Israele attacca la Striscia di Gaza come “rappresaglia” per i palloni incendiari

MiddleEastEye

12 agosto 2020 middleeasteye

L’esercito israeliano afferma di aver colpito delle infrastrutture controllate da Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”

Israele ha ripetutamente attaccato la Striscia di Gaza come rappresaglia per il lancio nei giorni scorsi dall’enclave assediata di palloni incendiari.

L’esercito israeliano ha detto mercoledì di aver effettuato attacchi notturni su bersagli di Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”.

“Jet, elicotteri d’attacco e carri armati hanno colpito diversi obiettivi di Hamas”, si legge in un comunicato.

L’esercito ha detto che gli attacchi sono stati di “rappresaglia” per il lancio di molti palloni dall’enclave gestita da Hamas. I vigili del fuoco nel sud di Israele hanno detto che solo martedì i palloni hanno causato 60 incendi ma nessuna vittima.

Gli esplosivi legati a palloncini e aquiloni sono apparsi per la prima volta come arma a Gaza durante le intense proteste del 2018, quando i dispositivi improvvisati attraversavano il confine ogni giorno, provocando migliaia di incendi nelle fattorie e nelle comunità israeliane.

La scorsa settimana, per tre volte questi palloni sono stati lanciati da Gaza verso Israele, provocando ogni volta attacchi di rappresaglia contro le posizioni di Hamas.

Lunedì Hamas ha lanciato anche diversi razzi in mare dopo i ripetuti scambi di fuoco con Israele degli ultimi giorni, come hanno riferito fonti della sicurezza palestinese e testimoni oculari.

I razzi erano un “messaggio” a Israele per fargli sapere che i gruppi armati di Gaza non “rimarranno in silenzio” di fronte all’assedio israeliano e all’ “aggressione”, ha detto all’Agenzia France-Press una fonte vicina ad Hamas.

Un altro funzionario di Hamas ha detto che si è trattato di un tentativo di attrarre l’attenzione sul blocco ai tentativi di fornire aiuti alla Striscia.

“Hanno affermato che c’erano intese e accordi sull’avanzamento dei progetti, principalmente nel campo delle infrastrutture e sul piano umanitario, ma tutto sembra essere bloccato”, ha detto il funzionario ad Haaretz.

Chiusi i passaggi di frontiera

In risposta ai recenti lanci di palloncini Israele ha chiuso il passaggio delle merci verso la Striscia di Gaza a Kerem Shalom.

Hamas ha detto che la mossa dimostra “l’ostinazione di Israele nell’assedio” a Gaza, e segnalato che la cosa potrebbe causare un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria nel territorio.

Dopo la chiusura del valico di Kerem Shalom, martedì per la prima volta da aprile è stato aperto il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto.

Il traffico in entrambe le direzioni avrebbe dovuto essere consentito per tre giorni, permettendo agli abitanti di Gaza di lasciare l’enclave per la prima volta dall’inizio della pandemia.

Il valico di Rafah rappresenta per Gaza l’unico accesso al mondo esterno non controllato da Israele.

Il territorio palestinese è sotto il blocco israeliano dal 2007.

Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre dal 2008.

Nonostante una tregua l’anno scorso, sostenuta da Nazioni Unite, Egitto e Qatar, le due parti si scontrano sporadicamente con razzi, colpi di mortaio o palloni incendiari.

Alcuni analisti palestinesi affermano che il fuoco transfrontaliero da Gaza è spesso usato come moneta di scambio perché Israele dia il via libera all’ingresso nel territorio degli aiuti finanziari dal Qatar.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Gaza è un biglietto di sola andata”: come la politica israeliana di ricollocazione sta separando le comunità palestinesi

Henriette Chacar

30 giugno 2020 – +972

Israele sta sistematicamente indirizzando gli spostamenti dei palestinesi in una direzione: dalla Cisgiordania a Gaza. Le famiglie e i loro legali affermano che il trasferimento silenzioso sta frammentando la società palestinese.

Il 4 marzo Samar Saoud ha ricevuto finalmente la telefonata che stava aspettando. Le è stato detto di presentarsi la domenica seguente con i suoi tre figli al valico di Erez, e la famiglia avrebbe lasciato la Striscia di Gaza e sarebbe andata nella città cisgiordana di Nablus, dove vivono i genitori di Saoud.

Ma a Erez è stato detto a Saoud di tornarsene a casa. Implorare gli ufficiali dell’esercito israeliano non è servito a niente. Il valico, che separa Israele dalla Striscia di Gaza, era chiuso per tutto il giorno, probabilmente per la festa ebraica di Purim. Sarebbero state consentite solo le uscite per “casi umanitari” eccezionali, come ad esempio urgenti cure mediche.

Saoud era distrutta. Aveva già venduto la sua casa e i suoi beni. Non sapeva dove andare. Cresciuta in Cisgiordania, era andata a Gaza nel 2005 dopo essersi sposata con un palestinese della Striscia. Ma lo scorso dicembre suo marito se n’è andato in Turchia alla ricerca di opportunità di lavoro. Senza parenti stretti che le fornissero un aiuto, Saoud improvvisamente si è trovata senza casa.

Con il valico ancora chiuso, Saoud ha chiesto a suo cognato se lei e i suoi figli potessero stare con lui finché il suo caso fosse risolto. Suo cognato è disoccupato e, mentre era ospite nella sua casa, lei ha utilizzato il denaro ricavato dalla vendita della casa per provvedere alle due famiglie. “Negli ultimi quattro giorni ho mangiato solo un pasto. Sono sull’orlo di una crisi di nervi,” ha detto per telefono.

Il 12 marzo, dopo che Gisha, un’associazione israeliana per i diritti umani che si occupa della libertà di movimento dentro e fuori Gaza, ha presentato una richiesta urgente al tribunale distrettuale di Gerusalemme, Saoud ha avuto l’autorizzazione di attraversare il valico.

Quella stessa settimana, per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus, Israele ha ulteriormente ridotto i viaggi dei palestinesi da Gaza. Poi alla fine di maggio, in risposta all’imminente piano di annessione di parti della Cisgiordania, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che stava ponendo fine al coordinamento con Israele, compresi i permessi di viaggio. Le linee guida per presentare queste richieste rimangono vaghe.

Ma persino quando venivano consentiti gli spostamenti dei palestinesi le restrizioni erano così rigide che, dicono le critiche, di fatto hanno ridisegnato il tessuto della società palestinese nei territori occupati. Sono state impostate in modo da indirizzarli in una direzione – verso Gaza – il che, secondo un nuovo studio di Gisha, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, potrebbe rappresentare un crimine di trasferimento forzato di una popolazione sotto occupazione.

Comprendere questa politica, aggiungono questi analisti, mette in luce l’impatto potenzialmente devastante dell’annessione israeliana sui palestinesi.

Le ho detto che sarei tornato presto con dei dolci”

Come Saoud, Shada Shendaghli è nata in Cisgiordania ed ha sposato un uomo originario di Gaza. Il marito di Shendaghli, Issam, è tornato nella Striscia nell’ottobre 2016 e lei lo ha seguito due mesi dopo. Ora hanno due figlie, Masa e Rithal, entrambe registrate come residenti in Cisgiordania.

Ma per Shendaghli la vita nella Striscia era insopportabile, ammette Issam per telefono. Le interruzioni di corrente erano continue e avevano l’acqua solo due o tre giorni alla settimana. “Non abbiamo neppure le comodità basilari che ha la gente in Cisgiordania. Non ci si è abituata,” dice.

Shendaghli ha deciso di tornare a Ramallah. Ha fatto richiesta di un permesso, ma l’esercito israeliano ha respinto la domanda affermando che lei aveva accettato di lasciare la sua residenza in Cisgiordania e di spostarsi a Gaza. Quando Gisha ha presentato un ricorso a suo favore, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), l’istituzione militare che amministra l’occupazione, ha sostenuto che ora lei è registrata come residente a Gaza e quindi non ha il diritto di tornare nella sua casa in Cisgiordania.

Il divieto imposto da Israele alla libertà di movimento delle persone viola le leggi internazionali, afferma la portavoce di Gisha Miriam Marmur: “Ciò significa che nei territori palestinesi occupati moltissimi palestinesi non possono scegliere dove vivere e farsi una famiglia.”

La battaglia legale di Shendaghli è finita nel giugno 2019, quando le è stato consentito di tornare in Cisgiordania con le figlie. Ma ciò è avvenuto al prezzo di doversi separare da suo marito.

Issam ricorda che il giorno in cui la sua famiglia se n’è andata si è sentito “distrutto”. Tutta la sua vita è cambiata, dice: “Ora quando torno a casa dal lavoro mi affretto a ricaricare il telefono, contando i secondi prima di poter parlare con loro.”

Mia figlia comincia a piangere, chiedendomi di andare a casa,” continua. “Le dico che sto arrivando, che sono andato a prenderle un’altra bambola, che tornerò presto con dei dolci.”

Tra il 2009 e il 2017 Israele ha esaminato e accolto solo 5 domande di trasferimento degli abitanti di Gaza, tutte in seguito all’intervento giudiziario a favore dei richiedenti. Di queste cinque, quattro riguardavano minorenni che non avevano parenti che si occupassero di loro a Gaza. Al contrario, tra il 2011 e il 2014 il COGAT ha approvato 58 richieste di trasferimento a Gaza di abitanti della Cisgiordania (51 delle quali presentate da donne).

Israele sta cercando di fare in modo che in Cisgiordania vivano quanti meno palestinesi possibile,” afferma Marmur. “Perché un abitante di Gaza si sposti in Cisgiordania, lui o lei deve rispondere a criteri eccessivamente limitanti, che sono fondamentalmente impossibili da rispettare. D’altra parte perché un residente in Cisgiordania si trasferisca a Gaza tutto quello che lui o lei deve fare è firmare la ‘procedura di insediamento’.”

Si tratta di un documento che gli abitanti palestinesi della Cisgiordania sono tenuti a sottoscrivere al loro ingresso a Gaza, in cui Israele condiziona il permesso di entrata a una dichiarazione secondo cui intendono trasferire in permanenza il loro “centro della loro vita” a Gaza. Gli verrà consentito di rientrare in Cisgiordania solo in “rari casi per ragioni umanitarie”, continua il documento. Firmando questo accordo, i palestinesi di fatto rinunciano alla loro residenza in Cisgiordania.

Questo procedimento è stato creato dall’esercito israeliano nel 2009, in seguito a un ordine della Corte Suprema, come un modo per controllare la ricollocazione di palestinesi da una parte dei territori occupati ad un’altra. Ma da quando esso è stato introdotto, gli spostamenti da Gaza alla Cisgiordania sono diventati “quasi impossibili”, afferma Dani Shenhar di HaMoked, un’organizzazione israeliana di assistenza legale. Non un solo caso a cui l’organizzazione ha lavorato nell’ultimo decennio e che abbia coinvolto un abitante di Gaza che ha fatto domanda di trasferimento ha avuto successo, aggiunge. “Gaza è un biglietto di sola andata. Se ti sposti lì, non tornerai indietro.”

In seguito a ciò, dice Shenhar, HaMoked ha smesso di accettare questi casi “perché rimaniamo bloccati. I tribunali accettano fondamentalmente la premessa israeliana ed è molto difficile mettere in discussione questa situazione.”

Il COGAT ha ignorato la richiesta di +972 Magazine di fornire dati sul numero di domande da parte di palestinesi per cambio di residenza da Gaza ricevute, approvate e rifiutate dal 1967, quando ha occupato e iniziato ad amministrare il territorio. Non ha neppure comunicato quanti palestinesi abbiano dovuto firmare la rinuncia alla residenza né ha risposto sul perché l’ingresso a Gaza richieda loro di rinunciare al loro status di residenti.

Invece il COGAT ha scritto in una mail che, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007, “lo Stato di Israele ha istituito una politica di differenziazione tra la Striscia di Gaza e l’area di Giudea e Samaria (la denominazione israeliana della Cisgiordania) – e, di conseguenza, si è deciso per un verso di limitare il passaggio tra la Striscia di Gaza da una parte e Giudea e Samaria, così come dall’altra in Israele, solo per quei casi umanitari ed eccezionali che rispondono alle procedure previste da Israele.”

Ma, nonostante quello che sostiene, le ragioni di Israele per separare Gaza e Cisgiordania sono politiche, non riguardano la sicurezza, afferma Tareq Baconi, un analista dell’International Crisis Group [Ong con sede in Belgio, ndtr.]. Ciò è ancora più evidente, spiega, considerando che le restrizioni israeliane contro la Striscia iniziarono nel 1989, durante la Prima Intifada, anni prima che Hamas arrivasse al potere.

La frammentazione della società palestinese, aggiunge Baconi, è stata esacerbata dalla divisione politica tra Fatah e Hamas, che ha sia reso interna questa divisione che garantito che essa continui: “La situazione è talmente diversa tra i due luoghi che è cambiata persino la consapevolezza politica,” nota, così tanto che “per chi vive in Cisgiordania la Striscia di Gaza potrebbe benissimo essere un altro pianeta.”

Anche se là il livello di sofferenza è senza precedenti, Gaza non dovrebbe essere considerata un’eccezione, sostiene Baconi: “La Striscia di Gaza è semplicemente una versione estremizzata dell’Area A (le enclave della Cisgiordania sotto totale controllo palestinese). È una versione estremizzata di Kufr ‘Aqab (a Gerusalemme est). È una versione estremizzata di Umm al-Fahm (una città palestinese in Israele), nel senso che quello che abbiamo in tutta questa terra è un processo di controllo israeliano di territori che circondano le bolle palestinesi.

Baconi dice che, mentre l’obiettivo finale di questa politica può non essere noto, la strategia di confinamento dei palestinesi in contenitori urbani e di riduzione al minimo degli spostamenti tra di essi è “il classico divide et impera, è la regola numero 1 del colonialismo”.

Due diversi territori occupati

In assenza di un meccanismo per cambiare residenza i palestinesi hanno dovuto trovare altri modi per ricongiungersi con le loro famiglie in Cisgiordania. Nel giugno 2010, in una lettera ad HaMoked del colonnello Uri Mendes, comandante per il coordinamento e le operazioni del COGAT, Israele stimava che circa 35.000 palestinesi il cui indirizzo di residenza era Gaza potevano trovarsi in Cisgiordania. Israele li definisce criminali infiltrati, fatto che li intrappola ulteriormente in una costrizione burocratica.

Uno di questi abitanti è Rawan, che nel 2018 si è spostata a Ramallah per stare con suo marito, un palestinese di Gaza che stava già vivendo in Cisgiordania. Per iniziare una vita insieme è arrivata con un permesso medico di un giorno autorizzato dall’esercito israeliano e, nonostante le conseguenze, è rimasta dopo la scadenza del termine.

Per Rawan persino il semplice compito di uscire dalla sua casa di Ramallah per comprare il pane è diventato un’impresa rischiosa. Due anni fa, un pomeriggio, l’esercito israeliano ha posto Ramallah sotto blocco militare per impedire attacchi “per emulazione”, dopo che alcuni palestinesi avevano compiuto un attacco letale sparando da un’auto nelle vicine colonie. “In un primo momento ho pensato che fosse un’allucinazione,” dice Rawan. “Dopo questo sono dovuta rimanere a letto per una settimana.”

Benché Rawan si sia spostata in una zona che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese, se scoperta l’esercito israeliano potrebbe arrestarla, incarcerarla e deportarla di nuovo a Gaza, ed è per questo che ha chiesto di essere citata solo per nome. Per vivere in Cisgiordania rispettando le leggi militari israeliane, Rawan dovrebbe cambiare il suo indirizzo all’anagrafe palestinese. Benché abbia presentato la richiesta all’ufficio per gli affari civili dell’ANP, la modifica [della residenza] risulta valida solo dopo che Israele l’ha approvata.

Dopo aver occupato nel 1967 Gerusalemme est, Gaza e la Cisgiordania, Israele ha fatto un censimento e ha rilasciato documenti di identità ai palestinesi registrati all’anagrafe. Con la firma del secondo accordo di Oslo (“l’accordo di Taba”) nel 1995, il controllo dell’anagrafe è stato trasferito all’Autorità Nazionale Palestinese appena costituita. Tuttavia in pratica l’esercito israeliano ha continuato ad operare in base alle proprie copie del registro anagrafico.

Nel settembre 2007, pochi mesi dopo che Hamas aveva preso il controllo di Gaza e due anni dopo il “disimpegno” israeliano dalla Striscia, l’esercito impose severe restrizioni agli spostamenti di persone e beni verso e dall’enclave costiera, che da allora Israele ha posto sotto assedio. Un anno dopo, in risposta a una richiesta di HaMoked, un portavoce del COGAT affermò che l’esercito ora considerava la Cisgiordania e Gaza come due territori distinti e separati. Pertanto le richieste di cambio di domicilio possono essere approvate solo da alti funzionari in circostanze eccezionali per ragioni umanitarie.

Nel 2011, come eccezionale gesto politico nei confronti di Tony Blair, rappresentante del Quartetto [composto da USA, UE, ONU e Russia) per il Medio Oriente, Israele accettò di autorizzare le domande di 5.000 abitanti di Gaza che intendevano cambiare residenza e spostarla in Cisgiordania. Secondo Gisha alla fine di quell’anno Israele vagliò circa 2.775 richieste su un totale delle 3.700 presentate dal governo palestinese.

La reale portata della politica di separazione da parte di Israele non è chiara, perché le autorità hanno costantemente rifiutato di rilasciare informazioni riguardo al numero di persone direttamente interessate da essa. Quando +972 Magazine ha chiesto perché continui a controllare l’anagrafe dei residenti a Gaza dato che Israele sostiene di non occupare più la Striscia, il COGAT ha risposto che il registro non è “sotto l’autorità dell’Amministrazione Civile.”

Non abbiamo più tempo”

Poco dopo che Rawan è arrivata in Cisgiordania nel gennaio 2018, ha iniziato a cercare lavoro. “Devo lavorare. Sono il tipo di persona che non riesce a stare ferma,” dice in un caffé di Ramallah.

Alla fine ha trovato un impiego con un gruppo che fornisce servizi alle donne a Gerico. Ma il lavoro prevedeva che viaggiasse nell’Area C della Cisgiordania, che è sotto totale controllo israeliano e in cui i soldati pattugliano liberamente le comunità palestinesi. Lavorare fuori da Ramallah significa per Rawan rischiare quotidianamente di essere presa e deportata. “Voglio vivere la mia vita. Voglio lavorare. Quindi ho confidato in Allah. Ma dentro di me ero terrorizzata,” afferma.

Ogni volta che Rawan attraversa un posto di controllo israeliano “sento come se la mia vita stesse per finire.” Scherza riguardo a come la paura e lo stress di cercare di cambiare domicilio siano così grandi che hanno influenzato la sua possibilità di rimanere incinta: può sentire il suo corpo irrigidirsi.

Rawan dice di aver fatto domanda di residenza presso l’ufficio palestinese per gli affari civili, ma non si sa cosa ne sarà ora che l’ANP ha posto fine al coordinamento con Israele. Quando è il momento di stare davanti a un soldato israeliano, scherza, vorrebbe scambiare la sua terra di famiglia nel villaggio palestinese distrutto di Isdud (oggi Ashdod), di cui è originaria la sua famiglia, con un permesso.

I miei genitori hanno lavorato perché potessimo tutti andarcene da Gaza. Tutti ce ne vogliamo andare. La situazione lì è insopportabile,” dice Rawan. “Per Israele chiunque sia di Gaza è un terrorista. Ma io voglio vivere la mia vita. Voglio godere della vita. Non abbiamo più tempo.”

Secondo Rawan un impiegato dell’ufficio per gli affari civili a Ramallah le ha detto che l’unico modo per ottenere la residenza è concedere favori sessuali a un leader locale palestinese. Un altro funzionario del ministero degli Interni palestinese le ha detto che la sua occasione migliore sarebbe di lavorare con un collaborazionista legato ai servizi di sicurezza israeliani.

In uno studio pubblicato da Gisha e HaMoked nel 2009 le associazioni hanno avvertito che la procedura per chiedere la residenza “stabilisce un metodo di esame delle domande che si basa su rapporti personali e decisioni arbitrarie non trasparenti.”

Secondo la dottoressa Yael Berda dell’università Ebraica di Gerusalemme, ora docente ospite al dipartimento di sociologia dell’università di Harvard, questa ambivalenza e la sensazione di corruzione sono intenzionali. “La chiamo ‘inefficienza efficace,” spiega. “Quel tipo di incertezza è particolarmente efficace se vuoi frenare i movimenti delle persone, controllarle e creare timore e sospetto.”

Berda nota che tale controllo della popolazione ha precedenti in Israele. Tra il 1948 e il 1966, pochi mesi prima che iniziasse l’occupazione del 1967, Israele utilizzò un governo militare per controllare decine di migliaia di palestinesi che erano rimasti all’interno dello Stato da poco formato. Nonostante gli fosse stata concessa la cittadinanza israeliana, queste comunità vennero sottoposte a coprifuoco e potevano viaggiare solo con un permesso.

Il sistema israeliano di permessi e la politica di separazione sono quindi tutt’altro che un’invenzione unica: “È un modo veramente colonialista e imperialista di sottomettere la popolazione,” spiega Berda. Comunque, aggiunge, Israele ha portato questo repertorio coloniale “a un estremo, perché attualmente è il sistema di controllo della popolazione più sofisticato al mondo.”

Per Baconi l’annessione non può essere compresa separatamente dal blocco di Gaza, che a sua volta non può essere slegato dalle pratiche che colpiscono i rifugiati e i cittadini palestinesi di Israele. “Sono tutte politiche che intendono garantire il minor numero possibile di palestinesi sul territorio, che la maggior parte del territorio sia controllata dagli israeliani e che ci sia un contesto messo a punto per garantire uno Stato suprematista ebraico,” afferma.

Henriette Chacar è una redattrice e inviata palestinese di +972 Magazine. Produce, ospita ed edita il podcast di +972. Laureata alla scuola di giornalismo della Columbia, Henriette in precedenza ha lavorato a un settimanale del Maine, a Rain Media per PBS Frontline e The Intercept.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nessun permesso di uscita per i palestinesi senza documenti

Ola Mousa

26 giugno 2020 – The Electronic Intifada

Khadija al-Najjar rovistava tra le fotografie dei suoi figli e nipoti agitandosi sempre più.

Alcuni dei suoi figli adesso vivono in Europa o in Nord America. Ma Khadija, di 72 anni, non può andarli a trovare. Non possiede né può ottenere un documento di identità palestinese nemmeno per cercare di andare da loro. Senza quello non ha nessun documento che le consenta di partire.

Non è l’unica. Secondo il locale ufficio del Ministero per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, a Gaza ci sono circa 5.000 palestinesi che condividono la sua stessa situazione. Israele ha interrotto la consegna di carte di identità destinate ai residenti della striscia costiera dopo il 2007, quando Hamas ha preso il totale controllo di Gaza togliendolo a Fatah, avendo vinto le elezioni parlamentari dell’anno precedente.

Kadijja e suo marito, Muhammad Issa al- Najjar, vivono nel quartiere di al-Rimal di Gaza City. Muhammad è nato nel 1945 a Masmiya al-Kabira, un villaggio palestinese nell’allora distretto di Gaza (attualmente sul lato israeliano del confine) che è stato spopolato con la forza e in gran parte distrutto durante la Nakba del 1948.

Ha studiato in Egitto prima della guerra del 1967 ed è uno di quelli che non si sono registrati nel censimento israeliano del 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Per questo motivo lui e la sua famiglia non hanno potuto tornare a Gaza fino al 1999 quando, sulla spinta di un’ondata di ottimismo sul processo di pace e della promessa che Gaza sarebbe diventata una versione araba della ricca e dinamica Singapore, lo hanno appunto fatto.

Siamo entrati a Gaza con permessi temporanei, dato che i miei parenti vivono a Gaza”, ha detto Muhammad. Ma solo metà della famiglia è riuscita ad ottenere carte di identità permanenti. “Abbiamo fatto domanda di ricongiungimento familiare; (i miei figli) Nasser, Razan ed io le abbiamo ottenute. Purtroppo mia moglie, Ahmad e Lina non ci sono riuscite.”

Khadijja si arrabbia quando guarda la sua carta di identità temporanea. Non le serve a niente. Non vede sua figlia Lamis, di 41 anni, che vive nel Regno Unito, da 20 anni. Nasser, di 38 anni, ha vissuto in Canada negli ultimi 5 anni. Ha anche dei fratelli a Dubai che spera di andare a trovare.

La madre dei cinque figli spera ancora di ottenere una carta di identità, ma nonostante abbia fatto diverse richieste alle autorità competenti a Ramallah nella Cisgiordania occupata, le è stato sempre detto che la decisione spetta agli israeliani.

Mi sembra di essere in prigione; non posso vedere i miei figli e i miei nipoti né celebrare Hajjj o Umrah. Quando mio figlio Nasser era a Gaza, stava per ottenere un lavoro in una banca, ma è stato escluso quando hanno saputo che non aveva una carta di identità”, ha raccontato Khadijja a The Electronic Intifada.

In trappola

Almeno Mahmoud Mufid Abdel-Hadi, di 40 anni, ha un lavoro. Benché non possegga una carta di identità palestinese, ha trovato impiego come project manager nel settore delle ONG. I suoi genitori avevano lasciato Gaza prima del 1967 per andare a lavorare negli Emirati Arabi Uniti, dove Mahmoud è nato, e la famiglia non ha potuto tornare facilmente dopo il 1967 e l’occupazione.

Il processo di pace e la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) hanno cambiato tutto per Abdul-Hadis, i Najjars e decine di migliaia di altri che sono tornati nei territori occupati negli anni ’90, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

Mahmoud è tornato a Gaza con la sua famiglia nel 1998. Erano otto, ma solo due hanno ottenuto le carte di identità. Lui, i suoi genitori ottantenni e tre dei suoi fratelli sono tra i 5.000 palestinesi che aspettano di ottenerle.

Siamo vittime delle attuali circostanze politiche. Per quel che so, la pratica per la carta di identità è chiusa. Israele, che non fa che discriminare i palestinesi, non ha interesse ad aiutarci a Gaza. Purtroppo l’ANP, che è parte del negoziato, si è mostrata debole di fronte agli israeliani”, ha detto.

Ma Mahmoud ritiene i leader politici palestinesi di tutte le fazioni responsabili della mancata soluzione di questa questione con Israele.

Queste pratiche dovrebbero essere tra i principali elementi dei negoziati, accanto a questioni come quella dei prigionieri”, ha detto a The Electronic Intifada. “A Gaza Hamas ne porta la responsabilità in quanto fazione dominante.”

Si è dichiarato frustrato dal fatto che la questione delle carte di identità non è più prioritaria.

Siamo in una prigione a cielo aperto, condannati a vita. Senza documenti di identità non abbiamo potuto uscire da Gaza da quando siamo arrivati”, ha detto.

L’ultima parola

Il blocco è interamente causato dagli israeliani, ha detto Saleh al-Ziq, del Ministero per gli Affari Civili di Gaza.

Migliaia di palestinesi vivono attualmente a Gaza senza documenti di identità. Il ministero non ha ricevuto l’autorizzazione israeliana per emettere le loro carte di identità”, ha detto al-Ziq a The Electronic Intifada.

Le 5.000 persone in questione erano l’ultimo gruppo il cui status dei documenti di identità era in corso di trattativa quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, ha detto al-Ziq. Per la maggior parte si sono trasformati in permessi temporanei a fronte della domanda di ricongiungimento familiare. Quando le trattative sono state interrotte lo status di queste persone non è mai stato risolto.

In base agli accordi tra Israele e l’OLP degli anni ’90, Israele ha l’ultima parola sui documenti di identità. Mentre è l’ANP ad emettere le carte di identità, Israele emette i loro numeri, senza i quali esse non sono valide. Le informazioni contenute nelle carte sono scritte sia in arabo che in ebraico.

Purtroppo alle persone senza carta di identità sono negati i fondamentali diritti sociali e politici. Israele rifiuta di concedere le carte con il pretesto del dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza. Non so quale forma di minaccia le carte di identità costituiscano per Israele.”, ha detto al-Ziq, aggiungendo di sperare che la questione possa risolversi presto.

Iman al-Sir, di 30 anni, è originaria di Jaffa. Disponendo solamente di un documento temporaneo, non si è mai sentita stabilizzata in Palestina, ha detto a The Electronic Intifada.

Iman è cresciuta nel campo profughi di Yarmouk a Damasco, ma è tornata a Gaza con sua madre nel 2012 a causa del conflitto in Siria. Suo nonno era stato espulso in Egitto ed è andato in Siria dopo la guerra del 1967, durante la quale aveva combattuto con gli eserciti arabi.

Fin dalla mia infanzia mio padre ci ha sempre parlato della Palestina e della nostra terra a Jaffa, da cui siamo stati sradicati. La prima volta che io ho visto un soldato israeliano è stato in televisione nel 2000.”

Ha detto che per molti anni, prima di poterlo fare realmente, aveva desiderato tornare a vivere in Palestina.

Tuttavia quando sono arrivata a Gaza ho scoperto che è l’occupazione israeliana che controlla la mia identità. Che razza di pace è questa? Come si può promuovere la pace con uno Stato che non riconosce la tua esistenza?”

Ha detto a The Electronic Intifada che se avesse saputo che sarebbe finita in una “prigione a cielo aperto”, avrebbe affrontato il pericoloso viaggio verso l’Europa, intrapreso da tanti rifugiati siriani.

Almeno in Europa non avrei mai dovuto provare l’esperienza dell’occupazione israeliana che decide se io sono o non sono palestinese”.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Annessione israeliana: se questa volta Abbas fa sul serio, i palestinesi dovrebbero appoggiare la reazione dell’ANP

Ghada Karmi

18 giugno 2020 – Middle East Eye

Se Israele procederà con la prevista annessione il presidente dell’ANP ha redatto una tabella di marcia per riportare la Cisgiordania occupata ai giorni pre-Oslo

Il mese scorso il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto un duro discorso a Ramallah, denunciando la prevista annessione di Israele e minacciando ritorsioni.

Abbas ha presentato un piano di ritorsioni, ma come nel caso del ragazzo che gridava al lupo, nessuno gli crederà fino a quando non accadrà davvero.

A prima vista, il piano non contiene molto che non sia già stato minacciato, ma che non è mai stato messo in pratica, nemmeno in momenti di gravi provocazioni, come nel 2017, quando Israele ha installato dei metal detector agli ingressi dell’area della moschea di al-Aqsa, o nel 2018, quando l’ambasciata americana fu trasferita a Gerusalemme in violazione del diritto internazionale. Questa volta sarà diverso?

Fine delle relazioni

C’è ragione di crederlo. Il piano di Abbas è più dettagliato delle minacce precedenti, e stabilisce le misure che riporterebbero la Cisgiordania occupata ai giorni precedenti [rispetto agli accordi di] Oslo se Israele procedesse con la progettata annessione.

Prima che nel 1993, con gli accordi di Oslo, fosse creata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), era Israele, in quanto potenza occupante, ad essere responsabile del benessere quotidiano, dei servizi, degli stipendi e della polizia per la popolazione palestinese. Dopo Oslo, [Israele] è stato in grado di scaricare questi oneri sull’ANP, e questa è da allora la situazione. 

Il piano di Abbas prevede di porre fine a quegli accordi, interrompendo tutte le relazioni con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza, chiamandosi fuori da Oslo. Ciò potrebbe includere lo scioglimento dell’ANP, con il suo ruolo ridotto a funzioni civili come la gestione di scuole, ospedali e stazioni di polizia. La soluzione a due Stati, annientata dall’annessione israeliana, non sarebbe più un’opzione.

Ne dovrebbero seguire drastici tagli al bilancio dell’ANP, riducendo gli stipendi di migliaia di persone, impiegate nella sicurezza e altro. Il pagamento mensile di 105 milioni di dollari a Gaza verrebbe tagliato e il trasferimento delle tasse finora raccolte da Israele per conto della ANP si interromperebbe, causando gravi perdite finanziarie e forse addirittura la chiusura totale delle attività del governo.

In altri ambiti, l’ANP cesserebbe di pagare per le cure mediche dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani. Le autorizzazioni per l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele non verrebbero più trattate dall’ANP, che significherebbe la non ammissione e una conseguente perdita di redditi. I lavoratori disperati dovrebbero quindi richiedere i permessi direttamente all’amministrazione militare israeliana dei territori occupati.

Fine al coordinamento per la sicurezza

L’aspetto più significativo del piano, tuttavia, è la minaccia di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele e gli Stati Uniti. Abbas questa volta sembra fare sul serio, e secondo fonti israeliane il processo è già iniziato.

Secondo quanto riferito, la CIA è stata informata dell’intenzione dell’Autorità Nazionale Palestinese che i suoi 30.000 agenti armati della polizia e dell’intelligence cessino di comunicare con le loro controparti israeliane e statunitensi già all’inizio del mese prossimo, essendo l’annessione prevista a partire dal 1 ° luglio. È stato riferito che le forze di sicurezza dell’ANP hanno iniziato a ritirarsi dall’area B, per la maggior parte controllata da Israele ma con un ruolo ridotto dell’ANP.

Se Abbas decide di continuare su questa strada, il prezzo per i palestinesi sarà alto: 80.000 impiegati dell’ANP – il 44 % di tutto il settore pubblico – che lavorano nel settore della sicurezza rimarranno senza stipendio, con tagli di bilancio di circa un terzo del totale delle uscite dell’ANP. La fine del coordinamento per la sicurezza sarà anche un duro colpo per Israele, che per decenni ha fatto affidamento sul subappalto all’ANP delle attività di polizia in Cisgiordania.

Il calcolo di Abbas è che sicuramente la violenza, premeditata o spontanea, sarà fomentata da queste difficoltà e inevitabilmente esploderà nella Cisgiordania occupata, costringendo Israele a controllare nuovamente la popolazione palestinese. Rimane senza risposta il dubbio se ciò accadrà veramente.

Hamas e molti all’interno di Fatah hanno manifestato il proprio appoggio al piano di Abbas, ma esso ha suscitato uno scarso interesse nella società civile palestinese nel suo complesso, che si ricorda di minacce simili in precedenza finite nel nulla. C’è una generale disillusione nei confronti della dirigenza palestinese, vista come incompetente e corrotta. Di conseguenza, nella stampa palestinese ci sono stati pochi commenti e analisi sul piano di Abbas.

Evitare il collasso

Il fatto che le precedenti minacce dell’ANP di porre fine alla cooperazione per la sicurezza con Israele siano state vane è comprensibile. Israele ha il controllo totale sul movimento di persone e beni all’interno dei territori occupati. Lo stesso Abbas deve chiedere il permesso a Israele per viaggiare e le competenze essenziali dell’ANP dipendono dall’autorizzazione di Israele. Senza di essa l’attività economica nella Cisgiordania occupata collasserebbe, paralizzando l’ANP.

Eppure Abbas non ha alternative. Se Israele procede all’annessione, ciò porrà fine alla ragione di esistere dell’ANP. L’Autorità è nata per costruire uno Stato palestinese; l’annessione renderebbe obsoleto questo progetto. In questo contesto la risposta dell’ANP è razionale e l’unico modo per salvare sé stessa dal crollo.

Questo triste ciclo di eventi risale ad Oslo, e prima di questo, all’inesplicabile autorizzazione concessa dal 1967 ad Israele dalla comunità internazionale di colonizzare i territori palestinesi e di imporre il controllo su ogni aspetto della vita dei palestinesi. In questo senso, l’ultima spinta verso l’annessione da parte di Israele non è una sorpresa – e il contro-progetto palestinese arriva semmai troppo tardi.

Ciò lascia aperta una serie di questioni fondamentali: come saranno affrontate le pesanti conseguenze per la popolazione? Che tipo di piano esiste per affrontare la risposta israeliana, che sarà brutale?

Anche con tutto questo, e nonostante tutte le sue lacune, il piano di Abbas merita che i palestinesi mettano da parte il loro scetticismo e lo appoggino, come dovrebbe fare chiunque sia solidale con loro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la sua casa con la sua famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove lei è cresciuta ed ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Un cameraman palestinese è stato licenziato dall’Associated Press in seguito a un diverbio con l’Autorità Nazionale Palestinese

YUMNA PATEL  

29 maggio 2020 Mondoweiss

Il licenziamento di un cameraman da tempo in servizio alla AP (Associated Press) sta suscitando scalpore in Palestina per via delle accuse secondo cui l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) vi avrebbe avuto una parte.

Eyad Hamad, un giornalista di Betlemme che lavora con Associated Press da 20 anni, è stato licenziato dal suo incarico questa settimana dopo che la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe presentato una denuncia all’Associated Press accusando Hamad di “istigazione, maltrattamenti e minacce di violenza”.

Sebbene l’Autorità Nazionale Palestinese abbia negato pubblicamente qualsiasi coinvolgimento, l’agenzia ha addotto il reclamo dell’Autorità Nazionale Palestinese come la goccia che ha portato al licenziamento di Hamad.

Nella lettera inviata ad Hamad dall’agenzia di stampa, che Mondoweiss ha potuto vedere, Josef Federman, capo dell’ufficio di Associated Press per Israele e i territori palestinesi, elenca una serie di “violazioni” della politica aziendale commesse da Hamad nell’ultimo anno.

La maggior parte delle violazioni elencate da Federman riguardano post “inappropriati” di Hamad che commentano i leader politici palestinesi sui social media, e il suo coinvolgimento nelle proteste contro Israele e contro le violazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese nei riguardi dei giornalisti palestinesi, tra cui la sua partecipazione a una manifestazione per il giornalista palestinese Muath Amarneth accecato all’occhio destro da una pallottola israeliana.

“Come sa, la Associated Press richiede ai suoi dipendenti di mostrare una rigorosa neutralità nel loro lavoro professionale e nell’attività pubblica”, recita la lettera.

“Tuttavia, nonostante i numerosi avvertimenti degli anni passati, lei ha continuato a violare questo principio di base del nostro lavoro”, scrive Federman.

Un litigio personale finito male

La lettera di Associated Press sostiene che il licenziamento sarebbe dovuto a svariati casi, tra cui uno in cui Hamad avrebbe minacciato uno dei suoi colleghi, ma Hamad e suoi colleghi giornalisti affermano che il motivo del licenziamento sia stato un litigio personale tra Hamad e il portavoce della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese Luay Irzeiqat .

Secondo numerosi giornalisti del posto, i problemi per Hamad sono iniziati quando ha escluso Irzeiqat da un gruppo Whatsapp di giornalisti di zona, presumibilmente a causa del fatto che Hamad non voleva funzionari governativi nel gruppo.

“Dopo essere stato escluso dal gruppo, Irzeiqat ha iniziato a minacciare Hamad, dicendo che avrebbe chiamato l’Associated Press per farlo licenziare” ha detto a Mondoweiss Thaer Fakhouri, 31 anni, giornalista freelance di Hebron e membro del gruppo Whatsapp in questione.

Nella stessa settimana, le autorità palestinesi hanno arrestato Anas Hawari, un giovane giornalista che ha lavorato con la rete di notizie Quds, affiliata ad Hamas.

La brutale detenzione di Hawari, che a quanto si dice è stato picchiato e ha dovuto essere ricoverato in ospedale a seguito del suo arresto, ha causato tumulti all’interno della comunità dei giornalisti in Cisgiordania, spesso oggetto di censura da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di campagne di arresti se ritenuti critici nei confronti del governo di Mahmoud Abbas.

Alcune fonti sostengono che a seguito dell’arresto di Hawari, Hamad avrebbe inviato una serie di messaggi vocali ai funzionari della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, tra cui Irzeiqat, condannando le loro azioni e minacciando di bruciare pneumatici di fronte al tribunale locale per protestare contro la detenzione di Hawari.

Hamad ha poi partecipato a una manifestazione contro l’arresto di Hawari davanti ad un edificio governativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, mostrando un poster con su scritto: “Presidente Mahmoud Abbas, chiedo protezione dalle agenzie di sicurezza [palestinesi]”.

Nella lettera di licenziamento inviata da Associated Press, Federman fa cenno al fatto che la denuncia dell’Autorità Nazionale Palestinese contro Hamad includesse la presunta minaccia di bruciare pneumatici. Federman rimprovera Hamad anche per il suo ruolo nella protesta e le sue accuse contro l’Autorità Nazionale Palestinese di corruzione “insinuando che siano dei collaborazionisti”.

“Eyad [Hamad] non stava cercando di porre in discussione solo l’arresto di Anas [Hawari], ma anche la violenza usata dalla polizia palestinese”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, aggiungendo che Hamad ha parlato a lungo delle violazioni dei diritti dei giornalisti palestinesi, sia da parte delle amministrazioni israeliane che di quelle palestinesi.

“La stessa cosa vale per Muath”, ha continuato Fakhouri, riferendosi al caso di Muath Amarneh. “Eyad non voleva difenderlo solo come giornalista, ma come un essere umano ingiustamente accecato”.

“Non credo che difendere i diritti umani, anche come giornalista, dovrebbe essere considerato un crimine. Soprattutto non tale da farti perdere il lavoro”, ha detto Fakhouri.

Due pesi e due misure

La risposta locale al licenziamento di Hamad è stata di rabbia e shock: sia nei confronti di Associated Press per aver licenziato Hamad in quelle che molti considerano circostanze ingiuste, sia per l’evidente coinvolgimento dei funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Per quanto riguarda il licenziamento di Hamad, l’Associated Press ha dichiarato ai media che non avrebbe rilasciato dichiarazioni su “fatti personali”. Nel frattempo, l’Autorità Nazionale Palestinese ha continuato a negare di essere a conoscenza di una qualche denuncia presentata all’agenzia contro Hamad.

I giornalisti e gli attivisti locali si sono rivolti ai social media per chiedere che Hamad riavesse il suo posto, mentre il Sindacato Palestinese dei Giornalisti (PJS) ha condannato il “licenziamento arbitrario” di Hamad e ha invitato Associated Press a tornare indietro rispetto alla sua “decisione faziosa e ingiusta”.

“Come giornalista palestinese, sono preoccupato per le ripercussioni”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, affermando che molti dei suoi colleghi hanno espresso il timore che l’Autorità Nazionale Palestinese possa esercitare il proprio potere per indurre le agenzie di stampa locali e internazionali a licenziare chiunque la critichi apertamente.

“Sono stato arrestato sette volte dal governo palestinese a causa del mio lavoro con agenzie legate a fazioni politiche rivali”, ha detto Fakhouri.

Tutto ciò che vogliamo come giornalisti è di poter di mostrare al mondo ciò che sta accadendo qui sul campo senza paura di essere imprigionati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania o da Hamas a Gaza.”

Un tema ricorrente nelle molte critiche alla decisione di Associated Press è stata la sensazione che se nella posizione di Hamad ci fosse stato un giornalista israeliano, la situazione sarebbe potuta andare diversamente.

Quando gli è stato chiesto se concordasse con quella sensazione, Fakhouri ha detto “Sì, credo che sarebbe stato diverso se non fosse stato un palestinese”.

“Molti giornalisti israeliani erano in precedenza soldati israeliani, che tutti i giorni sparavano e uccidevano i palestinesi”, ha detto Fakhouri, aggiungendo che “alcuni di loro servono ancora nelle riserve militari”.

“Come può essere che si faccia parte di un apparato militare che commette crimini di guerra ed essere un giornalista ‘imparziale’ come si vanta di essere l’Associated Press?” si chiede Fakhouri.

“Perché difendere i diritti umani e la libertà di stampa è motivo di licenziamento e le violazioni israeliane dei diritti umani no?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il mondo non fermerà l’annessione israeliana. Cosa faranno i leader palestinesi?

Omar H. Rahman

22 maggio 2020 – 972mag.com

Quattro eventi della scorsa settimana danno un’idea dell’incapacità della comunità internazionale a bloccare l’annessione – e perché solo un cambiamento della politica palestinese la costringerà ad agire.

Martedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha reso quella che inizialmente sembrava essere una affermazione epica, in cui ha dichiarato che i palestinesi sono “sciolti” dai loro accordi con Israele, compresi quelli relativi al coordinamento della sicurezza. Abbas ha fatto tali dichiarazioni numerose volte nel corso degli anni, facendo sì che molti ignorassero le sue osservazioni. Tuttavia, stanno venendo fuori relazioni confuse e non verificate che suggeriscono come, per la prima volta, potrebbe effettivamente dare corso alla sua decisione.

Che mantenga o no la promessa, la dichiarazione di Abbas avviene in un momento critico per i palestinesi, perché facciano il punto sulla situazione della loro lotta politica. Mentre il movimento nazionale palestinese si fa sempre più diviso e impotente, Israele ha fatto notevoli sforzi per massimizzare i propri guadagni a sue spese. Il più importante è l’impegno del governo israeliano ad annettere formalmente gran parte della Cisgiordania occupata, mossa che molti considerano un punto di non ritorno.

In effetti, quattro eventi della scorsa settimana hanno offerto uno speciale, simbolico distillato di come la comunità internazionale – e i palestinesi – abbiano regolarmente fallito nel fermare il percorso di Israele verso l’annessione.

Il 13 maggio, nonostante la pandemia globale, il segretario di stato americano Mike Pompeo ha fatto una visita a sorpresa di 12 ore per incontrare diversi leader israeliani pochi giorni prima che il nuovo governo di unità prestasse giuramento. Il viaggio è stato detto era concentrato su questioni geopolitiche come l’Iran e la Cina, ma alcuni osservatori hanno ipotizzato che fosse parzialmente destinato a puntellare l’appoggio degli evangelici USA all’amministrazione Trump. Altri invece hanno pensato che potesse anche essere un tentativo di rassicurare le autorità israeliane – tra cui Benny Gantz, partner della coalizione di Benjamin Netanyahu e “primo ministro supplente” – del sostegno americano all’annessione.

Gantz, durante la campagna elettorale, aveva apertamente dichiarato il suo sostegno all’annessione e aveva insistito sul fatto che avrebbe dato corso alla mossa solo se realizzata in “coordinamento” con la comunità internazionale. In linea con questa condizione, il nuovo accordo di governo sostiene che i primi ministri a rotazione “agiranno in pieno accordo con gli Stati Uniti, insieme agli americani, per quel che riguarda le mappe e il dialogo internazionale sull’argomento [dell’annessione]”. La teatrale visita in persona di Pompeo potrebbe aver placato ogni dubbio sulla posizione di Washington secondo cui, come ripeteva il segretario di Stato a Gerusalemme, “questa è una decisione che spetta agli israeliani “.

Due giorni dopo la visita di Pompeo, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Unione Europea si sono incontrati a Bruxelles per definire una risposta unitaria ai piani di annessione di Israele. I leader europei, tra cui il capo della politica estera europea Josep Borrell, hanno per settimane dato segni di voler prendere una dura posizione contro Israele, per impedire qualsiasi mossa definitiva a partire dal 1 ° luglio.

Si dice che alcune nazioni – tra cui Francia, Irlanda, Svezia, Spagna e Belgio – stiano spingendo per sanzioni contro Israele, segnalando la potenziale gravità dell’annessione. Altri paesi all’interno del blocco – in particolare Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Romania e Grecia – hanno frenato ogni tentativo di agire contro Israele. Negli ultimi anni Netanyahu ha sapientemente costruito solide relazioni con i cosiddetti paesi di Visegrad, mirando a dividere le posizioni sulla politica mediorientale dell’UE, le cui decisioni devono essere prese all’unanimità.

Non sorprende che l’incontro si sia concluso con nulla di fatto. Non sono stati proclamati impegni o dure condanne – una conclusione che fornisce ai leader israeliani ulteriori motivi per considerare l’Europa debole e insignificante. “Gerusalemme ha espresso soddisfazione perché la discussione si è conclusa senza dichiarazioni o decisioni concrete”, ha riferito Noa Landau ad Haaretz, “e perché Borrel non ha attaccato Israele durante la conferenza stampa, ma sottolineato piuttosto la necessità di rispettare il diritto internazionale”. Israele ha anche apprezzato che Borrel abbia respinto una domanda sul confronto fra l’annessione della Cisgiordania e l’annessione della Crimea da parte della Russia, affermando che “ci sono differenze tra l’annessione di territori che appartengano a uno Stato sovrano e quelli dei palestinesi”, ha aggiunto Landau.

Mentre si svolgevano queste discussioni, sabato scorso l’Autorità Nazionale Palestinese si preparava a tenere una riunione a Ramallah, evidentemente con le varie fazioni palestinesi, per discutere il futuro del movimento nazionale alla luce dei piani di annessione di Israele. La settimana precedente, durante una tavola rotonda ospitata dal Middle East Institute [centro culturale e di ricerca senza fini di lucro né affiliazione politica, a Washington dal 1946, ndtr.], il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh aveva affermato che la discussione interna fra i palestinesi potrebbe portare alla ristrutturazione dell’ANP, all’abrogazione formale degli accordi di Oslo e alla riformulazione delle relazioni fra Palestina e Israele.

Eppure l’incontro non è mai avvenuto. I funzionari palestinesi hanno addotto una serie di motivi per rimandarlo, inclusa la necessità di aspettare fino a quando si fosse insediato il nuovo governo israeliano. Allo stesso tempo, Hamas e la Jihad islamica, che, ha detto Shtayyeh, erano state invitate a partecipare e avevano segnalato la loro disponibilità, hanno cancellato la propria adesione pochi giorni prima dell’incontro, mettendo in dubbio la serietà del presidente Abbas a muoversi in una nuova direzione. Altri resoconti suggerivano che funzionari europei e arabi avessero fatto pressioni su Abbas affinché non prendesse una netta posizione fino a quando il governo israeliano non avesse espresso ufficialmente le sue intenzioni sull’annessione.

Domenica, Netanyahu l’ha fatto. Mentre il nuovo governo israeliano prestava giuramento alla Knesset [Parlamento, ndtr.] a Gerusalemme, Netanyahu ha dichiarato che “è giunto il momento” di proseguire con l’annessione, descrivendola come l’epilogo di un “processo storico”.

Il processo a cui il primo ministro si riferiva non sono soltanto i tre anni durante i quali si è coordinato con l’amministrazione Trump per elaborare quello che alla fine è diventato l’ “accordo del secolo”. Né sarebbero i 52 anni di attività di insediamento, costruzione di infrastrutture pubbliche e cambiamenti demografici in Cisgiordania che hanno reso l’annessione de jure più una formalità simbolica che una radicale decisione politica. Piuttosto, è stato il processo di colonizzazione più che centenario che ha portato l’intera terra tra il fiume [Giordano] e il mare [Medterraneo] sotto il controllo esclusivo di Israele.

Una realtà che è stata resa possibile la settimana scorsa dalle azioni esemplari di tutte e quattro le parti: il sostegno degli Stati Uniti, l’acquiescenza dell’Europa, la frammentazione dei palestinesi e la risolutezza di Israele a portare inesorabilmente avanti il suo progetto sionista, anche mentre discuteva di divisione e pace durante i negoziati.

Nei prossimi mesi continueranno probabilmente a fare più o meno lo stesso. L’amministrazione Trump raddoppierà il proprio sostegno ai massimalisti territoriali israeliani, in particolare con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre. Gli Stati europei possono intraprendere azioni individuali, ma è improbabile che un’Europa unita prenda una posizione ferma. L’UE potrebbe apportare alle sue relazioni con Israele lievi modifiche che non richiedano il consenso, ma alla fine non riuscirà a dissuadere Israele dalla sua intraprendenza.

Non resta che la leadership palestinese, la cui inazione e indecisione di fronte all’annessione israeliana è sconcertante. La dichiarazione di Abbas di abbandonare gli accordi con Israele, se effettivamente rispettata, potrebbe rappresentare una rottura importante col passato. Ma senza un piano d’azione dettagliato e concreto, e con dubbi diffusi sull’effettivo impegno dell’ANP riguardo alle sue parole, la dichiarazione di Abbas suona solo una minaccia vuota. Abbandonare gli Accordi di Oslo senza una chiara idea su come districarsi dalle strutture che si sono consolidate per 27 anni è la ricetta per una vasta confusione e, nel peggiore dei casi, il caos.

Nel mutevole panorama globale, da qualche tempo è evidente che l’imperativo di un cambiamento immediato spetta in definitiva ai palestinesi. È molto più facile per le terze parti pronunciare belle frasi piuttosto che intraprendere azioni politiche fondamentali ma politicamente costose da realizzare. Solo un cambiamento reale e decisivo nella posizione palestinese può costringere altre parti a reagire in modo significativo. Eppure sono stati sprecati anni di tempo prezioso per prepararsi e organizzare, e non sono stati fatti nemmeno i primi passi di un riordino del palazzo palestinese.

Se i palestinesi potranno avere qualche possibilità in questa fase avanzata, l’ANP deve allentare la sua presa sul potere, riconciliare le diverse fazioni politiche, ripristinare la legittimità delle istituzioni politiche e guidare il suo popolo e le sue risorse nel perseguire una nuova, popolare ed efficace strategia nazionale.

I palestinesi non possono fermare l’annessione da soli; è necessaria una solida risposta internazionale per invertire questa pericolosa strada. Ma demandando ogni speranza politica alle azioni di altri, la leadership palestinese può essere certa che nessun cambiamento arriverà fino a quando non sarà troppo tardi.

Omar H. Rahman è scrittore e analista politico specializzato in politica mediorientale e politica estera americana. Attualmente è assistente ricercatore presso il Brookings Doha Center [campus a Doha in Qatar del Brooking Institute di Wahington, ndtr.], dove sta scrivendo un libro sulla frammentazione palestinese nell’era post-Oslo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il Palestine Chronicle esamina la risposta dei media israeliani alla decisione di Abbas di annullare tutti gli accordi

Redazione di Palestine Chronicle

22 maggio 2020 – Palestine Chronicle

I media israeliani hanno reagito alla decisione del 19 maggio di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, di annullare tutti gli accordi con Israele, incluso il cosiddetto coordinamento per la sicurezza, con uno “sbadiglio”, oltre alla solita retorica anti-palestinese.

Il Palestine Chronicle ha esaminato le opinioni di quattro commentatori israeliani sulle decisioni di Abbas. Sono quelle di Israel Harel (Haaretz), Ruthie Blum (Jerusalem Post), Avi Issacharoff (The Times of Israel) e Elior Levy (YNet News).

Israel Harel (Haaretz) 

Harel sembra interpretare la decisione di Abbas esclusivamente dalla prospettiva di come ciò potrebbe impattare sulla “sicurezza di Israele”. Per Harel né la pace né la giustizia fanno parte delle sue opinioni politiche. È solo preoccupato che l’interruzione del ‘coordinamento per la sicurezza’ metta in pericolo la sicurezza degli israeliani, inclusi i coloni ebrei illegali. Ma Harel non ne è preoccupato. 

Harel scrive: 

Quello che spaventa gli israeliani più degli attacchi terroristici è che Israele dovrà di nuovo prendersi la responsabilità del benessere e dell’assistenza di 2,5 milioni di palestinesi. A cosa siamo arrivati?

Chi si occupa della situazione dei palestinesi sa che l’ANP non sarà smantellata, che il coordinamento per la sicurezza non cesserà e che i missili puntati da Nablus sull’aeroporto di Ben Gurion non saranno lanciati almeno nell’immediato futuro. Israele ha imparato un paio di cose dalla sua fuga da Gaza (ma non da quella dal Libano). Quando c’è una preoccupazione reale per una bomba che sta per esplodere nell’Area A in Cisgiordania, se ne occupano il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito, non il ‘coordinamento per la sicurezza.’”

Ruthie Blum (The Jerusalem Post)

Come sempre nei commenti pubblicati dai giornali di destra israeliani, le opinioni di Blum sono sprezzanti verso i palestinesi, prevedibilmente interessate solo a mostrare il senso di autocommiserazione israeliano e vittimizzazione nei suoi riferimenti all’Olocausto e alla presunta cultura ‘anti-semita’ dei palestinesi.

Blum scrive:

Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha bisogno di materiale nuovo. Persino le mosche sul muro del suo compound a Ramallah devono aver sbadigliato martedì sera quando ha annunciato, per l’ennesima volta, che l’ANP non è più vincolata dagli accordi precedenti con Israele.

Anche se i grandi capi presenti devono aver dubitato che Abbas stia veramente per mantenere la minaccia di porre fine alla cooperazione economica e sulla sicurezza con lo Stato di Israele, non hanno potuto ammetterlo ad alta voce.

Il che ci porta alla vera ragione di questo suo ultimo concione: ricordare alla cosiddetta comunità internazionale il suo ‘dramma’ e costringere i leader arabi a simpatizzare, almeno formalmente, con le sue ultime rimostranze.

Non che sia roba nuova, naturalmente. No, Abbas ha poche carte da giocare e cerca di darsi importanza fingendo che lo scopo principale della sua vita sia di … ottenere l’indipendenza per il suo popolo e liberare dalla ‘occupazione illegale’ israeliana la Cisgiordania e Gaza.

Tramite mezzi di comunicazione e programmi scolastici rigidamente controllati, egli promuove l’idea che la ‘catastrofe’ della fondazione di Israele nel 1948 sia stata la vera ‘occupazione illegale della Palestina.’ Negazionista dell’Olocausto e allo stesso tempo uno che accusa Israele di crimini simili a quelli dei nazisti, egli incoraggia l’antisemitismo nella sua società.”

Avi Issacharoff (The Times of Israel) 

Anche se Issacharoff ha capito perché i politici israeliani non stiano prendendo sul serio le affermazioni di Abbas, egli avverte che questa volta potrebbe essere diverso. 

Issacharoff scrive:

Gli israeliani, specialmente i politici, tendono a sottovalutare le dichiarazioni altisonanti di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. E forse hanno ragione.

Questa volta Abbas ha agito per essere coerente con le sue parole. Dopo aver annunciato all’inizio di questa settimana che l’ANP non era più vincolata agli accordi con Israele a causa dei piani di annettere parti della Cisgiordania, Abbas ha agito per interrompere nei fatti il coordinamento per la sicurezza con Gerusalemme. Nelle ultime 24 ore fonti israeliani hanno confermato che l’ANP ha bloccato tutto il coordinamento.

Questo è un colpo di scena. A molti ‘porre fine a coordinamento’ potrebbe sembrare uno slogan senza senso. Ma un passo simile può avere importanti conseguenze sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Per i palestinesi le forze di sicurezza palestinesi per la prevenzione si basano in gran parte su questo coordinamento. Confusioni di questo tipo sono accadute nel passato, ma è solo nelle ultime 24 ore che la polizia palestinese è stata improvvisamente sorpresa da ordini concreti di interrompere certe attività israeliane nell’Area A [sotto totale controllo dell’ANP, ndtr.].

Ignorati e umiliati ripetutamente in anni recenti da Israele e USA, i leader dell’ANP stanno mostrando i muscoli per dimostrare che sono intenzionati a giocarsi tutto, persino a danneggiare concretamente se stessi per provare che non capitoleranno davanti alle pressioni americane e israeliane.”

Elior Levy (Ynet News

Levy, come Issacharoff, ha preso piuttosto seriamente le dichiarazioni del presidente dell’ANP, definendo la sua decisione ‘un’arma apocalittica’. Ha anche analizzato le parole che Abbas ha scelto così attentamente, suggerendo che il leader palestinese ha di proposito lasciato un margine che gli permetterebbe di mantenere il ‘coordinamento per la sicurezza’ anche dopo il suo drammatico annuncio. 

Levy scrive: 

Per quanto riguarda l’ANP, se Israele vuole procedere all’annessione e ritornare ai giorni in cui doveva occuparsi di 2,5 milioni di palestinesi, gestire scuole, sistema sanitario, raccolta rifiuti, economia e sistema fognario, sono i benvenuti. 

Le armi apocalittiche si chiamano così perché si è già visto in precedenza che sono ugualmente distruttive per entrambe le parti.

Lo scioglimento dell’ANP significa anche che centinaia di migliaia di impiegati e burocrati che si sono abituati a una vita piuttosto confortevole sono ora disoccupati e probabilmente non molto contenti di rinunciare al loro stile di vita. 

Inoltre, senza l’ANP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) perderebbe tutta la sua credibilità presso l’opinione pubblica palestinese, aprendo la porta ad Hamas, che potrebbe prendere il controllo totale della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. 

Comunque, Abbas ha scelto le sue parole molto attentamente … garantendosi uno spazio di manovra.

Noi non siamo più vincolati dagli accordi che abbiamo firmato in precedenza” ha detto Abbas. Preso letteralmente significa che i palestinesi sono ancora obbligati, ma non ne rispondono più.

Ciò significa che la collaborazione per quanto riguarda la sicurezza è ancora in piedi e che l’OLP sta ancora lavorando con l’intelligence israeliana e la CIA.

Martedì sera i palestinesi hanno lanciato un segnale di avvertimento a Israele … Concludendo, i palestinesi stanno aspettando per vedere come si metteranno le cose. Alcuni di loro credono che tutta la storia dell’annessione andrà ad esaurirsi a causa delle sue ripercussioni sulle relazioni israeliane con la comunità internazionale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)