State attenti, giardinieri e commesse di Gaza

Il calvario di un onesto appaltatore di un’agenzia delle Nazioni Unite dimostra il potere che Israele esercita su chiunque a Gaza. La colpa è solo di Hamas

Amira Hass, 11 gennaio 2017 Haaretz

Waheed al-Bursh, un appaltatore del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, tornerà a casa sua nella Striscia di Gaza giovedì, sette mesi dopo essere stato arrestato al checkpoint di Erez. E’ una sconfitta per il servizio di sicurezza dello Shin Bet, che ha tentato di incastrarlo con una serie di accuse di aver aiutato Hamas per anni.

E’ una situazione inbarazzante anche per l’accusa, che è uscita dall’immagine in cui lo Shin Bet l’ aveva dipinta ed ha raggiunto un patteggiamento con l’avvocato di Bursh, Lea Tsemel. Ed è un tacito ammonimento di come i media israeliani, che in agosto hanno tranquillamente pubblicato falsi rapporti basati su informazioni distorte, hanno condannato Bursh senza processo come terrorista o attivista di Hamas infiltrato nell’agenzia dell’ONU.

17 giorni di interrogatori da parte dello Shin Bet, interrogatori da parte della polizia, quattro o cinque giorni in una cella con degli informatori, collaboratori che si spacciavano per prigionieri per ragioni di sicurezza – nulla di tutto ciò ha potuto provare il giudizio emesso dallo Shin Bet e dai media.

Di tutte le accuse di “contatto con un agente straniero”, “aver fornito servizi ad un’organizzazione illegale” e “uso di materiale terroristico”, l’accusa ne ha mantenuta solo una: la seconda. Mercoledì scorso Bursh è stato condannato in base ad essa.

Il giudice Aharon Mishnayot della Corte distrettuale di Be’er Sheva ha detto che si trattava di un’accusa grave e lo stesso ha detto il rappresentante dell’accusa del distretto meridionale, Shuli Rothschild. Hanno dovuto dirlo per giustificare il clamore che ha preceduto il processo. Ma la sentenza, con pena già scontata, afferma il contrario: non è grave.

Allora di che cosa si trattava? Uno dei compiti del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite è di rimuovere e sistemare le macerie prodotte dai bombardamenti di Israele a Gaza nell’estate 2014 (un totale di circa 2 milioni di tonnellate). Bursh era responsabile del trasporto di questi detriti in luoghi predisposti dal Ministero dei Lavori Pubblici del governo di riconciliazione di Ramallah. All’inizio del 2015 gli venne richiesto da funzionari di quel ministero nella Striscia di trasportare parte delle macerie in un sito nel nord di Gaza.

Bursh spiegò che una tale richiesta doveva pervenire attraverso canali ufficiali e che lui non poteva decidere. Allora dal ministero di Ramallah arrivò una richiesta ufficiale al Programma di Sviluppo ONU di trasportare le macerie al porto peschiero a nord di Gaza, per evitare l’arretramento del litorale.

Bursh trasportò circa 300 tonnellate, che un anno dopo, appena prima del suo arresto nel luglio 2016, erano ancora ammassate lungo la strada. Lui non sapeva che Hamas intendeva chiudere quella parte della spiaggia.

Come molti funzionari nei ministeri del governo a Gaza, i due ufficiali del Ministero dei Lavori Pubblici che contattarono Bursh erano uomini di Hamas e noti membri della sua ala militare. Bursh è stato condannato per aver omesso di riferire ai suoi superiori che erano questi i due funzionari che lo avevano contattato, “chiudendo gli occhi sul favore che ciò costituiva per l’ala militare di Hamas”, come ha scritto Mishnayot.

Il giudice, un ex presidente della corte d’appello militare e residente della colonia di Efrat, avrebbe anche dovuto scrivere che il Programma di Sviluppo ed altre agenzie dell’ONU stanno fornendo un grande servizio ad Israele. Nelle impossibili condizioni di divieti e restrizioni imposte da Israele, queste agenzie evitano un disastro umanitario ancor peggiore a Gaza.

Israele ha definito Hamas un’organizzazione illegale. A Gaza Hamas è il governo de facto, che deve anche fornire servizi alla popolazione, e lo sta facendo. Attivisti delle componenti civile e militare di Hamas sono stati inseriti in diverse funzioni del settore pubblico.

Bursh aveva tutte le ragioni per credere che gli uomini che lo avevano contattato lo avevano fatto nel loro ruolo di funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Li ha considerati canali ufficiali – che Israele controlla. Questo gli è costato lo sconvolgimento della sua vita, sette mesi di prigione, duri interrogatori, danni alla sua salute, la separazione dalla sua famiglia e la preoccupazione per il suo futuro professionale e finanziario.

Quale è il messaggio? Quando vuole, Israele può condannare e distruggere la vita di qualunque giardiniere nel comune di Gaza, di ogni commessa di un negozio di abbigliamento o di qualunque venditore di falafel. La motivazione? “Fornire dei servizi ad un’organizzazione illegale.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Palestina dopo Abbas: possibili scenari e strategie per affrontarli

22 novembre 2016

Al-Shabaka

di  Hani al-Masri, Noura Erakat, Jamil Hilal, Sam Bahour, Jaber Suleiman, Diana Buttu, Wajjeh Abu Zarifa, Alaa Tartir 

Sintesi

Nei mesi che hanno preceduto le elezioni americane, le dispute tra le fazioni palestinesi sono andare infiammandosi in previsione del dopo-Abbas.

Si spera che il settimo congresso di Fatah, a lungo rimandato, previsto per il 29 novembre 2016, dia qualche indicazione su quale sarà la transizione dei poteri, rispondendo alla domanda su come e quando Mahmoud Abbas darà le dimissioni da uno o tutti gli incarichi che ricopre: presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di Fatah, la più grande fazione politica palestinese.

Con l’elezione di Donald Trump Israele crede di avere le mani libere per fare tutto quello che vuole nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e altrove, rendendo una transizione della dirigenza palestinese ancora più difficile. In questa tavola rotonda gli analisti politici di Al-Shabaka prendono in esame i diversi scenari di una Palestina del dopo-Abbas. Mentre alcuni, come Hani Masri, ritengono che i palestinesi abbiano molto da temere da un vuoto di potere in termini di ulteriore frammentazione e interferenze esterne, altri, come Noura Erakat sostengono che i palestinesi hanno molto da guadagnare, data l’opportunità per un cambiamento. Jamil Hilal mette in guardia contro i pericoli di uno scontro violento per il potere e invita ad un cambiamento in direzione di una lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che sul destino di un singolo o del suo gruppo d’elite. Sam Bahour prende in esame i diversi precedenti ed attori e nota che le altre fazioni dell’OLP hanno perso ogni influenza che avrebbero potuto avere una volta perché la loro esistenza politica è garantita dall’autorità che essi potrebbero cercare di sfidare.

Jaber Suleiman, che scrive dal Libano, avverte che un collasso dell’ANP potrebbe provocare un’ondata di migrazioni o spostamenti verso la Giordania [ East Bank nell’originale] e una ripresa dei progetti israeliani che prevedono di governare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza insieme alla Giordania e all’Egitto, con conseguenze per le comunità palestinesi in Libano e altrove. Diana Buttu spera che nuovi dirigenti annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, chiedano conto ad Israele delle sue azioni e costruiscano strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP. Riconsiderando i vari esiti possibili Wajjeh Abu Zarifa invita i palestinesi a consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente. Il direttore del programma di Al-Shabaka ha fatto da moderatore alla tavola rotonda.

Hani Al-Masri

Non è scontato che Abbas lasci presto il suo incarico. Ci sono indizi che suggeriscono che egli probabilmente cercherà di prolungare il suo mandato spingendo per convocare il settimo congresso generale di Fatah. Ciò bloccherebbe anche il ritorno di Mohammed Dahlan [dirigente di Fatah espulso dal partito ed attualmente residente negli Emirati Arabi Uniti. Ndtr.] nel Comitato Centrale di Fatah come successore di Abbas o come un attore che potrebbe decidere in merito e controllare il suo successore. Il fatto che non esistano alternative nazionali, poiché la maggior parte di coloro che sono citati come possibili successori sono della stessa scuola di pensiero, conferma questo scenario.

Lo scenario del post-Abbas dipende dai tempi della sua uscita di scena, cioè se in seguito al congresso generale di Fatah, o della riunione del Consiglio Nazionale Palestinese, o della fine delle divisioni tra Fatah e Hamas o del ritorno di Dahlan in Fatah. Se Abbas dovesse andarsene prima che si tenga il congresso e si ripristini l’unità, la lotta per la successione sarà durissima e porterà probabilmente al caos ed a lotte intestine. Ciò potrebbe provocare il collasso dell’ANP, la frammentazione in molte autorità diverse, o diventare subordinata a Israele sulla falsariga dell’Armata del Sud del Libano [corpo militare cristiano a cui Israele ha affidato il controllo del Sud del Libano dal 1979 al 2000. Ndtr.]. Se Abbas abbandona i suoi incarichi dopo aver raggiunto un accordo su un vice presidente di Fatah, un vice presidente dell’OLP e un vice presidente dell’ANP – invece di assegnare i tre incarichi a una sola persona, come è avvenuto da quando è stata fondata l’ANP – allora è probabile che ciò ridurrà il caos.

Gli scenari del dopo-Abbas dipendono anche dal modo in cui se ne andrà, se dando le dimissioni, per malattia o perché assassinato. Quest’ultima ipotesi scatenerebbe la prospettiva peggiore, alla luce della minaccia di Dahlan secondo cui non permetterà ad Abbas di impadronirsi di Fatah impossessandosi del suo settimo congresso. Un altro scenario prevede un’alleanza tra Dahlan e Hamas, benché quest’ultima non dovrebbe concretizzarsi, in quanto Hamas potrebbe capire che la sua ostilità contro Dahlan e l’alleanza di Paesi arabi che lo appoggia (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrain) è maggiore di quella contro Abbas.

I palestinesi hanno molto da temere dal vuoto di potere, che potrebbe dare ad Israele, al Quartetto Arabo [composto dai 4 Stati arabi succitati. Ndtr.], ai takfiri1 e a gruppi estremisti, o ad Hamas e ad altre fazioni palestinesi di sinistra o islamiste, l’opportunità per impadronirsi del potere. I due scenari più probabili sarebbero il controllo da parte di Israele o il ritorno della tutela araba sui palestinesi. Nessuno di questi scenari è auspicabile, soprattutto da quando i Paesi arabi, come l’Arabia Saudita, che cercherebbero di esercitare il proprio controllo, hanno stretti rapporti con Israele ed hanno intensificato la collaborazione con esso per lottare contro il terrorismo, i movimenti takfiri, l’Iran e la Fratellanza Musulmana.

Per scongiurare questi scenari sfavorevoli, i gruppi di sinistra ed altre forze politiche palestinesi, così come la società civile e i gruppi nazionali del settore privato, devono recuperare il discorso sulla liberazione e sui diritti, ridefinire il progetto nazionale e ricostituire il movimento nazionale in modo che si basi su una vera partecipazione politica democratica, con l’obiettivo di tenere elezioni a tutti i livelli. Queste elezioni non dovrebbero essere intese come un mezzo per vincere il conflitto interno, ma piuttosto come una competizione in un contesto unitario.

Il dibattito su questi problemi dovrebbe trascendere quello dei circoli elitari in modo che diventi più accessibile all’opinione pubblica nel suo complesso. Può essere fatto attraverso i media tradizionali e sociali, conferenze popolari e nazionali a livello regionale e nazionale, e possibilmente con petizioni, sit-in e manifestazioni.

Noura Erakat

Mahmoud Abbas controlla un’istituzione – l’ANP – che si riproduce in ognuna delle sue varie parti a prescindere dal capo dello Stato. La sua funzione dipende da finanziatori e controllori esterni, compresi gli Stati Uniti ed Israele, che hanno interesse a lasciarla intatta, soprattutto per la sua funzione amministrativa che riduce il peso quotidiano dell’occupazione mentre contribuisce a contenere il conflitto. In più, il 40% della popolazione palestinese lavora nel settore pubblico e quindi ha interesse nella prosecuzione dello status quo che, benché dannoso per i suoi interessi fondamentali, è al contempo indispensabile per il suo livello di vita e la sua sopravvivenza.

Lo scenario più probabile del dopo-Abbas vedrà un leader ad interim in carica finché potranno essere fissate le elezioni. La maggior parte delle previsioni su un successivo capo di Stato comprende attori ben noti, come Mohammed Dahlan e Jibril Rajoub. Basata sull’appoggio esterno ed interno come sull’ampiezza della minaccia che ha portato contro Abbas e la vecchia guardia di Fatah, la candidatura di Dahlan è realistica quanto terrificante. I passati tentativi di escludere dalle votazioni la Striscia di Gaza e di emarginare le prospettive elettorali di Hamas indicano che una simile scelta si dimostrerebbe estremamente conflittuale.

Gli scenari peggiori riguardano un collasso dell’ANP e la presa del potere da parte di Israele o delle forze rivali di Hamas. Tuttavia é improbabile che Hamas rischi uno scontro diretto con Israele in Cisgiordania, a meno che sia preparata anche ad un’altra escalation nella Striscia di Gaza e una contemporanea offensiva israeliana in Cisgiordania. Ciò è improbabile, a meno che il risultato ridefinisca lo status quo in suo favore, il che è poco plausibile dato il minor appoggio dal basso ad Hamas in Cisgiordania ed il costo di un impegno su due fronti. I dirigenti di Hamas probabilmente insceneranno proteste durante le elezioni e le utilizzeranno per legittimare ulteriormente il loro controllo sulla Striscia di Gaza, piuttosto che fare uso della forza.

Il popolo palestinese ha più da guadagnare che da perdere dal vuoto di potere, in quanto crea l’opportunità per un cambiamento, e un cambiamento strutturale è necessario per ottenere la liberazione dei palestinesi. Una nuova leadership dovrebbe sconfessare le deleterie strutture dell’ANP, dichiarare nullo e vuoto il contesto di Oslo, cessare la cooperazione economica e nel campo della sicurezza con Israele e insistere nel proseguire una lotta di liberazione.

Una simile ridefinizione radicale dipende dalla mobilitazione popolare da parte di un movimento di massa critico. La meticolosa frammentazione legale, politica e sociale della popolazione palestinese operata da Israele ha ostacolato ha formazione di un simile movimento. E’ necessaria una concomitanza imponderabile e imprevedibile di fattori per superare questa frammentazione. La rinuncia di Abbas potrebbe essere uno tra questo insieme di fattori, ma non è sufficiente.

Il cambiamento più probabilmente verrà in ultima analisi da un gruppo di giovani della base che non sia legato all’attuale contesto istituzionale e sia più creativo e meno timoroso riguardo alle prospettive future. Questo gruppo attualmente non esiste, se non in nuce nel panorama palestinese a Iqrit, Haifa, Ramallah, Gerusalemme, Gaza City e Nablus.

Jamil Hilal

Istituzioni nazionali aperte e legittime non si otterranno grazie alle elezioni di un successore di Abbas perché queste istituzioni non stanno funzionando. Il Congresso Nazionale Palestinese (CNP) non è stato operativo dagli accordi di Oslo, e le istituzioni legislative, giudiziarie ed esecutive dell’ANP sono state spaccate politicamente, territorialmente e istituzionalmente dal giugno 2007, quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Fatah, in quanto partito politico di governo, sta sperimentando i propri conflitti interni, con la fazione di Mohammed Dahlan opposta alla dirigenza di Abbas.

Di conseguenza, una piccola elite politica all’interno della dirigenza di Fatah, e non il popolo palestinese nel suo complesso, deciderà chi comanderà dopo Abbas. Senza istituzioni nazionali esistenti che rappresentino le varie comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora, la questione della dirigenza non può essere risolta in modo soddisfacente. Continueranno ad esserci conflitti finché non saranno costituite istituzioni nazionali rappresentative, ma, data la divisione tra Fatah e Hamas, la probabilità di una simile costituzione è remota.

Ogni lotta di potere violenta per la leadership all’interno di Fatah comporterà una maggiore frammentazione politica e geografica e una maggiore intromissione israeliana, regionale e internazionale nelle questioni politiche, economiche e sociali palestinesi.

Il gioco a indovinare chi probabilmente succederà ad Abbas non è giustificato da una preoccupazione per gli interessi nazionali palestinesi, ma dagli interessi israeliani e di quei poteri regionali ed internazionali che sono preoccupati per la propria posizione di potere.

L’attenzione dei palestinesi dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione della loro rappresentanza nazionale su basi democratiche ed inclusive, per includere tutte le comunità palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina storica. La loro preoccupazione dovrebbe essere la lotta per i diritti collettivi del popolo palestinese nel suo complesso, piuttosto che il destino di un individuo o del suo gruppo dirigente. I palestinesi devono ricostituire l’influenza e la posizione palestinese sotto forma di istituzioni, associazioni, visioni e strategie che non scelgano solo i dirigenti politici ma anche quelli delle comunità. Questi dirigenti dovrebbero cercare di unificare tutti i palestinesi nella lotta per la libertà, la dignità, il diritto al ritorno e l’autodeterminazione. Qualunque altro sforzo è semplicemente un diversivo o un miraggio.

Sam Bahour

Quando nel 2004 è morto Arafat, la Legge Fondamentale Emendata della Palestina – l’equivalente di una costituzione – è stata rispettata: il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP) e il suo presidente hanno assunto il potere per 60 giorni finché si sono tenute le elezioni. Oggi, dato che non c’è un CLP in funzione e il suo presunto presidente è di Hamas, è probabile che questa legge non verrà rispettata. Semmai verranno invocate “misure straordinarie” per mantenere il controllo. Ciò potrebbe significare che il Comitato Centrale di Fatah deciderà e ricorrerà al Comitato Esecutivo dell’OLP, controllato da Fatah, per mettere in atto la decisione. Le altre fazioni dell’OLP, avendo perso ogni influenza di secondo livello che una volta avevano, potrebbero opporsi a questa decisone, ma ciò determinerebbe uno scontro con i burocrati, che oggi ne certificano l’esistenza politica. Dato che Fatah è molto divisa, non è chiaro se sarà in grado di accordarsi su una singola personalità o su un meccanismo per svolgere il ruolo di comando. Per soddisfare progetti personali in conflitto, potrebbe verificarsi una divisione dei compiti tra i capi dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’OLP.

I timori per il futuro sono molti. Il principale è il timore di ingerenze regionali o internazionali nelle decisioni nazionali. I palestinesi ne hanno già fatto esperienza negli anni scorsi e queste ingerenze potrebbero avere effetti devastanti se verrà loro permesso di aggravarsi o incrementarsi. Un altro timore è che la dirigenza dell’ANP possa tentare di impossessarsi del potere, date le sue risorse, il riconoscimento internazionale e le forze di sicurezza. Un’altra preoccupazione è che uno dei capi delle forze di sicurezza possa tentare di prendere il controllo politico; tuttavia ciò non è probabile poiché nessuna delle forze di sicurezza è autosufficiente. Per ultimo c’è il rischio che Israele piazzi uno dei suoi agenti nel ruolo di comando. Un’altra e più probabile azione di Israele potrebbe essere dichiarare Gaza come Stato palestinese e rafforzare ulteriormente la presenza israeliana in Cisgiordania, forse con una totale annessione. Se Israele scegliesse questo approccio e Hamas a Gaza fosse disponibile a questa iniziativa, l’attuale divisione sarebbe irrimediabile.

Per garantire quel poco di rappresentatività che rimane nel sistema politico palestinese e per contrastare le minacce succitate, i palestinesi devono chiedere due azioni immediate: 1) che Abbas convochi elezioni per reinsediare il CLP, con la consapevolezza che, pur solo i palestinesi della Cisgiordania, potrebbe rapidamente essere operativo ed avere una qualche legittimazione popolare2; 2) che il Comitato Direttivo provvisorio dell’OLP, che comprende tutta l’OLP come anche le fazioni nazionali, sia convocato con il mandato di consentire la formazione e il riconoscimento di nuovi partiti politici. Ciò potrebbe fissare un percorso per ridefinire il sistema politico palestinese attraverso una rappresentanza proporzionale per mezzo dell’organo più importante dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP).

Jaber Suleiman

Avremo probabilmente a che fare con due principali scenari del dopo-Abbas. Il primo è il caos. L’uscita di scena di un presidente che ha monopolizzato il processo decisionale, così come l’incapacità del sistema politico palestinese di rinnovare la propria legittimità scaduta, minaccia di rendere questa lotta per il potere non un disaccordo politico, ma uno scontro interno e un’ulteriore divisione. Tale situazione probabilmente provocherà una completa separazione delle due autorità a Gaza e a Ramallah, e divisioni ancora maggiori in Cisgiordania, con Hamas che controlla la sua parte meridionale. Le ingerenze arabe e regionali, soprattutto da parte del Quartetto Arabo, aggiungerebbero altra confusione. Anche Israele, che è interessato a confermare le sue asserzioni secondo cui i palestinesi sono incapaci di governarsi da soli e indegni di un’autorità autonoma, per non parlare di uno Stato, potrebbe avere un ruolo.

Questo scenario potrebbe culminare nel collasso dell’ANP e provocherebbe un’ondata di migrazioni o di spostamenti verso la Giordania [Easta Bank nel testo originale]. Questo spostamento di popolazione con ogni probabilità rilancerebbe progetti come lo schema di Shimon Peres di condivisione del governo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con Giordania ed Egitto, ma in una nuova forma in cui l’ANP/OLP sostituirebbe Giordania ed Egitto. Una simile prospettiva avrebbe un impatto disastroso sull’unità della collettività palestinese in Libano, soprattutto a causa del fatto che i palestinesi in quel Paese a stento sono riusciti a evitare le conseguenze della divisione tra palestinesi e ad appoggiare un progetto nazionale unitario che riguardi i diritti inalienabili dei palestinesi, oltre alla loro lotta per i diritti umani fondamentali in Libano.

Il secondo scenario sarebbe una transizione pacifica del potere attraverso una dirigenza nazionale ad interim, accettata in seguito ad un accordo di riconciliazione come quello del Cairo. Questa dirigenza dovrebbe modificare i rapporti tra l’OLP e l’ANP, dato che l’ANP è uno strumento dell’OLP e non viceversa. E avrebbe la necessità di realizzare una riforma realmente democratica delle strutture dell’OLP, soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese, così come riguardo ai rapporti dell’ANP con lo Stato e i meccanismi del processo decisionale dell’ANP.

Israele ed alcuni partiti arabi avverserebbero questa prospettiva perché vorrebbero piuttosto controllare la “carta” palestinese. Quindi ciò non solo richiede la volontà politica di tutte le fazioni nazionali, soprattutto Fatah e Hamas, ma anche la mobilitazione della “maggioranza silenziosa” palestinese, cioè di tutti gli ambiti nazionali popolari in Palestina e nella diaspora. L’obiettivo sarebbe di riunire un blocco sociale di questa maggioranza in grado di esercitare pressione sulle fazioni in modo che scelgano una transizione pacifica e ricostruiscano il sistema politico e le sue istituzioni nazionali su basi democratiche.

Diana Buttu

Dopo Abbas, sono possibili vari scenari: una transizione pacifica del potere attraverso il presidente del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP); una lotta di potere tra singole personalità all’interno di Fatah o nell’OLP, che culmini in una molteplicità di “leader”; un vuoto di potere finché si organizzino e si tengano elezioni. Dato il caos che Abbas ha determinato, e la concomitante confusione nei partiti politici palestinesi, è improbabile che vengano organizzate elezioni in breve tempo.

I leader palestinesi dovrebbero attivarsi per una riconciliazione con Hamas e fare accordi per una ANP/OLP del dopo-Abbas che porti avanti una strategia per la liberazione della Palestina e inizi a rappresentare i palestinesi che vivono in Israele. Questa strategia vedrebbe nuovi dirigenti che annullino i disastrosi effetti degli accordi di Oslo, rendendo Israele responsabile delle sue azioni e costruendo strategie dal basso per rafforzare, piuttosto che semplicemente “gestire”, l’ANP.

Lo spettro politico e la società civile palestinese potrebbero anche utilizzare il cambiamento di leadership per ricostruire l’OLP in modo che sia rappresentativa della società palestinese ed anche del suo cambiamento generazionale. Tale strategia significherebbe anche capitalizzare la forza del popolo palestinese nel suo complesso e dei suoi movimenti e porre fine a inutili negoziati bilaterali. Come primo passo la Palestina deve rompere il giogo del ricatto finanziario che attualmente lega l’ANP/OLP a questi negoziati bilaterali. Oltre a ciò, coinvolgendo i palestinesi di Israele, l’OLP potrebbe finalmente iniziare a diventare rappresentativa di tutti i palestinesi, piuttosto che aderire solo formalmente a questa inclusione, mentre in realtà marginalizza i palestinesi che non vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un vuoto di potere sarebbe un grave diversivo dal concentrarsi su questa strategia ed è certamente il sogno di Israele, permettendogli di dividere, conquistare ed usare il periodo di caos per costruire altre colonie.

Wajjeh Abu Zarifa

Se Abbas rimane al potere a breve termine, il primo scenario possibile è tenere elezioni presidenziali e legislative in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme come deciso nell’accordo del Cairo. Tuttavia questa eventualità è improbabile alla luce delle profonde divisioni e della diffidenza tra Fatah e Hamas. Il secondo scenario è tenere le elezioni presidenziali e legislative quando possibile, e se Gaza dovesse boicottarle, le elezioni sarebbero organizzate in Cisgiordania. Anche questa è un’ipotesi improbabile, in quanto approfondirebbe le divisioni e accentuerebbe le probabilità di una secessione. Oltretutto Israele non acconsentirebbe a tenere le elezioni a Gerusalemme, il che favorirebbe la separazione di Gerusalemme.

Se Abbas si dimettesse, ci sarebbe una serie di possibili scenari, compreso che il presidente della Corte Costituzionale diventi il presidente dell’ANP fino alle elezioni, o che la presidenza dell’ANP venga assegnata al Comitato Esecutivo dell’OLP, con il segretario dell’OLP come presidente interinale. C’è anche un’ipotesi che è più pratica e logica, benché non sia costituzionale o legale: il primo ministro, nelle sue funzioni di capo del potere esecutivo, assume i poteri del presidente dell’ANP. Le elezioni presidenziali e legislative si tengono entro 60 giorni e necessitano del consenso nazionale. Tuttavia, una simile prospettiva, benché sia la più logica, è praticamente impossibile date le attuali divisioni.

Quindi tutte le forze politiche devono essere invitate a un dialogo serio per mettere a punto i meccanismi necessari per superare le attuali divisioni, attuare l’accordo del Cairo e tenere elezioni presidenziali e legislative prima che Abbas dia le dimissioni. I palestinesi hanno anche bisogno di convocare la struttura della dirigenza provvisoria dell’OLP e il comitato incaricato di riformare l’OLP per ripristinare il Consiglio Nazionale Palestinese e tenere una seduta, riunendo tutti i partiti, comprese Hamas e la Jihad Islamica. Devono essere formati il Comitato Centrale dell’OLP e il Comitato Esecutivo e nominato un nuovo presidente. A più lungo termine i palestinesi devono consolidare lo Stato di Palestina riconosciuto dall’ONU creando un’assemblea costituente composta da membri del Comitato Centrale, del Consiglio Legislativo, del governo e del Comitato esecutivo per stilare una costituzione palestinese ed eleggere un presidente.

Note:

  1. Takfir è accusare una persona di essere un infedele ed è diventata un’ideologia fondamentale dei gruppi militanti (vedi ad esempio Oxford Islamic Studies e Le Monde Diplomatique)

  2. Haytham Al-Zubi ha proposto quest’ipotesi di accordo in un editoriale del 2013. Vedi “Calm Constitutional Advice to the Palestinian President,” Al-Quds, 20 luglio 2013.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I crescenti attacchi israeliani contro civili a Gaza mettono a rischio il cessate il fuoco in vigore da due anni.

Ben White, 8 settembre 2016 Middle East Monitor

Esprimendo preoccupazione che tale violenza possa mettere a rischio l’attuazione del cessate il fuoco che ha posto fine all’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, un’informativa delle Nazioni Unite ha rivelato che nel secondo trimestre del 2016 l’esercito israeliano ha significativamente incrementato gli attacchi contro civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

Nel periodo da aprile a giugno vi sono state in media più di 90 sparatorie al mese da parte delle forze armate israeliane nelle cosiddette zone ad accesso limitato (ARA) – circa 60 a terra e 30 in mare. Si tratta di oltre il doppio della media corrispondente a gli ultimi 6 mesi del 2015.

Le forze israeliane hanno attaccato da molto tempo agricoltori, pescatori ed altri civili nelle ARA di Gaza. Come ha riportato l’ONU a luglio, le limitazioni all’accesso imposte unilateralmente da Israele sono “applicate facendo fuoco con proiettili letali direttamente o con spari di avvertimento, con la distruzione di proprietà, arresti e confisca di attrezzature.”

Presentando gli ultimi dati in un aggiornamento trimestrale pubblicato il mese scorso, l’Ufficio per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie dell’ONU (OCHA) nei territori palestinesi occupati (OPT) ha definito “l’uso della forza da parte di Israele” nelle ARA “una particolare fonte di preoccupazione”.

Secondo James Heenan, capo dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU nei territori palestinesi occupati, “ci sono quasi quotidianamente episodi in cui le forze israeliane sparano a Gaza, causando spesso feriti o anche morti e distruzioni di proprietà.”

Nella maggior parte dei casi, ha detto Heenan a Middle East Monitor, “non ci sono indicazioni che le forze israeliane fossero di fronte a una minaccia imminente tale da giustificare il livello di forza impiegato, incluso l’uso di armi da fuoco. Spesso le vittime sono contadini, pescatori, bambini e manifestanti.”

Il 3 aprile le autorità israeliane hanno annunciato un ampliamento della zona con permesso di pesca dalla costa sud di Gaza da 6 a 9 miglia (da notare che gli Accordi di Oslo prevedevano un limite di 20 miglia). Comunque il 26 giugno, meno di tre mesi dopo, è stato nuovamente imposto il limite di 6 miglia.

Secondo l’OCHA a luglio sono stati arrestati ed imprigionati più di 90 pescatori, “il numero più alto all’anno da quando, nel 2009, si è iniziato a tenere il conto.” In nove giorni di agosto, per esempio, le forze israeliane hanno attaccato pescatori palestinesi in sei diverse occasioni (il 21, 23, 25, 27, 28 e 29 agosto).

Intanto, a maggio, è stato comunicato che l’esercito israeliano avrebbe permesso ai contadini di accedere alle terre vicine alla barriera di confine, sotto il controllo del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Dal 2014 l’ICRC aiuta i contadini di Gaza a recuperare la terra e a garantirsi l’ accesso.

Mentre alcuni contadini hanno certamente beneficiato di questo, un portavoce dell’ICRC di Gerusalemme ha rifiutato di commentare i continui attacchi israeliani nelle ARA, dicendo che “tutte le questioni che suscitano preoccupazione sono affrontate come parte del nostro dialogo riservato e bilaterale con tutte le parti in conflitto.”

Come ha detto recentemente un agricoltore agli attivisti: “I miei terreni sono relativamente vicini alla barriera, perciò io non posso metterci piede dalle 6 del pomeriggio alle 6 di mattina senza che mi sparino addosso. Cosa ci posso fare se l’elettricità non c’è prima delle 6 del pomeriggio? Devo lasciare la mia terra senz’acqua, rischiando di perdere il raccolto.”

La violenza usata dalle forze israeliane contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza non è quasi per niente citata dai media occidentali di lingua inglese. La maggioranza degli attacchi a pescatori, contadini e manifestanti non viene nemmeno menzionata.

.Comunque questi attacchi non possono essere separati dal più vasto scenario della Striscia di Gaza, compresa la dimensione della “sicurezza”, che è tipicamente intesa da giornalisti, analisti e politici in termini di lancio di razzi [da parte dei palestinesi] e reazioni militari israeliane.

Secondo Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas a Gaza, Hamas considera l’impiego metodico della violenza contro i palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ARA come una violazione del cessate il fuoco del 2014. “Hamas registra tutte le violazioni ed aggiorna regolarmente i garanti regionali del cessate il fuoco”, ha dichiarato.

Inoltre, ha aggiunto Barhoum, questi attacchi delle forze israeliane “mettono a rischio lo status quo.”

“Ogni volta Hamas discute ciò che accade con le altre fazioni palestinesi, che valutano insieme quale sia la risposta migliore alla violazione israeliana in questione; se il silenzio, la condanna, l’avvertimento, il lancio di razzi a breve gittata, piazzare cecchini ai confini, ecc.”

Quindi, oltre al costo per contadini e pescatori della politica israeliana di imporre una “zona interdetta” all’interno di Gaza, questi attacchi, che sono chiaramente in aumento, rischiano anche di minare ulteriormente un accordo di cessate il fuoco che ha portato “tranquillità” per Israele, ma nulla di simile per i palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi temono che Abbas stia sempre più diventando un dittatore

di Amira Hass

11 novembre 2016 Haaretz

La Corte Costituzionale Palestinese ha stabilito che il presidente palestinese Mahmoud Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese (Parlamento provvisorio nei territori occupati,ndtr.), consentendogli così di emarginare i suoi rivali.

Un accademico della Striscia di Gaza ha scritto su Facebook in risposta alla vittoria elettorale di Trump: “Come primo provvedimento, Trump ordinerà di redigere dei rapporti di sicurezza riguardo ai traviati del suo partito che hanno votato per Clinton, e istituirà una corte costituzionale pronta ad eliminare i membri che non hanno votato per lui.”

Il palestinese comune non ha difficoltà a cogliere la frecciata. Il presidente Mahmoud Abbas ha condotto per anni un’epurazione e una campagna per tacitare coloro che considera sostenitori di Mohammed Dahlan (dirigente di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione, ndtr.), o che dissentono dalla linea ufficiale del partito. Persino Nikolay Mladenov, coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, ha fatto allusione in pubblico ai tentativi di Abbas di mettere a tacere (gli avversari).

Mercoledì sera si è tenuta a Ramallah una cerimonia solo su inviti per l’ inaugurazione del museo “Yasser Arafat”. Il museo ha aperto al pubblico ieri (10 novembre, ndtr.), nel 12^ anniversario della morte di Arafat. Mladenov, che era tra i relatori, ha sottolineato le tappe fondamentali della vita del “leader che ha trasformato i rifugiati in una nazione.”

Era un uomo che rispettava le opinioni dei suoi avversari”, ha detto. Giusta o sbagliata che sia, questa affermazione è in linea con il modo in cui l’OLP e Fatah ricordano Arafat, quando mettono a confronto la sua leadership con quella di Abbas.

Il 3 novembre la Corte Costituzionale palestinese ha stabilito che Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese, permettendogli così di emarginare i suoi rivali. Nel breve termine questo significa la conferma dell’ordine di Abbas del 2012 di revocare l’immunità parlamentare a Dahlan.

La Corte Costituzionale non interveniva in ambito legislativo dal 2006. La vibrata protesta dei suoi membri e dei gruppi palestinesi per i diritti umani contro questa sentenza non deriva dalla preoccupazione per la reputazione e per la sorte di Dahlan. Egli, che era negli anni ’80 un focoso attivista contro l’occupazione e capo delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, si è trasformato in un uomo d’affari con interessi globali. Se le voci sono vere, Dahlan spende decine di milioni di dollari per garantirsi la fedeltà dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza e la loro opposizione alla fazione di Abbas.

I contestatori vedono la sentenza della corte come un altro passo nella direzione di quella che sembra essere la strategia di Abbas verso un regime dittatoriale.

La legge istitutiva della Corte Costituzionale è stata emanata nel 2003, al fine di esprimere pareri ed interpretare norme costituzionali poco chiare in caso di disaccordo tra l’autorità esecutiva e legislativa.

Nel gennaio 2006, alla vigilia della vittoria elettorale di Hamas, quando Abbas era già presidente, la legge è stata drasticamente modificata. Sono state revocate la partecipazione della Corte Costituzionale nella nomina dei giudici e l’autorità della Corte nel monitorare e supervisionare l’attività del presidente. Ciononostante la Corte Costituzionale è rimasta inattiva, perché nessun giudice è stato nominato.

Lo scorso aprile sono stati nominati nove giudici della Corte Costituzionale. Le nomine sono state immediatamente contestate da 18 gruppi palestinesi per i diritti umani, che denunciavano che tutti i giudici erano membri di Fatah o vicini ad essa. Hanno anche sostenuto che, benché i giudici dovessero ricevere il mandato da parte dei vertici dei tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), lo hanno ricevuto in assenza di quello legislativo.

In un’ulteriore dichiarazione diffusa questa settimana, le stesse organizzazioni per i diritti umani hanno contestato la sentenza della Corte che autorizza il presidente a revocare l’immunità ai membri del Consiglio Legislativo. Sostengono che la Corte (prima di diventare la Corte Costituzionale) ha affermato che la Legge Fondamentale Palestinese ( costituzione provvisoria in attesa di uno stato palestinese, ndtr.) non è superiore alle altre leggi. Hanno anche detto che lo stato di emergenza, in base al quale l’ANP ha operato a partire dal 2007, conferisce al presidente poteri quasi illimitati.

Un membro di una delle organizzazioni ha detto che questi passi segnalano una tendenza verso una Corte sottomessa al potere esecutivo. Ha affermato che, sulla base della bozza di costituzione dello “Stato di Palestina”, che è stata emanata pochi mesi prima dell’insediamento della Corte Costituzionale, l’obiettivo è autorizzare questa Corte a decidere chi sarebbe nominato nelle funzioni di presidente, se dovesse morire quello in carica.

Allo stato di cose presente, questo significa una sola cosa, impedire che il portavoce del Consiglio Legislativo Palestinese Aziz Dweik, di Hamas, diventi presidente ad interim, come stabilito dalla Legge Fondamentale dell’ANP. Ma la decisione consentirà anche di revocare l’immunità ad altri parlamentari critici verso il governo palestinese. Anche se la loro immunità non venisse revocata, la sentenza produrrebbe comunque un effetto che potrebbe mettere a tacere le critiche.

Questa settimana un giornalista palestinese ha osato scrivere su Facebook: “Il sogno palestinese è svanito ed è iniziato l’incubo. Il sogno di uno stato palestinese indipendente è scomparso, perché il potere politico ha trasformato il progetto nazionale in un progetto personale e di parte.”

E’ una dimostrazione di coraggio, in un momento in cui, secondo quanto riferito da fonti palestinesi, le forze di sicurezza palestinesi stanno arrestando gli autori di post critici.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lieberman: La prossima guerra di Gaza sarà l’ultima

Middle East Monitor – 24 ottobre 2016

Nota redazionale .Un’intervista a un personaggio dell’estrema destra israeliana che non promette niente di buono. Anche se poi cerca di vestire i panni del politico con la ricetta per risolvere il conflitto israelo-palestinese.  Abbiamo ritenuto utile pubblicarla per dovere di informazione.

 

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

L’intervista in sé è stata oggetto di critiche, in quanto alcuni palestinesi hanno sostenuto che il giornale non avrebbe dovuto concedere a Lieberman una tribuna per le sue idee.

Lieberman ha sostenuto che “non abbiamo nessuna intenzione di scatenare una guerra con i nostri vicini nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria.” Ma, ha aggiunto, “nella Striscia di Gaza c’è l’intenzione di eliminare lo stato di Israele, proprio come gli iraniani.”

Ed ha continuato. “Anche se non intendiamo dare inizio ad un nuovo conflitto con loro (nella Striscia di Gaza), se scatenano una nuova guerra contro Israele, sarà per loro l’ultima guerra. Voglio ribadire che sarà la guerra finale per loro perché noi li distruggeremo completamente.”

L’ampia intervista ha toccato una quantità di argomenti, compresa l’idea di Lieberman di un rapporto permanente con i palestinesi.

Lieberman ha affermato di aver “ accettato la soluzione dei due stati e sostengo personalmente questa soluzione”, ma “il problema sta nella….leadership palestinese.” Ha poi aggiunto: “Io non credo in una efficace occupazione e penso sia meglio per i due popoli essere separati.”

Approfondendo ciò che intende con soluzione dei due stati, Lieberman ha detto: “Credo che il giusto criterio non sia terra in cambio di pace; io preferisco lo scambio di terra e abitanti.” Nello specifico, Lieberman ha dichiarato che importanti colonie illegali, quali “Ma’ale Adumim, Giv’at Ze’ev, Gush Etzion e Ariel [le prime due a Gerusalemme est, la terza a sud di Gerusalemme nei pressi del confine con la Cisgiordania, Ariel in mezzo alla Cisgiordania. Ndtr]”, saranno “parte di Israele in ogni tipo di soluzione.”

Al contempo, in base al piano di Lieberman, i cittadini palestinesi di zone come Umm el-Fahm [città arabo israeliana di 45.000 abitanti che si trova vicino alla Cisgiordania. Ndtr.] si troverebbero all’interno di un futuro stato palestinese; “questa gente si definisce palestinese,” perciò “lasciamo che siano palestinesi”, ha detto. “Ci saranno due patrie”, ha affermato, “una ebrea e una palestinese, e non uno stato palestinese ed uno stato binazionale.”

Alla luce del fatto che “è difficile convincere palestinesi ed israeliani ad arrivare ad un accordo su uno status definitivo”, Lieberman pensa che “il primo passo per convincere il popolo che questo è possibile potrebbe consistere in un drastico miglioramento della situazione economica e nella lotta alla disoccupazione, alla povertà e alla frustrazione tra i palestinesi.”

Al contempo, agli israeliani “dobbiamo garantire sicurezza ed assenza di terrorismo e spargimenti di sangue per un determinato periodo di tempo.” Secondo Lieberman, soltanto dopo “tre anni di vero progresso economico per i palestinesi e tre anni senza terrorismo e vittime israeliane” sarà possibile ” creare un clima di fiducia.”

Lieberman, lui stesso un colono della Cisgiordania, ha detto al giornale: “Ho molti vicini palestinesi e parlo con la gente comune, come gli agricoltori, non con la leadership politica.”

Negli ultimi quattro mesi ho incontrato parecchi palestinesi, soprattutto uomini d’affari, e sono stati incontri piacevoli. Ho chiesto loro quale fosse il maggiore ostacolo allo sviluppo dell’economia e mi hanno detto apertamente che il maggiore intralcio è rappresentato da Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e dalla sua cerchia.

Lieberman ha detto ad Al-Quds che c’è bisogno di “ripartire da zero” e che quindi “dobbiamo anzitutto costruire la fiducia tra i due campi, non tra i leader, ma tra la gente.” Ha aggiunto: “Il problema è che non c’è fiducia tra i due popoli ed un rapporto solamente tra i leader non è sufficiente. Noi abbiamo bisogno di più sicurezza e i palestinesi di più benessere.”

Riferendosi alla Striscia di Gaza, Lieberman ha detto che Israele “ha intenzione di approvare i progetti della Turchia per elettricità, acqua, desalinizzazione e depurazione.” Secondo il ministro della difesa, “il problema è che Hamas ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari da quando è andato al potere e, invece di investirli in impianti di energia e in infrastrutture idriche, li ha investiti in armi.”

Alla domanda se fosse intenzionato a parlare con Hamas, Lieberman ha risposto: “Non posso parlare con qualcuno che ogni giorno fa dichiarazioni che dicono noi vi odiamo, vogliamo distruggervi, cancelleremo Israele dalla carta geografica, vi getteremo in mare, ecc.”

Ha aggiunto che “prima che Hamas prendesse il controllo, Gaza era aperta” e che “c’era un passaggio sicuro tra Gaza e la Giudea e Samaria (la Cisgiordania).” Ha poi continuato: “Quando vedremo che la smetteranno con i tunnel e i razzi, noi saremo disposti ad aprire le aree industriali a Erez e Karni. Vogliamo anche investire nel porto e nell’aeroporto.”

Riguardo agli sviluppi nella regione, Lieberman ha dichiarato: “Non abbiamo alcuna richiesta o rivendicazione da parte dei nostri vicini. Abbiamo dato il Sinai all’Egitto, abbiamo un trattato di pace con la Giordania e relazioni diplomatiche con il Libano e non abbiamo rivendicazioni.”

Ha aggiunto: “La primavera araba o l’inverno arabo hanno completamente modificato la situazione nel mondo arabo e noi non abbiamo avuto niente a che vedere con tutto questo. Il 99% di tutte le vittime e il bagno di sangue si verifica tra gli stessi musulmani e non con gli israeliani.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Perché Israele sta inasprendo il blocco di Gaza?

di Ben White

Middle East Monitor 21 ottobre 2016

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Anche prima delle ulteriori recenti restrizioni, il blocco israeliano – una politica illegale di punizione collettiva secondo le parole del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon – stava continuando a danneggiare gravemente la vita dei due milioni di abitanti di Gaza, accentuando il processo di de-sviluppo nell’enclave.

Nell’aprile di quest’anno l’ONU ha affermato chiaramente che il passo più urgente necessario per la ricostruzione di Gaza rimaneva “la fine delle restrizioni (israeliane) sull’importazione di materiale da costruzione, nella prospettiva di una conclusione completa del blocco.” Invece le cose sono andate in senso opposto.

In luglio il giornale israeliano Haaretz ha informato che ” sono state inasprite le restrizioni contro i palestinesi che cercano di partire dalla Striscia di Gaza e sulle importazioni consentite nel territorio”, compreso il divieto imposto a “certi uomini d’affari di importare le loro merci a Gaza.

I dati dell’ONU confermano che il blocco si è inasprito in luglio, mentre in agosto solo 110 camion di prodotti sono usciti da Gaza, meno della metà di quelli di gennaio (e il 14% di quelli del 2005). Anche agosto ha mostrato il livello più basso da sette anni del tasso di pareri favorevoli israeliani per la concessione di permessi a pazienti di lasciare Gaza e per essere curati.

Poi a settembre l’ong israeliana Gisha [che si occupa di difendere la libertà di movimento dei palestinesi, soprattutto di Gaza. Ndtr.] ha pubblicato statistiche che mostrano che “1.211 gazawi sono stati convocati al valico di Eretz per interrogatori su questioni relative alla sicurezza durante la prima metà dell’anno”- circa 2,5 volte il numero di persone interrogate durante lo stesso periodo un anno prima.

All’inizio di ottobre un alto funzionario della Camera di Commercio ed Industria di Gaza ha descritto l’attuale situazione come “la peggiore di sempre”. Il 13 ottobre il funzionario dell’ONU Nickolay Mladenov ha messo in guardia “quanti pensano che sia possibile punire la Striscia di Gaza e mantenerla sotto assedio.”

Nel frattempo, tuttavia, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha dato istruzioni all’esercito israeliano di inasprire il blocco, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti “beni con un doppio uso [cioé civile e militare. Ndtr.]” soggetti a restrizioni. Secondo Gisha, questa lista “include prodotti il cui uso è eminentemente civile ed essenziale per la vita dei civili.”

Oltre a quanto detto finora, un alto funzionario dell’ONU ha descritto di recente come “le condizioni siano diventate molto più difficili” per le “la comunità umanitaria”. In gennaio è stato rigettato il 3% delle richieste di permesso per entrare in Israele da Gaza da parte dei suoi dipendenti palestinesi; in agosto questa percentuale è salita al 65%.

Questa settimana alle sue parole ha fatto eco il direttore operativo dell’UNRWA [agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. Ndtr.] a Gaza, Bo Schack, che a sua volta ha scritto un editoriale in cui ha auspicato la fine del blocco. Parlando al telefono con me, Schack ha confermato che le restrizioni israeliane all’ingresso di cemento stanno ritardando i tempi della ricostruzione.

Secondo Schack, 400 famiglie le cui abitazioni devono ancora essere ricostruite stanno tuttora aspettando l’approvazione (come parte del “Meccanismo di Ricostruzione di Gaza” [accordo temporaneo, appoggiato dall’ONU, tra il governo palestinese e quello israeliano. Ndtr.]). Oltretutto negli ultimi 6 mesi, fino a maggio di quest’anno, “non abbiamo ricevuto nessun permesso per nessuno dei casi che abbiamo presentato”, ha detto Schack.

Il funzionario dell’ONU, che si trova a Gaza, ha anche affermato che, insieme all’ “incremento delle restrizioni sui palestinesi a Gaza”, ci sono anche “maggiori restrizioni di movimento del personale dell’ONU – in misura molto maggiore di quanto fosse prima.”

Ai commercianti e agli operatori umanitari di Gaza possiamo ora aggiungere importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la recente notizia che lo Shin Bet ha annullato i permessi di uscita permanenti per 12 dei 14 responsabili per la mediazione tra i civili palestinesi e le autorità israeliane. In altre parole i funzionari incaricati di garantire i permessi di uscita hanno perso i loro permessi di uscita.

Numerosi osservatori hanno sostenuto che Israele non ha intenzione di iniziare una nuova offensiva contro la Striscia di Gaza, per lo meno a breve termine, e che Lieberman, ora che occupa il ministero della Difesa, ha moderato, se non cambiato, il suo atteggiamento, la precedente aggressività e la promessa di abbattere il regime di Hamas a Gaza.

Ma cosa spiega le evidenti misure restrittive? Non è che le conseguenze del blocco siano un grande mistero. Pare che le stesse “istituzioni per la sicurezza” israeliane siano preoccupate dell’ “instabilità” a Gaza, facendo riferimento a una crescente crisi di Hamas ed a impressionanti livelli di povertà.

Un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese ritiene che Lieberman, annullando i permessi di uscita da Gaza di 12 funzionari, stia mettendo in atto la sua preannunciata politica di interruzione della comunicazione israeliana con le istituzioni rette da Mahmoud Abbas e di “creazione di rapporti diretti con gli abitanti palestinesi.”

Amira Hass, scrivendo questa settimana del rifiuto dei permessi di uscita per i palestinesi di Gaza, ha affermato con sferzante sarcasmo che lo Shin Bet “mi vuole convincere che una donna banchiere è diventata pericolosa e che lo è diventato anche un adolescente con il cancro, che è stato curato in Israele fin dall’infanzia e ora ha bisogno di un trapianto di mascella ad Haifa.”

Lo Shin Bet sa che “tutto ciò è insensato”, ha scritto Hass. Ma cosa c’è dietro? “Non abbiamo bisogno di aspettare che gli archivi vengano aperti per rispondere alla nostra domanda iniziale,” sostiene. “Lo Shin Bet e i suoi responsabili sono interessati ad un altro terribile spargimento di sangue – perché la Striscia di Gaza non obbedisce ai suoi ordini e continua a rimanere parte della società e della geografia palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’arte dell’occupazione, secondo il generale israeliano Gadi Shamni

Nota redazionale: i redattori di Zeitun hanno deciso di proporre ai propri lettori questa lunga intervista al generale Gadi Shamni pur non condividendone i punti di vista espressi, sia riguardo ad alcuni personaggi citati nell’articolo, sia in generale sul ruolo dell’esercito israeliano nei Territori palestinesi occupati e sul suo modo di agire nei confronti della popolazione civile palestinese.

Non solo egli ha partecipato alla sanguinosa operazione militare in Libano del 2006 (più di 1.000 civili libanesi uccisi), in cui sono stati commessi crimini di guerra denunciati dalle organizzazioni dei diritti umani ed usato fosforo bianco in zone abitate. Le costanti violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano non corrispondono alla rivendicazione di moralità sostenuta dall’intervistato. Il tentativo di assolvere l’esercito israeliano da ogni responsabilità riguardo alle violazioni dei diritti dei palestinesi, e dei civili di altri Paesi arabi, si scontra con molti casi che dimostrano il contrario.

Quanto a Ya’alon, che secondo Shamni è una persona di” integrità indiscutibile ” e “onesta”, ha definito “un cancro” i palestinesi, un “virus” l’associazione israeliana “Peace Now” e John Kerry “messianico ed ossessivo” per i suoi tentativi di riprendere i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi; ha sostenuto un progetto per la segregazione tra palestinesi e coloni israeliani sugli autobus, la ripresa della colonizzazione nonostante gli impegni presi dal suo governo con Obama e l’uso della bomba atomica contro l’Iran. Per il suo ruolo di generale nell’esercito è stato più volte accusato di corresponsabilità in crimini contro l’umanità, anche per la strage di Qana, in cui venne bombardata una struttura dell’ONU dove avevano trovato rifugio civili libanesi, con un bilancio di 106 morti e centinaia di feriti.

Tuttavia riteniamo che sia significativo che persino un personaggio come Shamni si esprima in termini quanto meno problematici su alcune questioni cruciali della politica e della società israeliane, sull’influenza di gruppi di fanatici estremisti nel e sul governo israeliano, in primo luogo riguardo all’occupazione dei territori palestinesi.

Dopo 35 anni di servizio militare, il generale di divisione (ritirato) Gadi Shamni, autodefinitosi “generale dell’occupazione”, loda la moralità dell’esercito e accusa i politici per l’impasse tra israeliani e palestinesi. Egli dice che ci sono una soluzione e una controparte, ma prima Israele si deve liberare dalla stretta degli estremisti.

di Carolina Landsmann

Haaretz – 15 ottobre 2016

Lo scalpore mediatico a proposito dei commenti del generale di divisione dell’esercito israeliano (ritirato) Gadi Shamni in agosto – “Abbiamo portato l’occupazione al livello di un’arte. Siamo i campioni mondiali dell’occupazione”- è durato appena due giorni. Parlando di se stesso, Shamni ha aggiunto: “Sono stato il generale del Comando Generale [che comprende la Cisgiordania]. Generale dell’occupazione” (in ebraico, la parola “aluf” significa sia “campione” che “generale di divisione”). Ci sono state persone che si sono infuriate, che si sono dissociate dalle sue considerazioni, che lo hanno criticato – anche se qualcuno si è detto d’accordo. Ma il polverone si è rapidamente calmato. Apparentemente l’opinione pubblica si è ormai abituata a queste esternazioni.

“Qualcosa delle posizioni del capo dei servizi di sicurezza del Mossad [agenzia israeliana di spionaggio all’estero. Ndtr.] e dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna israeliano. Ndtr.] li trasforma in gente di sinistra,” ha detto recentemente il capogruppo della coalizione di governo, deputato David Bitan (del Likud). Shamni ha sorriso tranquillamente a questa affermazione, ma Bitan troverà probabilmente meno da ridere quando sentirà quello che Shamni ha da dire ora.

“La stragrande maggioranza dei quadri dirigenti del sistema di difesa pensa che ci stiamo muovendo in una direzione molto problematica rispetto ai palestinesi,” mi ha detto di recente, mentre ci trovavamo in una piccola stanza negli uffici dell’ “Israel Aerospace Industries” [“Industrie Aerospaziali di Israele”, impresa statale in cui lavorano molti ex-militari. Ndtr.], dove Shamni occupa il ruolo di vice presidente esecutivo della divisione “Sistemi di terra”. “Per ogni 50 persone che la pensano come me, ne troverà [solo] uno o due che sposi un’opinione diversa.”

Come lo spiega?

“Abbiamo familiarità con la difficile situazione, i limiti nell’uso della forza, il danno che ciò determina all’IDF [Israeli Defence Forces, Forze di Difesa Israeliane, nome dell’esercito israeliano. Ndtr.] ed allo Stato. E sappiamo che la storia che non c’è una soluzione al problema della sicurezza non è vera.”

Pensa che l’IDF possa garantire la sicurezza di Israele in una situazione con due Stati [Israele e Stato palestinese. Ndtr.]?

“Certamente. Esiste una soluzione per la sicurezza. Un mare di carte e di studi è stato scritto su questo. E non ci sono possibilità che Israele riesca a costruire relazioni corrette con i Paesi della regione, compresi rapporti commerciali e di cooperazione, prima di risolvere la questione palestinese:”

“Come tutti i ‘guardiani’ [in riferimento al documentario di Dror Moreh del 2012 con questo titolo, in cui sei ex capi dello ‘Shin Bet’ hanno sostenuto la necessità di un accordo con i palestinesi], sta parlando solo a cose fatte – quando non sta più rischiando la sua carriera o la sua pensione, quando non sta disubbidendo,” ha scritto l’editorialista di Haaretz Rogel Alpher a proposito di Shamni. Esponenti di destra hanno messo in dubbio la serietà delle considerazioni di Shamni esattamente per le stesse ragioni.

“Che cosa fa pensare a queste persone di essere così furbe?” ribatte Shamni. “Si aspettano forse che la gente a cui importa davvero lasci il posto a quelli a cui non importa niente? Molti ufficiali superiori dell’IDF capiscono la delicatezza della situazione sul terreno e lavorano per limitare i danni. Soldati e comandanti che si trovano sul posto dove ci sono tensioni con i palestinesi sono esposti alla loro dimensione umana – e questo incide su di loro. Improvvisamente capiscono che la situazione non è quella che pensavano.”

Questo scontro con la realtà porta ad una moderazione sul piano politico?

“Non so se questo influenzi il loro voto, e non penso che ciò sia realmente importante. Penso che la gente dell’esercito che ha a che fare con checkpoint, arresti, pattugliamenti e protezione delle colonie si trova di fronte a situazioni umane e vede le cose in modo diverso.”

L’esercito è una forza moderata?

“Senza dubbio. Anch’io, come capo del comando centrale, ho agito per ridurre al minimo i danni e limitare le tensioni tra le popolazioni. Per reprimere i fenomeni estremi sia della parte ebraica che di quella palestinese. Invece di criticare le persone dovrebbero dire: ‘E’ una gran cosa che ci siano molti ufficiali superiori nell’IDF che sono moralmente turbati da questo.’ Se non ci fossero loro, l’attività dell’IDF sarebbe completamente diversa. E’ il comportamento corretto dell’IDF e dell’Amministrazione civile che rende possibile una vita accettabile là. Ci sono cose sgradevoli – lo riconosciamo – ma la maggioranza dei soldati è molto coscienziosa. Quando un soldato sta controllando un punto di passaggio dei lavoratori e arriva qualcuno, di qualunque età, che ha viaggiato tutta la notte per andare al lavoro, la grande maggioranza dei soldati dell’IDF si comporterà umanamente e rispettosamente verso di lui. Non è l’ideale, ma potrebbe essere molto peggio.”

E’ questo che intende per elevare l’occupazione al livello di un’arte?

“Noi eccelliamo in questo – abbiamo creato meccanismi sofisticati che permettono una vita accettabile in queste circostanze. Quando gli americani hanno conquistato l’Iraq nel 2003, sono venuti da noi per imparare come “tenere il controllo” [“lehachzik”, che può anche essere tradotto in questo contesto con “amministrare”] di territori. C’è un’altra parola per questa situazione? In inglese, il verbo “occupare” viene usato. Cos’è l’occupazione? E’ avere il controllo. Noi controlliamo territori. Se dici kibbush [occupazione] tutti saltano sulla sedia. Ma questa è la realtà. Da una parte, [il modo in cui l’esercito ha rapporti con la popolazione palestinese è una fonte di] orgoglio per l’IDF e per Israele – ma è in questo che noi vogliamo eccellere? Dall’altra, effettivamente noi eccelliamo in questo. L’IDF è l’unico raggio di sole in tutto questo contesto. E’ la più importante forza di moderazione.”

Chi modera l’esercito- l’establishment politico?

“La realtà. Una grande percentuale di chi critica l’IDF non capisce i veri punti sensibili; il 99% dei critici non sono mai stati in un campo di rifugiati. Negli ultimi anni, solo il sistema di difesa ha avuto successo nel mantenere la cooperazione con i palestinesi. La prassi sul terreno è stata condotta sulla base della comprensione della complessità, e con lo scopo di prevenire rivolte. Se tutte le raccomandazioni fatte dai comandi dell’esercito e della difesa negli scorsi anni fossero state accolte, le cose andrebbero molto meglio.”

Perché, allora, c’è gente che definisce menzognera [l’ong contro l’occupazione] Breaking the Silence [associazione di soldati ed ex-soldati israeliani che raccoglie le denunce di violazioni dei diritti umani commesse dall’IDF nei territori occupati. Ndtr.], che conosce molto bene la situazione sul terreno, quando esprime critiche?

“Non accetto il loro modo di fare. Credo che sia sbagliato che vadano all’estero a criticare. Le critiche devono rimanere all’interno del Paese.

La distinzione tra “dentro” e “all’estero” nell’era dei media liberi e di internet è un’illusione.

“Le cose filtrano, ma non completamente. Non è lo stesso che essere in un campus negli Stati Uniti o in Europa e parlare delle atrocità perpetrate dai soldati dell’IDF. Ci sono casi gravi che sono le eccezioni, e vengono presi in considerazione. Io non vedo nessun allarme.”

Anche lei ha rotto il silenzio.

“No. Io non sono mai stato zitto.”

‘Paura di pronunciarsi’

Shamni, 57 anni, è nato a Gerusalemme e vive a Reut, una comunità nei pressi di Modi’in [comune israeliano che si trova in parte in Israele e in parte nei territori occupati. Ndtr.]. Lui e sua moglie, Hadas, hanno quattro figli (di età compresa tra i 16 e i 32 anni) e sono diventati nonni da poco. Shamni è stato arruolato ne 1977 ed ha passato i successivi 35 anni nell’IDF, soprattutto nei paracadutisti, compreso un periodo come comandante di brigata. E’ stato anche comandante della brigata “Hebron” (un breve periodo dopo il massacro di fedeli musulmani ad opera di Baruch Goldstein in quella città nel 1994), ed ha guidato la divisione “Gaza” durante la Seconda Intifada. In seguito è stato capo della direzione operativa dello Stato Maggiore, promosso al rango di generale di brigata e aggregato alla segreteria militare del primo ministro (con Ariel Sharon, poi con Ehud Olmert), un incarico che ha mantenuto durante la seconda guerra in Libano del 2006. Nel 2007 è stato nominato capo del “Comando Centrale” [organo militare che si incarica del controllo dei territori palestinesi occupati. Ndtr.]. Nel 2008 parlò al corrispondente militare di Haaretz Amos Harel di quello che allora era un nuovo fenomeno tra i coloni estremisti: “Hanno adottato il metodo “prezzo da pagare”: se non sono abbastanza forti da lottare contro le forze di sicurezza in una situazione particolare [come quando alcuni avamposti vengono evacuati], ci colpiscono da qualche altra parte. E’ uno sviluppo molto grave.”

Egli avvertì: “Questa gente sta cospirando contro i palestinesi e contro le forze di sicurezza…Ci sono elementi marginali che stanno guadagnando appoggio per le ‘condizioni favorevoli’ di cui godono e il sostegno fornito da certe parti della leadership, sia dei rabbini che del governo, in dichiarazioni esplicite o in modo tacito.”

Shamni non è rimasto in silenzio riguardo al fenomeno ed ha anche emesso ordini vietando ad alcuni attivisti di destra di entrare in Cisgiordania. In seguito a ciò lui stesso è stato attaccato, ricevendo minacce contro la sua persona e la sua famiglia.

Nel 2009 Shamni è stato nominato attaché militare negli Stati Uniti. E’ stato candidato a succedere a Gabi Ashkenazi come capo di Stato Maggiore, ma è stato battuto da Benny Gantz. Si è ritirato dall’IDF nel 2012. E’ uno degli autori di un testo intitolato “Un sistema di sicurezza per la soluzione dei due Stati.” Il rapporto è stato pubblicato lo scorso maggio dal “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, un gruppo di studio di Washington il cui capo, Michèle Flournoy, “è candidato a diventare segretario alla Difesa se [Hillary] Clinton vincerà le elezioni,” dice Shamni. Il rapporto è stato distribuito in Israele e a livello internazionale. Secondo Shamni quelli che lo hanno ricevuto hanno manifestato notevole interesse. Ma è ancora presto, aggiunge, e non ne vuole discutere oltre.

Le sue considerazioni sull’occupazione sono state fatte durante un incontro tenuto in agosto dall’ “Istituto per le Politiche e Strategie” del “Centro Interdisciplinare” di Herzliya e dai “Comandanti per la Sicurezza di Israele”, che, secondo il loro sito, è “un movimento non di parte di ex ufficiali superiori della sicurezza” i quali credono che “l’attuale stallo diplomatico sia dannoso per la sicurezza di Israele.”

Shamni stava rispondendo a un commento del generale di divisione (ritirato) Yaakov Amidror [del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, attualmente nella coalizione di governo. Ndtr.], ex- capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza di Israele, secondo cui i palestinesi non avrebbero dovuto avere problemi con l’occupazione.

Quindi c’è un partner? Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è un partner?

“Certo che lo è. La maggior parte della gente che si oppone all’idea dei due Stati è decisa ad ereditare la terra dei nostri antenati e non ha nessun interesse in accordi per la sicurezza.”

Cosa pensa del primo ministro Benjamin Netanyahu?

“Penso che capisca che Israele ha seri problemi. Penso che vorrebbe tirarne fuori Israele, ma non sa come.”

“Non è in grado di farlo perché Israele è governato da altre persone.”

Da chi?

“Da piccoli gruppi che sono permeati di fede.”

I coloni?

“Non tutti [sono coloni]. Penso che ci siano pochi gruppi dominanti nella politica israeliana; non sono necessariamente la maggioranza, ma loro decidono le cose da fare. Se uno dovesse esaminare le reali opinioni della maggior parte dei parlamentari di Israele – anche escludendo i deputati arabi – emergerebbe che la maggioranza pensa che dobbiamo trovare un accordo con i palestinesi il prima possibile. Ma non sono in grado di esprimere pubblicamente questa posizione, perché nel momento in cui lo facessero perderebbero i loro sostenitori.”

Ma chi sono questi sostenitori?

“Non voglio generalizzare. Non sono tutti i coloni. Ma ci sono piccoli gruppi, ideologizzati, estremisti, attivi, che sono organizzati e finanziati.”

Finanziati da chi?

“Da ebrei, soprattutto dall’estero, che sono grandi finanziatori dei politici. Non voglio fare nomi, neppure dei finanziatori. Ci sono gruppi estremisti ideologici che stanno dettando l’agenda dello Stato e sono in grado di agire come un deterrente nell’arena politica. C’è gente in questo Paese che ha paura di esprimersi. Brave persone.”

La politica israeliana è presa in ostaggio?

“Guardi cos’è successo a [Moshe] Ya’alon. E’ un caso esemplare. Qualcuno la cui integrità e il cui contributo allo Stato sono indiscutibili. Non è stato in grado di sopravvivere [come ministro della Difesa]. Perché? Perché è rimasto fedele alla sua verità. E, tra l’altro, gli ci è voluto del tempo per capire il problema: se avesse affrontato fin dall’inizio i processi di radicalizzazione come ha fatto durante la fine del suo mandato, soprattutto in Cisgiordania, penso che le cose sarebbero diverse adesso. Ma se n’è venuto con una sorta di tentativo di tranquillizzare la gente, di non pestare i piedi a nessuno. Eppure lo devi fare. E nel momento in cui ha cominciato a fare i conti con questioni difficili, si è ritrovato cacciato fuori.”

Si sta riferendo ai commenti di Ya’alon sul Elor Azaria, il soldato dell’IDF processato per omicidio colposo dopo aver sparato a un palestinese ferito a Hebron il marzo scorso?

“Azaria è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ultimo pretesto. Il processo è iniziato molto prima, quando Ya’alon, come ministro della Difesa, ha deciso che avrebbe insistito perché la legalità e l’ordine venissero mantenuti in Cisgiordania. Ci sono stati incidenti in cui ha deciso di distruggere una struttura di un tipo o di un altro, e tutti hanno detto la loro sul suo caso. Ha solo fatto quello che si doveva legalmente, moralmente ed eticamente. E’ stato allora che è iniziato il peggioramento. E’ stato allora che è diventato un bersaglio.”

Intende che è stato “silurato” politicamente?

“Certo.”

Anche lei ha paura di esprimersi?

“No. Al contrario. Io mi esprimo. E io chiedo a tutti coloro che comprendono questo problema [nel campo politico e della difesa] che si alzino e parlino. Per varie ragioni, la gente non lo sta facendo. Hanno paura di perdere il lavoro, le proprie comodità. O conducono una vita tranquilla, perciò, perché andarsi a prendere questo grattacapo?”

Anche il suo amico, deputato Ofer Shelah [di Yesh Atid], pensa che la soluzione dei due Stati non è un problema per la sicurezza?

“Sì, ma lei ha visto cos’è successo quando Yesh Atid [partito di centro sinistra. Ndtr.] è entrato nella coalizione di governo [tra il 2013 e il 2014]. Si sono dimenticati della questione palestinese.”

Società estremista, esercito moderato

In un’intervista alla televisione “Canale 2” lei ha fatto riferimento alle “manipolazioni legali e operative” che sono state compiute per scopi di colonizzazione. Cosa voleva dire?

“Il potere sovrano in Giudea e Samaria [denominazioni israeliane della Cisgiordania. Ndtr.] è l’IDF, e governa il generale del ‘Comando Generale’ – lui prende le decisioni. Se c’è il desiderio di espropriare un territorio, può decidere che c’è una necessità di carattere militare per quella determinata area. E se c’è una ragione di sicurezza, non gliela si può rifiutare. Nessuno gli dirà di no. E anche se la questione arriva alla Corte di Giustizia, questa confermerà che è una zona di interesse militare. Ci sono state situazioni nel passato in cui aree sono state confiscate per fini militari, ma non è sempre stato del tutto chiaro. Molte volte la terra è stata espropriata per la colonizzazione con delle scorciatoie. Se vogliamo costruire colonie, allora decidiamo che vogliamo costruire colonie. Perché utilizzare ragioni di sicurezza?

“Quando ho preso la direzione del Comando Centrale, eravamo sull’orlo di una crisi di fiducia con l’Alta Corte – perché la Corte aveva la sensazione che le ragioni di sicurezza fossero addotte in luoghi in cui non corrispondevano esattamente alla situazione. Ho messo fine a tutto questo. Non ci sono più situazioni in cui un motivo legato alla sicurezza è messo in campo in luoghi in cui non ci sono reali questioni di sicurezza. Basta scorciatoie. Ci sono stati periodi in cui sono state esercitate forti pressioni e situazioni in cui sono state prese scorciatoie. Penso che siano stati fatti cambiamenti sostanziali negli ultimi anni. Uno dei problemi di Ya’alon è stato che…è solo una persona onesta e non era disponibile a scorciatoie e a tirare fuori argomenti legati alla sicurezza dove non ne esisteva nessuno.”

Pressioni da dentro l’esercito o da fuori?

“Da fuori”

Da parte di chi, da fuori?

“Ci sono molti lobbisti e gente che esercita pressioni sui politici nel governo e nella Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. Beh, non capisce cosa significa esercitare forti pressioni?

No.

“No?”

No -cioè, non capisco che tipo di pressioni. Cosa potrebbe succedere?

“Pressioni sono esercitate ad ogni livello politico, e a volte hanno anche successo. L’esercito deve essere molto risoluto nelle sue opinioni, confidare in se stesso e non scendere a compromessi. Penso che sia quello che è successo anche negli ultimi anni. Non ci sono più scorciatoie in quella zona, e questa è una delle ragioni per l’aumento delle tensioni tra l’esercito ed i coloni. Sono io che ho promosso questa linea di condotta. Non penso che il GOC [Comando Generale. Ndtr.] o lo Stato Maggiore oggi prenderebbero delle scorciatoie. Penso che questo periodo sia ormai passato.”

E quando il vice capo di Stato Maggiore, Yair Golan, parla di fascismo strisciante, e Ehud Barak [dirigente del partito Laburista ed ex-primo ministro israeliano. Ndtr.] fa riferimento al nascente fascismo?

“Questa è un’altra cosa. Deve chiedere a loro a cosa si riferissero, ma ritengo che parlassero di fenomeni che riguardano le tensioni con i coloni estremisti, la storia con i gruppi del “prezzo da pagare” [gruppi di coloni estremisti che aggrediscono i palestinesi. Ndtr.], tutti gli avvenimenti dell’ultimo periodo – il fatto di Duma [l’attacco incendiario contro una casa palestinese del luglio 2015 in cui sono stati uccisi tre membri della famiglia Dawabsheh] e molte cose minori che avvengono quotidianamente.”

Non pensa che l’incremento di questi fatti contraddica la sua sensazione che l’IDF stia conservando la propria moralità?

“Ma non è l’IDF che sta facendo queste cose. Yair Golan non si riferiva all’IDF quando ha parlato di fascismo strisciante. Si stava riferendo alla società israeliana.”

Ma lei non può fare una distinzione tra l’IDF e la società israeliana.

“Si può. Perché l’IDF agisce in base a ordini. E c’è la disciplina. Quando questi fenomeni sono scoperti, sono immediatamente repressi. Non paragoni la “gioventù della cima delle colline” [giovani coloni estremisti] all’IDF. Yair stava parlando della “gioventù della cima delle colline”, di tutti gli estremisti scatenati.”

La diffusione di fenomeni come l’incidente di Azaria nell’esercito non la preoccupa?

“No. Questi fenomeni non sono concentrati nell’esercito; succedono nella società israeliana. E’ vero che in ultima istanza l’IDF è uno specchio della società, ma l’esercito non è il centro.”

In base agli standard de “l’occupazione a livello di un’arte,” Azaria è un contrattempo?

“Cosa intende per ‘contrattempo’?”

Non è un esempio di eccellenza nell’occupazione, suppongo.

“Ritengo che Azaria sia una vittima della situazione di cui sto parlando. Non voglio entrare nei dettagli mentre è in corso un processo. Non so esattamente cosa sia successo lì, non ho visto gli atti dell’indagine.”

Ma ha visto le riprese video?

“Le ho viste, ma abbiamo imparato che i video non sempre riflettono quello che è successo. E’ possibile che abbia fatto un terribile errore, e ciò verrà chiarito nel processo. Ma deve capire che questa situazione provoca questi fatti. A volte i soldati non riescono a resistere alla pressione. Un soldato entra nella mischia, vede i suoi compagni feriti, ha sentito un sacco di incitamenti tutto attorno. Sta vivendo in mezzo ad una miscolanza di soldati, ufficiali, coloni ed altri, alcuni dei quali molto estremisti, che a volte può creare confusione in soldati che non sono abbastanza forti. Agli occhi di chi dovrebbe apparire bravo? A quelli dei suoi superiori? Della gente attorno che li sta esaltando ed incitando? E’ una situazione molto complicata per i soldati. Lui [Azaria] è un soldato giovane.

Non so quanta esperienza avesse in situazioni simili. Ma questa è un’eccezione. Non è la norma nel comportamento dell’IDF.”

L’ “Intifada del lupo solitario” ha delineato qualcosa che potrebbe essere etichettata come “risposte individuali” da parte sia della società israeliana che dell’IDF.

“E’ possibile. Una certa atmosfera è stata creata attorno a questa cosa, ogni sorta di affermazioni è stata fatta e ogni genere di politico ha affermato che ogni scontro con un terrorista deve finire con l’uccisione del terrorista. Ciò può aver provocato il fatto che persone si siano lasciate trascinare e siano andate in confusione. Non è un problema con dimensioni che ci possano disturbare. Ma dobbiamo sentirci disturbati dall’erosione graduale. Israele prende l’iniziativa solo in seguito a gravi traumi.”

L’ “Intifada del lupo solitario” potrebbe arrivare a determinare questo tipo di trauma?

“Siamo in una situazione di deterioramento costante. Non sappiamo dove ciò ci porterà. Non solo non stiamo prendendo iniziative, stiamo gestendo la situazione al contrario. Ad Hamas viene dato quasi tutto quello che vuole. Sta consolidando il suo potere ed il suo governo; controlla i punti di passaggio, raccoglie le tasse, paga i salari e sta persino trattenendo, indisturbato, i corpi di due soldati dell’IDF. Allo stesso tempo in Cisgiordania ci sono organizzazioni che hanno dichiarato apertamente di voler vivere in pace con Israele – e noi le stiamo indebolendo.”

Meno colonie, meno soldati

Shamni esprime preoccupazione rispetto alla mancanza di rapporti tra israeliani e palestinesi. “Sono cresciuto a Gerusalemme,” dice. “Li ho conosciuti là, gli arabi erano i nostri vicini. Non avevo amici arabi, ma li vedevo. Sono stato in quartieri arabi, ho visitato la Città Vecchia, non li ho visti solo in televisione e sui giornali. Oggi non c’è interazione. Semplicemente non ci sono prospettive di riuscire a vivere insieme nello stesso Paese. I palestinesi non accetteranno mai che questa situazione continui per sempre. Per cui dobbiamo cominciare a prendere le misure necessarie.”

Quali, per esempio?

“Se tu dici che il tuo obiettivo strategico finale è di arrivare ad una separazione, allora ci sono cose che fai ed altre che non fai. E’ più o meno chiaro come saranno i tuoi confini. Lo Stato di Israele lo ha riconosciuto; il primo ministro anche. La soluzione sono i due Stati. Sulla base, più o meno, dei confini del 1967 con uno scambio di territori. Quanto territorio Israele può concedere senza danneggiare il fronte interno? Due per cento, 2,5% – questo è il massimo. Sono più o meno i blocchi di colonie e tutti gli insediamenti adiacenti alla barriera [di separazione]. Se oggi sai che questo è il tuo scopo e la tua direzione strategica, tu inizi fin da ora a fare le cose giuste. Costruisci nei blocchi di colonie e non fuori da questi. Non crei una situazione in cui la realtà demografica renderà estremamente difficile mettere in atto questa mossa in futuro.”

Considerazioni relative alla sicurezza costituiscono uno degli argomenti per giustificare gli insediamenti, ma ora l’esercito è lasciato lì per proteggerli. Cosa viene prima?

“L’esercito è lasciato lì perché Israele non ha intenzione di lasciare quel territorio. Nel frattempo sempre più progetti di insediamenti sono avviati. Mettiamola così: se ci fossero meno coloni ebrei in [Cisgiordania], ci sarebbero meno ragioni che l’IDF fosse schierato in centri abitati. Prenda ad esempio il nord della Samaria [della Cisgiordania. Ndtr.]. Lì non ci sono insediamenti, e dove gli insediamenti sono stati evacuati c’è meno esercito. Perché se hai meno israeliani, meno insediamenti, è perfettamente chiaro che hai bisogno di meno forze. Ma non è questo il punto. La questione è se è possibile mantenere una situazione in cui l’IDF non c’è sul terreno quando non ci sono insediamenti, e se è possibile difendere Israele con i nuovi confini. Io dico di sì.

“La questione se il progetto di insediamento è giustificato dal punto di vista della sicurezza non è più rilevante. In generale, gli insediamenti sono stati costruiti nei pressi delle strade principali. L’IDF non ne ha più bisogno. L’esercito può difendere il Paese e le sue frontiere senza fare ricorso agli insediamenti. Al contrario: dove ci sono rischi oggi, evacueremo gli insediamenti nelle retrovie. Si parla di evacuare le comunità attorno alla Striscia di Gaza nel caso di un altro scontro con Hamas, ecc. Abbiamo evacuato comunità nel nord durante la seconda guerra del Libano. E c’erano progetti di evacuazione dalle Alture del Golan e da ogni sorta di posti. Non si vogliono civili sulla linea del fronte. In una situazione di guerra contro forze militari, i civili sono un peso.”

Per cui lei pensa che dovremmo aspirare a spostarci su frontiere che saranno tracciate da Israele?

“No. Non credo a mosse unilaterali.”

Lei si rammarica del disimpegno da Gaza [deciso unilateralmente da Sharon. Ndtr.]?

“C’è una grande differenza tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Io ero il comandante della divisione “Gaza” al culmine della lotta contro Hamas. Non è una cosa di cui sento la mancanza. La nostra situazione sarebbe molto peggiore se fossimo rimasti nella Striscia di Gaza perché, dagli accordi di Oslo, non c’era più la presenza dell’IDF nei centri abitati. Avevamo insediamenti a Gush Katif, a Netzarim, nel nord della Striscia di Gaza. L’IDF era schierato lì per proteggere i residenti – che, tra l’altro, erano gente stupenda. C’è un’enorme differenza tra le caratteristiche degli insediamenti a Gush Katif e quello che sta succedendo in alcune parti della Giudea e Samaria. Intendo come modo di comportarsi, carattere, estremismo. Ma, come ho detto, non eravamo schierati nei centri abitati.

“Arrestavamo terroristi, demolivamo infrastrutture, entravamo ed uscivamo. Non controllavamo realmente Gaza, Khan Yunis, Rafah; non eravamo in tutti i campi di rifugiati. Hamas ha migliorato le sue capacità lì, e più passava il tempo, più difficile era diventato difendere gli insediamenti. Ci sono stati episodi molto gravi prima del disimpegno, e mi lasci dire che non aveva senso continuare a rimanervi. Non avrebbe neppure impedito ad Hamas di rafforzarsi.

“La gente dice che il nostro ritiro da Gaza ha permesso ad Hamas di diventare forte, ma è vero solo a metà. Perché persino quando eravamo lì, Hamas si è rafforzato. Se fossimo rimasti lì, il processo sarebbe stato un poco più lento. I tunnel esistevano anche quando eravamo lì, armamenti entravano di nascosto e c’era un’industria bellica locale. Era molto difficile per noi arrivare dappertutto. Al tempo del disimpegno, c’era un gran numero di razzi e Qassam [razzi artigianali prodotti a Gaza. Ndtr.]. E’ vero che non avevano un raggio d’azione di 70 kilometri, come ora, ma erano sparati contro Sderot e il sud di Ashkelon.”

Forse perché l’IDF non controllava tutta la Striscia di Gaza.

“Beh, vediamo cosa significa controllare tutta Gaza. Come dopo l’operazione “Scudo Difensivo” [nel 2002], quando abbiamo controllato la Giudea e la Samaria e siamo entrati dappertutto [cioé in tutta la zona A, che in base agli accordi di Oslo era sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.]. Ciò avrebbe significato schierare grandi forze, che avrebbero danneggiato gravemente l’economia di Israele. In fin dei conti ci sono dei limiti all’ordine operativo di battaglia. Chiunque dica che dovremmo rioccupare la Striscia di Gaza non capisce cosa ciò significherebbe.”

Israele non ha la capacità di distruggere Hamas nella Striscia?

“Che vuol dire ‘distruggere Hamas’? Israele può conquistare Gaza. Non sarebbe facile, potrebbero volerci pochi giorni o settimane, ma alla fine la Striscia sarebbe sotto il controllo dell’IDF. Ogni strada e ogni vicolo. Quale sarebbe la fase successiva? Sarebbe che avremmo due milioni di persone di cui dovremmo soddisfare le necessità e la cui vita quotidiana dovremmo gestire.

“La sicurezza di Israele riposa principalmente sulla deterrenza. E per la deterrenza c’è bisogno di un punto di riferimento. Oggi siamo fuori, indebolendo Hamas, garantendo che faccia il lavoro all’interno [controllando altri gruppi di miliziani] ed esercitando pressioni sull’organizzazione. E’ lo stesso in Libano. E dovrebbe essere lo stesso anche in Cisgiordania. E’ impossibile distruggere Hamas. Non si tratta solo di persone e dirigenti, o di Ismail Haniyeh [uno dei principali leader dell’organizzazione]. Hamas è consapevolezza. Non puoi sradicare la consapevolezza. La puoi cambiare. Come? Convincendo la gente. Anche Fatah aveva altre posizioni, ma è venuto il giorno in cui sono arrivati alla conclusione che dovevano parlare con noi, che la soluzione non sarebbe arrivata con la forza.”

Quando avverrà con Hamas?

“Perché succeda, Hamas dovrà sentire di correre un pericolo per la sua stessa esistenza. E’ per questo che l’organizzazione deve essere tenuta sotto pressione. Attualmente abbiamo un’eccezionale opportunità perché gli egiziani odiano Hamas. Guardi cos’è successo con l’operazione “Piombo Fuso” [2008-2009]. Fortunatamente gli egiziani sono stati duri – perché ci siamo affrettati a fare ogni sorta di concessione. Quando loro [gli egiziani] hanno deciso di eliminare i tunnel, lo hanno semplicemente fatto. Spero che [il presidente egiziano Abdel-Fattah] al-Sissi rimanga al potere per molti anni ancora.

“In più, noi non siamo lì [a Gaza], per cui nessuno può sostenere che siamo occupanti. C’è solo la questione del blocco, che credo si possa spiegare perché è giustificabile nei termini di considerazioni di carattere militare. E il fatto è che viene accettato a livello internazionale, nonostante le critiche. Naturalmente è necessario garantire che la popolazione non arrivi a condizioni di carestia e di epidemie. Questo è un lato della formula; l’altro è rendere più facili le cose in Cisgiordania e rafforzare Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Come possiamo rafforzare Fatah in Cisiogrdania?

“Con una politica molto più estesa per rendere più agevoli gli spostamenti e la libertà economica. Il piano [del bastone e della carota] del [ministro della Difesa Avigdor] Lieberman è fantastico: togliere le restrizioni, permettere la costituzione di zone industriali e agricole nell’area C [che è sotto totale controllo di Israele per quanto riguarda la sicurezza], facilitare le esportazioni. Dare un impulso all’economia palestinese. Ciò inciderà sull’appoggio a Fatah ed alle forze moderate. Il funzionamento delle strutture dell’ANP, sia militari che civili, deve essere rafforzato. Devono avere la possibilità di governare, di aiutare il loro popolo per guadagnarsi l’appoggio politico. Dove ciò dipende dall’IDF, si sta facendo. Ma l’incarico affidato all’esercito è limitato. In ultima analisi, quando vuoi dare ai palestinesi più territorio per sviluppare la loro economia nell’area C, ti scontri con una questione politica. Il ministro della Difesa dice che lo sta per fare? Aspettiamo e vediamo quando succederà.”

Lei si è costruito una vita, una carriera, una sicurezza economica e un futuro per i suoi figli grazie all’esercito e all’occupazione. Forse questo comporta che lei non veda situazioni allarmanti?

“Ho passato la maggior parte della mia vita in Libano e in altre zone. Ma sì, sono stato anche in Giudea e Samaria e a Gaza. Ma sarei rimasto nell’esercito anche senza occupazione. Sto parlando per un senso di preoccupazione non solo per il Paese ma anche per l’IDF, perché ho paura dell’erosione morale e del fatto che l’IDF non si concentri sui suoi compiti principali. Invece di combattere, sta controllando una popolazione. Non attacco l’IDF né chiedo di rifiutarsi di fare il servizio militare, perché l’IDF è il raggio di luce in questa storia. Ho perso molti amici lungo il cammino. Prima che cadessero, quando si resero conto della situazione realmente pericolosa in cui si trovavano, mi sembrava che stessero sorridendo: Nitzan Barak, il capitano Uri Maoz, il capitano Tzion Mizrahi, il sergente Elad Rotholtz e molti altri. Tutta quella gente stupenda era sensibile e umana. Le loro famiglie sono come parenti per me e per la mia famiglia. Se me lo chiede, quello che mi rimane del servizio nell’esercito è l’impegno a fare ogni cosa in modo da pagare un prezzo simile solo se non abbiamo scelta.

“Diciamo sempre che la differenza tra noi e i nostri nemici è che noi santifichiamo la vita e loro santificano la morte. Chiedo se non c’è un crescente numero di persone tra noi che è pronto a sacrificare i propri figli sull’altare delle proprie convinzioni e che è pertanto responsabile di farci diventare una società che santifica la morte.”

Se le persone non volessero fare il servizio militare, non ci sarebbe nessuno che parteciperebbe a questo progetto.

“Penso che in quel caso lo Stato non sarebbe in grado di esistere. Viviamo in un Paese democratico sotto un governo legittimo. Nel corso della mia carriera militare non ho visto azioni che potrebbero giustificare il rifiuto di fare il servizio militare. Penso che, in fin dei conti, stiamo agendo in modo etico.”

Pensa che sia moralmente accettabile occupare un altro popolo?

“Solo quando ci sono ragioni di sicurezza. La domanda è dove finiscono le ragioni di sicurezza e se le cose possono essere fatte in modo diverso. Lei sa qual è la mia opinione. Penso che dobbiamo arrivare ad una situazione di separazione perché non ci sono ragioni di sicurezza. Se ci fossero, chi ne parlerebbe? La democrazia ha strumenti che debbono essere utilizzati. Mi pare chiaro che c’è una maggioranza che pensa che ci sia bisogno di un cambiamento ma che è apatica. Purtroppo. Uno dei miei obiettivi è di scuoterla. Non solo io – molti dei miei amici stanno cercando di risvegliare la maggioranza apatica.”

Sta pensando di entrare in politica?

“No”

Non ha paura di essere etichettato con la sindrome delle “lacrime di coccodrillo”?

“Assolutamente no. Ci ho pensato molto nel corso degli anni. Non sento rimorsi di coscienza per tutte le cose che ho fatto – e c’erano cose scabrose, con penose conseguenze per gli avversari. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto nel modo più trasparente possibile, se è possibile chiamarlo così. Ciò significa che non ho fatto quello che non era necessario. Non sto solo parlando di me. Tutto sommato, non abbiamo causato danni fini a se stessi – e questa è proprio la differenza, vede? Quando provochi danni per il gusto di farlo.”

Forse se gli israeliani non avessero eccelso nell’occupazione, non sarebbe durata 50 anni.

“Ma c’è una divisione del lavoro. Non è compito dell’esercito decidere se l’occupazione debba continuare. La strategia deve essere lasciata a livello politico. Nel momento in cui la tua missione è legale, allora è bene e positivo che noi abbiamo il nostro esercito, che fa le cose come le fa.”

Ma Dio non fa le leggi, giusto?

“Giusto. Ma neanche gli ufficiali dell’IDF.”

“Per il futuro di Israele”

Rispondendo a questo articolo, il deputato Ofer Shelah ha detto: “Gadi Shamni è stato un amico per circa 40 anni, ed è una persona a cui sono affezionato e che rispetto. Ho parlato molto con lui, sia di argomenti personali che politici, ed ho grande stima dei suoi sforzi di stilare un documento per accordi relativi alla sicurezza che saranno opportuni per arrivare ad un patto con i palestinesi, insieme a seri partner americani che ho incontrato e con cui ho parlato. I problemi di sicurezza in questo tipo di accordo sono tutt’altro che semplici, ma possono essere risolti con una leadership coraggiosa e determinata.

“[Il partito] Yesh Atid crede che Israele si debba separare dai palestinesi, per il bene del futuro di Israele come Stato ebraico e democratico. Ciò deve avvenire nel quadro di un processo regionale in cui il posto di Israele nel Medio Oriente sia definito e serva come contesto adeguato per la ripresa dei negoziati, che sono arrivati ad un punto morto. I miei amici ed io diciamo questo in ogni occasione e stiamo lavorando per metterlo in pratica in ogni ambito politico.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Senza la prospettiva di uno Stato, i palestinesi si adattano ad un limitato autogoverno

di Amira Hass,

Haaretz, 9 ottobre 2016

 

Gaza è alle prese con la prima condanna a morte inflitta ad una donna. In Cisgiordania la gente è sempre più convinta che l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) sia un’istituzione permanente, nonostante tutte le previsioni in senso opposto.

Oltre ai timori sul nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi a Gaza, gli arresti dell’esercito in Cisgiordania, le notizie sull’avamposto di Amona ed i nuovi espropri di terre, i palestinesi sono alle prese con alcune questioni interne, o almeno parzialmente interne.

Mercoledì 5 ottobre c’è stato un precedente a Gaza. Per la prima volta un tribunale palestinese ha comminato la pena di morte ad una donna, a Khan Yunis. Una corte distrettuale l’ha incolpata di omicidio premeditato di suo marito.

Il nome della vittima è stato reso noto a gennaio dopo che è stato trovato il suo corpo: si tratta di Riad Abu Anza, di 36 anni. La stampa ha pubblicato solamente le iniziali dell’imputata, anche se era a tutti noto chi fosse e da quale famiglia provenisse.

Subito dopo che i sospetti erano caduti su di lei, una delegazione di Hamas si è recata in visita alla casa dell’ucciso e, in una conferenza stampa, ha chiesto che la famiglia e gli altri mostrassero moderazione e lasciassero lavorare gli inquirenti. Queste espressioni erano un chiaro avvertimento che sarebbe stato difficile arginare una sanguinosa faida.

Il corpo di Abu Anza, che mostrava i segni di numerose ferrite da coltello, è stato trovato sabato 30 gennaio, dove c’era in passato l’insediamento israeliano di Atzmona (l’area degli ex insediamenti di Gush Katif è ora conosciuta come “i territori liberati”). La famiglia aveva informato della sua scomparsa tre giorni prima.

Nel giro di sei ore la polizia di Gaza ha raggiunto sua moglie, che inizialmente ha negato ogni coinvolgimento. Ma di fronte a prove evidenti, ha confessato. Una videocamera di sicurezza nella zona (che è stata trasformata in fiorenti progetti agricoli sotto Hamas o gente legata al gruppo e alle basi militari) ha filmato Abu Anza insieme ad una donna coperta fino agli occhi da un niqab (indumento islamico femminile che copre tutto il corpo e il capo, ndtr.). In seguito, un’impronta rilevata sul luogo è stata trovata perfettamente corrispondente alle scarpe della donna, e sui suoi vestiti è stato trovato del sangue.

All’inizio del processo le è stato attribuito un difensore d’ufficio. Delle attiviste femministe hanno detto ad Haaretz che poiché lei aveva confessato non aveva richiesto un avvocato di fiducia. Attivisti palestinesi per i diritti umani l’hanno visitata in prigione; lei ha raccontato loro che quando era una studentessa universitaria la sua famiglia l’aveva fatta sposare con Abu Anza, più vecchio di lei, contro la sua volontà.

Lui aveva problemi di salute mentale. I media palestinesi riferivano che era “un balordo”, i vicini dicevano che era “un disgraziato”. Aveva divorziato dalla prima moglie perché non gli aveva dato dei figli. La seconda moglie aveva dato alla luce un maschietto.

Le attiviste femministe hanno riferito che probabilmente lui la picchiava e la violentava sistematicamente, e quando lei era scappata dalla sua famiglia quest’ultima aveva preso le parti del marito e la aveva costretta a tornare da lui. Hanno detto che si aspettavano che il giudice prendesse in considerazione queste circostanze.

Se è stato davvero questo a portare all’omicidio, è anche una sconfitta dei gruppi per i diritti delle donne e del ministero palestinese per gli affari sociali. Lei non ha ritenuto di poter rivolgersi a loro; forse non sapeva che ci fosse qualcuno a cui rivolgersi. Adesso ha il diritto di appellarsi contro la sentenza di morte per impiccagione; le attiviste sperano che questa volta si convincerà ad assumere un avvocato di fiducia.

In base alla legge palestinese, l’esecuzione di una sentenza di morte (prevista dalla legislazione della Giordania, dell’Egitto e da quella rivoluzionaria dell’OLP) è possibile solo se è confermata dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma il regime di Hamas a Gaza non riconosce più come valida la presidenza di Mahmoud Abbas. A partire dalla separazione dei due governi palestinesi nel 2007 e la creazione di un sistema giudiziario separato a Gaza, la gran maggioranza delle sentenze di morte è stata emessa là e solo a Gaza esse sono state eseguite.

Dal 2005 Abbas non ha firmato sentenze di morte; probabilmente le critiche dei gruppi palestinesi ed internazionali per i diritti umani hanno avuto effetto. Dal 1994, sono state pronunciate 72 sentenze di morte dai tribunali palestinesi. Dal 2010, solo due sono state emesse in Cisgiordania.

Secondo il sito web di B’Tselem, ufficialmente sono state eseguite 13 sentenze. Ma alcuni prigionieri condannati a morte sono stati assassinati mentre si trovavano nelle prigioni dell’ANP ed alcuni sono stati uccisi da uomini armati dopo che erano fuggiti dalla prigione durante i bombardamenti israeliani nell’inverno 2008-2009.

Dalla creazione del sistema giudiziario separato di Hamas nel 2007, sono state emesse altre 68 condanne a morte nella Striscia di Gaza, 33 delle quali sono state eseguite. Queste cifre non includono i prigionieri uccisi da Hamas durante la guerra di Gaza nell’estate del 2014.

Un alto funzionario di Hamas ha detto ad un ospite europeo che, in assenza della pena capitale, le famiglie sarebbero precipitate in sanguinose faide. Ma un attivista per i diritti umani di Gaza sostiene che alcune persone continuano ad agire lo stesso per ottenere vendetta. “Purtroppo la maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è tuttora favorevole alla pena di morte”, ha detto.

Gli scagnozzi di Abbas

Nel pomeriggio di martedì 4 ottobre parecchie decine di uomini e donne hanno risposto all’appello del Movimento Giovanile Palestinese a prendere parte a Ramallah ad una manifestazione contro la partecipazione di Mahmoud Abbas al funerale di Shimon Peres. Circa 15 minuti dopo, altri giovani sono arrivati portando bandiere di Fatah; gridavano il loro appoggio ad Abbas e ai leaders di Fatah per gli anni a venire. “Siamo convinti che (la leadership) sappia che cosa è bene per la patria e per il popolo”, ha dichiarato ai giornalisti un manifestante.

Questa scena si è ripetuta tantissime volte negli ultimi anni. Soprattutto in occasione di manifestazioni il cui principale bersaglio è Abbas, si svolgono contromanifestazioni in cui almeno alcuni dei partecipanti sono persone pagate dai servizi di sicurezza dell’ANP. Queste persone danno inizio agli scontri. Martedì pomeriggio alcuni manifestanti, sia uomini che donne, sono stati picchiati.

Alcune manifestanti donne hanno denunciato che i loro aggressori le hanno anche molestate sessualmente. Muhammad Karaja, un avvocato impegnato nel sostegno dei prigionieri di Addameer (associazione di difesa dei prigionieri palestinesi, ndtr.) ed in gruppi per i diritti, era presente nel suo ruolo di monitorare la condotta delle autorità negli eventi pubblici. E’ stato colpito alla faccia ed alla testa ed ha avuto bisogno di cure mediche.

Ha identificato i suoi aggressori come membri dei servizi di sicurezza. Altri si trovavano lì vicino e non sono intervenuti in suo aiuto, pur essendo lui conosciuto come avvocato.

L’aggressione nei suoi confronti e la dispersione violenta della manifestazione hanno portato ad una serie di condanne. Mercoledì l’ordine forense ha organizzato proteste in diverse città della Cisgiordania. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto che gli aggressori vengano perseguiti. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha incolpato dell’aggressione direttamente Abbas.

Intanto il sito di informazioni Amad (legato a Fatah ed oppositore di Abbas) è venuto a conoscenza che il servizio di sicurezza preventivo ha compiuto degli arresti per interrogare dei membri di Shabiba, il movimento giovanile di Fatah, a Bir Zeit. Questo è successo subito dopo che il gruppo ha distribuito volantini in cui si chiedevano le dimissioni di Abbas per aver partecipato al funerale di Peres.

Secondo il reportage, l’agenzia per la sicurezza dell’ANP sospettava che il deposto dirigente di Fatah Mohammed Dahlan fosse la persona che stava dietro all’appello di Shabiba. Tra l’altro, già mercoledì Amad ha riferito che Abbas aveva tenuto un basso profilo per due giorni; questo, prima dell’informazione ufficiale che Abbas era stato in ospedale per esami cardiaci.

Insegnanti indipendenti fastidiosi

Il Ministero dell’Educazione dell’ANP ha messo in guardia a chiare lettere gli insegnanti che intendessero riprendere il loro sciopero. Nel migliore dei casi, i loro salari verranno ridotti. Nel caso peggiore, saranno licenziati. E’ stato detto loro in duri termini, in un comunicato stampa, che “il ministro non starà con le braccia incrociate di fronte al tentativo organizzato palese di sovversione, e alla insistenza di alcuni nel partecipare alla distruzione dell’insegnamento in Palestina rinnovando lo sciopero nelle nostre scuole.”

Il comunicato stampa del Ministero dell’Educazione, riportato dall’agenzia di notizie Wafa, è pieno di altre pesanti affermazioni, come ad esempio: “l’istigazione (da parte di alcuni insegnanti) si salda all’attacco israeliano contro il Ministero dell’Educazione palestinese. Non lasciatevi fuorviare, qui ci sono di mezzo considerazioni personali ed interessi privati.”

A marzo gli insegnanti delle scuole pubbliche avevano accettato di interrompere lo sciopero, che la gente aveva appoggiato, dopo che Abbas aveva promesso di intervenire per applicare le condizioni dell’accordo sui salari del 2013. Ma le promesse – soprattutto quella di adeguare i salari al costo della vita – devono ancora essere mantenute.

Intanto è stato creato un sindacato indipendente degli insegnanti – al di fuori del sindacato tradizionale che fa integralmente parte dell’OLP e dipende da Fatah e dal suo capo. Chiaramente è questa attività indipendente che irrita particolarmente le autorità palestinesi.

Legge sulla previdenza sociale migliorata

E adesso le buone notizie. La legge sulla previdenza sociale per i lavoratori del settore privato, approvata da Abbas in febbraio, è stata emendata e migliorata dopo una valanga di critiche. Queste si sono esplicitate in manifestazioni, seminari con la partecipazione di attivisti sociali e docenti universitari, denunce sui media e assemblee pubbliche.

Da quando il Consiglio Legislativo Palestinese è stato privato dei suoi poteri legislativi nel 2007, la legiferazione è stata trasferita ai ministri e ad Abbas. Ovviamente ciò ha rafforzato il carattere autoritario dell’Autorità Palestinese.

Però a volte i membri eletti del Consiglio Legislativo riescono ad intervenire nel processo legislativo, discutere le bozze e sollevare obiezioni, come hanno fatto nel caso della legge sulla previdenza sociale. I piccoli partiti di sinistra vi hanno giocato un ruolo importante.

La legge migliorata, positivamente recepita, è stata annunciata mercoledì 28 settembre e comprende i seguenti risultati: una garanzia governativa (statale, nella formulazione della legge) per il fondo pensioni dei lavoratori, una modifica del rapporto tra i contributi del lavoratore e quelli del datore di lavoro dal 7,5% e 8% del salario rispettivamente al 7% e 9%, ed una riduzione del periodo lavorativo a fini pensionistici da 360 mesi a 300 per gli uomini e da 300 a 240 per le donne.

Inoltre la pensione minima sarà il 75% del salario minimo mensile (attualmente 1.450 shekels, cioè 382 dollari)[341,32 euro, ndtr] le donne avranno diritto al congedo per maternità dopo tre mesi di lavoro anziché sei, vi sarà esenzione dalle tasse per un prelievo una tantum dei risparmi sul fondo pensioni e il numero di lavoratori rappresentanti nel consiglio sociale per la sicurezza passerà da quattro a sei.

Infine ci sarà un intervento positivo per i disabili, che potranno godere di una pensione dopo 10 anni di lavoro ed il pagamento ai figli disabili nel caso di morte di un genitore assicurato, anche se i figli hanno più di 21 anni; un intervento positivo per i lavoratori che svolgono mansioni pericolose; il trasferimento della pensione al marito nel caso di morte della moglie assicurata.

Oltre alle conquiste ottenute dalla protesta sociale palestinese, l’approvazione di una legge sulla previdenza sociale – che fa riferimento a situazioni di pagamenti e rimborsi che avverranno tra decenni e la cui formulazione ha creato preoccupazione a molti palestinesi per mesi – indica qualcosa di più. Nonostante tutte le previsioni di un imminente tracollo – o perché Abbas non ha successori, o per via dell’instabilità di Fatah, o ancora perché le restrizioni israeliane impongono un’economia debole – i difficili rapporti tra la popolazione e le istituzioni di un limitato autogoverno si stanno adeguando alla situazione presente.

La situazione attuale non dipende quindi da una sola persona. Nonostante le dure critiche interne all’ANP, ai suoi fallimenti politici e nazionali, la percezione di essa come un’istituzione permanente ed esistente sta iniziando a radicarsi.

La trasformazione dell’ANP in uno Stato appare molto lontana. Ma sembra che proprio la speranza che essa assolva al suo ruolo e sia al servizio della società possa essere un’altra strada per sostenerla.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mahmoud Abbas governa temendo la democrazia

Omar Karmi The Electronic Intifada22 settembre 2016

Comunque le si veda, le elezioni municipali per la Cisgiordania occupata e Gaza in programma in ottobre sarebbero state di fatto un referendum sulla leadership di Mahmoud Abbas e, in modo molto minore, su Hamas.

Forse per questo sono state annullate.

Sicuramente questa è stata l’impressione data dai partiti rivali, Fatah e Hamas, una volta che l’Alta corte di giustizia palestinese di Ramallah ha stabilito che le elezioni non si potevano tenere a causa di “ostacoli procedurali” a Gaza e con Israele che impedisce di votare a Gerusalemme est.

Usama al-Qawasmi di Fatah ha accusato Hamas di aver deliberatamente sabotato il voto con “organi giurisdizionali privati” per impedire ai candidati di Fatah di presentarsi a Gaza. Sami Abu Zuhri, un rappresentante di Hamas, ha denunciato una decisione “politicamente motivata”della corte destinata a “venire in aiuto di Fatah”.

Ovviamente l’Alta corte sostiene strenuamente la propria indipendenza e rigetta la convinzione che le pressioni politiche abbiano influito sulla decisione. Tuttavia la corte non può essere seriamente vista come apolitica, dato che i suoi giudici sono stati nominati dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, una carica che Abbas ha ricoperto dal 2005.

Oltretutto il ragionamento della corte secondo cui le elezioni non si possono svolgere se non si tengono a Gerusalemme est non aveva impedito la realizzazione delle elezioni municipali nel 2012.

Dunque almeno qualche considerazione politica probabilmente ha influenzato la sentenza.

Quindi cos’è successo?

Le elezioni sono state annunciate in giugno e, inizialmente, sembravano destinate ad essere una riedizione delle elezioni municipali del 2012, che Hamas aveva boicottato. Il voto nel 2012 era limitato alla Cisgiordania – esclusa Gerusalemme est.

Ma in luglio Hamas ha annunciato che questa volta avrebbe invece partecipato. Dal momento in cui Hamas ha deciso di prendervi parte era chiaro che queste elezioni avrebbero riguardato molto più che l’erogazione di servizi locali.

Il voto avrebbe dovuto essere la prima contesa elettorale diretta in 10 anni, salvo che nelle università, tra Fatah, al potere nelle principali città della Cisgiordania, e Hamas, che governa all’interno di Gaza. Hamas aveva vinto la precedente tornata elettorale, le elezioni del 2006 per il Consiglio Legislativo palestinese.

Se le elezioni di quest’anno si fossero tenute, gli elettori avrebbero avuto la possibilità di esprimere il proprio parere sui risultati di entrambi i partiti. E in questo quasi- referendum, Abbas, che guida Fatah, un movimento diviso e scontento, avrebbe avuto molto più da perdere che Hamas, che ha il pieno controllo di Gaza.

Una sicura vittoria per Hamas?

Hamas ha giocato le sue carte con prudenza, annunciando che non avrebbe partecipato con proprie liste in Cisgiordania, ma avrebbe comunque appoggiato suoi iscritti o simpatizzanti indipendenti. Se ne sarebbe potuto ricavare scarse indicazioni. Un buon risultato avrebbe suggerito che se la fazione avesse presentato una lista di partito ciò avrebbe dato un risultato anche migliore.

Secondo Diana Buttu, un’ ex-consulente legale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sarebbe stata una vittoria sicura per Hamas. Sostiene che i timori riguardo i risultati di elezioni locali erano anche un segno che le divisioni interne di Fatah sono al momento una delle principali preoccupazioni di Abbas.

“Abbas teme la frammentazione di Fatah ed è ossessionato dalla possibilità di aprire la porta a una sfida alla sua leadership da parte di (Mohammed) Dahlan,” sostiene Buttu, riferendosi all’allora capo di Fatah a Gaza che era stato espulso dalla Striscia dopo che nel 2007 membri di Fatah vi tentarono un fallito colpo di stato sostenuto dagli USA contro Hamas.

Dahlan, che gode dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti e di altri Paesi della regione, è spesso citato come il principale rivale di Abbas e possibile successore, nonostante non viva nei Territori palestinesi da quando è stato espulso da Fatah nel 2011 e la sua base elettorale interna sia principalmente a Gaza.

Ad accentuare tali problemi, dal 2009 c’è stato uno scarso ricambio tra i ranghi di Fatah e nessuna elezione per l’organo dirigente della fazione, il comitato centrale.

“Ogni dirigente locale ambizioso di Fatah si è trovato la strada bloccata,” afferma Buttu. ” L’unica possibilità di fare carriera era presentarsi come indipendenti.”

Tuttavia ciò ha minacciato di replicare le elezioni del 2006, quando una fazione dissidente, al-Mustaqbal (“Il futuro” in arabo), guidata da Marwan Barghouti, in prigione ma molto popolare, e che includeva molti membri importanti di Fatah, si era iscritta per partecipare come lista separata.

Era stato trovato un compromesso all’ultimo momento, ma le divisioni all’interno di Fatah erano tutte molto evidenti e hanno giocato un ruolo in quello che è diventato un vantaggio per Hamas.

Stavolta il vantaggio di abbandonare la nave ammiraglia è arrivato in fretta. Il comitato centrale di Fatah aveva avvertito già prima dell’iscrizione finale all’inizio di settembre di quest’anno che chiunque avesse corso come indipendente sarebbe stato espulso dalle liste del partito.

E un giorno dopo che l’Alta corte ha annullato le elezioni, Abbas ha immediatamente espulso due membri di Fatah ad Hebron, l’ex assessore della giunta comunale Khalid Fahd al-Qawasmi e il vice sindaco del Comune di Hebron, Jawdi Abu Sneineh, che si erano proposti come indipendenti.

Leadership vacillante

Questi non sono stati gli unici espulsi. D’altronde, lo scorso anno, Abbas ha rimosso dalle loro cariche molti funzionari, in Fatah, nell’OLP -di cui è anche presidente – o nelle istituzioni dell’ANP.

Ad agosto sono filtrate notizie che Abbas aveva espulso molti membri del comitato centrale. Ciò era stato preceduto dall’espulsione in aprile del governatore di Nablus Akram Rajoub.

E lo scorso anno ha estromesso Yasser Abed Rabbo dalla sua posizione di numero due dell’OLP.

Tale svolta sempre più autocratica è arrivata insieme a sondaggi che mostravano ripetutamente che Abbas era meno popolare del suo avversario di Hamas, Ismail Haniyeh.

L’ultimo di questi sondaggi – realizzato in giugno dal Centro Palestinese di Politica e Ricerca – indicava che Abbas avrebbe perso in un ballottaggio diretto con Haniyeh, che ha la sua base a Gaza.

Tuttavia il distacco tra i due uomini si è ridotto lievemente se confrontato con un sondaggio realizzato tre mesi prima. In una competizione tra i due personaggi, il 48% di chi ha risposto ha detto che avrebbe votato per Haniyeh rispetto al 52% nella precedente inchiesta. Circa il 43% ha affermato che avrebbe votato per Abbas, in aumento rispetto al 41% di pochi mesi prima.

Circa due terzi del campione nel sondaggio di giugno voleva che Abbas desse le dimissioni, mentre la maggioranza considerava l’Autorità Nazionale Palestinese “un peso per il popolo palestinese.” Un totale dell’80% pensava che le istituzioni dell’ANP fossero corrotte.

Ma il sondaggio di giugno ha anche scoperto che Fatah era leggermente avanti rispetto ad Hamas, e che se Marwan Barghouti fosse stato il leader, Fatah avrebbe vinto un’elezione presidenziale.

Tuttavia Barghouti rimane in una prigione israeliana. Un anziano Abbas è ancora al potere, aggrappato ad una strategia – se questo è il termine appropriato – di “negoziati, negoziati, negoziati”.

Questi negoziati non hanno fatto niente per porre fine alla costruzione ed espansione delle colonie israeliane e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi.

E Hamas? Le elezioni sarebbero state la prima volta dal 2006 che il movimento islamico avrebbe potuto misurarsi contro Fatah.

Il periodo in cui Hamas ha governato la Striscia di Gaza assediata è stato sfortunato, con tre gravi attacchi militari israeliani, migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e senza casa, uno dei più alti livelli di disoccupazione al mondo e un allarme dell’ONU che la Striscia costiera potrebbe diventare inabitabile entro il 2020.

Tuttavia il movimento è ancora in grado di presentare un fronte coeso, una cosa che Fatah non ha saputo fare dalle elezioni del 2006. Hamas ha anche una dimensione regionale per la sua affiliazione alla più ampia “Fratellanza musulmana”, benché osteggiata.

Fatah è diventata un insieme di singole personalità. E Abbas sembra essere sempre più timoroso che le elezioni possano mettere in evidenza questa situazione.

Imbarazzanti domande potrebbero anche essere fatte sulla sua legittimità a governare – sono passati 11 anni da quando è stato eletto presidente. Il suo mandato è terminato nel 2009.

Le elezioni municipali di ottobre avrebbero potuto essere un primo passo per tornare alla “piscina democratica”. Alcune figure di alto livello nell’apparato dell’ANP hanno deciso di non avvicinarsi a questa “piscina” – forse perché hanno temuto di annegare.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington del quotidiano “The National”.

(traduzione di Amedeo Rossi)