Aggrapparsi ai corpi dei martiri è il modo in cui Gantz sfugge a questioni imbarazzanti

Ahmed El-Komi

10 settembre 2020 – Middle East Monitor

Due giorni dopo che la scorsa settimana i gruppi della resistenza palestinese e le autorità dell’occupazione israeliana hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz ha chiesto al gabinetto per la Sicurezza dello Stato di continuare a trattenere i corpi dei martiri palestinesi. Lo scorso mercoledì, in un momento accuratamente valutato da Israele, il gabinetto ha dato la sua approvazione.

Gli israeliani trattengono decine di corpi di palestinesi e rifiutano di restituirli alle loro famiglie, sostenendo che sono stati uccisi mentre compivano o cercavano di compiere attacchi contro lo Stato occupante. Sono tenuti in refrigeratori speciali e tombe circondate da pietre, ma senza lapidi. Su ogni tomba viene lasciata invece una placca metallica con un numero specifico, per cui sono chiamati “cimiteri di numeri”, in quanto alle tombe vengono assegnati numeri invece dei nomi dei martiri.

L’Autorità di Vigilanza israeliana ha informato dell’approvazione della richiesta di Gantz da parte del gabinetto anche nel caso in cui i martiri non fossero affiliati ad Hamas. È come se il ministro, e primo ministro in alternanza, volesse attirare l’attenzione sulla sua vendetta contro il movimento. Ciò gli consente anche di agire da leader e limitare la sua guerra a un solo avversario.

La mancata restituzione dei corpi di terroristi è parte del nostro impegno per la sicurezza dei cittadini israeliani,” ha spiegato Gantz, “e ovviamente per far tornare a casa i ragazzi.” Quest’ultimo è un riferimento ai quattro soldati israeliani catturati da Hamas nel 2014.

La decisione del gabinetto fa seguito a quella presa esattamente un anno fa, il 9 settembre, dalla Corte Suprema israeliana, che ha dato alle autorità dell’occupazione il permesso di continuare a trattenere i corpi dei palestinesi. Ciò fa di Israele l’unico Paese al mondo che continua ad adottare una politica di vilipendio dei cadaveri, con una chiara e provocatoria sfida alla comunità internazionale e in spregio ad ogni norma legale e sociale.

La tempistica dell’ultima decisione è servita a coprire il fallimento di Gantz contro la resistenza palestinese e come tentativo di placare i cittadini israeliani ed evitare le loro domande e critiche. Qualche settimana fa aveva affermato in modo arrogante: “Nel sud, Hamas continua a consentire che vengano lanciati attacchi con palloni esplosivi nello Stato di Israele. Non siamo disposti ad accettarlo e in seguito a ciò abbiamo chiuso il valico di Kerem Shalom.

Farebbero meglio a non violare l’incolumità e la sicurezza di Israele. Se ciò non avverrà, noi dovremo rispondere, e con la forza.” Tuttavia non ha osato toccare un solo ragazzo palestinese che lancia i palloni da Gaza.

Gantz ha fatto seguito alla sua decisione di trattenere i corpi con l’appoggio alla costruzione di 5.000 unità abitative nelle colonie illegali della Cisgiordania occupata, dimostrando che stava cercando un’immaginaria vittoria che gli fornisse una via d’uscita per evitare imbarazzanti domande dopo il suo fallimento. Vuole preservare la sua immagine di ministro forte di fronte al pericolo e di uomo politicamente “pulito” nel corrotto contesto politico di Israele.

Questo non è un comportamento tipico da parte di Gantz, diplomato alla scuola della leadership militare di Israele; è più adeguato a chi cerca una via d’uscita, come quelle utilizzate dagli ex-generali e ministri israeliani sempre in cerca di una vittoria di altro genere. Sfuggono al dovere di dare spiegazioni e risposte sulle sconfitte.

Nel caso di Gantz sembra che cinque mesi di lavoro con il primo ministro Benjamin Netanyahu gli abbiano insegnato come cavarsela da situazioni complicate bluffando. Tuttavia molte delle decisioni prese da Netanyahu e Gantz, entrambi abili nelle menzogne, sono condizionate dalle posizioni che impongono loro i gruppi della resistenza palestinese. L’unica risposta che un ministro del livello di Gantz può escogitare è mostrare i muscoli…e aggrapparsi ai corpi dei martiri palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele: processi segreti per mettere in carcere con accuse false e ingiudicato l’operatore di un’associazione benefica palestinese

Asa Winstanley

5 settembre 2020 – MiddleEastMonitor

Il rilascio un mese fa di Mahmoud Nawajaa, dirigente palestinese del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), è stato un gradito promemoria del fatto che il potere delle persone può essere efficace.

Quando alla fine di luglio Nawajaa è stato rapito da una banda di soldati israeliani nel cuore della notte, il Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni ha mobilitato i suoi sostenitori in tutto il mondo.

L’appello è partito e in tutto il mondo le persone hanno risposto, chiedendo il suo rilascio. È stato liberato dopo 19 giorni di prigione senza accusa né processo.

“L’occupazione israeliana e il regime dell’apartheid coloniale e dei coloni mi hanno arrestato per ostacolare il movimento BDS, distorcerne l’immagine e intimidire gli attivisti”, ha affermato Nawajaa.

Le pressioni funzionano. Una forte pressione internazionale funziona ancora meglio. Sono profondamente grato a tutti coloro che hanno fatto pressione sull’apartheid Israele perché mi liberasse, la vostra solidarietà mi ha dato forza e ha mantenuto viva la speranza di riunirmi alla mia amata famiglia e alla più grande famiglia del BDS.”

Per quanto questo sia stato un risultato felice, Nawajaa è solo uno delle migliaia di prigionieri politici palestinesi detenuti in gravissime condizioni nelle prigioni israeliane.

L’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer afferma che attualmente i detenuti sono 4.500, tra cui 160 bambini, e 360 “detenuti amministrativi”, cioè prigionieri a tempo indeterminato senza accusa o processo.

Uno di loro era Daoud Talat Al-Khatib, morto mercoledì all’età di soli 45 anni per quello che pare sia stato un infarto.

Il Palestinian Prisoners Club ha accusato Israele di incuria sanitaria nei confronti di Al-Khatib. Mancavano solo pochi mesi alla fine della sua condanna a 18 anni.

La sua morte ha amaramente ricordato che i prigionieri politici palestinesi continuano a soffrire sotto l’occupazione, anno dopo anno, mese dopo mese. Il mondo fuori dimentica i loro nomi, ma il popolo palestinese ha la massima stima di chi venga fatto prigioniero nella lotta di liberazione.

Questa lotta assume molte forme.

Ricordate il nome di Mohammed El-Halabi?

Da quattro anni è chiuso nelle carceri israeliane per il “crimine” di aver operato nella beneficenza.

El-Halabi è il direttore di programma dell’associazione di beneficenza cristiana World Vision a Gaza. Secondo i suoi familiari, El-Halabi è stato torturato perché “confessasse” di aver finanziato il “terrorismo” a Gaza.

Suo padre, Khalil El-Halabi, è da lungo tempo un dipendente dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Aveva dichiarato a The Electronic Intifada di aver insistito perché nelle scuole dellagenzia fossero inclusi l’insegnamento dei diritti umani e gli studi sull’Olocausto.

“Educhiamo i nostri figli a rispettare le persone indipendentemente dalla razza o dalla religione”, ha spiegato. “Questo rispetto non è garantito a mio figlio, che è in prigione e viene torturato fisicamente e psicologicamente per qualcosa che non ha fatto. È questa la pace di cui parla Israele? “

Il giornalista palestinese Amjad Ayman Yaghi ha riferito da Gaza che “Khalil è convinto che Israele stia usando suo figlio per prendere di mira i programmi umanitari a Gaza”.

Sarebbe molto più facile per Israele bloccare i programmi di aiuto internazionale a Gaza se avesse la “confessione” di El-Halabi (non importa quanto forzata) di essersi appropriato indebitamente dei fondi di un importante ente di beneficenza internazionale.

Le accuse di Israele contro El-Halabi sono evidentemente false e non sono state provate in tribunale. Negli ultimi quattro anni è stato costretto a quasi 150 udienze in tribunale – per lo più segrete – e il suo avvocato è stato sottoposto a restrizioni senza precedenti. Gli è stato offerto un patteggiamento, ma ha rifiutato.

Amnesty International ha condannato il suo imprigionamento e ha detto: “I processi segreti sono la più flagrante violazione del diritto a un’udienza pubblica. Tenere procedimenti giudiziari a porte chiuse renderebbe infondate le condanne emanate “.

Le accuse contro El-Halabi sono state inventate senza nemmeno grande sforzo. Si vede chiaramente che sono fittizie e sono state costruite ad arte.

È stato accusato di aver stornato decine di milioni di dollari di aiuti finanziari a favore di Hamas, il partito politico palestinese al governo nella Striscia di Gaza che ha anche un’ala armata.

Ma c’è una grossa falla in questa storia: secondo World Vision, l’importo che è stato accusato di aver rubato sarebbe in realtà più del doppio dell’intero budget del programma di beneficenza a Gaza.

Non sarebbe stato possibile che una tale somma “scomparisse”.

Sia World Vision che il governo australiano (che ha fornito i fondi all’ente di beneficenza) hanno condotto approfondite indagini di polizia e hanno dichiarato infondate le accuse israeliane.

Nel 2017, il ministero degli Affari esteri australiano ha scagionato World Vision ed El-Halabi. “Il nostro costante monitoraggio legale non ha scoperto alcun denaro sottratto e secondo DFAT [il ministero] la loro indagine non è stata e non è fondata, e questa è un’ottima notizia”, ha rivelato il capo di World Vision Australia.

Che El-Halabi stia resistendo così a lungo alla pressione dei torturatori israeliani è un atto di resistenza al regime di occupazione israeliano non meno eroico della resistenza armata.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autore e non riflettono necessariamente la politica redazionale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza entra nella seconda settimana di isolamento tra le difficoltà per il controllo dell’epidemia

DALLA REDAZIONE DI Mondoweiss

4 SETTEMBRE 2020 Mondoweiss

Gli ultimi dati:

32.817 palestinesi sono risultati positivi per COVID-19; 24.445 in Cisgiordania; 697 a Gaza; 7.675 a Gerusalemme Est; 192 morti

126.419 israeliani sono risultati positivi per COVID-19; 993 morti;

mercoledì Israele ha registrato il maggior numero di nuovi casi con 3.074 persone risultate positive

Per la seconda settimana di seguito la maggior parte della Striscia di Gaza resta sotto isolamento mentre le autorità sanitarie, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus, si affrettano ad incrementare rapidamente i test e impongono ai palestinesi di restare nelle loro case. La scorsa settimana l’intera Striscia di Gaza è stata isolata, quando sono stati scoperti i primi casi di trasmissione all’interno della comunità. Questa settimana gli isolamenti sono stati limitati a 19 focolai.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo ultimo rapporto sulla situazione ha fatto una descrizione del coprifuoco a più livelli di Gaza, riferendo che a nord non c’è “nessun movimento tranne che per motivi di emergenza fino a nuovo avviso”, e nel centro e nel sud le persone sono costrette nelle loro case durante la notte tra le 20:00 e le 8:00.

Allo stesso tempo i test, che erano circa 18.000 la scorsa settimana, sono aumentati nel corso della settimana successiva, quando l’OMS, in collaborazione con l’Agenzia austriaca per lo sviluppo, ha consegnato altri 50 kit di test, sufficienti per sottoporre a screening quasi 5.000 persone, e ulteriori 4.000 tamponi. Dal 24 agosto più di 7.000 persone sono state sottoposte al test e quasi 500 sono risultate positive.

Nello stesso momento in cui venivano emessi gli ordini di isolamento a Gaza è stato interrotto il servizio idrico, lasciando molti palestinesi in quarantena nelle loro case con circa quattro ore di elettricità al giorno e senza acqua dal rubinetto. Torniamo un po’ indietro per fare chiarezza:

In concomitanza con la pandemia c’è stata un’escalation tra Hamas e Israele che ha avuto poca copertura mediatica. I palestinesi di Gaza hanno rilasciato dei palloncini che trasportavano dispositivi incendiari e lanciato razzi su Israele, e Israele ha sferrato quasi ogni notte attacchi aerei contro Gaza. Nel contesto di queste ostilità Israele ha fermato il trasferimento di carburante, il che ha fatto interrompere il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. Ciò ha di punto in bianco lasciato i palestinesi in una crisi energetica che poi è sfociata in una crisi idrica.

A Gaza il servizio idrico comunale dipende dal flusso costante di energia verso gli impianti di desalinizzazione al fine di depurare l’acqua che viene pompata da pozzi che attingono da una falda acquifera. L’intera operazione collassa se manca la corrente.

Per una famiglia l’interruzione si è rivelata fatale.

Omar al-Hazeen ha usato delle candele per illuminare la sua casa nel campo profughi di al-Nuseirat, nella parte centrale della striscia di Gaza. Mercoledì è scoppiato un incendio nella camera da letto condivisa da tre dei suoi figli che sono rimasti tragicamente uccisi nell’incendio.

Niente elettricità, niente acqua, l’isolamento priva i più poveri di Gaza del sostentamento essenziale

Tareq S. Hajjaj ha riportato sul nostro sito le conseguenze devastanti parlando con le famiglie del quartiere di Shujaiyeh, nel nord-est di Gaza.

Abbiamo sentito e visto i pericoli di questa pandemia, ma restare a casa costituisce un ulteriore pericolo mortale. Potremmo morire di fame, ha detto Baker Mousa, 52 anni, ad Hajjaj che lo ha intervistato davanti alla sua casa, dove il soggiorno è stato trasformato in un piccolo negozio di alimentari. “Giorni fa ho dovuto bussare alla porta del mio vicino per prendere dell’acqua.”

Hajjaj ha scoperto che a Shujaiyeh molte persone, essendo loro impedito di lasciare le loro case a causa delle misure di isolamento e restando bloccate in casa con i rubinetti asciutti, hanno dovuto fare la difficile scelta di acquistare l’acqua al posto del cibo.

Hajjaj racconta:

Majeda al-Zaalan, 49 anni, siede al tavolo della sua cucina con i suoi tre figli adolescenti e organizza le loro razioni per la giornata. Divide una singola porzione di pane e formaggio da condividere in quattro. Successivamente fa le razioni dell’acqua, dando a ciascuno tre litri al giorno per uso personale. Nel corso dell’ultima settimana ha fatto il bucato per la casa una volta e a ciascuno è stata concessa una doccia.

Afferma: “In questi tempi l’acqua è la cosa più preziosa e deve esserci in ogni casa ma sfortunatamente di solito non l’abbiamo per nulla”.

Al – Zaalan prosegue: ‘La famiglia viveva con una piccola entrata del mio figlio maggiore Ahmed, che vendeva boccette di profumo in una strada principale. Ma da lunedì nessuno di noi ha attraversato la porta per uscire”. Ora la sua unica fonte di reddito proviene da una sovvenzione dell’organizzazione benefica britannica Oxfam International che le fornisce la modesta cifra di 30 euro al mese.

“Ho solo la mia famiglia – prosegue – e non ho intenzione di perdere nessuno di loro.”

Cosa ha portato all’epidemia?

Il dottor Yasser Jamei, responsabile del Gaza Community Mental Health Program, il più grande istituto palestinese della Striscia di Gaza per la salute mentale, ha raccontato come i funzionari siano venuti a conoscenza della diffusione inosservata del coronavirus abbastanza per caso.

Jamei riporta una sinossi dal tracciamento dei contatti,

lunedì 24 agosto 2020 drammatiche notizie per la popolazione nella Striscia di Gaza. Quel giorno, l’ospedale Makassed di Gerusalemme ha informato le autorità sanitarie che una donna di Gaza che era presente all’ospedale è risultata positiva al COVID-19. La donna era lì per fare compagnia alla figlia malata che aveva ricevuto un permesso per uscire da Gaza per motivi umanitari. Erano arrivate a Gerusalemme sei giorni prima. Il ministero della salute di Gaza ha contattato la famiglia della donna che vive nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale della Striscia, e ha sottoposto al test i suoi familiari. Quattro di loro sono risultati positivi, di cui uno è proprietario di un supermercato. Un altro lavora in una scuola.

Poco prima di lasciare Gaza, la donna risultata positiva a Gerusalemme aveva partecipato a un matrimonio. Le grandi feste erano state vietate, ma poche settimane prima [della sua partenza, ndtr.] le autorità locali hanno adottato misure diverse al fine di allentare le restrizioni. Ciò era stato giustificato dal fatto che Gaza veniva considerata libera da COVID. Le moschee sono state riaperte. Sono state permesse le riunioni e nella prima settimana di agosto gli studenti sono rientrati a scuola”.

Subire la pandemia sotto l’occupazione

Per buona parte dell’estate abbiamo riferito dello sbalorditivo aumento del numero di nuovi casi giornalieri in Cisgiordania, dove si è verificata una seconda ondata più virulenta del coronavirus. L’OMS riferisce che, soltanto in agosto, il numero totale di coloro che sono risultati positivi in tutti i territori palestinesi occupati è raddoppiato da 15.201 a 31.929. La maggior parte dell’incremento interessa la Cisgiordania.

Questa settimana la corrispondente di Mondoweiss, Yumna Patel, ha pubblicato un secondo video della sua serie in cinque parti che racconta come i palestinesi stanno subendo la pandemia sotto l’occupazione. La sua ultima puntata ci porta al villaggio di al-Walaja, nei pressi di Betlemme, che si trova nell’Area C della Cisgiordania [area sotto esclusivo controllo israeliano, ndtr.], e osserva che “all’Autorità Nazionale Palestinese è stato qui impedito di portare aiuto con interventi di contenimento” e che il governo israeliano “non ha fornito nulla” ai palestinesi “in termini di test, trattamento o contenimento del coronavirus”.

Patel riferisce:

Immagina di essere lasciato a difenderti da solo contro il coronavirus mentre la tua casa è minacciata di demolizione e la tua famiglia vive sotto l’occupazione militare.

Questa è la realtà per i palestinesi che vivono nel villaggio di Al-Walaja, annidato tra le colline di Betlemme e Gerusalemme, nel sud della Cisgiordania occupata”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Hamas afferma che si è raggiunto un accordo con Israele per placare la violenza

Redazione di MEE

31 agosto 2020 – Middle East Eye

L’annuncio giunge dopo settimane di crescenti tensioni e mentre Gaza deve fare i conti con la pandemia da coronavirus

Lunedì Hamas ha annunciato che, grazie alla mediazione del Qatar, è stato raggiunto un accordo per evitare un’escalation con Israele dopo una fiammata durata quattro settimane che ha visto Gaza bombardata quasi quotidianamente.

In un comunicato l’ufficio del leader di Hamas Yahya Sinwar afferma che “dopo una serie di colloqui, mediati dal rappresentante del Qatar Mohammed al-Amadi, si è raggiunta un’intesa per evitare un’escalation e stabilizzare la situazione.”

Israele ha ripetutamente bombardato Gaza dal 6 agosto, con quella che sostiene essere una risposta agli ordigni incendiari inviati in volo e, meno frequenti, razzi lanciati oltre il confine.

Secondo dati dei vigili del fuoco, le bombe incendiarie, ordigni artigianali attaccati a palloni, aquiloni, preservativi gonfiati o buste di plastica, hanno innescato più di 400 incendi nel sud di Israele.

I palloni incendiari sono generalmente visti come un tentativo da parte di Hamas di migliorare le condizioni di una tregua informale in base alla quale Israele si era impegnato ad alleggerire il suo blocco durato 13 anni in cambio della calma sul confine.

Ma finora la risposta di Israele è stata di inasprire il blocco, che secondo i critici rappresenta una punizione collettiva dei due milioni di abitanti della zona impoverita.

Anche l’Egitto ha mantenuto l’assedio, restringendo sul suo confine gli spostamenti in entrata e in uscita da Gaza. In seguito ai tentativi di mediazione, Hamas afferma che “verranno annunciati vari progetti a favore del nostro popolo nella Striscia di Gaza e per contribuire a migliorare” le difficili condizioni di vita. Il suo comunicato non specifica nessuno dei progetti, ma afferma che le condizioni torneranno a essere “quelle che erano prima dell’escalation.”

In base a precedenti accordi non ufficiali raggiunti attraverso mediatori, Hamas ha tentato progetti economici su larga scala per contribuire a ridurre la disoccupazione che si aggira intorno al 50%, un ampio alleggerimento delle restrizioni agli spostamenti e un incremento delle forniture di energia elettrica da parte di Israele. Accusa Israele di muoversi troppo lentamente o di non rispettare i propri impegni.

Lunedì sera il COGAT, un ente militare israeliano responsabile delle questioni dei civili palestinesi, ha annunciato che avrebbe immediatamente riaperto l’unico valico commerciale di Gaza e ripreso la fornitura di carburante al territorio. Ha anche affermato che avrebbe riaperto una zona di pesca di 25 km dalle coste di Gaza.

Questa decisione verrà verificata sul terreno: se Hamas, che è responsabile di ogni azione intrapresa nella Striscia di Gaza, non rispetta i suoi obblighi, Israele si comporterà di conseguenza,” ha affermato.

L’inviato dell’ONU nella regione, Nickolay Mladenov, ha accolto favorevolmente l’accordo.

Porre fine al lancio di ordigni e proiettili incendiari, ripristinare la fornitura dell’elettricità consentirà all’ONU di concentrarsi sulla gestione della crisi da COVID-19”, ha twittato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




A Gaza il sistema sanitario è a rischio mentre da una settimana continuano gli attacchi aerei israeliani

Yumna Patel

21 agosto 2020- Mondoweiss

È già successo tante di quelle volte,” ha detto a Mondoweiss il giornalista palestinese Omar Ghraieb, 33 anni, “ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, senza elettricità né acqua è più dura.”

Israele bombarda Gaza ininterrottamente da otto giorni (dal 13 agosto, ndtr.), secondo Israele come parte della risposta al lancio di palloni incendiari da Gaza sul territorio israeliano. 

Ogni notte, da oltre una settimana, il cielo notturno di Gaza si accende di rosso e arancione, giovedì è stata l’ottava notte consecutiva di raid aerei israeliani. 

Nonostante si parli di tentativi da parte di alcuni funzionari egiziani di mediare un cessate il fuoco, non sembra che le tensioni ai confini finiranno tanto presto, stando alla dichiarazione rilasciata dal movimento Hamas secondo cui “non esiterà a combattere” le forze israeliane, “se continuano l’escalation, i bombardamenti e l’assedio (di Gaza).”

L’esercito israeliano sostiene che i bombardamenti sono diretti su avamposti che appartengono all’ala militare di Hamas che, secondo Israele, è responsabile dei “lanci di palloni esplosivi e incendiari dalla Striscia di Gaza verso Israele”.

I media locali palestinesi nell’ultima settimana hanno riportato vari episodi in cui i bombardamenti israeliani hanno causato danni a strutture residenziali e non legate ad Hamas e che, in alcuni casi, hanno ferito dei civili. 

All’inizio di questa settimana, Wafa, l’agenzia stampa (palestinese), ha sostenuto che in seguito a un attacco aereo su Bureij, il campo profughi situato nella zona centrale della Striscia di Gaza, una bambina di 3 anni, un ragazzo di 11 e una donna sono stati ricoverati in ospedale dopo essere stati gravemente feriti. Sono anche stati riportati “danni seri” a case nella zona. 

Un’altra donna è stata ricoverata in seguito un attacco aereo separato contro la cittadina di Beit Hanoun, nel nord di Gaza. 

Domenica i media palestinesi hanno riferito che un palestinese di 35 anni è stato gravemente ferito a causa dello scoppio di un ordigno israeliano inesploso nei dintorni di al-Zaytoun, nel sud della Striscia. 

Ci siamo passati migliaia di volte,” dice a Mondoweiss Omar Ghraieb, 33 anni,

riferendosi a bombardamenti e attacchi israeliani contro Gaza, che nel passato sono andati avanti ogni volta per settimane. 

Ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, è più dura senza elettricità né acqua,” afferma. 

Ghraieb sottolinea che, sebbene gli abitanti di Gaza siano “abituati a cose terribili e traumi,” situazioni come queste “non miglioreranno mai.” 

È semplicemente troppo .”

Interruzioni di corrente elettrica mentre salgono i casi di COVID-19

I recenti bombardamenti arrivano in un momento difficile per i 2 milioni di abitanti di Gaza che soffrono per i problemi quotidiani con acqua, elettricità, crescita della disoccupazione e, più recentemente, a causa della pandemia da coronavirus. 

Anche se Gaza ha avuto successo nel mantenere il tasso di contagi da coronavirus straordinariamente basso, rispetto a Cisgiordania e Gerusalemme Est occupate, il ministero della Salute ha riportato ora nove nuovi casi, arrivando mercoledì a un totale di 18. 

Oltre alla costante minaccia del COVID-19, all’inizio di questa settimana l’unica centrale elettrica di Gaza ha chiuso e interrotto le attività a causa del blocco israeliano di importazioni di gasolio nel territorio.

Il divieto è una punizione di Israele, anche in risposta ai palloncini incendiari che sono stati la ragione dell’ultima serie di attacchi aerei. 

Da anni gli abitanti subiscono interruzioni di corrente e ore di blackout, ma adesso dicono che le cose sono più difficili per via del COVID-19. 

Abbiamo subito interruzioni giornaliere di elettricità per oltre dieci anni,” dice Ghraieb. “[Ma] in estate, con una pandemia globale e gli attacchi israeliani, è più difficile restare in contatto con il mondo e condividere l’inferno in cui stiamo vivendo senza luce o Internet.”

Uno si sente isolato e condannato a vivere in un inferno in fiamme,” dice. 

Martedì il CIRC [Comitato internazionale della Croce Rossa, ndtr.] ha espresso preoccupazione per la carenza di energia elettrica a Gaza, segnalando che i recenti blackout potrebbero colpire in maniera sproporzionata il già fatiscente settore sanitario, dato che le otto ore di elettricità al giorno sono state ridotte ad appena tre o quattro.

Quando gli abbiamo chiesto che messaggio avesse per la comunità internazionale circa i recenti attacchi, Ghraieb ha detto a Mondoweiss di “non avere un messaggio per un mondo che ci ha delusi per decenni e che ci vede vittime di violenze, occupazione, apartheid e pulizia etnica da parte degli israeliani. Al mondo non importa niente di noi e io non imploro giustizia,” afferma Ghraieb. “Ma prima o poi giustizia sarà fatta.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Può l’Egitto contribuire a ridurre le tensioni tra Israele ed Hamas?

Ahmad Abu Amer – Gaza City, Striscia di Gaza

19 agosto 2020 – Al-Monitor

Una delegazione dell’intelligence egiziana ha intrapreso nuove iniziative tra Israele e Hamas per ridurre la tensione su entrambi i lati della frontiera della Striscia di Gaza dopo che negli ultimi giorni la situazione è peggiorata.

L’Egitto sta avviando nuovi passi nella Striscia di Gaza nel tentativo di ridurre la tensione che recentemente è in aumento tra Israele e Hamas dopo che il 6 agosto, facendo seguito a una pausa di due mesi, gruppi palestinesi hanno ripreso il lancio di palloncini incendiari verso il sud di Israele.

Israele ha risposto al fuoco che ha devastato i campi nel sud di Israele bombardando numerosi siti militari di Hamas a Gaza. L’11 agosto ha parzialmente chiuso il valico di Kerem Shalom e impedito l’ingresso nella Striscia di Gaza di materiali da costruzione e carburante.

Ciò il 18 agosto ha portato alla chiusura dell’unica centrale elettrica di Gaza. Il 16 agosto ai pescatori palestinesi è stato totalmente vietato l’accesso al mare al largo della Striscia di Gaza.

L’escalation si è prodotta dopo che Hamas ha accusato Israele di ritardare la messa in atto degli accordi di tregua raggiunti nell’ottobre 2018. Essi intendevano alleggerire il blocco e stabilivano la creazione di due zone industriali a est di Gaza City per l’assunzione di decine di migliaia di disoccupati. Come parte degli accordi di tregua avrebbero dovuto essere messi in pratica progetti per l’elettricità e l’acqua, così come piani intesi a incrementare il volume di importazioni ed esportazioni verso e dalla Striscia di Gaza.

In questo contesto il 17 agosto nella Striscia di Gaza è arrivata una delegazione della sicurezza egiziana guidata da Ahmed Abdel Khaleq, responsabile per le questioni palestinesi presso il servizio generale di intelligence egiziano. La delegazione, prima di recarsi in Israele lo stesso giorno per trasmettere le richieste del movimento, si è incontrata per molte ore con i dirigenti di Hamas a Gaza. Era previsto che tornassero a Gaza il 18 agosto con la risposta, ma la visita si è prolungata fino a data indefinita, in quanto Israele ha respinto la maggior parte delle richieste di Hamas.

Un funzionario di Hamas informato sui colloqui ha detto in forma anonima ad Al-Monitor che il movimento ha chiesto alla delegazione egiziana di fare pressione su Israele per l’attuazione degli accordi raggiunti in precedenza e perché si cominci immediatamente a realizzare i progetti riguardanti l’elettricità, l’acqua e le due zone industriali ad est di Gaza City. La fonte ha aggiunto che il movimento non porrà fine alla tensione sul confine con Israele finché quest’ultimo non risponderà alle richieste che ha ricevuto tramite la delegazione egiziana.

Il funzionario ha spiegato che [Hamas] non vuole uno scontro militare, ma non lo teme nel caso Israele rifiutasse di mettere in pratica queste richieste.

Ha rivelato che è stato consentito al Qatar di continuare a finanziare la Striscia di Gaza fino alla fine del 2020 e ha sottolineato che il movimento chiede che il contributo venga esteso fino alla fine del 2021, includendo 200.000 famiglie – invece di 100.000, come nei mesi scorsi – a causa dell’aumento delle famiglie povere nella Striscia di Gaza in seguito al blocco israeliano e alla pandemia da coronavirus.

Il 17 agosto il giornale israeliano Yedioth Ahronoth ha informato che le richieste di Hamas presentate ad Israele tramite la delegazione egiziana sono eccessive e le probabilità di raggiungere un accordo tra Israele e Hamas sono ancora scarse, come evidenziato dal continuo lancio di palloncini incendiari verso il sud di Israele durante e dopo la visita della delegazione egiziana nella Striscia di Gaza.

Il ministro della Difesa israeliano e futuro primo ministro in alternanza Benny Gantz il 18 agosto ha messo in guardia Hamas riguardo al continuo lancio di palloni incendiari da Gaza nel sud di Israele, affermando che “Hamas sta giocando col fuoco e farò in modo che gli si ritorca contro.”

Un parlamentare egiziano vicino ai servizi di intelligence egiziani ha detto in forma anonima ad Al-Monitor: “È vero che le richieste di Hamas ricevute dalla delegazione il 17 agosto sono consistenti, ma rientrano in quello che si era stabilito con Israele nei mesi scorsi.” Prevede che nei prossimi giorni si raggiungerà un nuovo accordo, in quanto nessuna delle due parti vuole arrivare a un’escalation militare.

Il parlamentare egiziano ha sottolineato che al momento la delegazione dell’intelligence sta cercando di mettere d’accordo le due parti nella speranza di riportare rapidamente la calma sul confine tra Gaza ed Israele. Secondo questa fonte la delegazione sta anche tentando di alleggerire le misure prese da Israele dopo la recente escalation, che includono la chiusura del valico di Kerem Shalom e il blocco all’importazione di alcuni prodotti, consentendo la fornitura di carburante all’impianto per la produzione di energia elettrica di Gaza e permettendo ai pescatori di riprendere la loro attività.

Il portavoce del ministero della Sanità di Gaza Ashraf al-Qidra ha detto ad Al-Monitor che se il carburante non venisse rapidamente fornito all’impianto per la produzione di energia elettrica si profilerebbe un disastro sanitario per i pazienti della Striscia di Gaza. Ha segnalato che le gravi ripercussioni della mancanza di elettricità minacciano i pazienti nelle unità di terapia intensiva, nelle sale operatorie e nelle stanze per la quarantena.

Da parte sua Israele attribuisce il ritardo nella messa in pratica di quanto concordato con Hamas nell’ottobre 2018 alla difficoltà, a causa del coronavirus, di tenere incontri con funzionari internazionali per mettere in pratica importanti progetti nella Striscia di Gaza riguardanti specificamente elettricità, acqua e zone industriali.

Mustafa al-Sawaf, analista politico ed ex-caporedattore del giornale locale Felesteen [principale quotidiano della Striscia di Gaza, ndtr.], ha detto ad Al-Monitor che il successo della missione della delegazione egiziana per ridurre la tensione tra Hamas e Israele dipende dalla sua capacità di fare pressione su Israele per ottenere progressi per quanto riguarda gli accordi di tregua.

Sawaf si aspetta che la delegazione riesca ad ottenere risposte positive ad alcune, non a tutte, le richieste che Hamas ha presentato ad Israele, considerando che, dopo che Israele ha ripetutamente fatto marcia indietro sui suoi impegni, il compito per la delegazione egiziana non è facile.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele attacca la Striscia di Gaza come “rappresaglia” per i palloni incendiari

MiddleEastEye

12 agosto 2020 middleeasteye

L’esercito israeliano afferma di aver colpito delle infrastrutture controllate da Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”

Israele ha ripetutamente attaccato la Striscia di Gaza come rappresaglia per il lancio nei giorni scorsi dall’enclave assediata di palloni incendiari.

L’esercito israeliano ha detto mercoledì di aver effettuato attacchi notturni su bersagli di Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”.

“Jet, elicotteri d’attacco e carri armati hanno colpito diversi obiettivi di Hamas”, si legge in un comunicato.

L’esercito ha detto che gli attacchi sono stati di “rappresaglia” per il lancio di molti palloni dall’enclave gestita da Hamas. I vigili del fuoco nel sud di Israele hanno detto che solo martedì i palloni hanno causato 60 incendi ma nessuna vittima.

Gli esplosivi legati a palloncini e aquiloni sono apparsi per la prima volta come arma a Gaza durante le intense proteste del 2018, quando i dispositivi improvvisati attraversavano il confine ogni giorno, provocando migliaia di incendi nelle fattorie e nelle comunità israeliane.

La scorsa settimana, per tre volte questi palloni sono stati lanciati da Gaza verso Israele, provocando ogni volta attacchi di rappresaglia contro le posizioni di Hamas.

Lunedì Hamas ha lanciato anche diversi razzi in mare dopo i ripetuti scambi di fuoco con Israele degli ultimi giorni, come hanno riferito fonti della sicurezza palestinese e testimoni oculari.

I razzi erano un “messaggio” a Israele per fargli sapere che i gruppi armati di Gaza non “rimarranno in silenzio” di fronte all’assedio israeliano e all’ “aggressione”, ha detto all’Agenzia France-Press una fonte vicina ad Hamas.

Un altro funzionario di Hamas ha detto che si è trattato di un tentativo di attrarre l’attenzione sul blocco ai tentativi di fornire aiuti alla Striscia.

“Hanno affermato che c’erano intese e accordi sull’avanzamento dei progetti, principalmente nel campo delle infrastrutture e sul piano umanitario, ma tutto sembra essere bloccato”, ha detto il funzionario ad Haaretz.

Chiusi i passaggi di frontiera

In risposta ai recenti lanci di palloncini Israele ha chiuso il passaggio delle merci verso la Striscia di Gaza a Kerem Shalom.

Hamas ha detto che la mossa dimostra “l’ostinazione di Israele nell’assedio” a Gaza, e segnalato che la cosa potrebbe causare un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria nel territorio.

Dopo la chiusura del valico di Kerem Shalom, martedì per la prima volta da aprile è stato aperto il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto.

Il traffico in entrambe le direzioni avrebbe dovuto essere consentito per tre giorni, permettendo agli abitanti di Gaza di lasciare l’enclave per la prima volta dall’inizio della pandemia.

Il valico di Rafah rappresenta per Gaza l’unico accesso al mondo esterno non controllato da Israele.

Il territorio palestinese è sotto il blocco israeliano dal 2007.

Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre dal 2008.

Nonostante una tregua l’anno scorso, sostenuta da Nazioni Unite, Egitto e Qatar, le due parti si scontrano sporadicamente con razzi, colpi di mortaio o palloni incendiari.

Alcuni analisti palestinesi affermano che il fuoco transfrontaliero da Gaza è spesso usato come moneta di scambio perché Israele dia il via libera all’ingresso nel territorio degli aiuti finanziari dal Qatar.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Gaza è un biglietto di sola andata”: come la politica israeliana di ricollocazione sta separando le comunità palestinesi

Henriette Chacar

30 giugno 2020 – +972

Israele sta sistematicamente indirizzando gli spostamenti dei palestinesi in una direzione: dalla Cisgiordania a Gaza. Le famiglie e i loro legali affermano che il trasferimento silenzioso sta frammentando la società palestinese.

Il 4 marzo Samar Saoud ha ricevuto finalmente la telefonata che stava aspettando. Le è stato detto di presentarsi la domenica seguente con i suoi tre figli al valico di Erez, e la famiglia avrebbe lasciato la Striscia di Gaza e sarebbe andata nella città cisgiordana di Nablus, dove vivono i genitori di Saoud.

Ma a Erez è stato detto a Saoud di tornarsene a casa. Implorare gli ufficiali dell’esercito israeliano non è servito a niente. Il valico, che separa Israele dalla Striscia di Gaza, era chiuso per tutto il giorno, probabilmente per la festa ebraica di Purim. Sarebbero state consentite solo le uscite per “casi umanitari” eccezionali, come ad esempio urgenti cure mediche.

Saoud era distrutta. Aveva già venduto la sua casa e i suoi beni. Non sapeva dove andare. Cresciuta in Cisgiordania, era andata a Gaza nel 2005 dopo essersi sposata con un palestinese della Striscia. Ma lo scorso dicembre suo marito se n’è andato in Turchia alla ricerca di opportunità di lavoro. Senza parenti stretti che le fornissero un aiuto, Saoud improvvisamente si è trovata senza casa.

Con il valico ancora chiuso, Saoud ha chiesto a suo cognato se lei e i suoi figli potessero stare con lui finché il suo caso fosse risolto. Suo cognato è disoccupato e, mentre era ospite nella sua casa, lei ha utilizzato il denaro ricavato dalla vendita della casa per provvedere alle due famiglie. “Negli ultimi quattro giorni ho mangiato solo un pasto. Sono sull’orlo di una crisi di nervi,” ha detto per telefono.

Il 12 marzo, dopo che Gisha, un’associazione israeliana per i diritti umani che si occupa della libertà di movimento dentro e fuori Gaza, ha presentato una richiesta urgente al tribunale distrettuale di Gerusalemme, Saoud ha avuto l’autorizzazione di attraversare il valico.

Quella stessa settimana, per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus, Israele ha ulteriormente ridotto i viaggi dei palestinesi da Gaza. Poi alla fine di maggio, in risposta all’imminente piano di annessione di parti della Cisgiordania, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che stava ponendo fine al coordinamento con Israele, compresi i permessi di viaggio. Le linee guida per presentare queste richieste rimangono vaghe.

Ma persino quando venivano consentiti gli spostamenti dei palestinesi le restrizioni erano così rigide che, dicono le critiche, di fatto hanno ridisegnato il tessuto della società palestinese nei territori occupati. Sono state impostate in modo da indirizzarli in una direzione – verso Gaza – il che, secondo un nuovo studio di Gisha, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, potrebbe rappresentare un crimine di trasferimento forzato di una popolazione sotto occupazione.

Comprendere questa politica, aggiungono questi analisti, mette in luce l’impatto potenzialmente devastante dell’annessione israeliana sui palestinesi.

Le ho detto che sarei tornato presto con dei dolci”

Come Saoud, Shada Shendaghli è nata in Cisgiordania ed ha sposato un uomo originario di Gaza. Il marito di Shendaghli, Issam, è tornato nella Striscia nell’ottobre 2016 e lei lo ha seguito due mesi dopo. Ora hanno due figlie, Masa e Rithal, entrambe registrate come residenti in Cisgiordania.

Ma per Shendaghli la vita nella Striscia era insopportabile, ammette Issam per telefono. Le interruzioni di corrente erano continue e avevano l’acqua solo due o tre giorni alla settimana. “Non abbiamo neppure le comodità basilari che ha la gente in Cisgiordania. Non ci si è abituata,” dice.

Shendaghli ha deciso di tornare a Ramallah. Ha fatto richiesta di un permesso, ma l’esercito israeliano ha respinto la domanda affermando che lei aveva accettato di lasciare la sua residenza in Cisgiordania e di spostarsi a Gaza. Quando Gisha ha presentato un ricorso a suo favore, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), l’istituzione militare che amministra l’occupazione, ha sostenuto che ora lei è registrata come residente a Gaza e quindi non ha il diritto di tornare nella sua casa in Cisgiordania.

Il divieto imposto da Israele alla libertà di movimento delle persone viola le leggi internazionali, afferma la portavoce di Gisha Miriam Marmur: “Ciò significa che nei territori palestinesi occupati moltissimi palestinesi non possono scegliere dove vivere e farsi una famiglia.”

La battaglia legale di Shendaghli è finita nel giugno 2019, quando le è stato consentito di tornare in Cisgiordania con le figlie. Ma ciò è avvenuto al prezzo di doversi separare da suo marito.

Issam ricorda che il giorno in cui la sua famiglia se n’è andata si è sentito “distrutto”. Tutta la sua vita è cambiata, dice: “Ora quando torno a casa dal lavoro mi affretto a ricaricare il telefono, contando i secondi prima di poter parlare con loro.”

Mia figlia comincia a piangere, chiedendomi di andare a casa,” continua. “Le dico che sto arrivando, che sono andato a prenderle un’altra bambola, che tornerò presto con dei dolci.”

Tra il 2009 e il 2017 Israele ha esaminato e accolto solo 5 domande di trasferimento degli abitanti di Gaza, tutte in seguito all’intervento giudiziario a favore dei richiedenti. Di queste cinque, quattro riguardavano minorenni che non avevano parenti che si occupassero di loro a Gaza. Al contrario, tra il 2011 e il 2014 il COGAT ha approvato 58 richieste di trasferimento a Gaza di abitanti della Cisgiordania (51 delle quali presentate da donne).

Israele sta cercando di fare in modo che in Cisgiordania vivano quanti meno palestinesi possibile,” afferma Marmur. “Perché un abitante di Gaza si sposti in Cisgiordania, lui o lei deve rispondere a criteri eccessivamente limitanti, che sono fondamentalmente impossibili da rispettare. D’altra parte perché un residente in Cisgiordania si trasferisca a Gaza tutto quello che lui o lei deve fare è firmare la ‘procedura di insediamento’.”

Si tratta di un documento che gli abitanti palestinesi della Cisgiordania sono tenuti a sottoscrivere al loro ingresso a Gaza, in cui Israele condiziona il permesso di entrata a una dichiarazione secondo cui intendono trasferire in permanenza il loro “centro della loro vita” a Gaza. Gli verrà consentito di rientrare in Cisgiordania solo in “rari casi per ragioni umanitarie”, continua il documento. Firmando questo accordo, i palestinesi di fatto rinunciano alla loro residenza in Cisgiordania.

Questo procedimento è stato creato dall’esercito israeliano nel 2009, in seguito a un ordine della Corte Suprema, come un modo per controllare la ricollocazione di palestinesi da una parte dei territori occupati ad un’altra. Ma da quando esso è stato introdotto, gli spostamenti da Gaza alla Cisgiordania sono diventati “quasi impossibili”, afferma Dani Shenhar di HaMoked, un’organizzazione israeliana di assistenza legale. Non un solo caso a cui l’organizzazione ha lavorato nell’ultimo decennio e che abbia coinvolto un abitante di Gaza che ha fatto domanda di trasferimento ha avuto successo, aggiunge. “Gaza è un biglietto di sola andata. Se ti sposti lì, non tornerai indietro.”

In seguito a ciò, dice Shenhar, HaMoked ha smesso di accettare questi casi “perché rimaniamo bloccati. I tribunali accettano fondamentalmente la premessa israeliana ed è molto difficile mettere in discussione questa situazione.”

Il COGAT ha ignorato la richiesta di +972 Magazine di fornire dati sul numero di domande da parte di palestinesi per cambio di residenza da Gaza ricevute, approvate e rifiutate dal 1967, quando ha occupato e iniziato ad amministrare il territorio. Non ha neppure comunicato quanti palestinesi abbiano dovuto firmare la rinuncia alla residenza né ha risposto sul perché l’ingresso a Gaza richieda loro di rinunciare al loro status di residenti.

Invece il COGAT ha scritto in una mail che, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007, “lo Stato di Israele ha istituito una politica di differenziazione tra la Striscia di Gaza e l’area di Giudea e Samaria (la denominazione israeliana della Cisgiordania) – e, di conseguenza, si è deciso per un verso di limitare il passaggio tra la Striscia di Gaza da una parte e Giudea e Samaria, così come dall’altra in Israele, solo per quei casi umanitari ed eccezionali che rispondono alle procedure previste da Israele.”

Ma, nonostante quello che sostiene, le ragioni di Israele per separare Gaza e Cisgiordania sono politiche, non riguardano la sicurezza, afferma Tareq Baconi, un analista dell’International Crisis Group [Ong con sede in Belgio, ndtr.]. Ciò è ancora più evidente, spiega, considerando che le restrizioni israeliane contro la Striscia iniziarono nel 1989, durante la Prima Intifada, anni prima che Hamas arrivasse al potere.

La frammentazione della società palestinese, aggiunge Baconi, è stata esacerbata dalla divisione politica tra Fatah e Hamas, che ha sia reso interna questa divisione che garantito che essa continui: “La situazione è talmente diversa tra i due luoghi che è cambiata persino la consapevolezza politica,” nota, così tanto che “per chi vive in Cisgiordania la Striscia di Gaza potrebbe benissimo essere un altro pianeta.”

Anche se là il livello di sofferenza è senza precedenti, Gaza non dovrebbe essere considerata un’eccezione, sostiene Baconi: “La Striscia di Gaza è semplicemente una versione estremizzata dell’Area A (le enclave della Cisgiordania sotto totale controllo palestinese). È una versione estremizzata di Kufr ‘Aqab (a Gerusalemme est). È una versione estremizzata di Umm al-Fahm (una città palestinese in Israele), nel senso che quello che abbiamo in tutta questa terra è un processo di controllo israeliano di territori che circondano le bolle palestinesi.

Baconi dice che, mentre l’obiettivo finale di questa politica può non essere noto, la strategia di confinamento dei palestinesi in contenitori urbani e di riduzione al minimo degli spostamenti tra di essi è “il classico divide et impera, è la regola numero 1 del colonialismo”.

Due diversi territori occupati

In assenza di un meccanismo per cambiare residenza i palestinesi hanno dovuto trovare altri modi per ricongiungersi con le loro famiglie in Cisgiordania. Nel giugno 2010, in una lettera ad HaMoked del colonnello Uri Mendes, comandante per il coordinamento e le operazioni del COGAT, Israele stimava che circa 35.000 palestinesi il cui indirizzo di residenza era Gaza potevano trovarsi in Cisgiordania. Israele li definisce criminali infiltrati, fatto che li intrappola ulteriormente in una costrizione burocratica.

Uno di questi abitanti è Rawan, che nel 2018 si è spostata a Ramallah per stare con suo marito, un palestinese di Gaza che stava già vivendo in Cisgiordania. Per iniziare una vita insieme è arrivata con un permesso medico di un giorno autorizzato dall’esercito israeliano e, nonostante le conseguenze, è rimasta dopo la scadenza del termine.

Per Rawan persino il semplice compito di uscire dalla sua casa di Ramallah per comprare il pane è diventato un’impresa rischiosa. Due anni fa, un pomeriggio, l’esercito israeliano ha posto Ramallah sotto blocco militare per impedire attacchi “per emulazione”, dopo che alcuni palestinesi avevano compiuto un attacco letale sparando da un’auto nelle vicine colonie. “In un primo momento ho pensato che fosse un’allucinazione,” dice Rawan. “Dopo questo sono dovuta rimanere a letto per una settimana.”

Benché Rawan si sia spostata in una zona che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese, se scoperta l’esercito israeliano potrebbe arrestarla, incarcerarla e deportarla di nuovo a Gaza, ed è per questo che ha chiesto di essere citata solo per nome. Per vivere in Cisgiordania rispettando le leggi militari israeliane, Rawan dovrebbe cambiare il suo indirizzo all’anagrafe palestinese. Benché abbia presentato la richiesta all’ufficio per gli affari civili dell’ANP, la modifica [della residenza] risulta valida solo dopo che Israele l’ha approvata.

Dopo aver occupato nel 1967 Gerusalemme est, Gaza e la Cisgiordania, Israele ha fatto un censimento e ha rilasciato documenti di identità ai palestinesi registrati all’anagrafe. Con la firma del secondo accordo di Oslo (“l’accordo di Taba”) nel 1995, il controllo dell’anagrafe è stato trasferito all’Autorità Nazionale Palestinese appena costituita. Tuttavia in pratica l’esercito israeliano ha continuato ad operare in base alle proprie copie del registro anagrafico.

Nel settembre 2007, pochi mesi dopo che Hamas aveva preso il controllo di Gaza e due anni dopo il “disimpegno” israeliano dalla Striscia, l’esercito impose severe restrizioni agli spostamenti di persone e beni verso e dall’enclave costiera, che da allora Israele ha posto sotto assedio. Un anno dopo, in risposta a una richiesta di HaMoked, un portavoce del COGAT affermò che l’esercito ora considerava la Cisgiordania e Gaza come due territori distinti e separati. Pertanto le richieste di cambio di domicilio possono essere approvate solo da alti funzionari in circostanze eccezionali per ragioni umanitarie.

Nel 2011, come eccezionale gesto politico nei confronti di Tony Blair, rappresentante del Quartetto [composto da USA, UE, ONU e Russia) per il Medio Oriente, Israele accettò di autorizzare le domande di 5.000 abitanti di Gaza che intendevano cambiare residenza e spostarla in Cisgiordania. Secondo Gisha alla fine di quell’anno Israele vagliò circa 2.775 richieste su un totale delle 3.700 presentate dal governo palestinese.

La reale portata della politica di separazione da parte di Israele non è chiara, perché le autorità hanno costantemente rifiutato di rilasciare informazioni riguardo al numero di persone direttamente interessate da essa. Quando +972 Magazine ha chiesto perché continui a controllare l’anagrafe dei residenti a Gaza dato che Israele sostiene di non occupare più la Striscia, il COGAT ha risposto che il registro non è “sotto l’autorità dell’Amministrazione Civile.”

Non abbiamo più tempo”

Poco dopo che Rawan è arrivata in Cisgiordania nel gennaio 2018, ha iniziato a cercare lavoro. “Devo lavorare. Sono il tipo di persona che non riesce a stare ferma,” dice in un caffé di Ramallah.

Alla fine ha trovato un impiego con un gruppo che fornisce servizi alle donne a Gerico. Ma il lavoro prevedeva che viaggiasse nell’Area C della Cisgiordania, che è sotto totale controllo israeliano e in cui i soldati pattugliano liberamente le comunità palestinesi. Lavorare fuori da Ramallah significa per Rawan rischiare quotidianamente di essere presa e deportata. “Voglio vivere la mia vita. Voglio lavorare. Quindi ho confidato in Allah. Ma dentro di me ero terrorizzata,” afferma.

Ogni volta che Rawan attraversa un posto di controllo israeliano “sento come se la mia vita stesse per finire.” Scherza riguardo a come la paura e lo stress di cercare di cambiare domicilio siano così grandi che hanno influenzato la sua possibilità di rimanere incinta: può sentire il suo corpo irrigidirsi.

Rawan dice di aver fatto domanda di residenza presso l’ufficio palestinese per gli affari civili, ma non si sa cosa ne sarà ora che l’ANP ha posto fine al coordinamento con Israele. Quando è il momento di stare davanti a un soldato israeliano, scherza, vorrebbe scambiare la sua terra di famiglia nel villaggio palestinese distrutto di Isdud (oggi Ashdod), di cui è originaria la sua famiglia, con un permesso.

I miei genitori hanno lavorato perché potessimo tutti andarcene da Gaza. Tutti ce ne vogliamo andare. La situazione lì è insopportabile,” dice Rawan. “Per Israele chiunque sia di Gaza è un terrorista. Ma io voglio vivere la mia vita. Voglio godere della vita. Non abbiamo più tempo.”

Secondo Rawan un impiegato dell’ufficio per gli affari civili a Ramallah le ha detto che l’unico modo per ottenere la residenza è concedere favori sessuali a un leader locale palestinese. Un altro funzionario del ministero degli Interni palestinese le ha detto che la sua occasione migliore sarebbe di lavorare con un collaborazionista legato ai servizi di sicurezza israeliani.

In uno studio pubblicato da Gisha e HaMoked nel 2009 le associazioni hanno avvertito che la procedura per chiedere la residenza “stabilisce un metodo di esame delle domande che si basa su rapporti personali e decisioni arbitrarie non trasparenti.”

Secondo la dottoressa Yael Berda dell’università Ebraica di Gerusalemme, ora docente ospite al dipartimento di sociologia dell’università di Harvard, questa ambivalenza e la sensazione di corruzione sono intenzionali. “La chiamo ‘inefficienza efficace,” spiega. “Quel tipo di incertezza è particolarmente efficace se vuoi frenare i movimenti delle persone, controllarle e creare timore e sospetto.”

Berda nota che tale controllo della popolazione ha precedenti in Israele. Tra il 1948 e il 1966, pochi mesi prima che iniziasse l’occupazione del 1967, Israele utilizzò un governo militare per controllare decine di migliaia di palestinesi che erano rimasti all’interno dello Stato da poco formato. Nonostante gli fosse stata concessa la cittadinanza israeliana, queste comunità vennero sottoposte a coprifuoco e potevano viaggiare solo con un permesso.

Il sistema israeliano di permessi e la politica di separazione sono quindi tutt’altro che un’invenzione unica: “È un modo veramente colonialista e imperialista di sottomettere la popolazione,” spiega Berda. Comunque, aggiunge, Israele ha portato questo repertorio coloniale “a un estremo, perché attualmente è il sistema di controllo della popolazione più sofisticato al mondo.”

Per Baconi l’annessione non può essere compresa separatamente dal blocco di Gaza, che a sua volta non può essere slegato dalle pratiche che colpiscono i rifugiati e i cittadini palestinesi di Israele. “Sono tutte politiche che intendono garantire il minor numero possibile di palestinesi sul territorio, che la maggior parte del territorio sia controllata dagli israeliani e che ci sia un contesto messo a punto per garantire uno Stato suprematista ebraico,” afferma.

Henriette Chacar è una redattrice e inviata palestinese di +972 Magazine. Produce, ospita ed edita il podcast di +972. Laureata alla scuola di giornalismo della Columbia, Henriette in precedenza ha lavorato a un settimanale del Maine, a Rain Media per PBS Frontline e The Intercept.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)