In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 21 marzo – 3 aprile 2017 ( due settimane)

Tre aggressioni con coltello hanno provocato l’uccisione di due palestinesi e il ferimento di quattro israeliani.

Il 29 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme è stata colpita con arma da fuoco ed uccisa una donna palestinese di 49 anni che avrebbe tentato di accoltellare un poliziotto israeliano di frontiera: non sono stati segnalati feriti israeliani e sull’episodio le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Sempre nella Città Vecchia, il 1° aprile, un 17enne palestinese ha accoltellato e ferito un poliziotto israeliano e due giovani israeliani ed è stato successivamente colpito ed ucciso. Secondo fonti israeliane, il 27 marzo, nella città israeliana di Lod, un giovane palestinese della città di Halhul (Hebron) ha accoltellato e ferito una donna israeliana ed è stato successivamente arrestato. Questi episodi portano a 12, dall’inizio del 2017, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Altri due ragazzi palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due distinti episodi verificatisi vicino a Ramallah e ad est di Rafah (Gaza). Il primo si è verificato il 17 marzo, nei pressi di una torre di guardia militare vicina al Campo profughi di Al Jalazun; le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco ed ucciso un 17enne palestinese e ferito altri tre ragazzi: secondo fonti militari israeliane, la sparatoria ha avuto luogo in risposta al lancio di bottiglie incendiarie contro l’insediamento colonico di Beit El, nel quale non erano stati segnalati danni né feriti. Nel secondo caso, il 21 marzo, le forze israeliane hanno sparato proiettili di carro armato in direzione di uno spazio aperto ad est della città di Rafah, a circa 300 metri dalla recinzione perimetrale: un civile palestinese di 16 anni è stato ucciso ed un secondo è stato ferito; le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, in numerosi scontri le forze israeliane hanno ferito complessivamente 124 palestinesi, 14 dei quali minori, con un incremento significativo rispetto ai dati registrati dall’inizio del 2017. La maggior parte dei ferimenti si sono avuti durante scontri contestuali alle manifestazioni che commemoravano il 41° anniversario della “Giornata della Terra” che, per i cittadini palestinesi di Israele, rievoca un esproprio di massa di terra palestinese. Altri scontri sono stati segnalati nel corso di molteplici operazioni di ricerca-arresto; al funerale del ragazzo ucciso nel Campo profughi di Al Jalazun [vedi sopra] e durante scontri in varie località dei governatorati di Gerusalemme e Ramallah. A quanto riferito, quattro soldati israeliani sono stati feriti da pietre.

Dopo l’uccisione di un membro di Hamas avvenuta ad opera di ignoti il 24 marzo a Gaza City, le autorità palestinesi de facto di Gaza hanno imposto severe restrizioni di accesso, adducendo motivi di sicurezza. Le uscite attraverso il checkpoint ‘Arba-‘Arba – che controlla l’accesso al valico di Erez tra Gaza e Israele – è stato particolarmente colpito; in tal modo si è ridotto ulteriormente il numero di persone, già esiguo a causa di preesistenti restrizioni imposte da Israele, alle quali è consentita l’uscita. A partire dal 4 aprile, più di 100 pazienti che avevano prenotazioni per cure mediche da effettuare fuori Gaza hanno perso i loro appuntamenti e le relative prestazioni sanitarie e dovranno richiedere nuovamente un permesso di uscita, senza alcuna garanzia di accoglimento e con il possibile rischio di un peggioramento delle loro condizioni di salute. Alla maggior parte del personale delle Organizzazioni umanitarie è stata vietata l’uscita da Gaza attraverso Erez; tuttavia, dal 1° aprile, è stato consentito l’attraversamento al personale internazionale impiegato presso le Nazioni Unite e l’ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa].

Nello stesso contesto, dal 26 marzo, le autorità de facto impediscono l’accesso dei pescatori palestinesi al mare lungo la costa di Gaza. Il Sindacato dei Pescatori di Gaza ha stimato perdite di due o tre tonnellate di pesce al giorno, con conseguenti aumenti di prezzo del pesce importato. Queste restrizioni, giunte all’inizio della stagione della pesca delle sardine, compromettono ulteriormente i proventi della pesca, già precari per le restrizioni di accesso imposte da lunga data da Israele.

Prima dell’imposizione delle restrizioni da parte delle Autorità de facto, il valico di Erez sotto controllo israeliano era normalmente operativo, mentre il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, era chiuso. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

Sempre nella Striscia di Gaza, oltre all’episodio avvenuto ad est di Rafah [vedi sopra], nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 28 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento o diretto, interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. In due occasioni, le forze israeliane sono penetrate all’interno della Striscia ed hanno svolto operazioni di spianatura e scavo nei pressi della recinzione perimetrale ed hanno arrestato un civile palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di entrare illegalmente in Israele.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 17 strutture di proprietà palestinese, sfollando 22 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di oltre 90 persone. Cinque di queste strutture si trovavano a Gerusalemme Est e le restanti in cinque comunità dell’Area C. Inoltre, nella zona di Jabal al Mukabber di Gerusalemme Est, è stata sigillata punitivamente la casa di famiglia dell’aggressore che, nel mese di gennaio 2017, uccise quattro soldati israeliani: una donna ed i suoi quattro figli sono stati sfollati.

Nel governatorato di Nablus, per la creazione di un nuovo insediamento israeliano e la “legalizzazione” retroattiva di tre avamposti già esistenti, le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” vari appezzamenti di terreno non contigui, per un totale di quasi 100 ettari. Questa decisione può avere un impatto sull’accesso alla terra da parte degli agricoltori di quattro villaggi adiacenti (Sinjil, Qaryut, As Sawiya e Al Lubban Ash Sharqiya), compromettendo ulteriormente la loro capacità di sostentamento con il lavoro agricolo. Secondo la decisione del Governo israeliano, il nuovo insediamento servirà alla rilocalizzazione dei coloni recentemente evacuati dall’insediamento avamposto di Amona; la decisione prevede anche limitazioni alla futura espansione dell’insediamento.

In quattro distinti episodi, coloni israeliani armati hanno attaccato o minacciato contadini palestinesi, costringendoli ad uscire dai loro terreni posti in prossimità di insediamenti colonici. In uno di questi episodi, verificatosi vicino al villaggio di Beit Furik (Nablus), un contadino palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito. Gli altri tre episodi comprendono minacce e intimidazioni nei confronti di agricoltori palestinesi che, a Nablus e Qalqiliya, possono accedere alla propria terra previo coordinamento ed autorizzazione delle autorità israeliane. Questo meccanismo ha lo scopo di garantire agli agricoltori, due volte l’anno, durante la stagione dell’aratura e durante il raccolto, l’accesso sicuro a zone soggette alla violenza dei coloni. Inoltre, tre veicoli palestinesi sono stati danneggiati da lanci di pietre da parte di coloni.

Secondo i media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati in almeno 13 episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

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Ultimi sviluppi (dal 6 aprile)

Mezzi di informazione riferiscono che le autorità de facto della Striscia di Gaza hanno giustiziato tre uomini palestinesi accusati di “collaborazione con Israele”.

Il Ministero degli Interni della Striscia di Gaza ha annunciato la revoca di tutte le restrizioni di accesso in vigore dal 26 marzo.

Mezzi di informazione riferiscono che un uomo palestinese ha guidato il suo veicolo contro una fermata del bus nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah), casando la morte di un soldato israeliano ed il ferimento di un altro; l’uomo è stato arrestato.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Come Israele utilizza il gas per rafforzare la dipendenza palestinese e promuovere la normalizzazione

Di Tareq Baconi – 12 marzo 2017, Al-Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana dei territori palestinesi non esiste solo sul territorio. Dal 1967 Israele ha sistematicamente colonizzato le risorse naturali dei palestinesi e, nel campo degli idrocarburi, ha impedito ai palestinesi l’accesso alle loro riserve di petrolio e di gas.

Queste restrizioni hanno garantito la continua dipendenza dei palestinesi da Israele per le loro esigenze energetiche. I tentativi degli stessi palestinesi di sviluppare un proprio settore energetico non riescono a far fronte alla complessiva egemonia di Israele sulle risorse palestinesi. Al contrario, perseguono la crescita e la costruzione dello Stato all’interno della situazione dell’occupazione, rafforzando ulteriormente – anche se in modo involontario – l’equilibrio asimmetrico tra occupato ed occupante.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Tareq Baconi inizia prendendo in considerazione il contesto dei recenti accordi sul gas. Continua discutendo come i tentativi di sviluppare il settore dell’energia palestinese non riesca a far fronte a questa situazione e si basi principalmente su pratiche che cercano di eludere l’occupazione e che intendono migliorare la qualità della vita nel contesto dell’occupazione. Come sostiene Baconi, in ultima istanza questi tentativi rafforzano il ruolo dei territori palestinesi come mercato vincolato a favore delle esportazioni di energia israeliane e getta le basi per una normalizzazione a livello regionale sotto la definizione di “pace economica”. Egli sottolinea che una pace durevole e la stabilità si otterranno solo se i fattori fondamentali che tengono i palestinesi soggetti al dominio di Israele vengono affrontati e propone una serie di raccomandazioni politiche su come farlo.

L’impatto politico dell’abbondanza di gas israeliana

Fino a pochi anni fa sia Israele che la Giordania facevano notevole affidamento sulle importazioni di gas egiziano. Nel 2011-2012 e soprattutto dopo la caduta del regime del presidente Hosni Mubarak, le esportazioni di gas dall’Egitto sono diventate intermittenti. Ciò era dovuto sia a problemi interni nel settore energetico egiziano che alla crescente instabilità nella penisola del Sinai, che ospita il principale percorso del gasdotto che rifornisce Israele e Giordania. Con la caduta delle importazioni dall’Egitto, Israele e Giordania hanno iniziato a cercare fonti alternative di rifornimento. Nel 2009 un consorzio israelo-americano di imprese dell’energia ha scoperto “Tamar”, un giacimento a circa 80 km al largo della costa di Haifa, che contiene circa 300 miliardi di m3 di gas. Con la sicurezza energetica israeliana a rischio, il consorzio si è mosso rapidamente verso la produzione ed il gas ha iniziato a scorrere nel 2013. Un anno dopo la scoperta di “Tamar” lo stesso consorzio ha identificato il giacimento di gas “Leviatano”, molto più grande, stimato per circa 450 miliardi di m3 di gas.

Nel giro di qualche anno Israele è passato dall’essere un importatore di gas dalla regione ad aver acquisito le potenzialità per diventare un esportatore. Ha guardato sia ai mercati locali che a Paesi confinanti e ad altri più lontani per identificare potenziali destinatari delle esportazioni. Nelle sue immediate vicinanze le implicazioni per procedere verso la normalizzazione economica sono state evidenti: come ha recentemente dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu, produrre gas da “Leviatano” “fornirà gas a Israele e promuoverà la cooperazione con Paesi della regione.”

La Giordania è diventato il primo Paese che si è impegnato a comprare gas israeliano. Poco dopo la scoperta di “Leviatano” sono iniziati negoziati tra Giordania e Israele, e nel 2014 è stato firmato un Memorandum l’Intesa (MdI). Quello stesso anno accordi per la vendita di gas sono stati conclusi anche tra i gestori di “Tamar” e due operatori industriali giordani, la “Jordan Bromine” e le compagnie “Arab Potash”. Il MdI firmato con il governo giordano ha comportato l’impegno per la Giordania a comprare gas israeliano per un periodo di 15 anni. Questo è stato accolto con violente proteste in Giordania: molti militanti hanno rifiutato l’accordo con Israele, sopratutto a causa del massacro a Gaza di quell’anno, ed i parlamentari giordani hanno votato contro l’accordo. All’inizio del 2017 il gas ha iniziato a scorrere da Israele alla “Jordan Bromine” e alle “Arab Potash”, benché gli operatori abbiano mantenuto un basso profilo per evitare di riaccendere proteste.

La rabbia perché la Giordania stava finanziando il settore del gas israeliano è stata aggravata dal fatto che aveva altre prospettive per procurarsi il gas. In seguito alla riduzione del gas egiziano, la Giordania ha costruito un terminal per l’importazione di gas liquido ad Aqaba, sulle coste del Mar Rosso, che ha iniziato a funzionare nel 2015. Oltretutto la scoperta da parte dell’Egitto dell’enorme giacimento di gas “Zohr” nel 2016 ha ridato vita alla prospettiva del ritorno dell’Egitto al ruolo di fornitore regionale di gas. Ciononostante, ed indubbiamente in seguito a influenze esterne, la Giordania ha formalizzato il suo MdI con Israele nel settembre 2016, ignorando le obiezioni del parlamento e le proteste popolari.

Da quando Israele è diventato ricco di gas, la penosa situazione della Striscia di Gaza è divenuta più che mai dura. La Striscia di Gaza è stata sottoposta a blocco dal 2007. La “Gaza Power Generation Company” (GPGC), l’unica compagnia del suo genere in territorio palestinese, attualmente funziona con combustibile liquido comprato e trasportato nella Striscia di Gaza dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in Cisgiordania. Per integrare l’energia fornita dalla GPGC, Gaza acquista elettricità dalla compagnia elettrica israeliana, così come dalla rete elettrica egiziana (1). Anche così il combustibile acquistato per generatori di energia a Gaza è insufficiente per soddisfare la domanda locale e, da quando Israele ha imposto il blocco, la Striscia ha sofferto di una cronica carenza di elettricità.

All’inizio del 2017 sono scoppiate proteste a Gaza, in quanto i suoi abitanti sulla costa si sono lamentati di avere elettricità solo per tre o quattro ore al giorno. Oltre alle terribili restrizioni che queste carenze comportano per aspetti della vita quotidiana, le interruzioni di elettricità hanno un impatto devastante sulle attività economiche del settore privato, dei servizi sanitari, dell’educazione e su servizi vitali come gli impianti di depurazione delle acque. Attività intermittenti in questi settori hanno conseguenze che sono sia immediate che durature, colpendo le nuove generazioni.

Le lamentele per la crisi energetica a Gaza sono dirette in ogni direzione. I manifestanti che si sono riversati nelle strade quest’inverno hanno incolpato il governo di Hamas, l’ANP e Israele. La rabbia era rivolta contro il governo di Hamas perché si sostiene che sposta fondi dall’acquisto del combustibile necessario per far funzionare l’unico impianto di energia di Gaza verso altre attività, compresa la costruzione di tunnel. I manifestanti esasperati hanno accusato l’ANP di appoggiare il blocco, controllando le forniture di combustibile e i trasferimenti a Gaza. La stessa compagnia dell’energia, un operatore di proprietà di un privato, è ripetutamente criticata perché trarrebbe profitti a spese dei normali cittadini di Gaza che soffrono per queste carenze. Per mitigare i mesi invernali particolarmente duri di fine 2016 e inizio 2017, interventi nel settore dell’energia di Gaza sono arrivati dalla Turchia e dal Qatar nella forma di forniture di combustibile che hanno consentito la ripresa della produzione di energia da parte della GPGC. Queste misure rappresentano al massimo un palliativo a breve termine, che porterà i gazawi verso un altro capitolo di una crisi cronica.

In quest’ondata di rabbia e di recriminazioni della popolazione, l’impatto del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza e della più complessiva colonizzazione e del controllo delle risorse palestinesi da parte di Israele è poco presente, se non spinto in secondo piano.

Eppure i palestinesi hanno scoperto le riserve di gas circa un decennio prima dell’abbondanza di gas di Israele. Nel 1999 al largo delle coste di Gaza fu scoperto il giacimento “Gaza Marine” e la licenza di sfruttamento e produzione venne concessa al “BG Group”, la maggiore impresa britannica di petrolio e gas, finché non è stata acquisita dalla Shell. Nei primi giorni dalla scoperta questa ricchezza nazionale è stata salutata come un passo avanti che avrebbe potuto offrire ai palestinesi una ricchezza inaspettata. Quando gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, sembravano ancora credibili, la scoperta di questa risorsa fu vista come qualcosa che avrebbe potuto fornire ai palestinesi una fondamentale risorsa verso l’autodeterminazione.

Con una stima di 30 miliardi di m3 di gas, il “Gaza Marine” non è sufficientemente grande per permettere l’esportazione. Ma i volumi di gas che contiene sono sufficienti per rendere il settore palestinese dell’energia interamente autosufficiente. Non solo i palestinesi non avrebbero dovuto importare il gas o l’elettricità israeliani o egiziani, ma la Striscia di Gaza non avrebbe sofferto di nessuna carenza di elettricità. Oltretutto l’economia palestinese avrebbe goduto di una significativa fonte di entrate.

Questo passo verso la piena sovranità non doveva avvenire. Nonostante continui tentativi dei possessori del giacimento e degli investitori di sviluppare il “Gaza Marine”, Israele pose rigide restrizioni che impedirono la messa in pratica di qualunque intervento. Ciò nonostante il fatto che l’esplorazione e la produzione dal “Gaza Marine” sarebbero state relativamente semplici grazie alla scarsa profondità del giacimento e alla sua collocazione nei pressi delle coste palestinesi (2). Secondo documenti scoperti da Al-Shabaka, Israele all’inizio impedì lo sviluppo di questo giacimento in quanto cercava di ottenere condizioni commercialmente favorevoli per il gas prodotto. Dopo che Israele scoprì risorse energetiche proprie iniziò a far riferimento a “questioni di sicurezza” che furono accentuate quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Benché Netanyahu abbia preso in considerazione la concessione ai palestinesi per lo sviluppo del “Gaza Marine” nel 2012 come parte di una più complessiva strategia per stabilizzare la Striscia di Gaza, questi tentativi devono ancora concretizzarsi. In seguito alla recente acquisizione del BG Group da parte di Shell e al programma di cessione di investimenti globale di quest’ultima, è probabile che il “Gaza Marine” sarà svenduto.

Finché Israele non porrà fine al proprio dominio sull’economia palestinese, questa risorsa palestinese probabilmente rimarrà bloccata. In effetti, il modo in cui le scoperte di gas israeliano e palestinese hanno plasmato lo sviluppo economico in Israele e nei territori palestinesi illustra la disparità di potere tra le due parti. A differenza di Israele, che rapidamente si è garantito l’indipendenza energetica dopo la scoperta dei suoi giacimenti di gas, i palestinesi sono stati incapaci di accedere ad una risorsa che hanno scoperto quasi due decenni prima. Invece di affrontare le cause profonde del blocco e del regime di occupazione che ha impedito il loro controllo su risorse come il “Gaza Marine”, i palestinesi sono obbligati a cercare soluzioni immediate per ridurre la pressante penuria che devono affrontare. Benché ciò sia comprensibile nel contesto di una brutale occupazione, i tentativi di migliorare la qualità della vita sotto occupazione trascurano l’obiettivo strategico a lungo termine di garantire l’indipendenza energetica all’interno del più complessivo obiettivo di liberazione dall’occupazione e del raggiungimento dei diritti dei palestinesi.

Pace economica e normalizzazione

Le scoperte di gas di Israele sono spesso sbandierate come potenziali catalizzatori di una trasformazione regionale. Il posizionamento dello Stato di Israele come fornitore di energia ai vicini con scarse risorse è considerato un mezzo sicuro per facilitare l’integrazione economica tra Paesi come Giordania ed Egitto, così come con i palestinesi. I benefici economici che gasdotti a buon mercato possono offrire a questi Paesi sono visti come soluzione per ogni preoccupazione sociale e politica tra i loro cittadini riguardo alle relazioni con Israele. Questo modo di pensare parte dal presupposto che attraverso l’integrazione economica la stabilità che ne deriva diminuirebbe le prospettive di instabilità in una regione esplosiva, in quanto Israele ed i suoi vicini incominciano ad integrarsi in una interdipendenza.

La nozione di “pace economica” ha una lunga storia nella regione e si è manifestata in varie forme, comprese le recenti proposte di sviluppo economico del segretario di Stato John Kerry. Questa visione sembra favorita anche dall’ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, David Friedman. Invece di affrontare direttamente l’impasse politico provocato dalla prolungata occupazione e da altre violazioni israeliane, queste proposte affrontano questioni relative alla qualità della vita, al commercio o alla crescita economica, presumibilmente come un passo avanti verso la pace. Con un punto di vista di questo genere, dopo le scoperte di gas israeliane, l’amministrazione Obama ha iniziato a verificare modi per posizionare Israele come fulcro energetico regionale.

Sostenitori di questo approccio, che separa i diritti nazionali e politici dagli incentivi economici, affermeranno che c’è un ovvio vantaggio economico perché il gas israeliano sia usato all’interno del territorio palestinese e in Giordania. Ora Israele ha un’eccedenza di gas e queste regioni sono ancora dipendenti dalle importazioni di energia. Nel caso dei territori palestinesi, esiste già una dipendenza da Israele, e non solo a Gaza: quasi l’80% del consumo dei palestinesi è fornito da Israele, con la Cisgiordania che importa quasi tutta la sua energia elettrica da Israele. Chi propugna la pace economica crede che le prospettive di instabilità si riducano quando si rafforza questa dipendenza reciproca.

Il dipartimento di Stato USA, guidato da una tale convinzione, ha facilitato molti negoziati per il gas tra Israele, Giordania e i palestinesi. L’inviato e coordinatore speciale per le Questioni Energetiche Internazionali, recentemente nominato, un incarico attraverso il quale gli USA hanno rafforzato il proprio settore della diplomazia energetica in tutto il mondo sotto l’amministrazione Obama, ha incoraggiato discussioni per permettere l’esportazione di gas israeliano alla Giordania ed ai palestinesi, con evidente successo.

In prospettiva la Giordania non è l’unico destinatario del gas israeliano. Nel 2010, l’ANP ha approvato piani per la creazione della “Compagnia Palestinese per la Generazione di Energia” (PPGC), la prima impresa di questo genere in Cisgiordania e la seconda nei territori palestinesi dopo la GPGC a Gaza. Situato a Jenin, questo impianto della potenza di 200 megawatt è gestito da investitori privati (compresi PADICO e CCC [società palestinesi. Ndtr.]), che stanno lavorando per rafforzare il settore palestinese dell’energia, garantendo la produzione di energia elettrica in Cisgiordania e riducendo l’alto costo delle importazioni di elettricità da Israele. PPGC ha iniziato negoziati con Israele per comprare gas dal giacimento “Leviatano” per produrre elettricità. I palestinesi hanno protestato contro questa decisione, invocando sforzi per sviluppare il “Gaza Marine” invece di basarsi sul gas israeliano. I colloqui sono falliti nel 2015, ma non è chiaro se si sia trattato di una sospensione solo temporanea.

I pericoli di una sovranità monca

C’è una serie di pericoli nazionali e regionali derivanti dalla spinta a una più stretta integrazione attraverso accordi sul gas in mancanza di azioni concomitanti sul piano politico.

Il primo pericolo è che la sicurezza energetica palestinese sia legata alla buona volontà di Israele. Israele può, ed in passato l’ha fatto, utilizzare il proprio potere per interrompere di fatto le forniture ai consumatori palestinesi. La più evidente (e violenta) manifestazione della volontà israeliana di negare l’energia ai palestinesi è stata la sua decisione di distruggere senza esitazione l’unica impresa di produzione di energia nella Striscia di Gaza durante i bombardamenti dell’enclave costiera nel 2006 e di nuovo nel 2014.

In secondo luogo questo approccio legittima l’occupazione israeliana, che presto entrerà nel suo cinquantesimo anno. Non solo non ci sono costi per il fatto che Israele impedisce la costruzione di uno Stato palestinese, ma c’è piuttosto un profitto diretto sotto forma di ricavi dalla vendita di gas a territori mantenuti per un tempo indefinito sotto il controllo territoriale israeliano.

Terzo punto, e forse il più importante, questo scambio e commercio di energia nel perseguimento della pace economica in assenza di ogni prospettiva politica rafforza semplicemente lo squilibrio di potere tra le due parti – l’occupante e l’occupato. Una simile integrazione trasmette una finzione di relazioni giuridiche sovrane tra una potenza occupante e un’economia imprigionata in Cisgiordania e a Gaza.

Si deve ripensare a simili iniziative per il miglioramento delle condizioni di vita che sono state attuate negli anni ’80, con il diretto incoraggiamento della Casa Bianca di Reagan, come a un’alternativa mancata all’impegno politico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Gli sforzi costanti per eludere le richieste politiche dei palestinesi attraverso queste misure hanno consentito ad Israele di gestire, piuttosto che risolvere, il conflitto.

Il caso del gas dimostra nel modo più evidente come i tentativi di costruire lo Stato palestinese attraverso lo sviluppo di risorse nazionali siano stati tolti di mezzo in favore della riduzione delle crisi energetiche all’interno del quadro di una sovranità monca. Invece di affrontare l’incapacità palestinese di sfruttare le proprie risorse naturali, i diplomatici americani stanno attivamente lavorando con Israele per facilitare negoziati che migliorino la “qualità della vita” dei palestinesi, che alla fine li lasciano per sempre nelle mani di Israele.

Questo approccio porta con sé anche pericoli su scala regionale. La Giordania è attualmente dipendente da Israele per circa il 40% delle sue importazioni di energia. La volontà della Giordania di entrare in questo tipo di dipendenza, nonostante notevoli svantaggi geo-strategici, fa progredire la normalizzazione dei rapporti di Israele nella regione anche se mantiene la sua occupazione dei territori palestinesi. Questa disponibilità preannuncia parecchie minacce in un momento in cui l’amministrazione Trump sta proponendo il perseguimento di misure diplomatiche “dall’esterno all’interno” che potrebbero ignorare completamente i palestinesi.

Strategie di rifiuto

In condizioni normali la dipendenza mutua e lo sviluppo economico sono effettivamente garanzie contro l’instabilità e portano il vantaggio di migliorare la qualità della vita degli abitanti della regione. Tuttavia non devono essere visti come un fine in sé, e sicuramente non come un sostituto della realizzazione dei diritti dei palestinesi. Una simile de-politicizzazione può solo arrivare fino a un certo punto. Concentrarsi esclusivamente sulla pace economica ha conseguenze disastrose proprio perché ciò ignora il contesto storico più complessivo che ha portato alla dipendenza dei palestinesi, e forse della regione.

La crescita economica non eliminerà mai le richieste dei palestinesi per la sovranità e i diritti o la domanda di autodeterminazione. Questa è una lezione che è stata pienamente articolata con lo scoppio della prima Intifada quasi 30 anni fa, dopo decenni di relazioni economiche normalizzate tra Israele ed i territori sottoposti alla sua occupazione militare. Mentre la “pace economica” può fornire un diversivo a breve termine, ciò preparerà il terreno verso una maggiore stabilità solo se costruito sulle fondamenta dell’uguaglianza e della giustizia.

Il diritto dei palestinesi alle loro risorse è soggetto ai negoziati per lo status finale con gli israeliani. Gli attuali accordi condotti sul gas creeranno una infrastruttura di dipendenza che sarà difficile da districare nel caso di un accordo negoziato. Cosa più importante, dato che sono svanite le speranze di una soluzione negoziata per due Stati, questi accordi concretizzano semplicemente lo status quo.

Perciò, mentre le relazioni economiche devono essere perseguite per alleviare le sofferenze umane, come nel caso dell’incremento di forniture di combustibile e di elettricità a Gaza, l’OLP e l’ANP, come anche la società civile palestinese ed il movimento di solidarietà con la Palestina, devono continuare ad utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per operare a favore della giustizia e dei diritti per i palestinesi.

Nell’immediato futuro, se gli accordi per il gas continuano nonostante l’opposizione popolare, i negoziatori palestinesi coinvolti in una prospettiva di accordi per il gas con Israele devono quanto meno insistere su clausole che non escludano le prospettive di un futuro gas proveniente dal “Gaza Marine”. Ciò può essere fatto creando meccanismi legali che permettano l’introduzione dell’accesso di parti terze negli accordi di fornitura. Benché sia difficile negoziare simili condizioni, ciò è di vitale importanza, in quanto lascia spazio alla flessibilità riguardo a future forniture dal “Gaza Marine” e a una limitata dipendenza da Israele. I contratti per la fornitura di gas dovrebbero anche includere norme per la revisione dei termini dell’accordo nel caso di importanti sviluppi sul piano politico.

I negoziatori palestinesi dovrebbero anche guardare alla resistenza della società civile per rafforzare i suoi tentativi piuttosto che tentare di rifiutarli o schiacciarli. Ci sono modelli che possono essere emulati secondo cui negoziatori sono in grado di sfruttare il potere dei movimenti popolari contro alcuni di questi accordi. Quando si tratta di diritti all’acqua, per esempio, c’è un’unità operativa dedicata (EWASH [l’impresa palestinese delle acque. Ndtr.]) che coordina il lavoro di gruppi locali ed internazionali. EWASH ha portato avanti una campagna che ha messo in luce il furto di acqua da parte dei coloni israeliani a danno dei palestinesi ed ha sollevato la questione al Parlamento Europeo. Forse una coalizione simile potrebbe essere formata per mobilitarsi a favore della sovranità energetica.

Al contempo l’OLP/ANP deve usare questi negoziati economici come un mezzo per garantire che Israele sia chiamato a risponderne piuttosto che come un modo di accettare una dipendenza ancora maggiore. In particolare, lo status di Stato osservatore non membro che la Palestina si è garantito all’ONU deve essere utilizzato per fare pressione nelle sedi legali internazionali, come la Corte Penale Internazionale, per spingere Israele a rispettare le sue responsabilità come potenza occupante in base alle leggi internazionali. Ciò significa che gli compete la responsabilità di garantire il livello di vita degli abitanti sotto il suo controllo, compresa la fornitura di elettricità e combustibile, e che deve rendere conto delle decisioni di “chiudere i rubinetti”che potrebbe prendere.

Alcuni elementi di pace economica posso essere utili ai palestinesi nel breve termine a sostegno della crescita e dello sviluppo economico. Ma questi non possono arrivare al prezzo di uno stato di dipendenza indefinito e di sovranità monca. I palestinesi devono lavorare su due fronti: spingere per rendere l’occupazione israeliana responsabile nei consessi internazionali; devono assicurarsi che le prospettive di integrazione economica obbligata ed ogni tentativo da parte di Israele di imporre una realtà di Stato unico dell’apartheid siano accompagnati da un appello ai diritti ed all’uguaglianza. Qualunque sia la visione politica perseguita per Israele e per i palestinesi, la dirigenza palestinese deve formulare una strategia riguardo a questi accordi per il gas e contestualizzare la nozione di sviluppo economico all’interno della più complessiva lotta per la liberazione della Palestina.

Note

(1) Queste misure per la fornitura ed il trasporto di combustibile sono in linea con il Protocollo delle Relazioni Economiche, noto anche come “Protocollo di Parigi”, sancito tra Israele e l’OLP come parte degli accordi di Oslo.

(2) “Gaza Marine” non è l’unico giacimento che i palestinesi non sono stati in grado di sfruttare. Anche i campi di petrolio in Cisgiordania hanno affrontato problemi di accesso a causa di restrizioni da parte di Israele.

Tareq G. Baconi è esperto di politica di Al-Shabaka con sede negli USA. Il suo ultimo libro “Hamas: le politiche della resistenza, consolidamento a Gaza” è stato pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato di ricerca in Relazioni Internazionali presso il King College di Londra, che ha completato durante una carriera come consulente per l’energia. Ha anche titoli di studio dell’università di Cambridge (Relazioni Internazionali) e dell’Imperial College di Londra (ingegneria chimica). Tareq è un ricercatore associato presso il Progetto USA per il Medio Oriente. Suoi scritti sono stati pubblicati su “Foreing Affairs”, “Sada: Carnegie Endowment for International Peace”, sul “Guardian”, l’”Huffington Post”, il “Daily Star”, Al Ghad e “Open Democracy”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’errore della guerra israeliana contro Gaza è stato in primo luogo diplomatico

Barak Ravid – 28 febbraio 2017 Haaretz

Il governo israeliano non fece praticamente niente per affrontare la crisi umanitaria a Gaza, che si era aggravata allora e si sta aggravando adesso. La prossima guerra è solo una questione di tempo.

Molti errori sono stati rivelati dal rapporto esauriente e professionale del Revisore dello Stato [incaricato del controllo delle finanze, della gestione finanziaria, del patrimonio e della gestione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici. Ndtr.] sulla guerra a Gaza del 2014, reso pubblico martedì. La lista è lunga: mancanza di preparazione operativa contro i tunnel di Hamas, gravi e persino fondamentali informazioni dello spionaggio nascoste al consiglio di sicurezza, piani operativi dell’esercito deficitari e carenze dell’allora capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Benny Gantz e del capo del servizio di spionaggio militare Aviv Kochavi. Tutto questo è importante ed interessante, ma non è il problema principale.

La notizia più importante del rapporto del Revisore generale dello Stato Joseph Shapira riguarda quello che è stato o non è stato fatto dal primo ministro Benjamin Netanyahu, dai suoi ministri della Difesa e degli Esteri dell’epoca – Moshe Ya’alon e Avigdor Lieberman – e dal resto del governo per evitare la guerra. Con tatto ed intelligenza, Shapira e i suoi collaboratori disegnano un grande punto interrogativo sull’impegno dei politici nell’anno che ha portato alla guerra in un’area di loro esclusiva competenza – la politica e la strategia.

Secondo il rapporto, il maggior errore è stato di carattere politico. Queste parti del rapporto sono una lettura estremamente interessante. E’ qui dove la discussione pubblica nei prossimi giorni e settimane si dovrebbe concentrare.

La storia della guerra scoppiata nel luglio 2014 inizia un anno e tre mesi prima – in una riunione del governo dell’aprile 2013. L’allora Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [COGAT, l’istituzione che governa nei territori palestinesi occupati. Ndtr.] Eitan Dangot mise in guarda i ministri sulle difficili condizioni umanitarie ed economiche di Gaza, che avrebbero potuto portare a un’esplosione entro i successivi due anni. La profezia di sventura di Dangot non è stata del tutto esatta – si è avverata in meno di un anno e mezzo.

Tra quella riunione di gabinetto e lo scoppio della guerra il governo non fece praticamente niente riguardo alla crisi umanitaria a Gaza, che non fece che peggiorare. Netanyahu, Ya’alon, Lieberman e gli altri ministri non tennero neanche una riunione approfondita sulla questione. Quando i ministri si riunirono per quella che venne erroneamente chiamata una “discussione strategica” sulla politica israeliana verso Gaza, la questione venne esclusivamente presentata come un problema la cui soluzione era esclusivamente militare.

Il ministro degli Esteri non prese parte a quella discussione, il Consiglio Nazionale di Sicurezza fece cattivo uso del suo ruolo e non presentò alternative politiche, Netanyahu e Ya’alon si opposero nettamente ad alternative diplomatiche che avrebbero potuto stabilizzare o migliorare la situazione a Gaza e i membri del governo, tranne Tzipi Livni, rimasero in silenzio, assentirono ed approvarono le indicazioni dell’esercito.

Se l’avvertimento di Dangot era un lato dell’incapacità politica descritta nel rapporto del Revisore dello Stato, l’altro è stata la dichiarazione di Ya’alon durante una discussione nel suo ufficio due giorni dopo che la guerra era scoppiata. Come disse Ya’alon: “Se le difficoltà di Hamas fossero state affrontate qualche mese fa, Hamas avrebbe evitato l’attuale escalation.” Il controllore generale dello Stato ha ripetuto tre volte questa citazione in cui Ya’alon ammise in tempo reale che la guerra avrebbe potuto essere evitata.

Eppure in tutti i mesi che precedettero la guerra non solo il governo non fece praticamente niente per affrontare la crisi umanitaria ed economica di Gaza, ma contribuì a peggiorarla. Fu così quando Netanyahu impose sanzioni contro il governo di unità tra Fatah e Hamas all’inizio del giugno 2014, e tre mesi dopo quando Lieberman decise di dichiarare persona non grata il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, Robert Serry, solo perché aveva tentato di contribuire a risolvere la crisi del pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici di Gaza. Quel problema era un vulcano pronto ad eruttare.

Nel recente libro di Serry “L’interminabile ricerca della pace israelo-palestinese”, egli descrive come nell’ottobre 2014, due mesi dopo la fine della guerra, quello stesso governo israeliano accettò e persino incoraggiò le Nazioni Unite ad aiutare a risolvere la crisi salariale.

“Del resto quattro mesi dopo che Lieberman mi aveva voluto espellere da Israele, l’ONU agevolò un pagamento umanitario eccezionale a Gaza con acquiescenza e incoraggiamento taciti di Israele,” scrive Serry. “Tra questi due eventi straordinari quell’estate era scoppiata una terribile guerra di 50 giorni senza vincitori e con un costo umano inaccettabile… Ci volle una guerra nella quale Gaza è stata ridotta in rovine perché Israele comprendesse che doveva cambiare rotta.”

Ma Israele non aveva realmente cambiato rotta. Cinquanta giorni di guerra non hanno prodotto il minimo cambiamento nella situazione di Gaza. Dopo 73 morti dal lato israeliano e più di 2.200 tra i palestinesi e gravi danni diplomatici ed economici, siamo tornati al punto di partenza. Nessuna autocelebrazione da parte di Netanyahu in merito ai successi dell’operazione cambierà questo fatto. Tutti i problemi di sicurezza, umanitari e politici a Gaza alla vigilia della guerra sono solo peggiorati nei due anni e mezzo trascorsi da allora.

Dalla fine della guerra Netanyahu, Ya’alon e Lieberman hanno parlato molto ma non hanno fatto praticamente niente per cambiare la politica riguardo a Gaza ed affrontarvi la crisi umanitaria. Il primo ministro ha mandato il viceministro degli Affari Diplomatici Michael Oren nelle capitali europee con una presentazione su possibili progetti per Gaza, ma non ci sono state decisioni strategiche. Nello scorso anno e mezzo il ministro dei Trasporti Yisrael Katz ha tentato di fare una discussione seria nel governo sul suo piano di costruire un’isola al largo di Gaza che possa essere utilizzata come porto marittimo ed aeroporto e aprire Gaza al mondo.

Il capo dell’esercito Gadi Eisenkot , come molti ministri, è favorevole a questo progetto, ma Netanyahu lo sta affossando. Nel frattempo la situazione a Gaza sta peggiorando, la ricostruzione non procede, Hamas si sta armando e il blocco si sta rafforzando. Il disinteresse e la mancanza di decisioni mettono semplicemente le basi della prossima guerra.

Esattamente un anno fa il capo dell’intelligence militare Herzl Halevi si è presentato davanti alla commissione Affari esteri e Difesa della Knesset e ha fatto affermazioni che hanno evocato sensazioni negative già note, come “il peggioramento della situazione economica nella Striscia di Gaza potrebbe portare a un’esplosione rivolta contro Israele.”

Nella situazione attuale, la prossima guerra a Gaza è solo una questione di tempo; i principali ministri del governo hanno già definito una data: la prossima primavera. Se Netanyahu, Lieberman e Naftali Bennett non vogliono che le parole di Halevi diventino un capitolo del prossimo rapporto del Revisore dello Stato, si dovrebbero riunire urgentemente e prendere decisioni politiche che evitino la prossima guerra.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerra di Gaza: undici punti chiave dal rapporto molto critico che fa tremare i politici e l’esercito israeliani

Barak Ravid e Gili Cohen – 28 febbraio 2017,Haaretz

L’esercito ha mancato il principale obiettivo . Ministri tenuti all’oscuro . Gravi lacune dell’intelligence su Hamas . Il preoccupante rapporto sulla campagna militare di Israele contro la Striscia di Gaza del 2014.

Nel rapporto sulla guerra reso pubblico martedì il Revisore dello Stato [incaricato del controllo delle finanze, della gestione finanziaria, del patrimonio e della gestione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici. Ndtr.] Joseph Shapira ha scritto che nell’anno precedente lo scoppio della guerra del 2014 con Hamas ed i suoi alleati nella Striscia di Gaza il primo ministro Benjamin Netanyahu, l’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon ed i membri del consiglio per la sicurezza interna non presero in considerazione iniziative diplomatiche riguardo a Gaza per cercare di interrompere l’escalation. In tre diverse occasioni nel rapporto Shapira cita affermazioni, fatte da Ya’alon due giorni dopo lo scoppio della guerra, in cui si afferma che probabilmente si sarebbe potuto evitare la guerra se Israele avesse affrontato per tempo la disperazione nella Striscia.

Il rapporto di 200 pagine è stato reso pubblico circa un anno e mezzo dopo la fine della guerra nell’agosto 2014. Il rapporto si occupa sia del processo decisionale nel consiglio di sicurezza riguardo a Gaza prima dell’operazione “Margine protettivo”, come la guerra è ufficialmente nota in Israele, e il suo inizio, sia anche del problema riguardante il modo di affrontare i tunnel offensivi a Gaza durante l’operazione “Margine protettivo”, così come della preparazione della reazione di intelligence, tecnologica e operativa a questa minaccia negli anni precedenti le operazioni. Il rapporto di Shapira non si occupa direttamente della condotta della guerra in sé o dei suoi risultati.

Questi sono i punti salienti del rapporto:

 Netanyahu e Ya’alon hanno tenuto all’oscuro i ministri in merito all’attacco strategico di Hamas

Secondo il rapporto speciale sulla guerra del Revisore dello Stato Joseph Shapira reso noto martedì, per mesi prima dell’operazione dell’esercito israeliano del 2014 nella Striscia di Gaza i dirigenti al vertice della politica, dell’esercito e dell’intelligence nascosero informazioni al consiglio di sicurezza in merito a un possibile attacco strategico da parte di Hamas. Se l’attacco fosse stato messo in atto, afferma Shapira, avrebbe costituito un casus belli.

In particolare, sostiene il Revisore nel suo rapporto critico sull’operazione “Margine protettivo”, il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Moshe Ya’alon, il capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.] Benny Gantz e i capi dei servizi di sicurezza dello Shin Bet e del Mossad [rispettivamente servizio di intelligence interna ed esterna. Ndtr.]- omisero tutti informazioni su un attacco pianificato dal movimento islamico con base a Gaza. In realtà queste informazioni vennero fornite alla commissione solo all’inizio del luglio 2014, poche ore prima che venisse messa sul tavolo per l’approvazione un’operazione intesa a sventare l’attacco.

Shapira nota che, secondo documenti dello Shin Bet, c’erano già molte prove di un serio attacco di Hamas contro Israele nei mesi prima che l’operazione militare venisse lanciata – informazione che venne fornita al servizio di intelligence militare dell’esercito israeliano.

Netanyahu e Ya’alon non presero in considerazione iniziative diplomatiche per evitare la guerra

Il Revisore ha stabilito che il primo ministro Benjamin Netanyahu, l’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon e i membri del consiglio di sicurezza, negli anni che hanno preceduto lo scoppio della guerra, il 7 luglio, non verificarono la possibilità di fare passi diplomatici per porre fine all’escalation delle ostilità nella Striscia.

Il rapporto di Shapira cita tre affermazioni fatte da Ya’alon due giorni dopo lo scoppio delle ostilità, in cui egli disse che la guerra avrebbe potuto essere scongiurata se Israele avesse fornito una risposta tempestiva alla disperazione della popolazione di Gaza. In una riunione del consiglio dell’8 luglio, l’allora ministro dell’Intelligence e degli Affari Strategici Yuval Steinitz affermò che “ci siamo concentrati sulla tattica, ma ripetutamente – anno dopo anno per nove anni – abbiamo evitato di fare i conti con la situazione strategica che si delineava davanti ai nostri occhi.”

Non furono fissate chiare politiche e strategie del governo su Gaza

Persino quando ci furono discussioni intese a formulare una strategia riguardo alla Striscia, queste furono incomplete e non portarono a nessun risultato concreto. Il 10 ottobre 2013 ci fu un incontro con il capo del servizio di sicurezza dello Shin Bet dell’epoca, Yoram Cohen, che sottolineò che Hamas era in crisi strategica, e allora il primo ministro diede istruzioni al Consiglio Nazionale di Sicurezza di riunirsi per dare un indirizzo alla politica israeliana riguardo a Gaza. Passarono sei mesi prima che si tenesse una simile discussione. Il 13 marzo 2014 questo argomento venne di nuovo affrontato in un incontro del consiglio che si occupò dell’escalation di tensione. L’allora ministro dell’Economia Naftali Bennett affermò che Israele non aveva una strategia riguardo a Gaza; Gilad Erdan, ministro della Pubblica Sicurezza, era d’accordo. Solo il 23 marzo 2014, un anno dopo che il governo era stato formato, ci fu una riunione del consiglio che si occupò di definire obiettivi strategici riguardo alla Striscia. Tuttavia il Revisore ha scoperto che la riunione si occupò solo dell’intensificazione delle azioni dell’esercito israeliano contro Hamas – non di altre possibili forme di condotta, ad esempio in campo diplomatico.

Il consiglio non discusse della crisi umanitaria a Gaza

Nei sedici mesi tra la formazione del governo nel marzo 2013 e lo scoppio delle ostilità nel luglio 2014 il consiglio di sicurezza non tenne neppure un dibattito significativo sulla Striscia di Gaza. La grande maggioranza delle discussioni – anche quelle considerate di carattere “strategico” – riguardarono solo argomenti militari. Il rapporto del revisore sottolinea che l’assenza di un dibattito sui vari aspetti politici della situazione a Gaza fu particolarmente significativa nel contesto dei sempre più numerosi rapporti in merito al deterioramento delle condizioni umanitarie lì, alla crisi economica e al collasso di infrastrutture vitali, compresa la riduzione delle forniture idriche.

Nel dicembre 2013 il segretario militare del primo ministro, Eyal Zamir, scrisse all’allora consigliere per la sicurezza nazionale Yossi Cohen che Netanyahu voleva che organizzasse una discussione del consiglio riguardante la situazione dei civili a Gaza e le sue implicazioni per Israele. Una simile discussione non ebbe mai luogo e fino allo scoppio delle ostilità, sette mesi dopo, il consiglio non dedicò neppure una sessione alla crisi umanitaria nella Striscia. Il Revisore nota che Cohen avrebbe dovuto seguire l’indicazione del primo ministro e critica a questo proposito anche Ya’alon, dato che quest’ultimo era conscio della situazione civile ed umanitaria a Gaza e avrebbe dovuto comprendere il rischio di una escalation della tensione. Ciononostante neppure il ministro della Difesa avviò una discussione a questo proposito nel consiglio. Il rapporto evidenzia tuttavia che Ya’alon dopo lo scoppio della guerra espresse rammarico per non averlo fatto.

L’esercito israeliano fallì nel raggiungimento dell’obiettivo principale: solo metà dei tunnel di Hamas venne distrutta

Il Revisore afferma che la guerra del 2014 non ha messo in luce solo difetti e carenze nella preparazione dell’esercito israeliano per lottare contro i tunnel di attacco scavati da Hamas dalla Striscia di Gaza verso Israele. Sostiene che l’esercito non ha neppure ottenuto gli obiettivi che gli erano stati dati durante l’operazione “Margine protettivo”: distruggere o neutralizzare i cunicoli sotterranei. Infatti, nonostante questa fosse la sua principale missione, l’IDF ne distrusse solo la metà. L’esercito in seguito informò che aveva reso inutilizzabili 32 tunnel.

L’esercito era carente di metodi di combattimento adeguati per affrontare i tunnel

Il Revisore ha stabilito che nessuna dottrina militare, tecnica di combattimento né ordine specifico furono messi in campo per affrontare i tunnel di Hamas. Solo nel luglio 2014, mentre i combattimenti erano in corso, il corpo dei genieri dell’esercito israeliano emise linee guida per localizzare e distruggere le strutture.

Fino ad allora le forze militari improvvisarono o basarono il proprio modo di operare su metodi che erano stati utilizzati in precedenza per far fronte ai tunnel per il contrabbando sulla frontiera tra Gaza ed Egitto. Solo nel dicembre 2014, quattro mesi dopo che la guerra era finita, il quartier generale del comando della fanteria e dei paracadutisti emise ordini di combattimento che stabilivano i principi di azione in zone in cui si trovano molteplici tunnel.

L’esercitò non predispose piani con largo anticipo per una situazione in cui i combattenti avrebbero dovuto affrontare questi tunnel al momento dell’ingresso nella Striscia, come parte di un’operazione di terra – benché ci fosse un’alta probabilità di una simile battaglia. Oltretutto, secondo il Revisore, anche dopo che un simile piano fu predisposto, venne formulato poco prima dell’operazione “Margine protettivo”, per cui alcune delle brigate coinvolte nella battaglia ricevettero le linee guida dopo che la guerra era iniziata.

L’aviazione non era preparata a eliminare i tunnel di Hamas

L’IAF [l’aviazione militare israeliana. Ndtr.] aveva mezzi limitati e mancava delle competenze, delle informazioni e di linee guida operative adeguate – così come delle relative capacità e formazione – per affrontare la minaccia dei tunnel di Hamas. Il generale Amikam Norkin, che all’epoca dell’operazione a Gaza era il capo di stato maggiore dell’IAF (e che alla fine di quell’anno doveva diventare il nuovo comandante dell’aviazione israeliana), all’epoca della campagna militare disse che le forze aeree non avevano sufficienti informazioni che permettessero di formulare tattiche operative per affrontare i tunnel.

Ciononostante, durante una sessione tenuta durante la guerra, il consiglio raccomandò che fossero attaccati dall’aria, benché i comandi della difesa sapessero che ciò non avrebbe distrutto tutti i percorsi dei cunicoli sotterranei e avrebbe di fatto ostacolato future operazioni di terra contro di loro – che fu ciò che effettivamente successe. Tuttavia, secondo il Revisore, questa informazione non venne fornita ai membri del consiglio prima che raccomandassero attacchi aerei.

L’intelligence israeliana diede priorità alla minaccia dei tunnel solo dopo la guerra

La minaccia rappresentata dai tunnel di Hamas non fu considerata una priorità assoluta dall’intelligence di Israele fino all’inizio del 2015, mesi dopo la fine dell’operazione “Margine protettivo”.

Benché il primo ministro Netanyahu ed i responsabili del sistema di difesa avessero definito i tunnel una minaccia strategica contro il Paese, non vennero considerati come parte di importanti attività di intelligence. Ciò ebbe effetti sull’assegnazione di risorse alle agenzie di spionaggio con lo scopo di affrontare la minaccia.

Il Revisore nota che il capo dell’intelligence militare dell’IDF, generale Aviv Kochavi, e il capo dello Shin Bet Cohen avrebbero dovuto fare di questo problema una priorità assoluta per i servizi di intelligence, e aggiunge che i livelli politici – il primo ministro e il ministro della Difesa – avrebbero dovuto sovrintendere a questo processo.

Lo Shin Bet e l’intelligence militare iniziarono a incrementare le loro attività di raccolta di informazioni riguardo alle strutture sotterranee alla fine del 2013, dopo che in un anno furono scoperti tre tunnel scavati da Hamas che si estendevano all’interno del territorio israeliano. Il Revisore commenta che nonostante ciò l’informazione generale passata all’interno delle unità di combattimento dell’IDF durante la guerra del 2014, compresa quella sui tunnel, era un “importante risultato di intelligence”.

 Significative lacune dell’intelligence su Hamas a Gaza

Da metà 2013 fino allo scoppio delle ostilità nel luglio 2014 e durante la campagna stessa, lo Shin Bet e l’intelligence militare presentarono gravi e significative lacune riguardo alla raccolta di informazioni a Gaza. Queste lacune, secondo il rapporto del Revisore, riguardarono sia i tunnel sotterranei che l’identificazione dei bersagli per l’aviazione, come anche “un’altra area” – presumibilmente riguardante piani e attività dei capi dell’ala miliare di Hamas a Gaza.

Specificamente, ci furono carenze nei tentativi di raccogliere informazioni da parte dell’intelligence militare e dello Shin Bet concernenti i tunnel dal 2008 fino all’operazione “Margine protettivo”. In particolare, il Revisore ha identificato significative lacune nelle informazioni passate alle unità di combattimento riguardo ai tunnel difensivi a Gaza (per esempio, tunnel nella Striscia che non passavano sotto il confine fin dentro Israele). Ciò ebbe un effetto sul modo in cui ci si occupò dei tunnel prima e durante l’operazione. Oltretutto le informazioni riguardanti queste lacune non furono trasmesse ai membri del consiglio fino allo scoppio delle ostilità.

Lo sviluppo della tecnologia per trovare i tunnel fu ritardato; il ritardo continua tuttora

La ricerca di una soluzione tecnologica che potesse essere utilizzata per individuare i tunnel sotterranei continuò per anni e l’apparato della difesa era fiero di aver preso in considerazione praticamente tutte le possibilità. Anche quando venne trovato un simile sistema – e l’esercito ed il ministero della Difesa definirono la sua messa in pratica una questione urgente – l’esercito israeliano fu lento nell’impiegarlo.

Fin dalla fine del 2012 il ministero della Difesa commissionò ad un’impresa di impegnarsi in questo sforzo, stabilendo che la prima fase dovesse essere completata entro il febbraio 2014. Tuttavia, nel momento in cui scoppiò la guerra a Gaza questa fase non era ancora stata ultimata; oltretutto l’attrezzatura in questione venne utilizzata solo in zone limitate.

Persino dopo la conclusione dell’operazione ci furono ritardi nell’installazione del sistema. Solo alla fine del marzo 2015, un anno dopo la data stabilita, iniziò l’attività di installazione lungo il confine di Israele con Gaza – ma il ritardo continuò. A metà 2016 il sistema era ancora operativo solo in parte e il lavoro ora è in via di completamento.

Il consigliere per la sicurezza nazionale (oggi capo del Mossad) viene duramente criticato: non svolse la sua funzione

Uno dei principali destinatari delle frecciate del Revisore dello Stato è Yossi Cohen, consigliere per la sicurezza nazionale durante l’operazione “Margine protettivo” ed attuale capo del “Mossad”, il servizio di spionaggio. Almeno in cinque passaggi del suo rapporto il Revisore cita Cohen per problemi nel funzionamento del consiglio di sicurezza, dei quali fu personalmente responsabile, durante il corso della guerra.

In questo contesto, in tre diverse parti del suo rapporto il Revisore menziona i tunnel. Benché Cohen fosse al corrente della gravità della minaccia rappresentata dai cunicoli sotterranei, non avviò una discussione né suggerì che il primo ministro Netanyahu sollevasse questo argomento perché venisse seriamente preso in considerazione nelle riunioni del consiglio. Il rapporto aggiunge che, mentre preparava le discussioni del consiglio, Cohen non ritenne che l’esercito presentasse ai membri piani operativi per affrontare i tunnel.

Inoltre, ignorando una direttiva del primo ministro, Cohen non stabilì una data per una discussione sul deterioramento della situazione umanitaria a Gaza. Il Revisore ha scoperto che durante le riunioni del consiglio, soprattutto quelle dedicate a stabilire una politica nei confronti della Striscia di Gaza, il consiglio di sicurezza nazionale non propose alternative diplomatiche o di altro genere ai piani presentati dai militari. Nonostante il consiglio, sotto la direzione di Cohen, avesse aumentato il proprio potere, il Revisore ha individuato varie carenze che gli impedirono di funzionare in base al suo mandato.

Nel suo rapporto il Revisore afferma che le sessioni del consiglio relative all’operazione del 2014 furono quasi totalmente dominate da proposte presentate dall’esercito, e il consiglio per la sicurezza nazionale non svolse il suo ruolo come stabilito dalla legge: proporre alternative come contrappeso rispetto al sistema della difesa – proposte che avrebbero consentito ai membri del consiglio una comprensione più complessiva dei problemi e delle lacune in modo che fossero sufficientemente informati quando avessero disegnato e approvato un qualunque piano d’azione.

Martedì notte il deputato della Knesset Avi Dichter (del Likud), presidente della commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa, ha affermato che la commissione controllerà questioni che sono già state affrontate o stanno per essere affrontate per migliorare le capacità operative nei sistemi politici, della sicurezza e militari citati nel rapporto.

Ha affermato che il monitoraggio della commissione si estenderà anche a problemi che non vengono citati nel rapporto, ma di cui il sistema di sicurezza si sta occupando.

Dichter ha detto che ciò verrà fatto per garantire che l’esercito, il sistema di sicurezza ed il governo siano preparati per future minacce che sono state sottoposte alla commissione. (Jonathan Lis)

L’opposizione israeliana convoca Netanyahu alla Knesset sul rapporto di Gaza

L’opposizione ha ottenuto le 40 firme di deputati necessarie secondo le regole della Knesset per convocare il primo ministro Benjamin Netanyahu ad una sessione della Knesset per discutere dei risultati del rapporto. La sessione è prevista entro circa tre settimane.

Chiedendo al presidente del parlamento, il deputato Yuli Edelstein (del Likud), di mettere in calendario la sessione, la deputata Merav Michaeli, capogruppo dell’Unione Sionista [coalizione tra il partito Laburista e Kadima. Ndtr.], ha affermato: “In base a quanto riferito finora, i gravi riscontri del rapporto attestano un fallimento del primo ministro e del governo da lui guidato, così come una mancanza di politiche riguardo a Gaza e carenze nella strategia relativa alla sicurezza ed alla diplomazia, che portarono all’errata gestione dell’operazione.

“Il primo ministro deve comparire in parlamento e rendere conto a tutta l’opinione pubblica israeliana dei risultati del rapporto e del fallimento nel garantire la sicurezza dei cittadini israeliani,” ha aggiunto. (Jonathan Lis)

 Il capo dell’IDF: l’esercito sta traendo insegnamento dal rapporto e agendo per migliorare la capacità operativa a Gaza

Il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, generale Gadi Eisenkot, durante una cerimonia per onorare i migliori impiegati civili dell’esercito, ha affermato che l’esercito “sta imparando dal rapporto del Revisore dello Stato, che ha ricevuto qualche tempo fa, sta formulando un piano di lavoro e agendo per migliorare costantemente le proprie capacità operative sul fronte della Striscia di Gaza.”

Eisenkot ha anche detto: “In quanto vicecapo dello stato maggiore e corresponsabile degli esiti della battaglia, ho visto di persona che i soldati dell’esercito israeliano e i loro comandanti, in terra, mare e cielo, in primo luogo e soprattutto il comandante di stato maggiore Benny Gantz, lavoravano giorno e notte per raggiungere gli obiettivi del combattimento e garantire la sicurezza del nostro Paese.”

Eisenkot ha detto che l’esercito non era immune da critiche sull’operazione. “Ma dobbiamo ricordare che questa è gente eccellente che ha dedicato la propria vita alla sicurezza di Israele e ha contribuito a un futuro migliore per il popolo di questo Paese.” (Jonathan Lis)

Ya’alon: il consiglio di sicurezza durante la guerra di Gaza fu il peggiore che io abbia visto

Martedì l’ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon, in risposta al rapporto del Revisore dello Stato sull’operazione “Margine protettivo” a Gaza, ha affermato che la condotta del consiglio di sicurezza durante la guerra a Gaza nell’estate del 2014 fu scadente e irresponsabile.

Secondo Ya’alon lo stesso rapporto è “politicizzato” e durante la guerra le sue azioni come ministro della Difesa, come quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu e del capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz, evitarono un disastro.

“Questo è un rapporto che analizza aspetti parziali della complessa campagna. Ignora più ampie considerazioni perché è stato preso in ostaggio da politici con interessi (esterni), che hanno fornito all’ufficio del Revisore dello Stato informazioni di parte e inquinato il processo di analisi,” ha aggiunto.

Ya’alon ha definito il consiglio di sicurezza durante “Margine protettivo” il peggiore ed il più irresponsabile che abbia mai visto. “Lo dico in quanto ho partecipato al consiglio fin dal 1995. Era un consiglio superficiale, politicizzato e populista. Un consiglio di fuga di notizie, di gente che parlava con un doppio discorso – uno all’interno e l’altro per l’opinione pubblica. Questa situazione trasformò le discussioni in una grande farsa, che, se non fosse stato per il primo ministro, per il capo di stato maggiore e per me, avrebbe potuto benissimo terminare in un disastro,” ha affermato.

Ya’alon ha definito il consiglio di sicurezza un “asilo infantile” e ha detto che sarebbe stato possibile trovare una soluzione allora, “in tempo reale”.

“Oggi sono orgoglioso di essere stato insieme al primo ministro ed al capo di stato maggiore di fronte alle dure critiche dell’opinione pubblica e all’eversione politica e personale, mentre i nostri soldati erano sotto il fuoco nemico,” ha detto Ya’alon.

“Oggi stiamo ricevendo critiche per questo, all’epoca questo ha salvato la campagna. I campioni di giravolte non riuscirono a trascinarci in un’ (operazione) “Scudo di difesa 2″ [sanguinosa offensiva dell’esercito israeliano in Cisgiordania del 2002. Ndtr.] in Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania. ndtr.], in una terza Intifada e neanche in un’occupazione della Striscia,” ha aggiunto. (Amos Harel)

 Netanyahu: il rapporto omette le vere lezioni che devono essere tratte dalla guerra

In risposta al rapporto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto: “La quiete senza precedenti che ha prevalso (sul lato israeliano della frontiera con Gaza) a partire dall’operazione “Margine protettivo” è una prova dei risultati.” Secondo Netanyahu le vere e significative lezioni che devono essere tratte dalla guerra non compaiono nel rapporto di Shapira.

“Le vere lezioni sono già state attentamente messe in pratica -in modo responsabile e in silenzio,” ha aggiunto il primo ministro. Egli ha sostenuto che la minaccia dei tunnel a Gaza fu esposta nel dettaglio ai membri del consiglio di sicurezza in 13 diversi incontri. “Se ne discusse in tutta la loro gravità, prendendo in considerazione tutta la gamma degli scenari strategici ed operativi.”

Il leader dell’opposizione chiede a Netanyahu di dimettersi

Il leader dell’opposizione Isaac Herzog (dell’ Unione Sionista) ha detto che il quadro presentato dal rapporto “dovrebbe provocare paura e preoccupazione nel cuore di ogni cittadino di Israele.” Ha chiesto a Netanyahu di trarne le conclusioni e di dimettersi.

Herzog ha descritto il rapporto come professionale, dettagliato e privo di tendenziosità politica. “Il rapporto rivela chiaramente come il primo ministro Netanyahu e il consiglio (di sicurezza) che guidava fallirono nel loro compito di comprendere le minacce, definire una strategia, comprendere la realtà (e) preparare in modo corretto soldati e civili, sopratutto i residenti del Sud. La dirigenza del Paese condusse una disputa politica sulle spalle di ognuno di loro per scopi personali, non sono stati all’altezza delle responsabilità a loro affidate,” ha detto il leader dell’Unione Sionista. “Il Revisore ha irrevocabilmente rilevato che quello non fu un incidente, un errore o un passo falso sporadico, ma piuttosto un modo di comportarsi e un errore durato anni.”

Herzog ha definito il rapporto “strategico” e “importante” ed ha affermato che dovrebbe essere letto come una critica e “non trasformare il Revisore in un nemico del popolo.” Ed ha aggiunto: “Diranno presto che Shapira dovrebbe essere stroncato invece di ascoltare le critiche e studiarle. Evidenzia errori sostanziali.”

Riguardo a Tzipi Livni, il suo numero due nell’Unione Sionista, che era membro del consiglio di sicurezza all’epoca della guerra, Herzog ha detto: “Appoggio le azioni di Tzipi Livni, che lavorò nel consiglio di sicurezza come ci si potrebbe aspettare da un dirigente della diplomazia e della difesa, e se ci fossero state altre due o tre persone come Tzipi, dovrebbe essere ragionevole (ammettere) che quel consiglio avrebbe funzionato in modo diverso, raggiungendo risultati molto migliori.”

Tzipi Livni: “E’ necessario un totale cambiamento nel modo di pensare”

Tzipi Livni, numero due dell’Unione Sionista, ha detto che, invece di attaccare il Revisore dello Stato Joseph Shapira, in risposta al suo rapporto il governo dovrebbe agire per metterlo in pratica: “Israele ora ha bisogno di una strategia riguardo a quali risultati militari e diplomatici sono necessari e quale sia il punto di uscita nelle future operazioni riguardo a Gaza ed in generale,” ha affermato.

“E’ così che mi sono comportata durante la (guerra) – in silenzio, senza far filtrare notizie e senza critiche dei media. E’ necessario un totale cambiamento nel modo di pensare. Invece di slogan che danneggiano solo l’esercito israeliano e le capacità di deterrenza, occorre definire obiettivi strategici e passi diplomatici.”

Il presidente Rivlin: correggere le lacune esposte dal rapporto

Il presidente [della repubblica israeliana] Reuven Rivlin ha chiesto che siano corrette le lacune esposte dal rapporto. Il presidente ha detto martedì in una conferenza dell’Istituto delle Politiche del Popolo Ebraico: “Non è tempo di scambiarsi accuse. E’ tempo di imparare le lezioni e rafforzare l’esercito israeliano in modo che possa continuare ad essere il nostro muro di difesa.”

Rivlin ha aggiunto che il rapporto del Revisore dello Stato dovrebbe essere studiato piuttosto che cercare di attaccarne i contenuti. “Siamo tutti bravi col senno di poi e sarebbe necessario investire le nostre energie per trarne conclusioni e metterle in pratica.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La tracotanza militare rappresenta un disastro

Amira Hass, 21 febbraio 2017 Haaretz

L’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con gli strumenti in cui eccelle – guerra e uccisioni – è la definitiva identificazione con la mentalità israeliana.

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, afferma che i missili di Hezbollah possono raggiungere l’impianto nucleare israeliano nella città di Dimona, nel Negev. E’ difficile sospettare che intenda causare la morte di decine o centinaia di migliaia di palestinesi nella vicina Gaza e nel Negev, o provocare loro malattie letali. Hezbollah è riuscita a cacciare dal proprio Paese l’occupazione israeliana. Per questo Hezbollah ed il popolo libanese meritano apprezzamento. Però oggi le sue affermazioni possono essere interpretate come millanteria, cosa che più di ogni altra rivela paura e debolezza.

Nella Striscia di Gaza è stato eletto alla guida del movimento [Hamas] un nuovo leader, Yahya Sanwar. Hamas è un partito moderno ed organizzato, che tiene regolari elezioni interne, benché clandestine, un’impresa che Fatah non è mai riuscita a realizzare neppure operando alla luce del sole ed in relativa libertà. Hamas cambia i suoi capi e nessuno di loro decide le linee politiche da solo, al contrario della situazione all’interno di Fatah.

A Gaza si dice che Sanwar è stato eletto perché ha acquisito grandi capacità di leadership in prigione, e che è modesto, ascolta gli altri ed è equilibrato. Ma anche se lui aderisce all’attuale tendenza politica per evitare un conflitto armato, l’ala militare della sua organizzazione lavora incessantemente per armarsi e migliorare le proprie potenzialità. Le sue ostentate parate militari inviano un messaggio, anche quando Iz al-Din al-Qassam (ala militare di Hamas, ndtr.) smette di sparare.

Le parate e le promesse creano un’atmosfera di ‘resistenza’. Scatenano l’immaginazione del popolo che stiamo opprimendo e schiacciando, dando loro una speranza, un filo di speranza a cui aggrapparsi. Ma ci si dimentica di alcuni fatti: dopo la guerra in Libano del 2006, Hezbollah non ha osato aprire un secondo fronte quando Gaza veniva attaccata da tre offensive israeliane. Dal momento del rapimento di Gilad Shalit nel giugno 2006 fino all’offensiva del dicembre 2008, Israele ha ucciso 1.132 abitanti della Striscia di Gaza. Di questi, 604 erano legati a gruppi armati, ma non tutti avevano necessariamente preso parte agli scontri. Dei civili uccisi, 207 erano minori e 89 erano donne. Erano anche parte del prezzo pagato per il rilascio di Sanwar e di altri.

Il profilo personale di Sanwar che appare sui siti web di Hamas attesta che ha messo a morte dei collaborazionisti nell’ambito di una strategia incentrata sulla deterrenza. Sono passati trent’anni e il collaborazionismo non è diminuito. L’assassinio – ovviamente di solito di pesci piccoli e di innocenti – non si è dimostrato efficace.

Questa settimana un portavoce che partecipava ad una conferenza in Iran ha detto che Hamas dispone di gruppi armati in Cisgiordania. Le loro attività sono forse riuscite in passato a fermare l’orgia colonialista israeliana? No. Non ci sono riuscite neanche le tattiche diplomatiche, anche questo è vero. Ma se il risultato è lo stesso, perché scegliere la strada senza uscita che comprende uccisioni, arresti e distruzioni? Potreste dire che è una domanda ingenua e femminile, e noi rispondiamo: questa è una tattica fallimentare e maschile.

I palestinesi lamentano che i loro figli adottano i concetti di Israele ed interiorizzano il disprezzo nei loro confronti. Ma l’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con i mezzi in cui eccelle – guerra ed uccisioni – è proprio l’estrema identificazione con la mentalità israeliana.

Israele ha un costante interesse ad esagerare la minaccia militare costituita dalle due organizzazioni religiose islamiche. Questa tendenza va di pari passo con la sistematica distorsione della realtà attraverso la presentazione degli ebrei come vittime dei palestinesi. Entrambe le organizzazioni islamiche hanno interesse a che Israele le consideri esageratamente temibili. Questo accresce il loro peso politico.

Israele procede senza campagne militari a tutto campo, usando la violenza burocratica, il sadismo organizzato, la concentrazione dei palestinesi in enclaves e l’assedio. Ma per le sue esigenze politiche interne ed estere sa molto bene, quando necessario, come usare la tracotanza militare. Allora questo rappresenta un disastro che richiede anni per una pur debole ripresa. Non bisogna tirare questa corda. Bisogna trovare altri metodi di lotta.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Esponenti israeliani e palestinesi reagiscono all’abbandono della soluzione a due Stati da parte di Trump

16 febbraio 2017, Maannews

Betlemme (Ma’an) – A seguito del controverso incontro avvenuto mercoledì tra il presidente USA Donald Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu, i dirigenti israeliani e palestinesi hanno reagito in modo positivo e negativo riguardo all’evidente mutamento della politica statunitense con l’abbandono del sostegno alla soluzione a due Stati.

Mercoledì durante una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro Trump ha risposto a una domanda riguardo alla posizione della sua amministrazione rispetto alla soluzione a due Stati il giorno dopo che un funzionario USA aveva detto che il Paese non era necessariamente legato alla soluzione politica come l’unica in grado di porre termine al conflitto israelo-palestinese

Io considero sia [la soluzione] a due Stati che a un solo Stato e mi piace quella che piace a entrambe le parti” ha detto Trump, provocando una risata di Netanyahu. “Posso vivere con entrambe”.

Mentre esponenti della comunità internazionale hanno riposto la soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla soppressione delle colonie illegali israeliane e sulla soluzione a due Stati, un numero crescente di attivisti palestinesi, dato l’attuale contesto politico, criticano questa soluzione come insostenibile e poco inadeguato ad assicurare una pace duratura e propongono invece uno Stato bi-nazionale con uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Le reazioni israeliane

Gli esponenti politici israeliani di destra sono stati pronti a manifestare il consenso sull’incontro tra Trump e Netanyahu, con il quotidiano israeliano Haaretz che ha citato il ministro dell’Istruzione dell’estrema destra israeliana Naftali Bennet che ha affermato: “ La bandiera palestinese è stata ammainata dal pennone ed è stata rimpiazzata da quella israeliana. I palestinesi hanno già due Stati – Gaza e la Giordania – Non c’è nessun bisogno di un terzo.”

Il ministro ha anche scritto sui social media: “Una nuova era. Nuove idee. Nessun bisogno di un terzo Stato oltre alla Giordania e a Gaza. Un grande giorno per gli israeliani e per gli arabi ragionevoli.”

In precedenza Bennett aveva manifestato il suo appoggio a Trump dicendo a novembre , in seguito alle elezioni presidenziali negli USA, che una presidenza Trump avrebbe posto fine allo sforzo per realizzare uno Stato palestinese indipendente.

La vittoria di Trump è un’opportunità per Israele per rimangiarsi immediatamente l’idea di Stato palestinese al centro del Paese (Israele) il che potrebbe mettere in discussione la nostra sicurezza e la nostra giusta causa” ha detto allora Bennett. “Questa è la posizione del presidente eletto, che è scritta nel suo programma elettorale e dovrebbe essere la nostra politica, semplice e chiara. L’epoca di uno Stato palestinese è tramontata”.

Nel frattempo il ministro israeliano della pubblica sicurezza , Gilad Erdan del partito Likud è stato citato da Haaretz per aver detto che l’opinione di Trump sul conflitto israelo-palestinese “prova che siamo in una nuova epoca. La presa di posizione del presidente indica che la soluzione a due Stati non è l’unica soluzione per raggiungere la pace e che è venuto il momento di rovesciare l’equazione e di esercitare una pressione sulla parte palestinese”.

I ministri della destra in generale hanno espresso la loro opinione secondo cui Israele stava entrando in “una nuova epoca” non condizionata dalla soluzione a due Stati o da obiettivi di pace da lungo tempo formulati dalla comunità internazionale.

Secondo quanto riferito, il ministro israeliano della cultura Miri Regev, anche lui del partito Likud, ha detto che “l’epoca dei congelamenti è finita. È la fine del blocco delle costruzioni in Giudea e Samaria” come Israele definisce la Cisgiordania, aggiungendo che “oggi a Washington è cominciata una nuova era diplomatica”.

Altri ministri della destra hanno manifestato il proprio sollievo per il fatto che il governo israeliano non deve più fare finta di sostenere la soluzione a due Stati che gli sforzi internazionali per la pace hanno individuato per decenni quale percorso per uscire dall’impasse israelo-palestinese.

Finalmente si è posto fine a un’idea sbagliata e pericolosa: istituire uno Stato palestinese terrorista nel cuore della Terra di Israele” ha detto il ministro israeliano della scienza e della tecnologia Ofir Akunis, citato da Haaretz.

Nel frattempo la deputata della Knesset, Shelly Yacimovic, dell’Unione Sionista [coalizione tra il partito Laburista e Kadima. Ndtr.], ritenuto il partito “più a sinistra” nel panorama politico israeliano, avrebbe affermato che le dichiarazioni di Trump mercoledì sera non si allontanano in alcun modo da quelle delle precedenti amministrazioni USA, sottolineando che Trump ha espresso il suo dissenso riguardo all’espansione delle colonie israeliane e che il suo appoggio per trovare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti è più articolato.

Le reazioni palestinesi e internazionali

A seguito della conferenza stampa l’ambasciatore palestinese presso le Nazioni Unite Riyad Mansour ha emesso un comunicato in cui afferma che la pace non si potrà realizzare “senza stabilire le basi di un processo di pace” e ha evidenziato il fatto che la maggioranza della comunità internazionale continua a sostenere la soluzione a due Stati nonostante le prese di posizione di Trump e Netanyahu.

Nel frattempo il portavoce di Hamas Hazem Qasim si è appellato all’Autorità Nazionale Palestinese perché abbandoni i negoziati con Israele e la convinzione che gli Stati Uniti siano in grado di svolgere una funzione di mediazione nel processo di pace, aggiungendo che Trump ha chiarito il fatto che l’attuale e le precedenti amministrazioni USA hanno parteggiato per Israele.

Nel suo comunicato Hazem Qaim ha detto che “ gli Stati Uniti non sono mai stati affidabili riguardo a dare al popolo palestinese i suoi diritti” aggiungendo che gli USA hanno solamente “provveduto a coprire Israele perché continuasse l’aggressione contro il popolo palestinese e l’espropriazione delle nostre terre”.

Egli ha anche detto che l‘amministrazione degli Stati Uniti, rimangiandosi la propria già debole posizione sulla soluzione a due Stati, indica un’escalation della tendenza USA a favore dell’occupazione israeliana.

Il dirigente di Fatah Rafaat Elayyan ha anche rilasciato un comunicato di condanna dell’incontro, affermando che Netanyahu e Trump hanno “palesemente affossato il sogno di istituire uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est”. Egli ha anche detto che Trump ha disconosciuto il diritto internazionale e tutti gli accordi precedenti tra palestinesi e israeliani per ottenere la pace nella regione.

Elayyan ha aggiunto: “Siamo di fronte a un’occupazione che rifiuta di creare uno Stato indipendente e mira ad annettere ad Israele la Cisgiordania e Gerusalemme, espandendo le colonie con l’appoggio dell’amministrazione USA.” Continuando ha sollecitato la dirigenza palestinese ad “intraprendere una nuova strategia” fondata su un’unità che possa porre fine al conflitto interno alla Palestina.

Se l’incontro Trump-Netanyahu non è sufficiente per unire il nostro fronte nazionale, allora non saremo mai capaci di confrontarci con questa sfida”, ha aggiunto Elayyan.

Elayyan ha anche detto che i palestinesi fanno affidamento sul vertice arabo che si terrà ad Amman il prossimo mese, in cui gli Stati arabi e islamici dovrebbero emettere un comunicato per appoggiare il popolo palestinese e i suoi diritti “ prima che sia troppo tardi”.

Elayyan ha aggiunto che Trump ha dato “semaforo verde al governo israeliano per continuare nell’attività di colonizzazione e di aggressione nei confronti del popolo palestinese” e ha sottolineato che gli Stati Uniti saranno responsabili di qualunque “situazione esplosiva” nella regione.

Il popolo palestinese continuerà la propria lotta per la libertà e la democrazia” ha detto.

Nel frattempo il responsabile della comunicazione del movimento Fatah, Nasser al-Qudwa, ha detto che “respingere la soluzione a due Stati significa respingere il processo di pace” e ha sottolineato che qualunque alternativa provocherebbe “un confronto doloroso e sanguinoso”.

Egli ha anche detto che l’abbandono della soluzione a due Stati non comporterà la scomparsa o l’indebolimento dell’idea palestinese per uno Stato indipendente e che quella soluzione a uno Stato unico dove tutti i cittadini avrebbero uguali diritti è “ semplicemente senza senso e impossibile”

Al-Qudwa ha aggiunto che la dirigenza palestinese e Fatah hanno una posizione chiara, sottolineando l’importanza di una presenza nazionale palestinese e della formazione di uno Stato palestinese, osservando che i diritti palestinesi sono “ non negoziabili”.

Il raggruppamento di sinistra Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) ha scritto in un comunicato che l’incontro Trump-Netanyahu ha segnato “un chiaro punto di svolta per porre fine agli obiettivi dei palestinesi” aggiungendo che il cambiamento di politica costituisce una violazione del diritto internazionale.

Il FPLP ha indicato cinque iniziative che ritiene debbano essere prese per rispondere al recente mutamento della politica statunitense-israeliana: dichiarare una presa di posizione unitaria che respinga la politica statunitense-israeliana; ritirare il riconoscimento [dello Stato] di Israele; organizzare urgentemente un incontro tra tutte le forze nazionaliste e islamiche per stabilire una nuova strategia nazionale da contrapporre alle imminenti sfide e difendere i diritti nazionali; cessare immediatamente il conflitto nazionale palestinese e continuare gli sforzi di tenere una sessione del Consiglio nazionale palestinese; cessare da parte dell’Autorità nazionale palestinese “di creare illusioni” a livello internazionale e  ritirarsi dagli accordi di Oslo.

Intanto mercoledì l’Alta Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e per la Politica di Sicurezza Federica Mogherini ha detto che la UE sosterrà sempre la soluzione a due Stati, aggiungendo che “senza dubbio la nostra ambasciata (italiana) rimarrà a Tel Aviv… e noi siamo ancora dell’opinione che la soluzione sia la coesistenza tra i due Stati: Israele e Palestina”.

Mercoledì il segretario generale dell’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha detto che la soluzione a due Stati era già un compromesso raggiunto con molte difficoltà come base per una pacifica risoluzione del conflitto, e che la proposta alternativa israeliana equivarrebbe a una soluzione di apartheid.

Contrariamente al disegno di Netanyahu di un solo Stato con due sistemi, [cioè] l’apartheid, l’unica alternativa a due Stati democratici e sovrani con i confini del 1967 è un solo Stato laico e democratico con uguali diritti per ognuno, cristiani, musulmani ed ebrei su tutta la Palestina storica,” ha detto Erekat.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pesanti pene detentive a membri di Fatah per rapporti con Ramallah’

Amira Hass, 2 febbraio 2017 Haaretz

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani condannano le sentenze come ingiuste e le accuse come vaghe – e le confessioni sono state ottenute sotto tortura.

La settimana scorsa un tribunale militare di Gaza ha comminato pesanti pene detentive ad otto membri di Fatah per “ aver recato danno all’unità rivoluzionaria”, in base alla legge penale rivoluzionaria dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), scritta a Beirut nel 1979. Gli otto uomini sono tutti membri delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Tre di loro sono stati condannati ai lavori forzati a vita e gli altri cinque hanno ricevuto pene tra i 7 e i 15 anni di prigione, anch’essi ai lavori forzati.

Le sentenze per i reati, che si fondavano su “ rapporti con Ramallah”, sono state pronunciate sulla base delle confessioni degli imputati, anche se tutti loro mostravano segni che le confessioni erano state ottenute sotto tortura.

Le pesanti condanne hanno sorpreso non solo gli imputati e le loro famiglie, ma anche le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che le hanno condannate in quanto ingiuste. Hanno definito le accuse fumose e troppo generiche e la legge rivoluzionaria incostituzionale e carente dei benché minimi standard di giustizia internazionale.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani, la più antica organizzazione per i diritti umani nella Striscia di Gaza, mercoledì ha detto che avrebbe rappresentato gli imputati in appello. Fatah ha accusato le sentenze di essere politicamente motivate.

Il più anziano tra gli imputati, Mohammed Abed al-Khader Ali, di 50 anni, appartenente al servizio di sicurezza preventiva dell’ANP, è stato condannato all’ergastolo in contumacia. Ora si trova in Cisgiordania.

Gli altri sette sono stati arrestati nel novembre 2015, ma solo due di loro sono stati trattenuti in prigione per tutto il periodo. Gli altri, di età compresa tra 30 e 44 anni, sono stati rilasciati in diverse fasi fino alla fine del processo.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha dichiarato in un comunicato stampa che le pene sono state comminate senza la minima equità e in assenza del diritto di quelli incarcerati a difendersi. Il Centro ha affermato che c’erano chiari segni che le confessioni fossero state estorte attraverso gravi torture.

La corte ha nominato degli avvocati difensori per i sette ed un legale ha detto al Centro che i suoi clienti presentavano sul corpo chiari segni di ferite e di suture ed alcuni soffrivano di trauma psichico e delirio come conseguenza dell’arresto.

Secondo quanto riferito dal Centro, i difensori hanno detto che le azioni dei loro assistiti non erano altro che attività politiche e che le confessioni sono state estorte con la forza.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani e gli avvocati per anni hanno condotto battaglie contro il modo abituale di agire di Hamas a Gaza, e prima dell’ANP a Ramallah, di utilizzare tribunali militari per processare dei civili.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La conferenza di pace di Parigi senza la pace

Mariam Barghouti – 16 gennaio 2017 Middle East Eye

I discorsi celebrativi della conferenza di Parigi, in previsione di un cambiamento positivo, sono stati un’assoluta parodia della giustizia.

Permane la stanchezza riguardo a queste conferenze, in quanto ripetono gli sforzi dei Parametri di Clinton nel 2000 e il documento per la Roadmap verso la pace del 2003 – solo che in modo contorto e regressivo, soprattutto nel caso dei rifugiati, di Gerusalemme e dei confini.

La spinta per una conferenza a Parigi, come in precedenza simili tentativi internazionali, non ha inteso affrontare la realtà palestinese e le radici del problema, ma piuttosto arginare l’ennesima turbolenza del Medio Oriente.

E’ l’approccio di una comunità internazionale alle prese con un problema scomodo piuttosto che un tentativo di rimediare all’ingiustizia messa in atto contro i palestinesi come popolo indigeno.

Il fatto [è] che la conferenza di Parigi ha deliberatamente scelto di ignorare le voci reali di chi affronta le conseguenze dell’oppressione, a riprova della continua inadeguatezza della comunità internazionale nell’essere in sintonia con la realtà sul terreno.

E’ un atteggiamento paternalistico che gli esponenti ufficiali palestinesi vedono come un passo in avanti, mentre ciò semplicemente cospira per togliere l’iniziativa all’opinione pubblica palestinese, dando impulso ad una soluzione dei due Stati virtualmente morta.

La lotta palestinese è quindi ridotta a una visione definita dalle potenze, secondo cui spetta a loro, più che a noi, decidere del nostro destino

Condizione perpetuamente simbolica

Come una specie di estenuante metafora in un romanzo tragico, la Palestina si è trovata in un immutabile stallo.

La tomba di Yasser Arafat, con una luce che la sera punta in direzione di Gerusalemme, è l’emblema delle nostre accanite speranze, senza lavorare per raggiungere le nostre aspirazioni.

Contemporaneamente, la dirigenza palestinese lavora contro l’originaria visione della lotta per la completa liberazione, dignità e giustizia per tutti i palestinesi.

Il pericolo della conferenza di Parigi, come le precedenti iniziative occidentali, è che non scava dentro i vari livelli del contesto del colonialismo di insediamento.

Il quadro e le leggi per i diritti dei palestinesi sono stati già ripresi nelle risoluzioni ONU, nelle leggi internazionali e persino nelle dichiarazioni di vari Stati. Il problema in questione non è la legittimità dell’autodeterminazione dei palestinesi, ma le esitazioni della comunità internazionale nell’imporre quello che riconosce in termini di diritti umani e nel non considerare Israele responsabile [delle violazioni a questo proposito].

E’ difficile credere nell’onestà di queste conferenze dopo gli infiniti fallimenti dei colloqui di pace bilaterali degli USA e l’incapacità dell’ONU di dare seguito alle proprie decisioni. Ancora una volta, è tutto pronto per la disfatta pubblica nel far rispettare ad Israele le leggi e le norme internazionali. L’unico che realmente concorderà con la conferenza di Parigi sarà Israele, mettendo ancora una volta in evidenza i limiti del mondo di fronte alle pressioni ed alla corruzione.

In modo simile a precedenti tentativi di pace, che si sia trattato degli accordi di Camp David del 1978 fino al tentativo dell’amministrazione Obama nel 2010 o della Roadmap del Quartetto, il coordinamento non è fatto dai veri soggetti interessati.

Inoltre queste conferenze che si succedono sono sostanzialmente un’ applicazione retroattiva della struttura dell’accordo di Camp David del 1978. Pertanto, 39 anni dopo, stare ancora a discutere i termini che erano praticamente già stati concordati è una beffa alla giustizia ed alle reali aspirazione di risolvere la questione palestinese.

Quella che è inquietante è la fugace euforia che i rappresentanti mostrano nell’ingannare se stessi pensando che stanno cambiando le cose, mentre poi permettono l’incessante espropriazione e sottomissione dei palestinesi a un potere dell’apartheid.

Giocare a dadi con la questione palestinese

Mentre è positivo che la richiesta palestinese di liberazione non sia stata abbandonata, la nostra lotta è sempre stata monopolizzata da altri per varie ragioni che non sono legate alla nostra lotta per il riconoscimento e per la dignità.

Dobbiamo subito contestualizzare ulteriormente il tentativo francese in rapporto all’ambito politico negli Stati Uniti e in Israele. Con il presidente eletto Donald Trump che si prepara ad assumere il potere, c’è già la sensazione di disperazione e di rabbia rispetto alla prospettiva di quello sta per accadere al Medio Oriente.

Avere il controllo sul contesto politico in Palestina/Israele significa guadagnarsi una presa più forte sul Medio Oriente. La nostra causa è continuamente stata utilizzata da Stati, individui e organizzazioni come un catalizzatore per il potere. Per la Francia prendere un’iniziativa di primo piano nel tentativo di risolvere il problema significa tentare di indebolire ulteriormente il caposaldo USA nella regione.

Tuttavia, i risultati della conferenza rimangono allineati con i tentativi di Trump. Sebbene più implicito dell’appoggio verbale di Trump a Israele, quello che è stato delineato a Parigi non affronta il concetto di giustizia e favorisce ulteriormente la lontananza dei palestinesi dalla loro auto-proclamata dirigenza.

La vera base della conferenza di Parigi non è la denuncia della scomoda e terrificante verità dell’occupazione e dell’apartheid, ma il gioco dei dadi nella speranza di porre fine all’incessante urlo e rumore.

Quello che Parigi significa per i palestinesi

Non è sorprendente che l’Autorità Nazionale Palestinese abbia accolto positivamente la conferenza, nonostante il fatto che, in sostanza, si sia trattato di un atto di assoluzione sia di Israele che della comunità internazionale dal rendere conto delle proprie azioni.

E’ significativo ricordare che il 50% della popolazione palestinese è sparso al di fuori dei territori. La loro voce, così come la voce del milione e mezzo di palestinesi all’interno di Israele, è ignorata nelle discussioni della soluzione dei due Stati, che per loro è inutile.

Sul terreno, le voci palestinesi sono messe a tacere non solo da Israele, ma da organizzazioni politiche come l’Autorità Nazionale Palestinese ed Hamas, che eliminano anche loro i dissidenti palestinesi che non sono d’accordo con la loro visione della giustizia. C’è un enorme divario tra quelli che affermano di rappresentare i palestinesi e il resto delle masse.

In una sua parte il comunicato della conferenza afferma che “entrambe le parti” devono “ribadire il proprio impegno per la soluzione dei due Stati, dissociandosi quindi dalle voci che rifiutano questa soluzione.”

Quanto scritto ignora il fatto che molti palestinesi non chiedono la soluzione dei due Stati. Inoltre, con il continuo distacco dell’ANP dalle masse palestinesi, la promessa di destinarvi ancora più denaro è solo d’ostacolo per i palestinesi.

Anzi, si tratta di un effetto positivo per Israele, in quanto favorisce il solco tra l’ANP ed i palestinesi, garantendo che la lotta non proceda oltre. Di conseguenza, viene data la possibilità ad Israele di continuare a costruire colonie ed esercitare pressioni sulla comunità internazionale per ottenerne l’appoggio – soprattutto con l’arrivo al potere di Trump.

Insomma, i risultati della conferenza di Parigi sono destinati a riaffermare i limiti della comunità internazionale nel raggiungere una vera giustizia, in quanto sono slegati dalle aspirazioni dei palestinesi che soffrono le conseguenze quotidiane del colonialismo.

Questa riluttanza ad affrontare la questione palestinese come una situazione di colonialismo di insediamento in simili conferenze parla da sé, in quanto confonde insidiosamente l’oppressore con l’oppresso. Nessuna vera soluzione sarà raggiunta se dovesse essere mantenuta questa impostazione.

– Mariam Barghouti  è una scrittrice e commentatrice palestinese che vive a Ramallah. I suoi scritti sono apparsi sul New York Times, su Al-Jazeera in inglese, Huffington Post, Middle East Monitor, Mondoweiss, International Business Times e altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)