Luoghi comuni antipalestinesi

Donald Johnson

10 marzo 2019,MondoWeiss

Ho cercato con Google la frase “luoghi comuni anti-palestinesi”. Quasi tutti gli articoli riguardavano il presunto antisemitismo di Omar [deputata USA di origine somala accusata di antisemitismo per le sue affermazioni contro la lobby filoisraeliana, ndt.].

Allora ho utilizzato la funzione di ricerca avanzata ed ho trovato una conversazione di Yousef Munayyer [scrittore a analista politico palestinese con cittadinanza israeliana e statunitense, ndt.] su “luoghi comuni antipalestinesi”.

Si può affermare con certezza che la preoccupazione per il razzismo contro i palestinesi e per i luoghi comuni antipalestinesi è praticamente inesistente nel dibattito politico prevalente e nei media statunitensi. In quei contesti le persone sembrano inconsapevoli che tali concetti possano esistere, figuriamoci [se hanno] il dubbio che loro stessi possano esserne influenzati. La maggior parte delle persone che scrive o legge giornali come il NYT [New York Times] è probabilmente della classe medio-alta o anche più in alto e vede se stessa come progressista e raffinata. Giudica gli altri in base ai propri standard e non gli viene in mente di poter avere propri punti deboli etici o tabù, alcuni giustificabili e altri no.

Ilhan Omar non fa parte della loro cerchia. Ha detto cose che li hanno turbati, per cui per loro il problema è se lo ha fatto per deliberata cattiveria o si è sbagliata a questo proposito per ignoranza. Il fatto che li abbia turbati due volte in un mese ha provocato un certo scompiglio.

Si trovano progressisti che hanno difeso Omar trattandola come un’immigrata sempliciotta che non sa che questo argomento rappresenta un campo minato. Ciò da parte di persone che vedono se stesse come suoi difensori critici frustrati con molte sfumature, come Michelle Goldberg [editorialista del NYT critica nei confronti di Israele, ndt.].

Anche Nancy Pelosi [presidentessa democratica della Camera dei Rappresentanti USA, ndt.] ha adottato questo atteggiamento.

Potrebbe essere utile pensare a cosa dire agli opinionisti e ai progressisti americani in generale che vivono all’interno di questa campana di vetro, che in modo compiacente presumono di avere la comprensione e l’autorità morale di decidere come dovrebbe essere discussa la questione israelo-palestinese. Anch’io mi trovo in questa campana di vetro e potrei ancora essere sotto la sua influenza. Comunque ecco i miei suggerimenti agli americani riguardo ai luoghi comuni antipalestinesi da evitare quando si scrive dei luoghi comuni antisemiti da evitare. Se uno cade in questi luoghi comuni, corre il rischio di incoraggiare il razzismo antipalestinese. Un sincero progressista non dovrebbe volerlo fare. Potrebbe cadere nell’uso di luoghi comuni antipalestinesi quando pensa che la gente meno colta possa fare una gaffe dicendo qualcosa di antisemita, ma dovrebbe evitare di dirlo. Ovviamente qualcuno o molti dei critici di Omar sono fanatici antipalestinesi che non vogliono cambiare, ma questo articolo è scritto per progressisti che non seminerebbero razzismo se fossero consapevoli di quanto probabilmente lo stiano facendo.

Dovreste leggere la lista di argomenti di Munayyer citata sopra. Poi c’è la mia, senza un ordine particolare.

Luogo comune 1. “Israele ha il diritto di esistere”.

Boom. Siete appena saltati su una mina. È possibile dire ciò senza intendere niente di antipalestinese. Potreste sostenere, come ha fatto qualcuno, che Israele ha il diritto giuridico (come qualunque altra Nazione, indipendentemente dalle sue violazioni dei diritti umani) di esistere all’interno di confini ben definiti senza essere invaso, sebbene potremmo allora continuare su questo argomento delle violazioni dei diritti umani. Ci sarebbe da discutere su tutto questo. Sembra bizzarro, detto da un qualunque americano, parlare della natura inviolabile dei confini, considerando quanto spesso invadiamo o bombardiamo o appoggiamo attacchi terroristici contro altri, e considerando anche la vaga definizione dei confini israeliani. Ma non c’è bisogno di discuterne, perché poche persone la pensano in questo modo.

Quello che la frase effettivamente significa in molti casi è che i palestinesi non hanno il diritto di esistere nella propria patria, quindi non tirate fuori questo argomento o siete antisemiti. La frase intende bloccare qualunque giudizio etico riguardo alla Nakba, o, meglio ancora, non citarla affatto. Si può ricorrere al concetto senza utilizzare proprio questa frase. Si veda, per esempio, il recente attacco di Roger Cohen [opinionista del New York Times, ndt.] contro Jeremy Corbyn, in cui Cohen ha detto di essere orgogliosamente sionista e propone una storia unilaterale del 1948, con tanto di frase tra parentesi sull’invasione degli eserciti arabi (Gli eserciti arabi fecero la guerra contro il compromesso territoriale – dell’ONU – tra palestinesi ed ebrei e persero).

Si dovrebbe dire qualcosa su questa invasione, che avvenne settimane dopo il massacro del 9 aprile [1948] a Deir Yassin e la creazione di 300.000 rifugiati palestinesi, e che nel caso della Transgiordania fu un’invasione di terre che dovevano essere concesse allo Stato palestinese – ma lasciamo perdere.

Qui il vero problema è che Roger Cohen esclude la Nakba [la catastrofe, cioè l’espulsione di buona parte della popolazione palestinese da territorio che diventò lo Stato di Israele, ndt.]. Cohen vuole perorare la causa del sionismo sulla base della minaccia dell’antisemitismo. Se mi chiedesse cosa avrebbero dovuto fare gli ebrei negli anni ’30 di fronte alla minaccia nazista, non saprei cosa rispondergli. La minaccia era reale e divenne un genocidio. Persino i Paesi che si opponevano al nazismo erano permeati in vario grado di antisemitismo. In quel periodo c’era chiaramente una necessità estremamente urgente di un rifugio per gli ebrei.

Ma so che la Nakba è stato un crimine gravissimo, due cose sbagliate non fanno una cosa giusta, ed è impossibile avere una seria discussione sul sionismo senza nemmeno menzionare la Nakba. Qualcuno potrebbe cercare di giustificarla. Il signor Cohen, suppongo, capisce di non poter arrivare fino a questo punto, per cui risolve il problema non menzionandola.

A un certo livello gli argomenti sionisti sono convincenti per i cristiani occidentali a causa del senso di colpa dei cristiani. I cristiani sanno che gli ebrei furono perseguitati per secoli a causa dell’antisemitismo cristiano. Appoggiare il sionismo e ignorare i crimini commessi da Israele rappresenta un modo a buon mercato per fare ammenda. I palestinesi sono diventati i capri espiatori dei crimini altrui. Ovviamente, dato che non sono disposti ad essere capri espiatori, devono essere demonizzati per giustificare il modo in cui sono trattati.

Luogo comune 2. “Israele ha il diritto di difendersi”.

Ciò viene sempre affermato dopo che Israele ha commesso qualche crimine di guerra. I politici americani citano questo come una sorta di mantra. È immorale utilizzare questo luogo comune per giustificare crimini di guerra. Ma invariabilmente, ogniqualvolta Israele uccide civili, si troveranno politici americani dire che Israele ha il diritto di difendersi. Obama lo disse durante la guerra a Gaza nel 2014, in cui Israele si difese uccidendo circa 1.500 civili, compresi 500 minorenni. Morì qualche decina di israeliani, tra cui sei civili. I più importanti politici USA sembrano non avere problemi a chiamare tutto ciò “autodifesa”.

Israele continua a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati. Lo scorso anno il New York Times ha pubblicato quattro articoli per difendere questo modo di agire ed ha dato tutta la colpa delle morti ad Hamas.

Due di questi opinionisti, Bret Stephens e Tom Friedman [entrambi noti giornalisti filoisraeliani, ndt.], ora condannano [Ilhan] Omar.

Ci si potrebbe mai immaginare il New York Times che pubblica un articolo che difenda come giustificabile un attacco terroristico palestinese contro civili perché i palestinesi hanno il diritto di difendersi, che dica che la colpa debba cadere interamente su Israele? Quale sarebbe la reazione se lo facesse?

Ci sarebbe una rivolta in tutto il Paese, perché la difesa dell’uccisione di civili israeliani ebrei sarebbe giustamente vista come una vergogna morale, ma l’uccisione di palestinesi è solo un problema di immagine per Israele e in nessun modo una vergogna morale. Se qualcuno lo difende, ha lo spazio sul New York Times per farlo e ciò non desta assolutamente alcun clamore.

Cohen e Goldberg lavorano lì. Ne deduco che a quanto pare è in atto una politica che proibisce agli editorialisti del New York Times di criticarsi a vicenda per nome, o di criticare i direttori.

Ma potrebbero scrivere articoli criticando il cinico disprezzo di alcuni dei sostenitori americani di Israele senza nominare i loro colleghi. Lo faranno? Non lo so.

Luogo comune 3. “Si può criticare Israele duramente quanto si vuole, ma nel farlo bisogna evitare luoghi comuni antisemiti.”

Sono d’accordo. Ma per la maggior parte di quelli che lo dicono, si tratta di vuota retorica. Quante delle persone che lo affermano riguardo ad Omar scrivono effettivamente articoli che condannano l’apartheid o i crimini di guerra di Israele e l’oscenità di quanti li difendono? E cos’ha esattamente detto Omar che sia scorretto riguardo alla lobby [Omar ha detto che la lobby israeliana paga deputati per avere l’appoggio USA, ndt.]? È praticamente certo che parte del delitto di Omar sia stato di criticare la lobby essendo lei musulmana. Ma persino Bret Stephens condanna l’islamofobia.

Bret Stephens, l’onesto critico di Israele e avversario dell’islamofobia, di fatto si spinge ad attaccare quella posizione sullo stesso giornale che pubblica la sua difesa dell’uccisione di manifestanti:

Kamala Harris, Bernie Sanders e Warren [tutti e tre candidati alle primarie democratiche per le elezioni del 2020, ndtr.] hanno espresso la loro posizione con dichiarazioni che hanno dipinto Omar come vittima di islamofobia – cosa che è vera – senza menzionare che anche lei è dispensatrice di fanatismo antisemita – che lei allo stesso modo sicuramente è.

E si noti che nel momento in cui viene fatta un’accusa di antisemitismo, questa prende immediatamente il centro della scena, mentre i diritti dei palestinesi, che già in partenza non sono mai molto importanti, scompaiono a livello di argomento secondario, sempre che vengano citati. Sì, ci viene detto in teoria, si può esprimere qualche critica sulle colonie e su Netanyahu. Non farebbe nessuna differenza per il nostro appoggio verso Israele se semplicemente Israele se ne liberasse, ovviamente. Non lo ha mai fatto. Le persone hanno criticato Israele per decenni e continuiamo ad appoggiarle. É teatro kabuki. Andiamo avanti. Goldberg è arrabbiata per il fatto che repubblicani, che sono molto più intolleranti di Omar (secondo lei Omar un po’ intollerante lo è), possano farla franca.

Questo è il modo sicuro per difendere Omar. Per Goldberg, gli altri democratici, che cercano di scoprire come punire Omar per il suo “antisemitismo morbido” (parole di Goldberg, non la mia opinione), non lasciando che i fanatici repubblicani la passino liscia, sono gli eroi della vicenda. Ci potrebbe essere fanatismo antipalestinese tra i parlamentari di entrambi i partiti che ogni anno elargiscono miliardi a Israele, a prescindere da quanto Israele tratti male i palestinesi? Queste persone dovrebbero essere criticate per la loro ignavia o apatia o fanatismo? Non sembra essere una domanda che qualcuno dei critici di Omar intenda porre. Omar non fa parte del ‘club’, quindi può essere definita fanatica.

A quanto pare, lei [Goldstein, ndt.] ha sostenitori nel Congresso, per cui il Congresso ha deciso di condannare ogni forma di intolleranza tranne quella che quasi tutti praticano, che è essere contro i palestinesi. Qui sembro sarcastico, eppure che lo crediate o no sto cercando di evitare ogni ironia a buon mercato. Molte delle nostre discussioni politiche in America hanno senso se le pensate come il comportamento di gruppi di liceali. Ciò va ben oltre questo argomento, ma sto divagando.

Luogo comune 4. “Cosa dite di X? Come potete essere spinti da altro che non sia l’intolleranza se vi concentrate solo su Israele e ignorate X?”

Non ho obiezioni riguardo al “benaltrismo” in generale. Lo uso anch’io. “Quando è onesto il “benaltrismo” mette in evidenza l’ipocrisia. Uno dei primi esempi noti viene dalla Bibbia quando il profeta Nathan affronta re David a causa del suo complotto per uccidere Uriah e coprire l’adulterio di David con Betsabea.

(É affascinante e toccante attraversare millenni e vedere che David sente una sincera vergogna in nome del povero il cui cucciolo è stato trucidato dal ricco. Il “benaltrismo” funziona meglio con le persone che hanno una coscienza).

Ma quando lo si usa, il “benaltrismo” deve essere appropriato.

Il “benaltrismo” è stato utilizzato parecchie volte contro Omar. In un tweet cancellato e per cui si è scusata, Julia Ioffe [nota giornalista ebrea statunitense di origine russa, ndt.] ha detto che Omar avrebbe dovuto criticare i sauditi. La gente che usa questo argomento sta facendo una supposizione inconsciamente intollerante secondo cui, poiché Omar è musulmana, deve essere un’ipocrita fanatica antisemita che non critica nessuno Stato musulmano.

Tom Friedman ha fatto ricorso a questo argomento, anche se ha utilizzato invece la Siria.

Quando vedo l’accusa di doppia lealtà che arriva da una deputata che sembra essere ossessionata dalle malefatte di Israele come il principale problema del Medio Oriente – non l’occupazione di fatto di quattro capitali arabe da parte dell’Iran, il suo appoggio alla pulizia etnica e il suo uso di gas velenosi in Siria e il fatto che stia distruggendo la democrazia libanese – mi fa sospettare delle sue motivazioni.”

Non poteva citare i sauditi, perché Friedman è stato uno dei maggiori sostenitori in circolazione di bin Salman [principe saudita che di fatto governa il Paese, ndt.] e dopo l’uccisione del suo amico Khashoggi ha detto che il suo assassinio, in linea di principio se non come numeri, è stato peggio della guerra in Yemen, una guerra che ha in grande misura ignorato. Il “benaltrismo” è anche utilizzato in modo singolare con i palestinesi. Non ci sono altri gruppi per i quali, se si sostengono i loro diritti, puoi star sicuro che qualche progressista dirà che dovresti guardare prima ad altri cinquanta gruppi. Il presupposto implicito, in molti casi probabilmente a livello inconscio, è che i palestinesi non contano niente e quindi l’unica ragione per cui a qualcuno possono importare debba essere l’antisemitismo.

Luogo comune 5. “Pioggia di razzi”

Nessuno con un minimo senso di correttezza potrebbe confrontare il lancio di razzi di Hamas con quello che Israele fa a Gaza. Ma non c’è nessun altro cliché più ampiamente utilizzato per descrivere le azioni molto più distruttive di Israele che “Israele ha il diritto di difendersi”.

Non importa neanche chi abbia sparato per primo o se il blocco di Gaza in sé sia una guerra contro la popolazione. Il lancio di razzi di Hamas è per definizione la giustificazione della brutalità di Israele, non importa quale sia stato l’ordine degli avvenimenti.

Luogo comune 6. Apologia di piccoli Hitler.

Ciò in realtà non riguarda la questione dei palestinesi, ma qualche settimana fa Ilhan Omar si è scontrata con Elliot Abrams [attuale consigliere di Trump per l’America latina, ndt.], un noto difensore di alleati centroamericani omicidi e persino genocidi negli anni ’80. Parecchi membri della “comunità” della politica estera sono corsi in difesa di Abrams, compresi alcuni progressisti. È interessante vedere lo scarso interesse che ciò ha creato tra la maggior parte di quanti ora criticano Omar. Se uno fa parte della banda, può in realtà avere una storia di apologia di piccoli Hitler, e ciò non importa.

Si può continuare. Il punto è che abbiamo disumanizzato i luoghi comuni antipalestinesi che sono utilizzati in continuazione e, per quanto ne so, a nessuno dei progressisti più in voga che criticano Omar non è mai avvenuto di scrivere di questi.

Devono uscire dalla loro campana di vetro, voltarsi e vedere come appare da fuori. Secondo me sembra un gruppo di liceali, ma con un potere enormemente amplificato di ostracizzare e intimorire e mettere all’indice, così come di bombardare, invadere, bloccare e occupare. Se fai parte dell’impero americano, forse puoi imparare qualcosa da Ilhan Omar, nata in Somalia, su come questo appare a qualcuno che è nato all’estero.

Intendo questo come una sorta di colpo basso melodrammatico? No. I membri dell’istruita classe di professionisti americani (di ogni religione o di nessuna) devono smettere di pensare a se stessi come gli arbitri morali finali di cosa è giusto o sbagliato.

Guardate cosa ha fatto l’America in Medio Oriente negli ultimi decenni sotto [i governi di] entrambi i partiti. Sembriamo persone che possano dare lezioni a qualcuno?

Donald Johnson è un commentatore fisso di questo sito come “Donald”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La strategia di Trump in Medio Oriente è destinata a fallire

Joe Macaron

28 febbraio 2019, Al Jazeera

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran sarà un disastro per gli USA e per i loro alleati arabi

Appena una settimana dopo aver partecipato a Varsavia all’inizio di questo mese a quella che è stata universalmente vista come una conferenza contro l’Iran, Jared Kushner, consigliere del presidente USA Donald Trump, ha intrapreso un viaggio diplomatico speciale in Medio Oriente per promuovere e cercare finanziamenti per il suo piano di pace per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Com’era prevedibile, nel suo giro nella regione ha portato con sé il rappresentante speciale USA per l’Iran Brian Hook.

L’incontro di Varsavia e il viaggio di Kushner in Medio Oriente riflettono quello che sembra essere un pilastro fondamentale della politica estera dell’amministrazione Trump, che lega il molto atteso “accordo del secolo” alla formazione di un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran.

La Casa Bianca si aspetta che gli arabi firmino l’accordo di Kushner, normalizzino le relazioni con gli israeliani e lavorino con loro contro l’Iran. Questa è la ragione per cui, mentre molti hanno considerato un fallimento la conferenza di Varsavia, in quanto non ha convinto gli alleati europei a sostenere appieno le politiche USA contro il regime iraniano, l’amministrazione Trump l’ha vista come un successo, in quanto ha riunito allo stesso tavolo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e rappresentanti di vari Paesi arabi.

Tuttavia questa strategia piuttosto miope di politica estera per il Medio Oriente ignora importanti realtà sul terreno ed è, di conseguenza, destinata a fallire.

Un Iran spavaldo

Da quando nel gennaio 2017 è arrivato alla Casa Bianca, Trump ha fatto in modo di distruggere sistematicamente la politica messa a punto dal suo predecessore nei confronti dell’Iran.

Il presidente Barack Obama pensava che gli USA non dovessero scontrarsi con l’Iran per conto degli alleati arabi e ha cercato di coinvolgere l’Iran. La sua amministrazione ha accentuato la pressione attraverso sanzioni internazionali e al contempo ha spinto per il dialogo.

Tra il 2014 e il 2016 gli USA e l’Iran hanno tacitamente lavorato insieme per lottare contro la comune minaccia dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), appoggiando i governi in Iraq e in Libano mentre evitavano uno scontro in Siria. Il tentativo di coinvolgimento dell’Iran è culminato con il “Joint Comprehensive Plan of Action” [Piano Complessivo Comune di Azione] (JCPOA), che ovviamente non era gradito a Israele e all’Arabia Saudita.

Dopo che Trump ha preso il potere, si è ritirato dallo JCPOA ed ha di nuovo imposto pesanti sanzioni all’Iran, cercando di far pressione su Teheran perché faccia concessioni sul programma di missili balistici e sulle sue attività regionali. Ma finora l’escalation ha solo reso l’Iran più spavaldo.

Il regime iraniano ha ripetutamente chiarito che non ha intenzione di negoziare a queste condizioni. Recentemente il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha affermato che per il suo regime parlare con gli USA nell’attuale contesto è come “andare in ginocchio davanti al nemico”.

Nonostante l’escalation dell’amministrazione Trump contro l’Iran, le regole di condotta dell’era Obama rimangono in vigore in Iraq, Siria e Libano, dove gli USA continuano ad evitare uno scontro diretto con le forze iraniane e i loro alleati.

Tuttavia a Teheran l’attuale guerra psicologica sta alimentando la paranoia, il che incrementa il rischio di un errore di calcolo. Se Washington e Teheran continuano a spingersi troppo oltre, i loro alleati ne pagheranno le conseguenze.

Un regime iraniano messo all’angolo potrebbe facilmente diventare un ostacolo per le politiche Usa in Medio Oriente. Potrebbe motivare le sue risorse a Gaza ad agire contro Israele o forzare la mano del governo iracheno o libanese per prendere l’iniziativa contro interessi USA.

Attività sovversive iraniane possono non solo indebolire gli alleati USA nella regione, ma anche sabotare i tentativi statunitensi di far progredire i colloqui tra palestinesi e israeliani.

Un traballante tentativo di normalizzazione tra arabi e israeliani

Trump ha anche rovesciato la tradizionale politica USA riguardo al processo di pace israelo-palestinese. La sua amministrazione ora sta spingendo per rompere un principio base della politica araba, che lega la normalizzazione con Israele a un equo accordo israelo-palestinese che riconosca uno Stato palestinese sostenibile, preveda un ritiro di Israele sui confini del 1967 e definisca lo status di Gerusalemme. Gli alleati arabi degli USA vogliono un accordo che rispetti queste esigenze fondamentali; in patria sarebbe difficile far accettare qualunque cosa meno di questo.

I dirigenti arabi continuano a sentirsi a disagio riguardo a una normalizzazione ufficiale con Israele, dato che l’opinione pubblica araba rimane sensibile all’idea che flirtino con Israele. Se i dirigenti arabi appoggiassero un accordo tra palestinesi e israeliani percepito come sbagliato potrebbero facilmente scoppiare rivolte popolari in tutto il mondo arabo.

Riconoscendo questo pericolo, il re saudita Salman ha recentemente ripreso da suo figlio, il principe Mohammed bin Salman, il dossier sulla Palestina e riproposto la posizione tradizionale di Ryad sulla questione palestinese. Questa posizione è stata espressa il 13 febbraio in un’intervista con il Canale 13 israeliano dall’ex-capo dell’intelligence saudita, il principe Turki bin Faisal al-Saud, che ha lasciato intendere che l’Arabia Saudita sta aspettando a braccia aperte Israele se e quando farà un giusto accordo con i palestinesi.

L’altro rischio che i leader arabi devono affrontare nell’intraprendere una normalizzazione prematura con Israele è che in cambio l’amministrazione Trump potrebbe non volere andare al di là delle parole e delle sanzioni per tenere a bada l’Iran nella regione.

Una palude palestinese

Tuttavia la questione palestinese rimane la sfida fondamentale per la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la costruzione di una coalizione contro l’Iran.

Jared Kushner ha imbastito un accordo di pace che dovrebbe essere reso pubblico in aprile dopo le elezioni politiche israeliane. Il cosiddetto “accordo del secolo” è probabilmente il primo tentativo di risolvere il conflitto di cui la parte palestinese non è stata informata o resa partecipe.

Ciò che è interessante in questo piano è il suo approccio alla politica palestinese. Dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, la politica dell’amministrazione Bush è stata di punire la Striscia bloccando ogni aiuto e al contempo assistere l’Autorità Nazionale Palestinese per mostrare come la Cisgiordania poteva prosperare rispettando le norme internazionali ed accettando negoziati con Israele.

Trump sta invertendo questo approccio, punendo l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania per aver rifiutato di accettare l’“accordo del secolo” dopo che lui ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Nel contempo la Casa Bianca sta corteggiando Hamas con finanziamenti per importanti progetti economici a Gaza, che, come l’atteggiamento dell’amministrazione Bush, incoraggiano le divisioni palestinesi invece di rafforzarne l’unità.

Trump ha bisogno di un fronte palestinese unito che approvi il piano di pace che suo genero sta proponendo, ma sia Fatah che Hamas hanno puntato sulla divisione tra Cisgiordania e Gaza e vedono la possibile riunificazione in base all’accordo come dannosa per i propri interessi.

Benché non tutte le condizioni dell’accordo siano state ancora divulgate, i dettagli già noti al pubblico indicano che non rispetteranno l’interesse superiore dei palestinesi.

Il 25 febbraio, in un’intervista per la rete televisiva Sky News Arabia degli Emirati, Kushner ha dichiarato: “Se puoi eliminare il confine e avere pace e meno timori del terrorismo, potresti avere un flusso più libero di prodotti, di persone, e ciò creerebbe molte opportunità.”

Ciò che questa dichiarazione criptica significa è che la debole economia palestinese verrà ancora più integrata in quella israeliana, rendendo i palestinesi ancora più dipendenti dallo Stato di Israele, che continuerà ad avere il totale controllo sulla sicurezza, e di conseguenza la possibilità di reprimere il dissenso politico palestinese.

Quindi Trump sta legando la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la deterrenza contro l’Iran a un accordo tra palestinesi e israeliani in termini che istituzionalizzerebbero il controllo israeliano sui territori palestinesi e avrebbe conseguenze disastrose per i palestinesi.

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana probabilmente creerà in futuro problemi ai dirigenti arabi. Potrebbe compromettere la deterrenza nei confronti di Teheran, rafforzando la popolarità del regime iraniano nella regione e delegittimando ulteriormente i già deboli regimi arabi.

In questo senso la strategia dell’amministrazione Trump di legare un accordo israelo-palestinese sbagliato a un’alleanza tra arabi e israeliani come deterrente nei confronti dell’Iran pregiudica questi due obiettivi USA in Medio Oriente e potrebbe persino ritorcersi contro gli alleati e gli interessi USA nella regione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Joe Macaron

Joe Macaron è borsista presso il Centro Arabo di Washington DC [centro di ricerca USA sui Paesi arabi, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 12 – 25 febbraio (due settimane)

A Gaza, durante le manifestazioni del venerdì e gli scontri presso la recinzione perimetrale, un ragazzo palestinese è stato ucciso e altri 449 palestinesi sono rimasti feriti; un altro ragazzo è morto per le ferite riportate in precedenza.

Secondo fonti israeliane, in diverse occasioni, i manifestanti hanno lanciato ordigni esplosivi, palloni incendiari ed hanno tentato di violare la recinzione, provocando il ferimento di un ufficiale della polizia di frontiera israeliana. L’uccisione del ragazzo, un quattordicenne, è avvenuta il 22 febbraio durante una manifestazione di protesta ad est della città di Gaza: le forze israeliane lo hanno colpito al petto con arma da fuoco. Il secondo ragazzo, un 16enne, è morto il 12 febbraio, per le ferite riportate l’8 febbraio, nella zona di Deir al Balah, durante una circostanza simile: era stato colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno lanciata dalle forze israeliane. Questi episodi portano a 40 il numero di minori palestinesi uccisi dalla fine di marzo 2018 nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”. Cinque di questi sono stati uccisi dall’inizio del 2019. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, dei 449 palestinesi feriti durante il periodo di riferimento, 228 sono stati ricoverati in ospedale; tra questi 92 erano stati feriti con armi da fuoco.

Altri 165 palestinesi e un soldato israeliano sono rimasti feriti nel corso di ulteriori manifestazioni di protesta e iniziative contestuali alla “Grande Marcia di Ritorno”, comprese le dimostrazioni che si sono svolte il 12 e il 19 febbraio vicino alla recinzione, sulla spiaggia a nord di Gaza, in contemporanea con il tentativo, attuato da una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale. In prossimità della recinzione sono aumentate le proteste notturne, con incendio di pneumatici ed il lancio di ordigni esplosivi contro le forze israeliane. In seguito al ferimento di un soldato, l’esercito israeliano ha sparato colpi di carro armato contro due postazioni militari palestinesi nel nord di Gaza, senza provocare vittime.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 44 occasioni. In due degli episodi, tre pescatori sono rimasti feriti, altri quattro sono stati arrestati e due imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane. Ad est della città di Gaza e di Khan Younis, in due occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. In altri due episodi, cinque palestinesi sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Israele.

In Cisgiordania, nel corso di numerosi scontri, 139 palestinesi e due soldati israeliani sono rimasti feriti. Due terzi dei ferimenti si sono verificati negli scontri scoppiati nel corso di sei operazioni di ricerca-arresto. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 156 operazioni di ricerca-arresto. Il 21 febbraio, all’interno dell’area (H2) della città di Hebron sotto controllo israeliano, le forze israeliane hanno sparato bombolette di gas lacrimogeno all’interno di un complesso scolastico; per 30 studenti e tre insegnanti è stato necessario un trattamento medico per inalazione dei gas. A quanto riferito, in precedenza vi era stato il lancio di pietre da parte degli studenti palestinesi. Nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante una protesta settimanale contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti, sono rimasti feriti altri tre palestinesi; ed ancora altri tre nel villaggio di Urif (Nablus), sempre durante una protesta. Quasi il 70% del totale dei ferimenti è stato causato dall’inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 7% da proiettili di gomma e il 7% da armi da fuoco.

Presso la Moschea di Al Aqsa / Complesso del Monte del Tempio e le aree circostanti la Città Vecchia di Gerusalemme, la tensione è in aumento in seguito a proteste, ad arresti ed a restrizioni di accesso. Il 17 febbraio, all’interno del Complesso, la polizia israeliana ha posto delle catene all’ingresso dell’edificio Bab Ar Rahma, chiuso dalle autorità israeliane dal 2003. Nei giorni successivi, palestinesi hanno protestato contro questa misura, si sono scontrati con le forze israeliane e due palestinesi sono rimasti feriti. Il 22 febbraio, palestinesi hanno fatto irruzione nell’edificio; qui hanno pregato, per la prima volta dopo 16 anni. A Gerusalemme Est, tra il 18 e il 25 febbraio, le forze israeliane hanno arrestato circa 100 palestinesi, la maggior parte nella Città Vecchia; inoltre a molti palestinesi, inclusi personaggi pubblici e religiosi, hanno vietato, per periodi variabili, l’ingresso nel Complesso.

Undici episodi, nei quali sono coinvolti coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di cinque palestinesi e danni alle loro proprietà. Nei pressi delle Comunità di Al Farisiya (Valle del Giordano), Khirbet al ‘Idd (Hebron) e Kisan (Betlemme), tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente da coloni; un quarto è stato accoltellato. Inoltre, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro auto palestinesi vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus), hanno vandalizzato dieci auto a Ras Karkar (Ramallah) e altre 22 automobili, quattro case e una moschea a Iskaka (Salfit). Su quest’ultimo episodio la polizia israeliana ha aperto un’indagine. In altri tre casi, coloni hanno sradicato 600 ulivi di proprietà palestinese vicino ad Ash Shuyukh (Hebron), mentre nei villaggi di Beitillu e Al Mughayyir (entrambi a Ramallah) hanno abbattuto 60 ulivi ed hanno danneggiato 9.000 m2 di terreno. In due distinti episodi in Farisiya Nabe ‘Ghazal (Tubas) e nel villaggio di Burqa (Nablus), coloni israeliani avrebbero rubato bestiame e prodotti agricoli palestinesi. Con questi episodi salgono a 47, dall’inizio del 2019, il numero di aggressioni perpetrate da coloni e risultanti in ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà; in equivalenti periodi di tempo, le aggressioni erano state 38 nel 2018 e 29 nel 2017.

Le autorità israeliane hanno demolito 26 strutture di proprietà palestinese, incluse parti di tre condotte idriche, sfollando 44 persone e provocando danno a migliaia di altre. Tutte le demolizioni erano motivate dalla mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Le tre condotte idriche distrutte, erano tutte in Area C; approvvigionavano di acqua, o stavano per approvvigionare, i villaggi Beit Dajan e Beit Furik a Nablus (18.000 persone), oltre che 13 Comunità di pastori nell’area Masafer Yatta di Hebron (1.200 persone) e la Comunità beduina di Wadi Abu Hindi a Gerusalemme (320 persone); tutte queste Comunità soffrono di gravi carenze idriche, soprattutto in estate. Le ultime due condotte erano state finanziate da donatori internazionali e fornite come assistenza umanitaria. Sette delle strutture demolite, tra cui cinque abitazioni, erano in Gerusalemme Est e le loro demolizioni hanno provocato lo sfollamento di 38 persone [delle 44 sopraccitate]. Due delle abitazioni colpite si trovavano nella Comunità di Bir Onah, nel sud della Città; la Barriera separa questa Comunità dal resto di Gerusalemme.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, in sei episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, palestinesi hanno ferito tre coloni israeliani ed hanno danneggiato diversi veicoli. In due di questi episodi, avvenuti il 16 e il 19 febbraio nei pressi dei villaggi di Hizma e Al ‘Isawiya (Gerusalemme), tre coloni israeliani in transito sono stati feriti da pietre lanciate da palestinesi mentre, nei governatorati di Gerusalemme e Ramallah, sei auto, colpite da pietre e bottiglie incendiarie, hanno subito danni. La maggior parte di tali episodi sono stati seguiti da operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane.

A Gaza, il 23 febbraio, la polizia di Hamas ha disperso con la forza un’assemblea di attivisti di Fatah. Organizzazioni per i Diritti Umani hanno riferito che circa 90 membri del movimento Fatah sono stati convocati successivamente dalla polizia, alcuni dei quali rimangono in carcere.

Nel contesto di una disputa con l’Autorità palestinese, il 17 febbraio, le autorità di Hamas hanno assunto il controllo del valico di Kerem Shalom, al confine tra Gaza ed Israele. Il movimento delle merci da e per la Striscia di Gaza è continuato senza interruzione.

Durante il periodo relativo a questo Rapporto, il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto (sotto controllo egiziano), è rimasto aperto per 10 giorni in entrambe le direzioni. 1.320 persone sono entrate a Gaza e 2.983 ne sono uscite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Israele dovrebbe essere giudicato per l’uccisione illegale di manifestanti a Gaza

Middle East Monitor

28 febbraio 2019

video proiettato durante le sedute della Commissione ONU

La Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] ha informato che giovedì membri di una commissione d’inchiesta ONU hanno affermato che lo scorso anno a Gaza le forze di sicurezza israeliane potrebbero aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità per l’uccisione di 189 palestinesi e il ferimento di più di altri 6.100 durante le proteste settimanali.

La commissione indipendente ha affermato di aver avuto informazioni confidenziali su coloro che ritiene essere responsabili di queste uccisioni illegali, compresi cecchini e comandanti dell’esercito israeliano. Ha chiesto ad Israele di incriminarli.

Quando hanno sparato le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso e menomato manifestanti palestinesi che non rappresentavano una minaccia immediata di morte o di gravi ferite ad altri, né stavano partecipando direttamente agli scontri,” si afferma, aggiungendo che le proteste sono state “di carattere civile”.

Le vittime includono minori, giornalisti e una persona amputata ad entrambe le gambe che era su una sedia a rotelle.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto il rapporto ed ha accusato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, che ha promosso l’inchiesta, di ipocrisia e di menzogne alimentate da “un odio ossessivo verso Israele.”

Israele ha affermato di aver aperto il fuoco per difendere il confine da incursioni e attacchi da parte di miliziani armati.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato che i risultati dell’indagine confermano che “Israele ha commesso crimini di guerra contro il nostro popolo a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme.”

In un comunicato ha detto che la Corte Penale Internazionale dovrebbe agire immediatamente e aprire un’inchiesta in merito.

Le proteste sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza sono iniziate nel marzo dello scorso anno, con i gazawi che chiedevano che Israele alleggerisse il blocco dell’enclave e il riconoscimento del loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie fuggirono o che vennero obbligate a lasciare quando Israele venne fondato nel 1948.

La commissione ha scoperto che 183 dei 189 manifestanti sono stati uccisi con proiettili veri. Ha espresso una grande preoccupazione per le regole d’ingaggio segrete stilate dai dirigenti civili e militari israeliani che “a quanto pare consentono di sparare proiettili veri contro dimostranti come ultima risorsa… e di sparare alle gambe dei ‘principali agitatori’.”

Sostiene che il concetto israeliano di ‘principali agitatori’ non esiste nelle leggi internazionali.

Dice che circa 122 feriti, tra cui 20 minori, hanno avuto un arto amputato.

La commissione afferma che nessun soldato israeliano è stato ucciso durante le proteste, tranne uno durante un giorno di manifestazioni ma non in un luogo in cui stavano avvenendo proteste, mentre quattro sono stati feriti.

Una portavoce militare israeliana lo ha contestato, sostenendo che il soldato sia stato colpito a morte durante disordini nelle vicinanze che erano “stati provocati per attirare soldati e poterli attaccare.”

Il rapporto, che riguarda il periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018, si basa su centinaia di interviste con vittime e testimoni, così come su reperti medici, video, riprese da droni e fotografie.

Il rapporto dice che il 14 maggio le forze israeliane hanno ucciso 60 dimostranti, il più alto numero di vittime in un solo giorno a Gaza dall’attacco militare del 2014 [l’operazione “Margine Protettivo”, ndt.].

In un comunicato Amnesty International ha affermato: “I responsabili da questi crimini deprecabili non devono rimanere impuniti. I risultati di questo rapporto devono portare a fare giustizia per le vittime di crimini di guerra.”

Corte Penale Internazionale

I membri della commissione d’indagine dicono che l’alta commissaria ONU per i diritti umani Michelle Bachelet dovrebbe condividere i risultati con la CPI.

Israele non fa parte della CPI né ne riconosce la giurisdizione, ma la corte con sede all’Aia nel 2015 ha aperto un’indagine preliminare riguardo alle denunce di violazioni dei diritti umani da parte di Israele sul territorio palestinese.

La Striscia di Gaza, l’enclave costiera controllata dal gruppo islamista Hamas, ospita 2 milioni di palestinesi. Nel 2005 Israele ritirò le sue truppe e i suoi coloni da Gaza, ma conserva un rigido controllo sui suoi confini terrestri e marittimi. Anche l’Egitto limita il movimento dentro e fuori Gaza.

Il presidente della commissione Santiago Cantón, un giurista argentino, ha detto: “Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o contro l’umanità e devono essere immediatamente indagate da Israele.”

Durante una conferenza stampa ha affermato: “La nostra inchiesta ha scoperto che i manifestanti erano nella stragrande maggioranza disarmati, anche se non sempre pacifici.”

Trentacinque minori, due giornalisti e tre paramedici “chiaramente individuabili” sono stati tra le vittime delle forze israeliane, in violazione delle leggi umanitarie internazionali, afferma il rapporto.

Sara Hossain, membro della commissione e avvocatessa presso la Corte Suprema del Bangladesh, ha sostenuto: “Stiamo affermando che hanno sparato intenzionalmente a minori. Hanno sparato intenzionalmente a persone disabili, hanno sparato intenzionalmente a giornalisti.” E ha aggiunto: “Abbiamo scoperto che una persona con entrambe le gambe amputate è stata colpita ed uccisa mentre era seduta sulla sua sedia a rotelle. In due giorni diversi due persone visibilmente con le stampelle sono state colpite alla testa. Sono state uccise.”

Israele afferma che le sue forze sono state a volte vittime di attacchi da armi da fuoco o granate durante le proteste.

Betty Murungi, che ha fatto parte della commissione, ha anche detto che le autorità di Gaza dovrebbero interrompere l’uso di aquiloni e palloni incendiari, congegni che hanno distrutto coltivazioni israeliane.

Il funzionario di Hamas Ismail Rudwan ha detto alla Reuter a Gaza: “La richiesta della commissione ONU di mettere sotto processo i dirigenti dell’occupazione israeliana è una prova che le forze di occupazione hanno commesso crimini contro l’umanità nella Striscia di Gaza.”

Nell’ultimo decennio Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre.

(traduzione di Amedeo Rossi)




GERUSALEMME. Tensioni ad Al-Aqsa, nuovo punto di rottura

Ben White

Middle East Eye, 21 febbraio 2019

Roma, 25 febbraio 2019, Nena News –  Passate inosservate sui media occidentali, le tensioni nella Gerusalemme occupata si sono intensificate. La scorsa settimana è nato un nuovo scontro sulla questione del complesso della Moschea di Al-Aqsa, nel contesto degli sforzi sempre più intensi che le autorità israeliane e i coloni stanno mettendo in campo per cambiare lo status quo e impossessarsi delle proprietà palestinesi nella Città Vecchia e dintorni.

Il governo giordano ha recentemente deciso di allargare la struttura della Waqf – l’istituzione incaricata di gestire il complesso di Al-Aqsa – per includere un certo numero di “pezzi grossi” palestinesi, oltre ai consolidati membri giordani.

Accessi chiusi 

La mossa è giunta in risposta a quella che Ofer Zalzberg, dell’Unità di Crisi Internazionale, ha descritto ad Haaretz come “l’erosione dello status quo” nella zona, che include anche la tolleranza, da parte delle forze di occupazione israeliane, di un “tranquillo pregare” degli ebrei all’interno del complesso – “uno sviluppo alquanto recente”, nota il giornale.

Giovedì scorso, il comitato appena allargato ha fatto un sopralluogo, e pregato, nell’edificio situato alla Porta della Misericordia (Bab al-Rahma), chiuso dalle autorità israeliane di occupazione dal 2003. Al tempo, la chiusura venne motivata sulla base di ipotetiche attività politiche e legami con Hamas, ma l’edificio da allora è rimasto chiuso.

Domenica notte le forze israeliane hanno messo nuovi lucchetti ai cancelli metallici che portano all’edificio. Quando i fedeli palestinesi hanno cercato di aprire i cancelli, sono scoppiati scontri, e diversi palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Martedì sera ci sono stati altri scontri e arresti, mentre un tribunale israeliano, mercoledì, ha vietato a una decina di palestinesi di entrare nel complesso. Sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che Hamas hanno condannato tali sviluppi, e hanno lanciato l’allarme sulla precarietà della situazione.

Una nuova realtà dei fatti

Ciò che è successo al complesso di Al-Aqsa dev’essere considerato all’interno del più ampio scenario di Gerusalemme, e in particolare di ciò che l’ong israeliana Ir Amir ha definito una “rapida e sempre più intensa catena di nuovi avvenimenti”, tra cui “un crescente numero di campagne, sostenute dallo Stato, per gli insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi”.

Un’espressione di tali campagne è lo sfratto di famiglie palestinesi dalle proprie case, in modo che i coloni possano prenderne possesso.  Domenica scorsa, la famiglia di Abu Assab è stata espulsa dalla propria casa nel quartiere musulmano della Città Vecchia, un destino che attende altre centinaia di famiglie palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Ciò che si sta concretizzando a Gerusalemme è una “campagna organizzata e sistematica dei coloni, con il sostegno degli enti governativi, per espellere intere comunità da Gerusalemme Est e per stabilire insediamenti al loro posto”, secondo le parole di un supervisore israeliano degli insediamenti.

“Ciò che vogliono è evidente: una maggioranza ebraica qui e a Gerusalemme Est”, ha dichiarato recentemente all’Independent Jawad Siyam, un attivista di Silwan. La sua comunità è rovinata dalla presenza dell’insediamento coloniale “Città di David”, destinato a ricevere un nuova spinta dalle autorità israeliane di occupazione, sotto forma di un progetto per una stazione di teleferica.

Gerusalemme è stata per un bel po’ assente dai titoli dei giornali, visto che la gran parte dell’attenzione, per motivi più che comprensibili, è stata riservata alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza e ai tentativi, arenati, di ottenere la liberazione dal blocco. Ci sono all’orizzonte anche le elezioni israeliane, e continuano le congetture su cos’abbia in serbo l’amministrazione Trump con il cosiddetto ‘piano di pace’.

In sottofondo, comunque, l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane a Gerusalemme Est potrebbe portare a un nuovo punto di rottura.

Attivismo di base 

La Waqf ha dichiarato di mirare all’apertura del sito di Bab al-Rahma, una richiesta che potrebbe diventare il punto fondamentale di quel genere di proteste di massa che si sono viste nell’estate del 2017. Allora, i metal detector introdotti dalle forze israeliane di occupazione fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa innescarono manifestazioni spontanee, e alla fine vennero rimossi.

Che il Waqf decida o meno di procedere, potrebbe ritrovarsi con le mani legate dalla pressione dell’attivismo di base; c’è parecchia preoccupazione, tra i palestinesi, che il governo israeliano – insieme al cosiddetto “Movimento del Tempio” – si stia adoperando per una divisione dello spazio del complesso di Al-Aqsa, con l’instaurazione al suo interno di preghiere ebraiche formalizzate.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno procedendo alla chiusura del loro Consolato a Gerusalemme Est e allo spostamento degli “affari” palestinesi in un ufficio all’interno della nuova Ambasciata: un segnale potente, se ce ne fosse bisogno, del fatto che la visione dell’amministrazione Trump traccia una netta separazione anche dalla semplice finzione di una “soluzione dei due Stati”, e del suo timbro di approvazione su Israele come unico Stato di fatto.

Gli eventi di questa settimana, comunque si svilupperanno, costituiscono un monito: mentre Israele e gli Stati Uniti vedono in Gerusalemme una facile preda per un rapido processo di colonizzazione e di maggiore imposizione della sovranità israeliana, i residenti palestinesi della città sono navigati guastafeste dei piani israeliani e potrebbero presto riprendere questo ruolo

Traduzione di Elena Bellini/ Nena News




Intervista al Coordinatore della Grande Marcia per il diritto al Ritorno

Patrizia Cecconi

23 febbraio 2019, Pressenza

Il 22 febbraio si è svolto a Milano un incontro pubblico con l’avvocato Salah Abdel Ati, residente a Gaza, che ha portato la sua testimonianza sulla Grande Marcia del Ritorno e sulla situazione nella Striscia.

Alla fine dell’incontro Patrizia Cecconi ha fatto alcune domande all’avvocato S. A. Ati che riteniamo interessante proporre anche nel nostro sito. L’articolo integrale con la cronaca della serata milanese è stato pubblicata su Pressenza.

D. Lei è un giovane avvocato ma ha già molti anni di esperienza nelle lotte per i diritti umani in Palestina. Vuole raccontarci un po’ della sua vita a Gaza?

R. Veramente non sono tanto giovane, ho 44 anni e due dei miei quattro figli sono già all’università. Il ragazzo studia ingegneria e la ragazza è al primo anno di farmacia. Noi vogliamo che i nostri figli studino e tutte le famiglie a Gaza vogliono questo. Non tutti però possono date le condizioni economiche, ma la percentuale di iscritti all’Università, maschi e femmine, è molto alta. 

D. Lei fa parte delle famiglie arrivate a Gaza in seguito alla cacciata dovuta alla Nakba o è originario della Striscia? 

R. Sono uno di quel 75% di gazawi che vive in un campo profughi in quanto la mia famiglia è arrivata a Gaza dopo essere stata cacciata dalla Palestina storica. Da allora viviamo nel campo profughi di Jabaliya, al nord della Striscia.

D. Jabaliya è il luogo da cui partì la prima intifada, cioè la rivolta delle pietre, come venne chiamata, dopo l’uccisione di alcuni palestinesi investiti da un camion dell’esercito israeliano nel dicembre del 1987, è così? 

R. Sì, la rivolta partì da Jabaliya. La situazione era già carica e quella fu l’occasione che fece esplodere la rabbia palestinese. Inoltre, il giorno dopo l’investimento, gli israeliani spararono, uccidendolo, a un bambino che aveva lanciato delle pietre e da Jabaliya la rivolta si allargò e si espanse in tutti i territori occupati. Io ero un ragazzino e, come tutti gli altri ragazzini, partecipai alla rivolta. La mia gamba destra porta ancora i segni lasciati da Israele. 

D. Durante e dopo la prima intifada si occupò di politica in modo sistematico o rimase nelle fila della rivolta spontanea?

R. Mi occupai di politica. Entrai nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e venni eletto rappresentante degli studenti. Sono rimasto nel Fronte popolare fino ad alcuni anni fa. 

D. Il PFLP ha sempre rappresentato l’anima laica e di sinistra della Palestina, è vero?

R. Sì, il PFLP è stato il primo partito ad avere delle donne tra i suoi massimi dirigenti, però ora non faccio più parte dell’organizzazione politica, ma continuo a svolgere le attività in cui ho sempre creduto e per le quali ho lavorato anche nel Fronte Popolare.

D. Per esempio?

R. Per esempio la formazione politica e sociale dei giovani, i tavoli di formazione e di dialogo con le donne. Lo studio dei diritti umani e le violazioni che Israele, ma anche le autorità che governano la Palestina, sebbene in forma e numero diversi, commettono. Tutti i programmi che svolgiamo nel sociale. Insomma tutto ciò che dovrebbe preparare alla vita in una società libera, quella per la quale lavoriamo e per la quale abbiamo iniziato l’esperienza della Grande Marcia del Ritorno.

D. Lei è coordinatore per gli aspetti legali della Grande Marcia del Ritorno. Ci può dire come e da chi è nata l’idea di questa marcia che finora ha visto circa 250 martiri e oltre 25.000 feriti? E chi realmente la porta avanti? Le faccio questa domanda perché i nostri media, a parte quelli “di nicchia” ne parlano come di un progetto imposto da Hamas alla popolazione gazawa. Un progetto crudele che manda a morire tanti innocenti. 

R. No, non è un progetto di Hamas. Io ho molti contatti con l’Occidente e so bene come vengono manipolate le notizie. Intanto diciamo che in questo modo la colpa delle uccisioni non si dà agli assassini ma si scarica su una parte della società gazawa, quella che ne rappresenta il governo di fatto. Hamas può essere accusato di restrizioni e di una visione reazionaria rispetto ai valori della sinistra laica, ma non può essere accusato degli omicidi israeliani. Israele uccide manifestanti inermi, si è accanita su due dei giornalisti più competenti e conosciuti anche all’estero, due reporter che mandavano foto inequivocabili alle agenzie internazionali. Non è un caso. I suoi cecchini colpiscono il personale sanitario mentre presta soccorso. Sparano sui bambini. Sono tutti crimini contro l’umanità e se il diritto internazionale non sanziona Israele per questi numerosi e continui crimini, Israele continuerà a commetterli e queste violazioni peseranno anche sulle vostre democrazie. Comunque la grande marcia non è un progetto di Hamas, ma il movimento di Hamas partecipa, al pari di membri di Fatah, del Fronte Populare, del Fronte Democratico, degli altri movimenti politici e delle organizzazioni della società civile che hanno aderito in grande numero alla marcia.

D. Le ripeto la domanda che le avevo fatto e alla quale già mi ha risposto, ma solo in parte. Abbiamo capito che non è nata da Hamas e che non è governata da Hamas, ma come è nata l’idea della Grande Marcia?

R. È nata alla fine del 2017 discutendo sulla situazione che ci vede schiacciati sotto l’assedio. Acqua quasi totalmente non potabile, elettricità somministrata a piacere di Israele tre, quattro ore a caso durante il giorno o la notte col chiaro intento di rendere più difficile possibile la vita dei gazawi. Campi continuamente distrutti o dalle ruspe o dagli aerei che spargono diserbanti. Bombardamenti israeliani a piacere. Disoccupazione altissima. Salari tagliati anche dall’Anp. Il grado di esasperazione dei giovani e degli adulti che si alterna a fenomeni di depressione per mancanza di futuro. Insomma una situazione insostenibile. Discutendo veniva fuori che in questi 70 anni in tutta la Palestina e, in particolare, in questi 12 anni di assedio a Gaza, nessuna lotta è mai riuscita vincente. 

La resistenza è un nostro legittimo diritto ma né la resistenza armata, né la non violenza hanno mai portato all’ottenimento dei diritti spettanti al nostro popolo. Allora abbiamo pensato, discutendo e anche litigando, che un vero movimento popolare, un movimento di massa, senza uso di violenza, avrebbe potuto aiutarci ad ottenere quel che ci è dovuto. Abbiamo pensato che un diritto riconosciutoci dall’ONU già nell’anno della Nakba rappresentava tutti i palestinesi, la Risoluzione 194, cioè il nostro diritto al ritorno nelle terre, nelle case da cui siamo le nostre famiglie sono state cacciate. Così abbiamo pensato, organizzandoci in comitati, a organizzare questa grande marcia, ricreando lungo il confine dell’assedio, gli accampamenti in cui le tende portavano il nome dei villaggi e delle città da cui siamo stati cacciati. Sarebbe stato un grande movimento e forse il mondo delle istituzioni ci avrebbe finalmente dato ascolto. La grande marcia non vuole divisioni tra fazioni politiche e questo è un altro nostro importante obiettivo. 

D. Ma non avete messo in conto che Israele avrebbe potuto fare una carneficina? 

R. Israele ci ammazza ogni giorno e il mondo sta in silenzio. I nostri giovani hanno ideato il fumo nero degli pneumatici per coprire la vista ai cecchini, ma il mondo non ferma Israele, anzi lo protegge e addirittura abbiamo letto sui vostri giornali che i nostri giovani sono violenti perché incendiano gli pneumatici! Il nostro popolo ama la vita, non vuole morire, ma la morte è messa in conto. Lei ha visto durante la proiezione dei filmati [presentati durante l’incontro di Milano] che abbiamo adottato la vostra canzone “Bella ciao”? Ebbene l’ultima strofa della vostra canzone è quella che ci porta a lottare a rischio della vita, morire per la libertà. 

D. Caro avvocato, è eroico e mi azzarderei a dire commovente quel che mi sta dicendo, ma il mondo delle istituzioni non sembra capirlo.

R. È per questo che sto facendo questo viaggio. Domani sarò a Bruxelles perché abbiamo bisogno di lobbies politiche che ci aiutino a imporre a Israele le giuste sanzioni secondo la normativa giuridica internazionale. Senza sanzioni che costringano Israele al rispetto dei diritti umani non ci saranno né giustizia né pace. 

D. Lei a Gaza dirige il centro Masarat, giusto? Qual è l’attività di questo centro?

R. Il Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies  segue una filosofia di apertura in tutte le direzioni e l’obiettivo prioritario su cui stiamo lavorando da molti anni è quello di raggiungere la riconciliazione tra le due fazioni più importanti, i cui leader governano rispettivamente la Cisgiordania (Fatah) e la Striscia di Gaza (Hamas). Noi siamo convinti che senza unificazione tra tutte le forze politiche non ci sarà alcuna possibilità di battere l’occupazione. Sul fronte interno, dal punto di vista politico, lavoriamo per questo. Sul fronte esterno lavoriamo per ottenere il rispetto dei diritti umani da parte di Israele, ma se cogliamo violazioni dei diritti umani da parte delle autorità palestinesi non esitiamo a denunciarle e a chiedere che vengano ripristinati i diritti violati. Recentemente abbiamo denunciato come violazione dei diritti umani anche il taglio degli stipendi agli impiegati di Gaza da parte dell’ANP.

D. Questo tipo di denunce non può acuire le distanze tra Fatah e Hamas?

R. No, perché noi non denunciamo per conto dell’una o dell’altra fazione politica, ma in nome del rispetto del popolo palestinese che è un dovere rispettare, quale che sia l’orientamento politico dei singoli cittadini. Noi abbiamo un programma con obiettivi precisi e strategie precise. Critichiamo i comportamenti che ledono il popolo palestinese e sono quelli che acuiscono le intolleranze politiche. Il nostro obiettivo finale è la fine dell’occupazione perché è da questa lunghissima occupazione che genera la corruzione, l’esasperazione e sfiducia.

Abbiamo un numero altissimo di diritti riconosciuti sulla carta ma mai applicati. Domani a Bruxelles, dove speriamo di poter avere presto una sede, e nei giorni successivi a Ginevra (Commissione dei diritti umani) andrò con questo compito, quello di segnare un passo concreto verso la fine dell’occupazione.

D. E se l’obiettivo interno per cui lavorate da anni non si realizzerà?

R. Se si realizzerà avremo una chance, non la certezza, ma una chance di abbattere l’occupazione. Se invece non si realizzerà resteremo in una situazione continuamente precaria, Israele seguiterà a mangiarsi la Cisgiordania e seguiterà lo stillicidio di vite palestinesi sia lì che a Gaza. Ma a Gaza potrebbe anche prendere forma la sempre minacciata nuova guerra di aggressione, e allora non sarà solo Gaza a pagarne le conseguenze. Noi vogliamo l’unificazione, ma sappiamo che in realtà non abbiamo delle leadership democratiche. In Palestina abbiamo delle figure di grande intelligenza, ma non si riesce a uscire dalla logica del personalismo, mentre avremmo bisogno di una struttura democratica. Noi lavoriamo per questo ed è per questo che operiamo in tutte le direzioni che poi è il significato che ha il nome dell’associazione che presiedo, “Masarat”, cioè “in ogni direzione”.

D. Vorrei farle un’ultima domanda. Vedo che ormai è notte fonda e domattina presto dovrà partire, ma può dirmi cosa pensa dei Paesi arabi rispetto alla situazione di Gaza e della Cisgiordania?

R. Sarò necessariamente sintetico. I Paesi arabi sono l’essenza della conflittualità poliedrica. Prendiamo ad esempio il Qatar. Il Qatar ha interessi sia in Cisgiordania che nella Striscia, offre finanziamenti, ricostruisce interi quartieri distrutti dai bombardamenti ma, al tempo stesso, collabora con Israele. Questa è una situazione che in modo più o meno evidente ritroviamo in quasi tutti i Paesi arabi. Non abbiamo altri alleati credibili che noi stessi, per questo il nostro obiettivo è l’unità dei palestinesi e quindi la riconciliazione. 

D. Bene, la ringrazio e le auguro buona fortuna a Bruxelles e a Ginevra.

R. Vorrei chiudere affidandole un messaggio per il popolo italiano. Al popolo italiano vorrei dire: potete sostenerci boicottando Israele affinché capisca che la società civile non sostiene i suoi crimini, e potete sostenerci chiedendo alle vostre istituzioni di esprimersi a favore della nostra causa, cioè a favore della giustizia.

 




La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Israele uccide un ragazzino in Cisgiordania e un manifestante a Gaza

Maureen Clare Murphy

26 gennaio 2019, Electronic Intifada

Venerdì le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un ragazzino palestinese in Cisgiordania e un uomo durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Questi morti portano a quattro il numero dei palestinesi che sono stati uccisi dal fuoco dell’esercito israeliano durante la settimana, dopo che lunedì soldati hanno sparato e ucciso un uomo in Cisgiordania e martedì hanno lanciato un proiettile d’artiglieria contro un posto di osservazione di Hamas a Gaza, uccidendo un combattente.

Ayman Ahmad Hamid, 16 anni, è morto venerdì dopo essere stato colpito da soldati israeliani lungo la Route 60, un’autostrada utilizzata dai coloni, nei pressi del villaggio di Silwad, nella zona centrale della Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha affermato di aver sparato a tre persone sospettate di lanciare pietre contro i veicoli in transito lungo l’autostrada. Un secondo palestinese è rimasto ferito ad una mano durante l’incidente ed è stato portato in ospedale per essere curato.

Minori uccisi e feriti

Hamid è il secondo ragazzino palestinese ucciso quest’anno dalle forze israeliane. Abd al-Raouf Ismail Salha, 13 anni, è morto il 14 gennaio dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno durante le proteste a Gaza qualche giorno prima.

Durante la settimana almeno altri tre giovani sono stati seriamente feriti in Cisgiordania dalle forze israeliane.

Venerdì è stato riferito che un giovane sarebbe stato colpito alla testa da un proiettile di acciaio rivestito di gomma durante la settimanale manifestazione contro l’occupazione a Ras Karkar, nella zona centrale della Cisgiordania. Il ministero della Sanità dei territori ha detto ai media che il ragazzo non identificato “ha subito una frattura del cranio, che ha provocato un’emorragia interna.”

Venerdì a Yatta, a sud de Hebron, un bambino di 6 anni sarebbe stato seriamente ferito dopo essere stato investito da una jeep dell’esercito israeliano.

Mezzi di informazione palestinesi hanno riferito che le forze di occupazione hanno trasportato il bambino, Sabri Assaf al-Jabarin, in un ospedale in Israele.

Giovedì l’adolescente palestinese Muhammad Issam al-Qawasmi è stato colpito e gravemente ferito da forze israeliane in borghese nel campo profughi di Shuafat, a Gerusalemme est.

Una fonte ufficiale del campo profughi ha detto ai media che al-Qawasmi è stato colpito da un proiettile entrato dalla schiena ed uscito dallo stomaco.

Al suo arrivo all’ospedale “Hadassah” di Gerusalemme per cure d’emergenza, è stato riferito che le forze israeliane hanno arrestato l’adolescente.

Sempre in Cisgiordania le forze israeliane hanno trasferito le spoglie di Hamdan al-Arda, un uomo d’affari ucciso dalle forze di occupazione ad al-Bireh lo scorso mese.

Riguardo alla morte di al-Arda, sul momento Israele aveva sostenuto che l’uomo aveva cercato di investire i soldati con la sua macchina, ma questa versione è stata presto smascherata.

Israele ha sottratto il corpo di al-Arda alla sua famiglia per più di 40 giorni.

Manifestante ucciso a Gaza

Durante la quarantaquattresima protesta settimanale di seguito, tenuta all’insegna della Grande Marcia del Ritorno, nella Striscia di Gaza è stato ucciso Ihab Atallah Hussein Abed, 24 anni.

Adel è stato ferito da un proiettile vero al petto durante una manifestazione a est di Rafah, nella parte più meridionale di Gaza.

Secondo “Al Mezan”, un gruppo per i diritti umani con sede a Gaza, oltre 150 dimostranti sono rimasti feriti durante le proteste.

Tra i feriti durante le proteste di venerdì ci sono cinque paramedici e un giornalista.

Più di 180 palestinesi sono stati uccisi durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno dal loro inizio il 30 marzo 2018.

Il ministero della Sanità ha ripetuto il suo disperato allarme per l’“imminente paralisi” dei servizi sanitari nel territorio, in quanto gli ospedali hanno esaurito il combustibile d’emergenza.

Gli ospedali di Gaza fanno affidamento su generatori di riserva durante le frequenti interruzioni di corrente, ma le scorte di carburante per questo scopo si sono esaurite.

Venerdì l’inviato del Qatar a Gaza ha annunciato che 15 milioni di dollari promessi dal Paese per pagare i salari dei dipendenti pubblici a Gaza verranno invece utilizzati per potenziare i servizi medici e l’elettricità nel territorio.

Hamas avrebbe rifiutato l’ultima rata del finanziamento del Qatar affermando che i palestinesi di Gaza vengono utilizzati come pedine in vista delle imminenti elezioni israeliane.

Israele ha ritardato la consegna [dei fondi del Qatar, ndtr.] ed ha condizionato l’attuale rata alle modalità delle proteste della Grande Marcia del Ritorno del venerdì.

Secondo i media israeliani Benjamin Netanyahu avrebbe calcolato che la consegna del denaro a Gaza sarebbe politicamente troppo onerosa in vista delle elezioni previste per il 9 aprile.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Risolta la crisi sugli addetti alla sicurezza italiani a Gaza

Middle East Monitor

17 gennaio 2019

Si è conclusa una crisi riguardante tre addetti alla sicurezza italiani che si pensava fossero forze israeliane in incognito che stavano agendo nella Striscia di Gaza.

In un comunicato diffuso ieri il portavoce del ministero dell’Interno palestinese a Gaza, Iyad Al-Bozm, ha affermato che “nelle scorse ore è stata effettuata un’inchiesta su un veicolo sospetto su cui stavano viaggiando tre italiani, che casualmente si trovavano nella stessa zona in cui il 14 gennaio 2019 ha avuto luogo una sparatoria nella Striscia di Gaza.”

In seguito all’incidente, la macchina è arrivata al quartier generale dell’UNSCO (Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente)” continua, aggiungendo: “Durante l’indagine l’identità dei tre italiani e il loro ingresso regolare a Gaza sono stati confermati. Si è anche chiarito che la vettura non era legata alla sparatoria.”

Il ministero ha ringraziato tutte le parti per aver agevolato l’inchiesta sull’incidente, soprattutto l’inviato speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nicholay Mladenov, il consulente ONU per la Sicurezza nei Territori Palestinesi, il direttore dell’UNSCO a Gaza, l’ambasciata italiana e l’ambasciatore del Qatar, Mohamed Al-Imadi.

Informazioni affermano che l’ambasciatore italiano ha avuto un colloquio telefonico con il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, in merito al problema.

L’agenzia di notizie cinese Xinhau ha informato che gli italiani erano addetti alla sicurezza che si trovavano nella Striscia di Gaza assediata per preparare una visita dell’ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, che sarebbe dovuta avvenire ieri.

Lunedì le guardie della sicurezza palestinese avevano sospettato che i tre uomini fossero forze israeliane in incognito, in quanto il trio trasportava fucili automatici e aveva rifiutato di fermarsi a un posto di controllo nella zona centrale di Gaza.

Le forze palestinesi hanno inseguito i tre sospetti, che allora si sono rifugiati nel quartier generale dell’UNSCO a Gaza. Le forze di sicurezza hanno seguito le regole internazionalmente riconosciute e non sono entrate nell’ufficio per seguirli, chiedendo invece il permesso ufficiale di verificare chi fossero i tre uomini.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mass media in uniforme, carabinieri in borghese e il perfido Hamas

Patrizia Cecconi

16 gennaio 2019, Pressenza

Un giallo si è svolto ieri a Gaza e ha visto coinvolta l’Italia. Non sappiamo con certezza se anche gli italiani, ma l’Italia sì.

Secondo i nostri media di sicuro sono stati coinvolti anche gli italiani, infatti basta vedere i titoli dei quotidiani, cioè “il” titolo, perché il Corriere come la Repubblica, il Messaggero come il Giornale o il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa hanno tutti in sostanza lo stesso titolo, una specie di uniforme da elegante valletto al servizio dallo stesso signore.  Tutti hanno parlato di “carabinieri italiani rifugiati nella sede dell’ONU e assediati da Hamas”. Il perfido Hamas, cioè il partito che governa la Striscia di Gaza e che –  come ci ricorda Vincenzo Nigro su La Repubblica –  “l’Italia considera un movimento terroristico con cui i rapporti politici sono congelati.

Noi ne prendiamo atto chiedendoci, però, come mai, se i rapporti sono congelati l’Italia manda i suoi carabinieri, non turisti o operatori umanitari, ma rappresentanti dell’Arma, dentro la Striscia? E come li manda? Clandestini?

Bene, corre l’obbligo di spiegare ai quattro lettori che ci seguiranno, che Gaza è sotto assedio israeliano, illegittimo e illegale ovviamente, ma sotto assedio e non si può entrare se non con un permesso speciale di Israele. E fin qui certo niente di strano, visto che il governo italiano è amico del governo israeliano. Ma poi serve anche il permesso di Hamas e per avere il permesso di Hamas qualcuno dall’interno della Striscia deve aver fatto la richiesta e questa richiesta deve essere accolta dalle autorità locali, cioè Hamas e presentata alla frontiera.

Lo conoscono  tutto questo iter i bravi valletti che hanno scritto i loro articoli titolandoli tutti “carabinieri italiani assediati da Hamas”?  Forse lo sanno, ma nella velina  c’era l’indicazione di saltare questo passaggio. Forse invece proprio non lo sanno e sono andati tutti dietro la stessa onda senza accorgersi che stavano dando un’informazione non parziale, ma totalmente deformata, il che è più grave che dire parziale o inesatta.

Allora ricostruiamo i fatti.

Dopo l’attentato di due mesi fa contro Nour Barake, uno dei leader della resistenza, commesso da un commando terrorista israeliano entrato presumibilmente di notte da un varco creato ad hoc nella rete dell’assedio, gli addetti alla sicurezza – detti sempre security di Hamas perché fa più effetto – avendo scoperto che il commando mascherato aveva documenti falsi e che a Gaza erano entrati, sempre con documenti falsi, una quindicina di agenti dei servizi segreti israeliani con scopi ovviamente non di tipo caritatevole o umanitario, ha ristretto molto il già esiguo numero di  permessi e ha punteggiato la Striscia, soprattutto nelle due strade principali che uniscono il nord al sud per circa 40 km, con un fitto numero di posti di blocco. In alcune parti addirittura si possono trovare ogni 500 metri.

I posti di blocco, quelli che in Israele si chiamano comunemente check point e che sono tristemente famosi per il numero di omicidi dovuti al grilletto facile dei soldati dell’IDF, i posti di blocco gazawi, che al contrario di quelli israeliani finora non si sono mai macchiati di sangue, consistono solitamente in due blocchi di cemento e una sbarra, lasciando lo spazio perché una vettura passi senza rimuovere la sbarra stessa, ma costringendola a rallentare per entrare nello spazio lasciato libero. Lì ci sono di solito tre o quattro militari che guardano il conducente e i passeggeri, qualche volta chiedono i documenti, ma il più delle volte si affidano al loro intuito e salutano con un sorriso. Una security che contrasta un po’ con l’idea  che la fantasia, con l’aiuto dei media, costruisce di questi militari immaginati sempre come feroci terroristi.

Ad uno di questi posti di blocco la sera del 14 gennaio non si sarebbe fermata una vettura con dentro tre o forse quattro uomini. Al tentativo di fermare la vettura i passeggeri, tutti in borghese, avrebbero estratto delle armi automatiche e sarebbero scappati forzando il blocco. Iniziava un breve inseguimento, breve perché la vettura clandestina andava a ripararsi dentro lo stabile delle Nazioni Unite a poche centinaia di metri e qui la vettura dei militari palestinesi non veniva fatta entrare.

Se lo stesso fatto fosse avvenuto in Israele i tre (o quattro) occupanti della vettura fuggitiva sarebbero stati tre (o quattro) cadaveri crivellati di colpi, ma i feroci terroristi con i quali l’Italia non comunica sono stati dei gentlemen e i fuggiaschi sono ancora vivi.

Una domanda che nessuno dei nostri media mainstream si è posta  pubblicamente è “perché questi signori non hanno mostrato i documenti? Allora erano clandestini? E a servizio di chi?” No, questo non appare nel pezzo della Repubblica, né su quello del Corriere, su nessuno. Forse non era nell’indice della velina.

Dunque i tre (o quattro) giovani uomini, capello corto o cortissimo, aria qualunque, anche palestinese volendo, o comunque mediterranea, potevano essere e probabilmente lo erano spie israeliane, come i quindici precedentemente scoperti.

Le autorità governative, dette dai media minacciosamente “Hamas”, a questo punto fanno circondare il palazzo dell’Onu dai militari, chiedendo che venga fornita l’identità di quei delinquenti che hanno sfondato il posto di blocco e sparato contro la polizia locale.

Per la verità, in qualunque altro paese, Italia compresa, sarebbero stati già arrestati, magari solo per due giorni, ma sarebbero stati arrestati subito per i due reati commessi.

I nostri quotidiani, la nostra Lilli Gruber, i nostri cronisti televisivi e compagnia servente, si sono tutti affannati a dire che Hamas assediava l’Onu, dimenticando di dire che avevano il diritto di  identificare i tre trasgressori e dimenticando anche di dire che Gaza è sotto assedio e che strani personaggi si erano infiltrati sparando contro la polizia locale o, comunque, forzando un posto di blocco.  Si sono anche dimenticati di dire che tutte le forze politiche di Gaza, compresa Fatah, avversario numero uno di Hamas, erano concordi in questa azione.

E’ lecito chiedersi se i personaggi della vettura in questione fossero ubriachi, cosa molto difficile dato il divieto  imposto da Hamas di far entrare alcolici, o se fossero dei provocatori  che hanno agito ad hoc per creare un incidente e poi sviluppare un piano che al momento non ci è dato conoscere.

Da dove sono entrati? Perché Hamas, che rilascia i permessi ai pochissimi internazionali che possono accedere alla Striscia, non li conosceva?

Alla fine, ma solo dopo un giorno e mezzo che deve essere stato abbastanza lungo, è venuto fuori che questi signori erano dei carabinieri italiani in borghese. Carabinieri italiani? E perché non hanno mostrato i documenti? E perché l’Italia, che non comunica con Gaza in quanto governata dal movimento dichiarato terrorista di Hamas, ha mandato i suoi carabinieri? Dalla Farnesina, attraverso il consolato a Gerusalemme rispondono, come ci comunica sollecitamente Davide Frattini, inviato del Corriere della Sera, che si trattava di “personale della sicurezza italiana, entrato a Gaza per una missione ufficiale”.  Una missione ufficiale? Ma allora la Farnesina tratta con Hamas? Ma no, che missione ufficiale poteva essere se i cosiddetti carabinieri erano in clandestinità?  C’è del giallo in tutta questa storia.

Frattini aggiunge e il Corriere lo evidenzia in neretto che “I carabinieri stavano verificando le condizioni di sicurezza… per una visita ufficiale al monastero di Sant’Ilarione”.

C’è del giallo sì, e non c’è neanche conoscenza dei luoghi; infatti i giornalisti, al pari dei lettori che dovrebbero informare,  non sanno che il monastero di Sant’Ilarione si trova a Nusseirat, quindi abbastanza a sud di Gaza city, e in realtà lì c’è un mosaico cristiano di circa 1700 anni fa sopravvissuto miracolosamente ai criminali bombardamenti del 2014. Ma le visite ai siti archeologici non si fanno di notte, e tornare da Nusseirat a Gaza city comporta solo una mezz’ora,  quindi come mai si trovavano a tarda sera a Gaza city? E dove avrebbero alloggiato, visto che il valico di sera è chiuso e non avrebbero potuto far ritorno alla loro sede a Gerusalemme? E su tutte, ancora la stessa domanda: perché fuggire al posto di blocco invece di fermarsi? E poi quanti posti di blocco hanno passato da Nusseirat a Gaza city, ammesso che venissero dal sito archeologico, senza essere fermati? Tutto stranissimo e, per chi conosce Gaza, più che strano  INCREDIBILE.

Intanto le voci che l’ambasciatore o il console italiano si sarebbero incontrati con Ismail Hanyeh per risolvere la questione vengono smentite, così come l’UNRWA smentisce che ci sia stato un assedio nella propria sede. Alla fine, dopo circa 48 ore, le autorità della perfida Hamas rompono il cordone di sicurezza, ovvero il cosiddetto “assedio dei nostri carabinieri”, accettando la versione che si tratti di tre italiani e non di tre sabotatori dei servizi segreti israeliani.

Questo viene raccontato ai lettori, ma noi vogliamo aggiungere una chicca che i nostri media mainstrem non conoscono e che i feroci capi di Hamas non hanno preso in considerazione. Si tratta della proposta fatta da un docente dell’Università Islamica di Gaza, il prof. Khalid El Khalidi il quale ha trovato che nella sua magnificenza e misericordia Dio, detto anche Allah, ha offerto a Gaza la possibilità di liberarsi dall’assedio e di ottenere un risarcimento monetario per le privazioni sofferte in questi anni. Il prof. El Khalidi chiedeva infatti che i tre (o quattro) violatori della legge venissero arrestati. Trattati ovviamente con tutte le cure, ma arrestati e se si scopriva che si trattava di ufficiali dei servizi segreti, cosa di cui lui era convinto,  proporre uno scambio tra la loro liberazione e la fine dell’assedio, chiedendo inoltre di risarcire  Gaza e il suo popolo per l’assedio e la distruzione derivata dalle  tre massicce aggressioni con  20 miliardi di dollari, da consegnare alla resistenza prima dell’estradizione dei tre ufficiali.

Il prof. El Khalidi, come molti altri, seguita a non credere infatti alla versione data dopo 48 ore e aggiunge che “Il nemico ha la capacità di mobilitare per salvare i suoi soldati tutti gli ambasciatori e i presidenti dell’Occidente.” Il suo pensiero è il pensiero di molti gazawi e per questo lo riportiamo, e noi stessi abbiamo il diritto di dubitare che l’Italia si sia prestata a questo gioco potendo contare su un’informazione mediatica telecomandata e giocando sul fatto che la gente non sa che a Gaza non si può entrare in anonimato come turisti qualsiasi.

In conclusione il giallo non è risolto e resta da chiedersi perché il perfido  Hamas si sia così addolcito, fino ad accettare di credere che i tre giovanotti fossero carabinieri italiani in borghese venuti a fare un’indagine su un sito archeologico di Gaza senza le autorizzazioni del ministero di Gaza e senza il permesso di entrata. C’è forse dietro un ricatto? E perché erano armati? I carabinieri in borghese non possono essere armati, soprattutto non possono esserlo a Gaza! E seppure fossero  italiani possono sempre avere la doppia cittadinanza ed essere a servizio dello Stato ebraico, come ad esempio l’ ex-deputata di Forza Italia e colona ebrea Nirenstein, che ha la cittadinanza israeliana poiché, in quanto ebrea, le spetta di diritto. Diritto interno a Israele ovviamente.

A fronte dell’abito borghese dei cosiddetti carabinieri, abbiamo l’uniforme dei valletti mediatici e le due cose insieme spengono le domande di chi invece avrebbe diritto a un’informazione onesta. Perciò seguitiamo a chiederci non solo perché Hamas non ha arrestato o non ha potuto arrestare i tre che hanno violato un bel po’ di norme a partire dalla più banale: l’aver forzato il  posto di blocco, cosa che a un gazawo qualunque sarebbe costata l’arresto e una forte multa., ma ci chiediamo anche perché è stata tirata in mezzo l’Italia e perché l’Italia ha acconsentito. Un ricatto anche qui? O forse una promessa? O semplicemente un ossequio verso un paese amico? Potremmo eliminare, almeno in parte, i dubbi se i tre ex rifugiati, ora liberi, apparissero in televisione a dare la loro versione facendoci conoscere anche i loro nomi.

In assenza di ciò noi facciamo il nostro lavoro di giornale libero, realmente libero, senza diktat né veline e senza uniformi e diciamo che questo è un giallo in cui l’Italia, insieme ai media mainstream fa la parte del servitore che fornisce l’alibi all’assassino.