un piano separato per le donne e anche un’area per la polizia, destinata a contrastare possibili beghe provenienti da Cats’ Square. I livelli dell’edificio sono collegati tramite un sistema di scale sospese e un ascensore con una capacità di 80 persone. Le pareti dell’ascensore sono ricoperte da schermi a LED.

I due piani inferiori ospiteranno i due musei, il Museo della Tolleranza per i bambini e un Museo della Tolleranza per gli adulti. Conterranno ologrammi e sistemi multimediali che racconteranno la tolleranza nella società israeliana. Questi due spazi sono quelli più lontani dal completamento. I funzionari del museo affermano che anche se l’edificio verrà aperto presto, ci vorrà un altro anno e mezzo prima che parti del museo vengano aperte al pubblico. Il museo spera che il sito diventi una destinazione per alunni, soldati e poliziotti a Gerusalemme, un punto di riferimento per l’attività economica e culturale locale.

I funzionari del museo respingono le accuse secondo cui lo scopo dell’edificio è gradualmente cambiato nel corso degli anni e che, invece di un museo della tolleranza, Gerusalemme ha acquisito un elegante centro congressi. Dicono che tutti gli usi attualmente previsti fossero nei piani originali presentati quasi 20 anni fa. Ammettono che il nome “museo” è alquanto fuorviante e che i principali usi finali non saranno legati al museo.

Volevamo diventare un luogo che attirasse Paul McCartney a Gerusalemme, un luogo che aprisse una porta culturale nella città. Se non fosse stato per i ritardi causati dalla pandemia e dalla burocrazia l’edificio sarebbe ormai frequentatissimo, con sagre gastronomiche, spettacoli ed eventi adatti a una madre ultraortodossa e a un bambino musulmano”, afferma Frisch.

Il museo respinge un’altra affermazione: che sia legato all’ala destra dello schieramento politico. Otto mesi fa vi si è tenuto il primo evento, una cerimonia che segnava l’istituzione del Friedman Center for Peace. David Friedman era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’amministrazione Trump. All’evento c’era un elenco di alti funzionari di quell’amministrazione. Un corrispondente della CNN ha descritto l’evento come “cadere nello specchio di Alice nel Paese delle Meraviglie”, in una realtà alternativa in cui Trump è ancora presidente e Benjamin Netanyahu, che ha partecipato alla cerimonia, è ancora primo ministro.

Il fatto che il museo si sia impegnato ad affrontare la tolleranza nello sport e nei sistemi sanitari e educativi, sebbene apparentemente riluttante ad affrontare i problemi reali di Gerusalemme, come l’occupazione, la discriminazione e le violazioni dei diritti umani, ha contribuito alla sua immagine di istituzione di destra. “Non ignoro il problema arabo”, dice Riss.

Il nostro obiettivo è aiutare le persone a comprendere il disagio degli altri. Non posso intraprendere la missione di cambiare la società israeliana, ma sto cercando di trovare un ponte per il dialogo culturale attraverso film e multimedia”. I direttori del museo promettono che ci sono alcuni progetti in cantiere che contrastano con la loro immagine destrorsa. Chiedono di non pubblicare i nomi delle persone che hanno l’intenzione di partecipare, solo di rilevare che provengono dal lato “liberal” dello schieramento politico americano.

Nel frattempo il museo si è trovato in un altro conflitto con il Municipio di Gerusalemme. Molte persone al comune sono stufe della lentezza del completamento del museo. Dicono che il Centro Wiesenthal ha ottenuto il terreno più desiderabile e costoso della città, ma che rimane chiuso dietro le recinzioni, inaccessibile ai gerosolimitani da troppo tempo. “Il divario tra le loro dichiarazioni e azioni è molto grande”, afferma un alto funzionario della Città.

A causa di questa frustrazione è scoppiato un conflitto su Cats’ Square, di fronte al museo. Il progetto originale prevedeva che questa piazza facesse parte del complesso museale, con un altro auditorium costruito su di essa. Ma questo avrebbe richiesto alla città di trasferire la piazza ai costruttori del museo, cosa che si rifiuta di fare. L’anno scorso il museo si è rivolto al tribunale distrettuale, chiedendo che ordinasse al comune di trasferire il terreno. Mentre continuano i procedimenti legali, la scorsa settimana la città ha approvato una dura mozione contro il museo.

La mozione rivendica la nullità dell’accordo con il museo per il trasferimento della piazza. Il consiglio comunale ha chiesto l’apertura del museo entro quattro mesi. I funzionari della Città ammettono che non possono costringere i costruttori ad aprire, ma hanno affermato che potrebbero rendere loro le cose difficili. Nel frattempo la Città si rifiuta di consentire lo svolgimento di ulteriori eventi nel luogo. Una grande festa per il Giorno dell’Indipendenza che era stata programmata lì è stata cancellata. Di fronte a questi problemi, le imprese non si impegnano a fissare una data di apertura, ma affermano che accadrà entro mesi, non anni.

“Il museo ha infranto una serie di impegni”, afferma la componente del consiglio comunale Laura Wharton (Meretz). “Non solo non hanno rispettato i tempi, hanno cambiato la finalità principale di costruire un museo, per la quale era stato concesso il terreno. I costruttori ora ammettono che l’edificio fungerà da centro congressi, con un possibile uso secondario come museo. Non c’è trasparenza sui contenuti, che fino ad ora rimangono segreti. Lasciando da parte la questione se un cimitero musulmano sia un luogo appropriato per un museo della tolleranza, che dire se un centro città sia adatto per un centro congressi o luogo per eventi sfarzosi?”

Gli impresari sono convinti che il conflitto con il municipio sarà risolto. Elogiano il sindaco Moshe Leon, promettendo che, dopo tutti questi anni, la costruzione dell’edificio è giunta alla fase conclusiva. “Ciò che rende una città una capitale è la sua attività sociale ed economica: questo è ciò che stiamo contribuendo a dare a Gerusalemme e sarà sorprendente”, afferma Riss.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)