Una rottura inevitabile: l’Operazione Al-Aqsa e la fine della partizione

Tareq Baconi 

26 novembre 2023, Al Shakaba 

L’offensiva a sorpresa di Hamas del 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo letale all’esercito e all’opinione pubblica israeliana dalla fondazione dello Stato nel 1948. Per ritorsione, Israele ha lanciato il più vasto attacco militare della storia a Gaza, distruggendo ampie parti del territorio e uccidendo oltre 14.000 palestinesi, più di un terzo dei quali minori. Con il via libera degli Stati Uniti e di gran parte dell’Europa, Israele ha portato avanti quella che studiosi ed esperti hanno definito una campagna di genocidio, cercando di sbarazzarsi dei palestinesi di Gaza con il pretesto di decimare Hamas.

La velocità con cui Israele si è mobilitato e la portata del suo attacco avvalorano la convinzione palestinese che il regime di occupazione coloniale stia attuando piani predisposti da tempo per l’espulsione di massa. Nel frattempo, i funzionari israeliani hanno utilizzato una campagna narrativa di disumanizzazione dei palestinesi per porre le basi per una giustificazione dell’immensa violenza.

In contrasto a questo scenario, questo articolo riconduce l’ultimo attacco israeliano a Gaza al suo contesto più ampio;e analizza la ghettizzazione della terra palestinese da parte di Israele attraverso la partizione in bantustan e individua l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa di Hamas come momento di rottura del sistema di partizione. È importante che si metta in primo piano la questione di ciò che verrà dopo la partizione e si ponga un freno alle crescenti possibilità di pulizia etnica dei palestinesi.

Gaza: il peggior bantustan d’Israele

Israele afferma di essere uno Stato sia ebraico che democratico, rifiutandosi di dichiarare i propri confini ufficiali e controllando totalmente un territorio all’interno dei cui confini vivono più palestinesi che ebrei. Per raggiungere questa realtà è necessaria una sofisticata struttura di ingegneria demografica, basata sulla diversificazione legale dei palestinesi e sullo stretto controllo dei loro movimenti e luoghi di residenza, confinandoli in enclave geografiche. Questo sistema è nato dall’ondata iniziale di espulsione di massa e pulizia etnica dei palestinesi avvenuta nel 1948, in cui più di 530 villaggi palestinesi furono spopolati per fare spazio ai coloni ebrei. Questa pratica coloniale di insediamento non è ancora chiusa nei libri di storia.

Ciò che i palestinesi chiamano Nakba è in corso da allora, con le quotidiane pratiche di colonizzazione di Israele che assumono forme diverse in diverse aree sotto il suo controllo. E costituisce un il pilastro centrale del regime di apartheid di Israele.

Gaza rappresenta storicamente la manifestazione più estrema del sistema israeliano di bantustan per i palestinesi. Con una delle più alte densità di popolazione del mondo, Gaza è composta prevalentemente da rifugiati espulsi dalle terre intorno alla Striscia durante l’istituzione di Israele nel 1948. In effetti, molti dei combattenti che hanno fatto irruzione nelle città israeliane il 7 ottobre sono probabilmente discendenti di rifugiati proprio da quelle terre in cui sono planati o strisciati, entrandovi per la prima volta dall’espulsione delle loro famiglie.

Dal 1948 Israele si è dedicato con impegno a recidere ogni nesso tra l’attuale resistenza anticoloniale e lo storico e corrente sistema di apartheid israeliano. Mentre molti pensano che Gaza sia sotto blocco perché governata da Hamas, Israele in realtà ha sperimentato dal 1948 un’infinità di tattiche per depoliticizzare il territorio e pacificarne la popolazione. Queste tattiche hanno incluso lo strangolamento economico e il blocco, decenni prima che Hamas fosse fondato, e senza alcun risultato.

Con la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, ai leader israeliani si è presentata un’opportunità: utilizzando la retorica del terrorismo, Israele ha posto Gaza sotto un blocco ermetico ignorando il programma politico del movimento sulla cui base era stato democraticamente eletto. Inizialmente il blocco doveva essere una tattica punitiva per forzare la capitolazione di Hamas, ma si è rapidamente trasformato in una struttura volta a contenere Hamas e a separare l’enclave costiera dal resto della Palestina. Con oltre due milioni di palestinesi invisibili dietro i muri e sotto assedio e blocco, il governo israeliano e gran parte dell’opinione pubblica israeliana – per non parlare dei leader occidentali – potevano lavarsi le mani della realtà che avevano creato.

Il blocco imposto dal regime di Israele serve all’obiettivo di contenimento sia dei palestinesi che di Hamas. Nel corso degli ultimi sedici anni, Israele ha fatto affidamento principalmente su Hamas per governare la popolazione di Gaza, pur mantenendo il controllo esterno dell’enclave. Hamas e il regime israeliano sono caduti in un equilibrio instabile, spesso sfociato in episodi di infinita violenza in cui migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Per Israele questa dinamica ha funzionato così bene che non è mai stata necessaria una strategia politica per Gaza. Come altrove in tutta la Palestina, Israele ha fatto affidamento sulla gestione dell’occupazione piuttosto che affrontarne i fattori politici, mantenendosi signore supremo dell’occupazione nelle varie enclave palestinesi governate da entità sotto il suo controllo sovrano.

L’unico obiettivo che Israele ha perseguito negli ultimi quindici anni è stato quello di cercare di garantire una relativa calma agli israeliani, in particolare a quelli che risiedono nelle aree circostanti Gaza. Lo ha fatto utilizzando una forza militare schiacciante, anche se quella calma è raggiunta a costo dell’imprigionamento di una popolazione di milioni di persone e del loro mantenimento in condizioni prossime alla fame. Gaza è stata così completamente cancellata dalla psiche israeliana che i manifestanti che marciavano per proteggere la cosiddetta democrazia israeliana all’inizio del 2023 si illudevano di fatto che democrazia e apartheid fossero verosimili compagni di letto.

Il collasso del sistema di partizioni

Quindi per la maggior parte del pubblico israeliano e dei sostenitori di Israele all’estero l’offensiva di Hamas è arrivata dal nulla. Uscendo dalla prigione, le Brigate Al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno rivelato la povertà strategica del presupposto secondo cui i palestinesi avrebbero consentito indefinitamente alla propria prigionia e sottomissione. Ancora più importante, l’operazione ha devastato la stessa fattibilità dell’approccio partizionista di Israele: la convinzione che i palestinesi possano essere dirottati nei bantustan mentre lo Stato colonizzatore continua a godere di pace e sicurezza – e persino espande le sue relazioni diplomatiche ed economiche nella regione circostante. Distruggendo l’idea che Gaza possa essere cancellata dall’equazione politica generale, Hamas ha fatto a brandelli l’illusione che la divisione etnica in Palestina sia una forma sostenibile o efficace di ingegneria demografica, per non parlare di morale o legalità.

Nel giro di poche ore dall’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, l’infrastruttura che era stata messa in atto per contenere Hamas – e con essa, per cacciare i palestinesi da Gaza – è stata distrutta davanti agli occhi spesso increduli di tutti. Mentre i combattenti di Hamas irrompevano nel territorio controllato da Israele, la collisione tra il mito di Israele come Stato democratico e la sua realtà di portatore di un violento apartheid è stata scioccante, tragica e, in definitiva, irreversibile. Di conseguenza, israeliani e palestinesi sono stati gettati in un paradigma post-partizione, in cui sia la convinzione di Israele della sostenibilità dell’ingegneria demografica sia l’infrastruttura dei bantustan utilizzata si sono rivelate temporanee e inefficaci.

Il crollo del quadro partizionista ha presentato un paradosso: da un lato, i palestinesi e i loro alleati hanno cercato di diffondere la consapevolezza che Israele è uno Stato di apartheid coloniale di insediamento. Questa consapevolezza è servita agli sforzi di alcuni volti a promuovere la decolonizzazione e il perseguimento di un sistema politico radicato nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nell’autodeterminazione. Molti palestinesi credono che il risultato della loro lotta per la liberazione sarà l’architettura politica di un tale spazio decolonizzato, una volta smantellati gli elementi centrali dell’apartheid – pulizia etnica, rifiuto di consentire il ritorno dei rifugiati e partizione.

D’altra parte, in assenza di un progetto politico in grado di sostenere questa lotta decoloniale, il collasso del 7 ottobre del sistema di partizione ha accelerato l’impegno di Israele alla pulizia etnica. Allo stesso modo ha rafforzato la convinzione fascista ed etnico-tribale secondo cui, senza partizione, solo gli ebrei possano esistere in sicurezza nella terra della Palestina colonizzata, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, il collasso delle possibilità partizioniste potrebbe aver gettato le basi per un’altra Nakba piuttosto che per un futuro decolonizzato.

I calcoli politici di Hamas

Questo paradosso spiega, in parte, il risentimento espresso nei confronti dell’offensiva di Hamas da parte anche di alcuni palestinesi che vedono nell’attacco l’inizio di un’altra crisi per la loro lotta collettiva. L’incombente possibilità di una pulizia etnica non deve essere sottovalutata, e lo sbalorditivo bilancio delle vittime che i civili di Gaza stanno sperimentando deve indurre tutti a riflettere sull’enorme costo provocato dall’operazione di Hamas, anche quando la responsabilità primaria di questa violenza ricada direttamente sul regime coloniale israeliano.

Tuttavia tale lettura travisa i calcoli politici di Hamas. Ovviamente c’è qualcosa di vero nell’insinuare che questa violenza sia stata scatenata dall’attacco di Hamas. Eppure la realtà era letale per i palestinesi anche prima dell’offensiva, anche se in misura minore di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre. Era una violenza che si era normalizzata e che, nella sua essenza, aveva lo stesso scopo: uccidere i palestinesi in massa. La violenza a cui abbiamo assistito nel 2023 non è altro che lo scatenarsi della brutalità che ha sempre costituito le basi della lotta di Israele con i palestinesi in generale, e con quelli di Gaza in particolare.

La rottura era quindi inevitabile. Il contenimento di Hamas è stato efficace, ma dato l’impegno del movimento per la liberazione palestinese e il suo fermo rifiuto di concedere il riconoscimento dello Stato di Israele, è probabile che il contenimento sia sempre temporaneo a meno che non vengano compiuti seri sforzi per affrontare i fattori politici al centro della lotta palestinese per la liberazione. Con una popolazione in crescita a Gaza e carenze di governance sempre più acute, l’idea che Hamas non ribaltasse quella realtà – soprattutto con l’estendersi dell’impunità israeliana – era miope.

Ciò di cui Hamas è responsabile, e ciò di cui i palestinesi devono ritenerli responsabili, è la misura di una pianificazione – o la sua mancanza – per il giorno successivo all’attacco. Con la consapevolezza che Hamas e altri hanno acquisito nel corso degli anni, non ci potevano essere dubbi sul fatto che l’attacco di Hamas si sarebbe tradotto in furia scatenata contro i palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Il movimento avrebbe dovuto essere – e forse lo era – preparato alla violenza che si è abbattuta successivamente su Gaza. Stabilire se i calcoli erano giusti, nonostante la tragica perdita di vite umane, è qualcosa con cui i palestinesi dovranno confrontarsi negli anni a venire.

Ipocrisia e colpe dell’Occidente

Invece di tentare di frenare l’attacco israeliano su Gaza, l’amministrazione Biden ha solo gettato benzina sul fuoco. Nel suo primo discorso dopo l’attentato, il presidente americano ha descritto Hamas come “male assoluto”, paragonandone l’offensiva a quelle dell’Isis; ha anche paragonato il 7 ottobre all’11 settembre e ha ripetutamente fatto riferimento a pretese brutalità poi ampiamente smentite per fomentare luoghi comuni orientalisti e islamofobici nel tentativo di giustificare la ferocia della risposta di Israele.

È importante notare che gli sforzi per collegare la resistenza palestinese in tutte le sue forme – pacifica o armata – al terrorismo sono molto anteriori all’attacco di Hamas. Durante la Seconda Intifada, evocare l’11 settembre da parte di Ariel Sharon trovò un pubblico ricettivo nell’amministrazione Bush, che era nelle prime fasi di elaborazione della sua dottrina di Guerra al Terrore. I mesi successivi videro Israele lanciare invasioni militari estremamente distruttive contro i campi profughi in Cisgiordania sotto il cartello della lotta al terrorismo.

Nel frattempo i principali media e gli spazi politici occidentali continuano a mancare di analisi approfondite e fondate sull’evolversi della situazione. Invece è stato proposto un imperante modello di disumanizzazione palestinese in modo così totale che qualsiasi tentativo di utilizzare le piattaforme dei media per smantellare – o semplicemente mettere in discussione – il sistema di dominio israeliano incontra reazioni perplesse e una condanna uniforme. In questa lettura Hamas avrebbe agito in modo irrazionale, i palestinesi di Gaza erano a disposizione del movimento come scudi umani e il sistema coloniale israeliano nel suo insieme era tranquillo e sostenibile prima del 7 ottobre. Queste reazioni, più che altro, segnalano l’ipocrisia occidentale e il razzismo anti-palestinese.

Ciò che è chiaro è che i leader occidentali si rifiutano pervicacemente di riconoscere l’attacco di Hamas per quello che è stato: una dimostrazione senza precedenti di violenza anticoloniale. L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata la risposta inevitabile all’incessante e interminabile provocazione di Israele con il furto di terre, l’occupazione militare, il blocco e l’assedio e la negazione del diritto fondamentale al ritorno in patria da più di 75 anni. Invece di riproporre analogie astoriche e rispolverare vecchie narrazioni, è giunto il momento che la comunità internazionale si confronti con la vera causa principale della violenza a cui stiamo assistendo: l’occupazione dei coloni israeliani e l’apartheid.

Per limitare il sangue che sarà versato quando il sistema di apartheid israeliano sarà messo in discussione, la comunità internazionale e in particolare l’Occidente devono prima fare i conti con il fatto di aver reso possibile un sistema politico etno-nazionalista che ha fatto a pezzi i diritti e le vite dei palestinesi. Il mondo deve affrontare la realtà, che le richieste politiche palestinesi non possono essere cancellate o messe da parte sotto la bandiera onnicomprensiva ma poco convincente della lotta al terrorismo. Invece di imparare la lezione, i politici occidentali sembrano contenti di servire come partner attivi nell’attuale campagna di pulizia etnica del regime israeliano: la nakba della mia generazione.

Tareq Baconi è presidente del consiglio direttivo di Al-Shabaka. È stato borsista di Al-Shabaka per la politica statunitense dal 2016 al 2017. Tareq è ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group con sede a Ramallah, e autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestine Resistance (Contenere Hamas: l’ascesa e la pacificazione della resistenza palestinese, Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi tra gli altri su London Review of Books, New York Review of Books, Washington Post, ed è di frequente cronista nei media regionali e internazionali. È redattore delle recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Una fabbrica di omicidi di massa”: sul bombardamento di Gaza pianificato da Israele

Yuval Abraham

30 novembre 2023 – +972 Magazine

Un’indagine di +972 e Local Call rivela come attacchi aerei senza freni su obiettivi non militari e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale abbiano consentito all’esercito israeliano di portare avanti la guerra più letale contro Gaza

Un’indagine di +972 Magazine e Local Call rivela come l’autorizzazione all’esercito israeliano di effettuare massicci bombardamenti di obiettivi non militari, l’allentamento dei vincoli riguardo alle possibili vittime civili e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale per generare un numero senza precedenti di potenziali obiettivi sembrano aver contribuito alla natura distruttiva delle fasi iniziali dell’attuale guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Questi fattori, come descritti da membri in servizio e in congedo dell’intelligence israeliana, hanno probabilmente avuto un ruolo nel produrre quella che è stata una delle campagne militari più letali contro i palestinesi dai tempi della Nakba del 1948.

L’indagine di +972 e Local Call si basa su conversazioni con sette membri in servizio e in congedo della comunità dell’intelligence israeliana – tra cui personale dell’intelligence militare e dell’aeronautica militare coinvolto nelle operazioni israeliane nella Striscia assediata – oltre a testimonianze, dati e documentazione palestinesi dalla Striscia di Gaza e dichiarazioni ufficiali del portavoce dell’IDF e di altre istituzioni statali israeliane.

Rispetto ai precedenti attacchi israeliani su Gaza, l’attuale guerra – che Israele ha chiamato “Operazione Spade di Ferro” e che è iniziata in seguito all’assalto guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre – ha visto l’esercito estendere in modo significativo i suoi bombardamenti su Gaza contro obiettivi di natura non prettamente militare. Questi includono abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli che secondo le fonti l’esercito definisce “obiettivi di potere” (matarot otzem).

Secondo fonti di intelligence che ne hanno avuto esperienza diretta in passato a Gaza, gli obiettivi del bombardamento di potere mirano principalmente a danneggiare la società civile palestinese: “creare uno shock” che, tra le altre cose, avrà un potente impatto per “indurre i civili a esercitare pressioni su Hamas”, come lo ha descritto una fonte.

Molti degli informatori che hanno parlato con +972 e Local Call a condizione di rimanere anonimi hanno confermato che l’esercito israeliano ha una documentazione sulla stragrande maggioranza dei potenziali obiettivi a Gaza – comprese le case – che stabilisce il numero di civili che potrebbero essere uccisi in un attacco contro un determinato obiettivo. Questa cifra viene calcolata ed è nota in anticipo ai servizi segreti dell’esercito, che sanno anche, poco prima di un attacco, quanti civili verranno sicuramente uccisi.

In un caso di cui hanno parlato le fonti il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un unico importante comandante militare di Hamas. “I numeri sono aumentati da decine di morti civili [autorizzati] in operazioni precedenti a centinaia di morti civili come danno collaterale nell’attacco contro un importante dirigente [di Hamas] “, ha detto una fonte.

“Niente accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema che morisse, che era un prezzo che valeva la pena pagare per colpire [un altro] bersaglio. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi lanciati a casaccio. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

Secondo l’inchiesta, un altro motivo del gran numero di obiettivi e dei gravissimi danni alla vita civile a Gaza è l’uso diffuso di un sistema chiamato “Habsora” (“Il Vangelo”), basato in gran parte sull’intelligenza artificiale, e può “generare” obiettivi quasi automaticamente a una velocità che supera di gran lunga quanto era possibile fare in precedenza. Questo sistema di intelligenza artificiale, come descritto da un ex ufficiale dell’intelligence, consente essenzialmente di avere una “fabbrica di omicidi di massa”.

Secondo le fonti, il crescente utilizzo di sistemi come Habsora basati sull’intelligenza artificiale permette all’esercito di effettuare attacchi su vasta scala contro edifici residenziali in cui vive un solo membro di Hamas, anche quelli in cui ci siano miliziani poco importanti di Hamas. Eppure le testimonianze dei palestinesi a Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre l’esercito ha attaccato anche molte abitazioni private in cui non risiedeva alcun membro noto o presunto di Hamas o di qualsiasi altro gruppo armato. Tali attacchi, hanno confermato fonti a +972 e Local Call, possono uccidere consapevolmente intere famiglie.

Nella maggior parte dei casi, aggiungono le fonti, nessuna attività militare viene condotta dalle case prese di mira. “Ricordo di aver pensato che era come se (i miliziani palestinesi) bombardassero tutte le case private delle nostre famiglie quando (i soldati israeliani) tornano a dormire a casa nel fine settimana,” ha osservato una fonte, critica nei confronti di questa pratica.

Un’altra fonte ha affermato che dopo il 7 ottobre un alto funzionario dell’intelligence ha detto ai suoi ufficiali che l’obiettivo era “uccidere quanti più miliziani di Hamas possibile,” per cui i criteri relativi al danno ai civili palestinesi erano significativamente allentati. Pertanto, ci sono “casi in cui bombardiamo sulla base di una localizzazione cellulare ampia del punto in cui si trova l’obiettivo, uccidendo civili. Questo viene spesso fatto per risparmiare tempo, invece di fare un po’ di lavoro in più per ottenere una localizzazione più accurata”, ha detto la fonte.

Il risultato di queste politiche è l’incredibile perdita di vite umane a Gaza dal 7 ottobre. Oltre 300 famiglie hanno perso dieci o più membri a causa dei bombardamenti israeliani negli ultimi due mesi, un numero 15 volte superiore rispetto alla cifra registrata in precedenza nella guerra più mortale di Israele contro Gaza, nel 2014. Al momento in cui scrivo, circa 15.000 palestinesi sono stati uccisi nella guerra, e continuano ad aumentare.

“Tutto ciò avviene in contrasto con il protocollo utilizzato dall’IDF in passato”, ha spiegato una fonte. “C’è la sensazione che gli alti funzionari dell’esercito siano consapevoli del loro fallimento il 7 ottobre, e siano impegnati nel fornire all’opinione pubblica israeliana un’immagine [di vittoria] che salverà la loro reputazione”.

Una scusa per provocare distruzioni”

Israele ha scatenato il suo attacco contro Gaza subito dopo l’offensiva guidata da Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele. Secondo un rapporto dell’Ong Medici per i Diritti Umani-Israele, durante quell’aggressione, sotto una pioggia di razzi, i miliziani palestinesi hanno massacrato più di 840 civili e ucciso 350 soldati e personale della sicurezza, rapendo circa 240 persone, civili e soldati, verso Gaza, e commesso violenze sessuali generalizzate, tra cui stupri.

In un primo momento dopo l’attacco del 7 ottobre i dirigenti politici israeliani hanno apertamente dichiarato che la risposta sarebbe stata di dimensioni totalmente diverse rispetto alle precedenti operazioni militari a Gaza, con l’esplicita intenzione di sradicare totalmente Hamas. “Il rilievo è dato ai danni e non all’accuratezza,” ha affermato il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari il 9 ottobre. L’esercito ha prontamente messo in pratica queste dichiarazioni.

Secondo le fonti che hanno parlato con +972 e Local Call, i bersagli colpiti dagli aerei israeliani a Gaza possono essere divisi all’incirca in quattro categorie. La prima sono gli “obiettivi tattici,” che includono consueti bersagli militari come cellule di miliziani, depositi di armi, lanciarazzi, lanciamissili anticarro, fosse di lancio, bombe di mortaio, centri di comando militari, posti di osservazione, e via di seguito.

La seconda sono gli “obiettivi sotterranei”, principalmente tunnel che Hamas ha scavato sotto i quartieri di Gaza, anche sotto abitazioni civili. Attacchi aerei contro questi bersagli possono portare al crollo delle case sopra o nei pressi dei tunnel.

La terza sono gli “obiettivi di potere”, che includono edifici alti e torri residenziali nel cuore delle città ed edifici pubblici come università, banche e uffici statali. L’idea che sta dietro al colpire tali bersagli, dicono tre fonti dell’intelligence che in passato sono stati coinvolti nella pianificazione o conduzione di attacchi contro obiettivi di potere, è che un attacco deliberato contro la società palestinese provocherà una “pressione dei civili” su Hamas.

L’ultima categoria consiste in “case private” o “case di miliziani”. L’intenzione dichiarata di questi attacchi è distruggere le abitazioni per assassinare un abitante sospettato di essere un membro operativo di Hamas o del Jihad Islamico. Tuttavia in questa guerra testimoni palestinesi affermano che alcune delle famiglie uccise non includevano alcun miliziano di quelle organizzazioni.

Nelle prime fasi dell’attuale guerra l’esercito israeliano sembra essersi occupato principalmente della terza e quarta categoria di bersagli. Secondo le affermazioni del portavoce dell’esercito l’11 ottobre, durante i primi cinque giorni di combattimenti metà degli obiettivi colpiti – 1.329 su un totale di 2.687 – erano definiti obiettivi di potere.

Ci veniva chiesto di cercare edifici alti con metà di un piano che potesse essere attribuito ad Hamas,” ha affermato una fonte che ha preso parte a precedenti offensive israeliane a Gaza. “A volte è l’ufficio di un portavoce di un gruppo di miliziani o dove si incontrano i membri operativi. Mi sono reso conto che il piano è una scusa per consentire all’esercito di provocare grandi distruzioni a Gaza. E’ quello che ci hanno detto. Se dicessero a tutto il mondo che gli uffici (del Jihad Islamico) al decimo piano non sono un obiettivo importante, ma che la sua esistenza è una giustificazione per radere al suolo l’intero grattacielo per spingere le famiglie di civili che vi vivono a far pressione sulle organizzazioni terroristiche, ciò verrebbe visto in sé come terrorismo. Quindi non lo dicono,” aggiunge la fonte.

Varie fonti che hanno prestato servizio nelle unità di intelligence dell’IDF hanno affermato che almeno fino alla guerra in corso le regole d’ingaggio dell’esercito consentivano di attaccare obiettivi di potere solo quando l’edificio era disabitato al momento dell’attacco. Tuttavia testimonianze e video da Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre alcuni di questi bersagli sono stati attaccati senza informare in precedenza gli abitanti, uccidendo di conseguenza intere famiglie.

L’attacco su vasta scala contro edifici residenziali può essere rintracciato da informazioni pubbliche e ufficiali. Secondo l’ufficio stampa del governo a Gaza – che ha fornito il bilancio dei morti da quando ha smesso di farlo il Ministero della Sanità di Gaza l’11 novembre a causa del crollo dei servizi sanitari nella Striscia – al momento della tregua temporanea iniziata il 23 novembre Israele aveva ucciso 14.800 palestinesi a Gaza. Circa 6.000 di loro erano minorenni e 4.000 donne, che insieme costituiscono più del 67% del totale. I dati forniti dal Ministero della Sanità e dall’ufficio stampa del governo – entrambi sotto l’egida del governo di Hamas – non si differenziano significativamente dalle stime israeliane.

Peraltro il Ministero della Sanità di Gaza non specifica quanti morti facessero parte dell’ala militare di Hamas o del Jihad Islamico. L’esercito israeliano stima di aver ucciso tra i 1.000 e i 3.000 miliziani palestinesi. Secondo articoli dei mezzi di comunicazione israeliani alcuni dei miliziani morti sono rimasti sepolti sotto le macerie o nel sistema di tunnel sotterranei di Hamas, e di conseguenza non sono stati inclusi nei conteggi ufficiali.

Dati dell’ONU per il periodo fino all’11 novembre, secondo cui fino a quel momento Israele aveva ucciso 11.078 palestinesi a Gaza, sostengono che almeno 312 famiglie hanno perso 10 o più membri nell’attuale attacco israeliano; per fare un confronto, durante l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014 a Gaza 20 famiglie avevano perso 10 o più membri. Secondo i dati dell’ONU almeno 189 famiglie hanno perso tra i sei e i nove membri, mentre 549 famiglie hanno perso tra le due e le cinque persone. Nessuna disaggregazione aggiornata è stata ancora fornita per i dati delle vittime resi pubblici dall’11 novembre.

I massicci attacchi contro obiettivi di potere e abitazioni private sono avvenuti nello stesso momento in cui l’esercito israeliano, il 13 ottobre, ha invitato il milione e centomila abitanti del nord della Striscia di Gaza, molti dei quali residenti a Gaza City, di lasciare le proprie case e spostarsi nel sud della Striscia. A quella data un numero record di obiettivi di potere era già stato bombardato e più di 1.000 palestinesi erano già stati uccisi, tra cui centinaia di minorenni.

Secondo l’ONU dal 7 ottobre in totale un milione e settecentomila palestinesi, la grande maggioranza della popolazione della Striscia, è stato sfollato all’interno di Gaza. L’esercito ha sostenuto che la richiesta di evacuazione del nord della Striscia intendeva proteggere le vite dei civili. Tuttavia i palestinesi vedono questo spostamento di massa come parte di una “nuova Nakba”, un tentativo di pulizia etnica di parte o di tutto il territorio.

Hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo”

Secondo l’esercito israeliano durante i primi cinque giorni di combattimenti sono state lanciate 6.000 bombe sulla Striscia, per un peso totale di circa 4.000 tonnellate. I mezzi di informazione hanno riportato che l’esercito ha spazzato via interi quartieri. Secondo il Centro Al Mezan per i Diritti Umani, con sede a Gaza, questi attacchi hanno portato alla “completa distruzione di quartieri residenziali, di infrastrutture e l’uccisione in massa di abitanti.”

Come documentato da Al Mezan e da numerose immagini provenienti da Gaza, Israele ha bombardato l’Università Islamica di Gaza, la Palestinian Bar Association [associazione di avvocati palestinesi, ndt.], un edificio dell’ONU per programmi educativi per studenti d’eccellenza, un edificio dell’impresa di telecomunicazioni palestinese, il Ministero dell’Economia Nazionale, quello della Cultura, strade e decine di grattacieli e case, soprattutto nei quartieri settentrionali di Gaza.

Il quinto giorno del conflitto il portavoce dell’IDF ha distribuito ai reporter di guerra in Israele immagini satellitari “prima e dopo” dei quartieri a nord della Striscia, come Shuja’iyya e Al-Furqan (che prende il nome da una moschea della zona) a Gaza City, che mostrano decine di case ed edifici distrutti. L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito 182 obiettivi di potere a Shuja’iyya e 312 ad Al-Furqan.

Il capo di stato maggiore dell’aviazione israeliana Omer Tishler ha detto ai giornalisti di guerra che tutti questi attacchi sono un bersaglio militare legittimo, ma anche che interi quartieri sono stati attaccati “su larga scala e non in modo chirurgico”. Notando che metà degli obiettivi militari fino all’11 ottobre erano obiettivi di potere, il portavoce dell’IDF ha detto che “quartieri che servono come covi terroristici per Hamas” sono stati attaccati e che sono stati causati danni a “centri di comando operativi”, “strutture operative” e “strutture utilizzate da organizzazioni terroristiche all’interno di edifici residenziali.” Il 12 ottobre l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso tre “importanti membri di Hamas”, due dei quali facevano parte dell’ala politica del gruppo.

Eppure, nonostante gli incontrollati bombardamenti israeliani, i danni per le infrastrutture militari di Hamas nel nord di Gaza durante i primi giorni di guerra sembrano essere stati molto ridotti. Di fatto fonti dell’intelligence hanno detto a +972 e Local Call che i bersagli militari che facevano parte di obiettivi di potere erano stati precedentemente utilizzati molte volte come foglie di fico per colpire la popolazione civile. “Hamas è ovunque a Gaza, non c’è edificio che non abbia al suo interno qualcosa di Hamas, così se vuoi trovare un modo per trasformare un grattacielo in bersaglio riuscirai a farlo,” ha detto un ex-ufficiale dell’intelligence.

Non colpiranno mai semplicemente un grattacielo che non abbia qualcosa che si possa definire obiettivo militare,” ha detto un’altra fonte dell’intelligence, che ha in precedenza effettuato attacchi contro obiettivi di potere. “Ci sarà sempre un piano (associato ad Hamas) in un edificio alto. Ma, quando si tratta di obiettivi di potere, per lo più è chiaro che il bersaglio non ha un valore militare che giustifichi un attacco che demolisce un intero edificio vuoto in mezzo a una città, con l’intervento di sei aerei e bombe che pesano parecchie tonnellate.”

In effetti, secondo fonti che sono state coinvolte nel designare obiettivi di potere in guerre precedenti, benché la documentazione sul bersaglio in genere contenga un qualche tipo di presunto rapporto con Hamas o altre organizzazioni di miliziani, colpire l’obiettivo funziona principalmente come un “mezzo che consente di danneggiare la società civile”. Le fonti si rendono conto, alcune esplicitamente e altre implicitamente, che il vero scopo di questi attacchi è danneggiare i civili.

Nel maggio 2021, per esempio, Israele è stato duramente criticato per aver bombardato la Torre Al-Jalaa, che ospitava importanti mezzi di informazione internazionali come Al Jazeera, AP e AFP [una agenzia di stampa statunitense e l’altra francese, ndt.]. L’esercito ha sostenuto che l’edificio era un obiettivo militare di Hamas; alcune fonti hanno detto a +972 e Local Call che di fatto si trattava di un obiettivo di potere.

La sensazione è che quando vengono demoliti grattacieli ciò colpisce realmente Hamas perché crea una reazione dell’opinione pubblica nella Striscia di Gaza e spaventa la popolazione,” ha affermato un’altra fonte. “Vogliono dare ai cittadini di Gaza la sensazione che Hamas non ha il controllo della situazione. A volte hanno demolito edifici, a volte il servizio postale ed edifici governativi.”

Benché attaccare più di 1.000 obiettivi di potere in cinque giorni non abbia precedenti per l’esercito israeliano, l’idea di provocare una massiccia devastazione di zone civili per obiettivi strategici era stata formulata in precedenti operazioni a Gaza, perfezionata dalla cosiddetta “Dottrina Dahiya” nella seconda guerra del Libano nel 2006. Secondo questa dottrina, sviluppata dall’ex-capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e fa parte dell’attuale gabinetto di guerra, in una guerra contro gruppi di guerriglieri come Hamas o Hezbollah Israele deve fare uso di una forza sproporzionata e schiacciante prendendo di mira infrastrutture civili e statali come deterrente per obbligare la popolazione civile a fare pressione sui gruppi armati perché pongano fine ai loro attacchi. Il concetto di “obiettivi di potere” sembra derivare proprio da questa logica.

La prima volta che l’esercito israeliano ha pubblicamente definito degli obiettivi di potere a Gaza è stato alla fine dell’operazione “Margine protettivo” nel 2014. L’esercito bombardò quattro edifici durante gli ultimi quattro giorni di guerra, tre residenziali a più piani a Gaza City e un grattacielo a Rafah. All’epoca l’apparato di sicurezza spiegò che gli attacchi intendevano comunicare ai palestinesi di Gaza che “niente è più immune,” e mettere pressione su Hamas perché accettasse il cessate il fuoco. “Le prove che abbiamo raccolto mostrano che la distruzione massiccia (degli edifici) venne realizzata deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare,” affermò un rapporto di Amnesty alla fine del 2014.

Durante un’altra escalation di violenza iniziata nel novembre 2018 l’esercito attaccò di nuovo obiettivi di potere. Quella volta Israele bombardò grattacieli, centri commerciali ed edifici della stazione televisiva Al-Aqsa, affiliata ad Hamas. “Attaccare obiettivi di potere produce un effetto veramente notevole sull’avversario,” affermò all’epoca un ufficiale dell’aeronautica. “Lo abbiamo fatto senza uccidere nessuno e ci siamo accertati che l’edificio e i dintorni fossero stati evacuati.”

Precedenti operazioni hanno dimostrato anche come colpire questi bersagli intenda non solo danneggiare il morale dei palestinesi, ma anche alzare il morale in Israele. Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che durante l’operazione “Guardiano delle Mura” del 2021 l’unità portavoce dell’IDF ha condotto un’operazione psicologica sui cittadini israeliani per promuovere la consapevolezza delle operazioni dell’esercito a Gaza e il danno che avevano causato ai palestinesi. Soldati che utilizzavano falsi account sulle reti sociali per occultare l’origine della campagna pubblicarono immagini e brevi video degli attacchi dell’esercito a Gaza su Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per dimostrare all’opinione pubblica israeliana la potenza dell’esercito.

Durante l’attacco del 2021 Israele colpì nove obiettivi definiti di potere, tutti edifici alti. “Lo scopo era di far crollare grattacieli per mettere Hamas sotto pressione anche in modo che l’opinione pubblica (israeliana) vedesse un’immagine di vittoria,” ha detto a +972 e Local Call una fonte della sicurezza.

Tuttavia, ha proseguito, “non ha funzionato. Essendo uno di quelli che ha perseguito Hamas, ho sentito personalmente quanto poco si preoccupino dei civili e degli edifici distrutti. A volte l’esercito ha trovato nei grattacieli qualcosa di relativo ad Hamas, ma sarebbe stato anche possibile colpire quel determinato bersaglio con armi più appropriate. Il risultato finale è che hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo.”

Stavano tutti cercando i propri figli in quei mucchi”

Non solo l’attuale guerra ha visto Israele attaccare un numero senza precedenti di obiettivi di potere, ha anche visto l’esercito abbandonare precedenti politiche tese a evitare di danneggiare i civili. Mentre prima la procedura ufficiale dell’esercito era che si potevano attaccare obiettivi di potere solo dopo che tutti i civili erano scappati, testimonianze di abitanti palestinesi a Gaza indicano che dal 7 ottobre Israele ha attaccato grattacieli con dentro chi ci abitava o senza aver fatto significativi passi per evacuarli, determinando la morte di molti civili.

Molto spesso questi attacchi hanno come risultato l’uccisione di intere famiglie, come successo in precedenti offensive; secondo una ricerca dell’AP [Associated Press, agenzia di stampa USA, ndt.] condotta dopo la guerra del 2014, circa l’89% di quanti vennero uccisi dai bombardamenti aerei di abitazioni civili erano abitanti disarmati e molti di loro minori e donne.

Tishler, il capo di stato maggiore dell’Aviazione, ha confermato un cambiamento della politica, dicendo ai giornalisti che la politica dell’esercito di “bussare sul tetto” – in base alla quale avrebbe sparato un colpo di avvertimento iniziale sul tetto di un edificio per avvertire gli abitanti che stava per essere bombardato – non viene più utilizzata “dove c’è un nemico”. Bussare sul tetto, ha affermato Tishler, è “un termine importante in una serie (di scontri) e non per una guerra.”

Le fonti che hanno lavorato in precedenza sugli obiettivi di potere hanno affermato che questa strategia senza freni dell’attuale guerra potrebbe rappresentare uno sviluppo pericoloso, spiegando che attaccare obiettivi di potere in origine intendeva “scioccare” Gaza, ma non necessariamente uccidere un grande numero di civili. “I bersagli erano concepiti con l’assunto che i grattacieli sarebbero stati evacuati dalle persone, quindi quando ci lavoravamo (sulla compilazione dei bersagli) non c’erano preoccupazioni relative a quanti civili sarebbero stati colpiti; il presupposto era che non ce ne sarebbero stati,” ha detto una fonte esperta in questo tipo di azioni.

Ciò significava che c’era stata un’evacuazione totale (dell’edificio preso di mira), che implica due o tre ore di tempo, durante le quali agli abitanti viene chiesto (per telefono di andarsene), vengono lanciati missili di avvertimento; facevamo anche un controllo incrociato con riprese dai droni che le persone stessero effettivamente lasciando il grattacielo,” ha aggiunto la fonte.

Tuttavia prove da Gaza suggeriscono che alcuni grattacieli, che supponiamo siano stati obiettivi di potere, siano stati colpiti senza avvertimento. +972 e Local Call hanno individuato almeno due casi in cui durante l’attuale guerra interi grattacieli residenziali sono stati bombardati e distrutti senza avvertimento, e un caso in cui, in base a prove, un grattacielo è crollato sui civili che si trovavano all’interno.

Secondo la testimonianza di Bilal Abu Hatzira, che quella notte ha estratto corpi dalle rovine, il 10 ottobre Israele ha bombardato l’edificio Babel di Gaza. Nell’attacco contro l’edificio sono state uccise dieci persone, tra cui tre giornalisti.

Il 25 ottobre è stato raso al suolo senza avvertimento con le bombe l’edificio residenziale di 12 piani Al-Taj, uccidendo le famiglie che vi vivevano. Secondo le testimonianze degli abitanti circa 120 persone sono rimaste sepolte sotto le macerie dei loro appartamenti. Yousef Amar Sharaf, un abitante dell’Al-Taj, ha scritto su X che nell’attacco sono stati uccisi i 37 membri della sua famiglia che vivevano nell’edificio: “I miei cari genitori, la mia amata moglie, i miei figli e la maggioranza dei miei fratelli e delle loro famiglie.”

Gli abitanti affermano che sono state lanciate molte bombe, danneggiando e distruggendo appartamenti anche negli edifici vicini.

Sei giorni dopo, il 31 ottobre, l’edificio residenziale di otto piani Al-Mohandseen è stato bombardato senza preavviso. Il primo giorno sarebbero stati estratti dalle macerie tra i 30 e i 45 corpi. Un bambino è stato ritrovato vivo, senza i genitori. I giornalisti stimano che oltre 150 persone siano state uccise nell’attacco e che molte siano rimaste sepolte sotto le macerie.

Secondo testimonianze l’edificio sorgeva nel campo profughi di Nuseirat, a sud del Wadi Gaza, nella presunta “zona di sicurezza” in cui Israele ha indirizzato i palestinesi che scappavano dalle proprie case nella zona settentrionale e centrale di Gaza, e che pertanto serviva come rifugio temporaneo a persone espulse.

In base a un’indagine di Amnesty International il 9 ottobre Israele ha bombardato almeno tre edifici multipiano e anche un mercato dell’usato all’aperto in un’affollata strada del campo profughi di Jabaliya, uccidendo almeno 69 persone. “I corpi sono stati bruciati… Non volevo guardare, avevo paura di vedere il volto di Imad,” ha detto il padre di un bambino ucciso. “I corpi erano sparsi sul pavimento. Tutti cercavano i figli nei mucchi. Ho riconosciuto mio figlio solo dai suoi pantaloni. Volevo seppellirlo subito, così ho preso mio figlio e l’ho portato via.”

Secondo l’inchiesta di Amnesty l’esercito ha affermato che l’attacco contro la zona del mercato era diretto contro una moschea “in cui c’erano miliziani di Hamas.” Tuttavia in base alla stessa indagine le immagini satellitari non mostrano alcuna moschea nelle vicinanze.

Il portavoce dell’IDF non ha risposto alle domande di +972 e Local Call riguardo ad attacchi specifici, ma ha affermato più genericamente che “l’esercito israeliano avverte prima degli attacchi in vario modo, e quando le circostanze lo consentono invia avvertimenti individuali attraverso telefonate alle persone che si trovano negli obiettivi o nelle vicinanze (ci sono state più di 25.000 conversazioni dal vivo durante la guerra, insieme a milioni di conversazioni registrate, messaggi di testo e volantini lanciati dal cielo con l’intento di avvertire la popolazione). In generale l’IDF lavora per ridurre per quanto possibile i danni ai civili come parte degli attacchi, nonostante la difficoltà di combattere un’organizzazione terroristica che usa gli abitanti di Gaza come scudi umani.”

Il computer produce 100 bersagli in un giorno”

Secondo il portavoce dell’IDF, fino al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. In base a molteplici fonti è un numero molto alto rispetto alle quattro precedenti vaste operazioni nella Striscia. Durante “Guardiano delle Mura” nel 2021 Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 15 giorni. Durante “Margine Protettivo” nel 2014, durata 51 giorni, Israele colpì tra i 5.266 e i 6.231 bersagli. Durante “Pilastro di Difesa” nel 2012 in 8 giorni vennero colpiti circa 1.500 obiettivi. Durante “Piombo Fuso” nel 2008 Israele attaccò 3.4000 obiettivi in 22 giorni.

Fonti dell’intelligence in servizio nelle precedenti operazioni hanno anche detto a +972 e Local Call che per 10 giorni nel 2021 e tre settimane nel 2014 una media tra 100 e 200 obiettivi al giorno hanno portato a una situazione in cui all’aviazione israeliana non rimanevano bersagli di importanza militare. Perché allora dopo quasi due mesi dell’attuale guerra l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi?

La risposta potrebbe trovarsi in una dichiarazione del portavoce militare del 2 novembre, secondo la quale si sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Hasbsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente di utilizzare strumenti automatizzati per produrre obiettivi a ritmo serrato e funziona migliorando del materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle necessità (operative).”

Nel comunicato viene citato un alto ufficiale dell’intelligence secondo cui grazie ad Habsora vengono creati obiettivi per attacchi di precisione “causando gravi danni al nemico e minimi danni ai non combattenti. I miliziani di Hamas non sono immuni, ovunque si nascondano.”

Secondo fonti dell’intelligence, Habsora genera, tra le altre cose, raccomandazioni automatiche di attaccare residenze private in cui vivrebbero persone sospettate di essere miliziani di Hamas o del Jihad Islamico. Israele poi mette in atto operazioni di uccisioni su vasta scala attraverso pesanti bombardamenti contro quelle abitazioni private.

Una delle fonti spiega che Habsora processa un’enorme quantità di dati che “decine di migliaia di militari dell’intelligence non potrebbero elaborare” e consiglia di bombardare siti in tempo reale. Dato che all’inizio di ogni operazione militare molti importanti comandanti di Hamas si dirigono nei tunnel sotterranei, secondo la fonte l’uso di sistemi come Habsora permette di individuare e attaccare le case di miliziani relativamente meno importanti.

Un ex-ufficiale dell’intelligence ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di uccisioni di massa” in cui l’”enfasi è sulla quantità e non sulla qualità. “Un occhio umano “controlla gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di perdere molto tempo su di essi.” Dato che Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza e che sono tutti condannati a morte, il numero di potenziali bersagli è enorme.

Nel 2019 l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro inteso a utilizzare l’Intelligenza Artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che include centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle possibilità dell’IA,” ha affermato l’ex-capo di stato maggiore Aviv Kochavi in un’approfondita intervista con Ynet [sito di notizie israeliano, ndt.] all’inizio dell’anno.

Questo è un computer che, con l’aiuto dell’IA, processa un sacco di dati meglio e più rapidamente di qualunque essere umano e li trasforma in obiettivi da colpire,” ha continuato Kochavi. “Il risultato è che nell’operazione “Guardiano delle Mura” (del 2021) dal momento in cui questo computer è stato attivato ha generato 100 nuovi bersagli al giorno. Vedi, in passato ci sono stati momenti in cui creavamo 50 obiettivi all’anno a Gaza. E qui il computer ha prodotto 100 obiettivi in un giorno.

Prepariamo automaticamente gli obiettivi e lavoriamo in base a una lista di controllo,” ha detto a +972 e Local Call una delle fonti che lavora nella nuova Divisione Amministrativa degli Obiettivi. “E’ proprio come una fabbrica. Lavoriamo rapidamente e non c’è tempo per analizzare in profondità l’obiettivo. La prospettiva è di essere giudicati in base a quanti obiettivi riusciamo a generare.”

All’inizio dell’anno un importante ufficiale dell’esercito incaricato della banca dati degli obiettivi ha detto al Jerusalem Post che grazie al sistema di IA l’esercito per la prima volta può generare nuovi obiettivi più rapidamente di quelli che attacca. Un’altra fonte ha affermato che la spinta a generare automaticamente un gran numero di bersagli è la concretizzazione della Dottrina Dahiya.

Sistemi automatici come Habsora hanno quindi notevolmente facilitato il lavoro del personale dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che possono essere uccisi in attacchi contro abitazioni private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e compare chiaramente nei documenti sull’obiettivo sotto la categoria “danno collaterale”.

Secondo queste fonti ci sono diversi livelli di danni collaterali in base ai quali l’esercito decide se è possibile attaccare l’obiettivo all’interno di abitazioni private. “Quando la direttiva generale diventa ‘danno collaterale 5’ ciò significa che siamo autorizzati a colpire ogni obiettivo che ucciderà cinque civili o meno di cinque – possiamo operare su tutti gli obiettivi che hanno un documento da cinque in giù,” ha detto una delle fonti.

In passato non segnalavamo regolarmente le case di membri di Hamas poco importanti perché venissero bombardate,” ha detto un ufficiale della sicurezza che ha partecipato ad attacchi contro obiettivi durante precedenti operazioni. “Ai miei tempi se la casa su cui stavo lavorando era segnata danno collaterale 5 non veniva sempre approvata (per l’attacco).” Tale approvazione, ha affermato, si sarebbe avuta solo se era noto che nella casa abitava un importante comandante di Hamas.

Che io sappia oggi possono indicare tutte le case (di qualunque miliziano di Hamas indipendentemente dal rango),” ha continuato la fonte. “Ci sono un sacco di case. I membri di Hamas che non hanno alcuna importanza vivono in abitazioni in tutta Gaza. Quindi si indica la casa e la si bombarda e si uccide chiunque.”

Una politica concordata di bombardare case private

Il 22 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed era un mio caro amico e collega: quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Attraverso il muro”, con l’intento di portare voci palestinesi da Gaza all’opinione pubblica israeliana. L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento su tutta la famiglia di Ahmed, uccidendo suo padre, fratelli, sorelle e tutti i loro figli, anche neonati. Solo il nipote di 12 anni, Malak, è sopravvissuto ed è rimasto in condizioni critiche, il corpo è coperto di ustioni. Pochi giorni dopo Malak è morto.

In totale ventuno membri della famiglia di Ahmed sono morti sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un miliziano. Il più giovane aveva 2 anni, il maggiore, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive in Gran Bretagna, ora è l’unico [sopravvissuto] di tutta la famiglia.

Il Gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si chiamava “Meglio insieme”. L’ultimo messaggio che vi compare era stato inviato da lui, poco dopo mezzanotte nella notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che è tutto a posto,” aveva scritto. Nessuno ha risposto. Si è addormentato, ma si è alzano terrorizzato alle 4 del mattino. In un bagno di sudore, ha controllato di nuovo il suo telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.

Il caso di Ahmed a Gaza è comune in questi giorni. In interviste alla stampa i responsabili di ospedali di Gaza hanno ripetuto le stesse descrizioni: in ospedale entrano famiglie come serie di corpi, un bambino seguito dal padre seguito dal nonno. I corpi sono tutti coperti di polvere e sangue.

Secondo ex-ufficiali dell’intelligence israeliana in molti casi in cui un’abitazione privata viene bombardata lo scopo è “l’uccisione di miliziani di Hamas o del Jihad”, e tali obiettivi sono attaccati quando un miliziano entra nella casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se i membri della famiglia o i vicini del miliziano possono morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ogni fonte ha affermato che sono abitazioni private in cui nella maggioranza dei casi non si svolge alcuna attività militare.

+972 e Local Call non hanno dati relativi al numero di miliziani che sono stati uccisi o feriti da attacchi aerei in abitazioni private durante la guerra in corso, ma ci sono svariate prove che, in molti casi, nessuno [dei morti] era un membro militare o politico di Hamas o del Jihad Islamico.

Il 10 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio residenziale nel quartiere di Sheikh Radwan a Gaza, uccidendo 40 persone, in maggioranza donne e bambini. In uno dei filmati scioccanti girati dopo l’attacco si vede gente gridare, portare quella che sembra essere una bambola dalle rovine della casa e passarla di mano in mano. Quando la camera da presa la ingrandisce si può vedere che non si tratta di una bambola ma del corpo di un neonato.

Uno degli abitanti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato nelle macerie solo la spalla del figlio. Amnesty ha indagato sull’attacco ed ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.

Il bombardamento di case private in cui si presume vivano miliziani di Hamas o del Jihad Islamico è diventato una politica condivisa dell’esercito israeliano durante l’operazione “Margine Protettivo” del 2014. All’epoca 606 palestinesi, circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti, erano membri di famiglie la cui casa era stata bombardata. Un rapporto dell’ONU nel 2015 lo definì sia come un possibile crimine di guerra e “una nuova modalità” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie.”

Nel 2014 vennero uccisi in seguito al bombardamento israeliano di case private 93 bambini piccoli, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa a Gaza 286 bambini da un anno in giù erano già stati identificati come vittime secondo una dettagliata lista con il numero di carta d’identità e l’età delle vittime pubblicata dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Il numero da allora è probabilmente raddoppiato o triplicato.

Tuttavia in molti casi, soprattutto durante l’attuale attacco contro Gaza, l’esercito israeliano ha condotto attacchi che hanno colpito abitazioni private persino quando non c’erano obiettivi militari noti o evidenti. Per esempio, secondo la Commissione per la Protezione dei Giornalisti, al 29 novembre Israele aveva ucciso a Gaza 50 giornalisti palestinesi, alcuni dei quali in casa con le loro famiglie.

Roshdi Sarraj, 31 anni, un giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, aveva fondato una testata con il nome di “Ain Media”. Il 22 ottobre una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori mentre stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo che è stata bombardata; dei suoi tre figli Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stato trovato sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Shafar e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai figli nelle loro case.

Analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di sproporzionati attacchi aerei è ridotta. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti contro Gaza (e prima dell’invasione di terra), dopo che nella Striscia di Gaza sono stati contati i corpi di 1.903 minori, circa 1.000 donne e 187 anziani, il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia duro sentirlo dire nel quattordicesimo giorno di combattimenti non pare che l’ala militare di Hamas sia stata significativamente colpita. Il danno più significativo alla dirigenza militare è stato l’assassinio di Aymar Nofal (comandante di Hamas).”

Combattere animali umani”

I miliziani di Hamas operano regolarmente grazie a un’intricata rete di tunnel costruiti sotto vaste aree della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato da ex-ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto case e strade. Di conseguenza i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei probabilmente portano in molti casi all’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra delle ragioni dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.

Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche la base della campagna mediatica che Israele ha condotto riguardo agli attacchi e incursioni contro l’ospedale Al-Shifa e i tunnel che sono stati scoperti sotto di esso.

Israele ha attaccato anche un grande numero di obiettivi militari: miliziani armati di Hamas, luoghi per il lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, centri di comando militari, basi, posti di osservazione, e altri. Dall’inizio dell’invasione di terra i bombardamenti aerei e un pesante fuoco di artiglieria sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Esperti di leggi internazionali affermano che questi obiettivi sono legittimi finché gli attacchi rispettano il principio di proporzionalità.

Rispondendo a una domanda di +972 e Local Call per questo articolo il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato: “L’IDF rispetta le leggi internazionali e agisce in base ad esse, e così facendo attacca obiettivi militari e non civili. L’organizzazione terroristica Hamas schiera i suoi miliziani e infrastrutture militari in mezzo alla popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e combatte da edifici civili, compresi luoghi sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture dell’ONU.

Allo stesso modo fonti dell’intelligence che hanno parlato a +972 e Local Call hanno sostenuto che in molti casi Hamas “danneggia deliberatamente la popolazione civile a Gaza e cerca di impedire con la forza ai civili di andarsene.” Due fonti hanno affermato che i dirigenti di Hamas “ritengono che i danni di Israele contro i civili legittimano la loro lotta.”

Allo stesso tempo, anche se ora è difficile immaginarlo, l’idea che lanciare una bomba di una tonnellata per uccidere un miliziano di Hamas finisca per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale” non è mai stata così facilmente accettata da una larga parte della società israeliana. Nel 2002, per esempio, l’aeronautica israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, sua moglie, Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, compresi 11 minorenni. L’uccisione provocò una protesta pubblica sia in Israele che nel resto del mondo, e Israele venne accusato di commettere crimini di guerra.

Queste critiche portarono alla decisione da parte dell’esercito israeliano nel 2003 di lanciare una bomba più piccola, di 25 quintali, contro un incontro di importanti dirigenti di Hamas, tra cui lo sfuggente capo delle brigate Al-Qassam Mohammed Deif, che si svolgeva in un edificio residenziale a Gaza, nonostante il timore che non fosse sufficientemente potente da ucciderli. Nel suo libro “Per conoscere Hamas” il noto giornalista israeliano Shlomi Eldar scrive che la decisione di utilizzare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli importanti ufficiali dell’ala militare scapparono da quel luogo.

Nel dicembre 2008, durante la prima importante guerra condotta da Israele contro Hamas dopo che prese il potere a Gaza, Yoav Gallant, all’epoca alla guida del comando meridionale dell’esercito israeliano, affermò che per la prima volta Israele aveva “colpito le abitazioni private” di importanti capi di Hamas con l’intenzione di distruggerli, ma non di colpire le loro famiglie. Galland sottolineò che le case erano state attaccate dopo che le famiglie erano state avvertite “bussando sul tetto”, oltre che con una telefonata quando era chiaro che l’attività militare di Hamas si svolgeva all’interno della casa.

Dopo l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, durante la quale Israele iniziò a colpire sistematicamente dal cielo le abitazioni private, associazioni per i diritti umani come B’Tselem raccolsero testimonianze di palestinesi sopravvissuti a quegli attacchi. Essi affermarono che le case crollavano su se stesse, le schegge di vetro tagliavano i corpi di chi vi si trovava, le macerie “puzzavano di sangue” e le persone vennero sepolte vive.

Oggi la politica mortale continua, grazie in parte all’uso di armamenti distruttivi e di una tecnologia sofisticata come Habsora, ma anche a istituzioni politiche e della sicurezza che hanno allentato le redini del meccanismo militare israeliano. Quindi anni dopo aver insistito che l’esercito si preoccupava di minimizzare i danni per i civili, Galland, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato tono. “Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza,” ha detto dopo il 7 ottobre.

Yuval Abraham è giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano e Amedeo Rossi)




Secondo un rapporto Israele aveva ottenuto, e ignorato, un documento di Hamas che dettagliava il piano per l’attacco del 7 ottobre

AFP

30 novembre 2023 – Times of Israel

Il NYT afferma che i funzionari che hanno visto il documento di 40 pagine lo hanno ignorato in quanto irrealistico, continuando a pensare che il gruppo terroristico non fosse interessato a scatenare una guerra

Giovedì il New York Times ha informato che funzionari israeliani già prima dell’aggressione del 7 ottobre erano al corrente che il gruppo terrorista palestinese Hamas stava preparando un attacco su vasta scala, ma hanno ignorato l’informazione.

Un documento ottenuto dalle autorità israeliane almeno un anno prima dell’attacco “delineava punto per punto, esattamente il tipo di invasione devastante che ha portato alla morte di circa 1.200 persone,” riporta il giornale.

Il documento di 40 pagine, che è stato visionato dal quotidiano, non specifica quando sarebbe avvenuto l’attacco. Ma fornisce un piano che sembra quello seguito da Hamas: un massiccio lancio di razzi, tentativi di abbattere il sistema di sorveglianza e un gran numero di uomini armati che penetrano sul territorio israeliano via terra e per via aerea.

Il 7 ottobre circa 3.000 terroristi di Hamas hanno fatto irruzione in Israele sotto la pesante copertura di razzi, attaccando basi dell’esercito, aggredendo comunità e un festival musicale. Circa 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, sono state brutalmente massacrate con un attacco senza precedenti e circa 240 persone sono state prese in ostaggio.

Il Times afferma che il documento, che include informazioni sensibili riguardo alla sicurezza sulla potenza e la dislocazione dell’esercito israeliano, ha circolato ampiamente negli ambienti dei dirigenti militari e dell’intelligence del Paese, benché non sia chiaro se sia stato visionato da dirigenti politici, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Lo scorso anno una valutazione dell’esercito aveva stabilito che era troppo presto per dire se il piano era stato approvato da Hamas, e quando un’analista di un’unità di intelligence per le segnalazioni del Paese ha avvertito che il gruppo stava effettuando esercitazioni di addestramento in base al piano, i suoi avvertimenti sono stati ignorati.

II giornale afferma che lei aveva avvertito che si trattava di un “progetto inteso a iniziare una guerra,”, ma un colonnello, che aveva visionato la sua analisi, aveva suggerito che se ne ricavava uno scenario improbabile e aveva detto all’analista che avrebbero “pazientemente atteso”.

Secondo il Times gli avvertimenti non suggerivano che Hamas stesse probabilmente per mettere in atto il piano a tempi brevissimi, e gli ambienti dell’intelligence hanno continuato a credere che il leader di Hamas Yahya Sinwar non fosse interessato a scatenare la guerra con Israele. [Il giornale] mette in relazione gli errori dell’intelligence con quelli avvenuti negli Stati Uniti prima dell’attacco dell’11 settembre 2001.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I soldati israeliani che hanno ucciso i terroristi a Gerusalemme hanno colpito a morte anche un civile

Nir Hasson

30 novembre 2023 – Haaretz

Nel video dellattacco alla fermata dellautobus di Gerusalemme pubblicato sui social media, si vede Yuval Doron Kastelman alzare le mani e implorare i soldati israeliani di non sparare dopodiché gli sparano e cade a terra

In base alle riprese dell’attacco pubblicate sui social media i soldati israeliani che giovedì hanno ucciso due terroristi alla periferia di Gerusalemme hanno sparato e ucciso sul posto anche un civile.

La vittima si chiamava Yuval Doron Kastelman, 38 anni di Mevasseret Tzion, un avvocato che lavorava per la Commissione sul Servizio Civile. Secondo la sua famiglia stava andando al lavoro quando ha notato l’aggressione dall’altra parte della strada. È sceso dal suo veicolo, armato della sua arma da fuoco autorizzata, per fronteggiare i terroristi.

Nel video si vede Kastelman alzare le mani e implorare i soldati di non sparare, dopodiché gli sparano e cade a terra.

Il filmato mostra chiaramente che è stato colpito allo stomaco. È stato portato d’urgenza in ospedale in condizioni critiche e in seguito è morto per le ferite. La polizia ha affermato di essere a conoscenza della situazione e che sono in corso indagini.

Un’altra ripresa della scena dell’attacco mostra colpi di arma da fuoco contro un civile che ha appena sparato a uno dei terroristi da distanza ravvicinata.

Nel video si vede il civile gettare via la sua arma dopo aver sparato al terrorista, alzare le mani e togliersi il cappotto per dimostrare che è disarmato. Non è chiaro se si tratti dello stesso civile ferito o di qualcun altro.

Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha annunciato sul luogo dell’attacco che la sua soluzione al terrorismo è continuare la politica di distribuzione di armi ai civili. “Mi rivolgo ai cittadini di Israele, i poliziotti non sono ovunque, quindi dove i cittadini sono in possesso di armi, ciò può salvare vite umane”, ha detto Ben-Gvir.

Dallo scoppio della guerra migliaia di armi da fuoco sono state distribuite ai civili e sono state rilasciate più di 20.000 nuove licenze per il porto d’armi. Una delle principali preoccupazioni sul possesso delle armi da parte di civili non addestrati è che ciò potrebbe portare ad episodi di fuoco incrociato, come è accaduto oggi.

Nell’attacco a Gerusalemme tre israeliani sono stati uccisi e altri sei sono rimasti feriti. I terroristi, due fratelli palestinesi del quartiere di Gerusalemme Est, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. L’attacco è stato rivendicato da Hamas.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele arresta quasi tanti palestinesi quanti ne ha rilasciati durante la tregua

Zena Al Tahhan

28 novembre – Al Jazeera

Nei primi quattro giorni dello scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, Israele ha rilasciato 150 palestinesi e ne ha arrestati 133

Ramallah, Cisgiordania occupata – Mentre si svolgeva lo scambio di prigionieri con Hamas, il gruppo armato con sede a Gaza, Israele ha continuato ad arrestare decine di palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Nei primi quattro giorni della tregua tra Israele e Hamas, iniziata venerdì, Israele ha rilasciato 150 prigionieri palestinesi – 117 minori e 33 donne.

Hamas ha rilasciato 69 prigionieri: 51 israeliani e 18 persone di altre nazionalità.

Negli stessi quattro giorni, secondo le associazioni dei prigionieri palestinesi, Israele ha arrestato almeno 133 palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.

Finché ci sarà occupazione, gli arresti non si fermeranno. La gente deve capirlo perché questa è una politica fondamentale dell’occupazione contro i palestinesi per schiacciare qualsiasi tipo di resistenza”, dice ad Al Jazeera Amany Sarahneh, portavoce della Associazione dei Prigionieri Palestinesi.

“E’ una pratica quotidiana, non solo dopo il 7 ottobre”, aggiunge. “Ci aspettavamo che durante questi quattro giorni arrestassero più persone”.

La tregua mediata dal Qatar è arrivata dopo 51 giorni di incessanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza assediata, iniziati il 7 ottobre, il giorno in cui Hamas ha lanciato un attacco a sorpresa sul territorio israeliano uccidendo circa 1.200 persone.

Da allora Israele ha ucciso più di 15.000 palestinesi nella Striscia di Gaza, la maggior parte dei quali donne e minorenni.

Lunedì la tregua, originariamente di quattro giorni, è stata prorogata di altri due, durante i quali si prevede che verranno rilasciati altri 60 palestinesi e 20 ostaggi.

Dall’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, che dura da 56 anni, le forze israeliane effettuano incursioni notturne nelle case palestinesi arrestando da 15 a 20 persone nelle giornate “tranquille”.

Nelle prime due settimane dopo il 7 ottobre Israele ha raddoppiato il numero dei palestinesi in detenzione, passando da 5.200 a più di 10.000. Il numero include 4.000 lavoratori di Gaza che lavoravano in Israele e sono stati detenuti prima di essere successivamente riportati a Gaza.

Avvocati dei prigionieri palestinesi e gruppi di monitoraggio hanno registrato 3.290 arresti in Cisgiordania e Gerusalemme Est dal 7 ottobre. A metà novembre, Eyad Banat, 35 anni, è stato arrestato mentre trasmetteva in diretta su TikTok. Successivamente è stato rilasciato.

Nessuna garanzia con l’occupazione”

Dall’inizio della tregua le strade di Ramallah si sono riempite di persone che accolgono i prigionieri liberati.

Ma la preoccupazione per i prigionieri palestinesi non finisce dopo il loro rilascio. La maggior parte delle persone liberate in genere viene nuovamente arrestata dalle forze israeliane nei giorni, nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi al loro rilascio.

Decine di coloro che erano stati rilasciati in uno scambio di prigionieri tra Israele e Hamas nel 2011 sono stati nuovamente arrestati e la loro pena è stata confermata.

Sarahneh afferma che non è ancora chiaro se Israele abbia fornito garanzie che non arresterà nuovamente coloro che sono stati rilasciati.

Non ci sono garanzie con l’occupazione. Queste persone rischiano di essere nuovamente arrestate in qualsiasi momento. L’occupazione riarresta sempre le persone che sono state rilasciate”, sostiene.

“La prova più evidente che queste persone potrebbero essere nuovamente arrestate è che la maggior parte delle persone ora detenute sono prigionieri già liberati”, aggiunge.

Dal 7 ottobre le condizioni dei palestinesi agli arresti o in detenzione sono gravemente peggiorate. Molti hanno denunciato pestaggi, mentre sei prigionieri palestinesi sono morti durante la custodia israeliana.

Molte delle donne e dei minori rilasciati durante la tregua hanno testimoniato degli abusi subiti nelle carceri israeliane.

Nelle ultime settimane hanno circolato anche diversi video di soldati israeliani che picchiano, calpestano, maltrattano e umiliano palestinesi detenuti che sono bendati, ammanettati e parzialmente o interamente denudati. Molti utenti dei social media hanno affermato che le scene hanno riportato alla mente le tecniche di tortura utilizzate dalle forze statunitensi nella prigione irachena di Abu Ghraib nel 2003.

Oltre ai violenti pestaggi, secondo le associazioni per i diritti, le autorità carcerarie israeliane hanno sospeso le cure mediche ai prigionieri palestinesi almeno per la prima settimana dopo il 7 ottobre, anche a quelli che sono stati picchiati. Le visite dei familiari e le visite di routine degli avvocati sono state interrotte, dicono le associazioni.

Secondo i gruppi per i diritti umani in precedenza ai prigionieri venivano concesse tre o quattro ore fuori dalle celle nel cortile, ma ora hanno meno di un’ora.

Le celle sovraffollate spesso ospitano il doppio del numero di detenuti per cui sono state costruite, molti dormono sul pavimento senza materassi, affermano.

Le autorità carcerarie israeliane hanno anche tagliato l’elettricità e l’acqua calda, condotto perquisizioni nelle celle, portato via tutti i dispositivi elettrici inclusi televisori, radio, piastre da cucina e bollitori, e chiuso la mensa, che i prigionieri usano per acquistare cibo e beni di prima necessità, come il dentifricio.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Guerra tra Israele e Palestina: minori palestinesi liberati affermano che compagni di prigionia sono stati “torturati a morte”

Mosab Shawer a Hebron, Palestina occupata

27 novembre 2023 – Middle East Eye

Secondo le testimonianze di adolescenti liberati, almeno cinque detenuti palestinesi sarebbero morti nelle prigioni israeliane in seguito a violenze subite.

Minorenni palestinesi liberati dalle carceri israeliane come parte dello scambio di prigionieri tra Hamas e Israele hanno affermato di essere stati sottoposti a torture durante la detenzione e che altri detenuti sono stati percossi a morte.

Gli adolescenti sono tra i 39 palestinesi liberati dalle prigioni israeliane domenica nel corso del terzo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, mentre quest’ultimo ha rilasciato 13 israeliani trattenuti a Gaza.

Lo scambio ha avuto luogo nel terzo giorno di fila di una tregua temporanea di quattro giorni a Gaza, la prima interruzione di questo genere nei combattimenti da quando sono iniziate le ostilità il 7 ottobre.

Tra quelli che sono stati rilasciati c’era Khalil Mohamed Badr al-Zamaira, 18 anni, che ne aveva 16 quando è stato arrestato dalle forze israeliane.

Ha affermato che i prigionieri palestinesi sono stati maltrattati e picchiati in prigione e che non c’è un trattamento differenziato per i minorenni.

“Non fanno distinzioni tra vecchi e giovani,” ha detto a Middle East Eye.

“Due adolescenti sono stati trasferiti dalla prigione di Ofer con le costole rotte, non riuscivano più a muoversi.”

Anche Omar al-Atshan, un adolescente liberato, ha affermato di essere stato maltrattato e torturato nella prigione del Naqab [Negev in ebraico, ndt.], dove è stato tenuto prima del rilascio.

“I maltrattamenti erano indescrivibili,” ha detto ad Al Jazeera durante un reportage dal vivo dell’arrivo di prigionieri rilasciati domenica nella Cisgiordania occupata.

Ha detto che in prigione sono stati metodicamente picchiati e umiliati e che acqua e cibo erano scarsi.

Durante il rilascio i soldati israeliani hanno ordinato loro di abbassare la testa e poi li hanno percossi, ha affermato.

“Non siamo del tutto contenti perché ci sono altri prigionieri ancora detenuti,” ha detto, aggiungendo che un carcerato, che ha identificato come Thaer Abu Assab, è stato picchiato a morte in prigione.

“Ha subito troppe percosse. Abbiamo chiesto aiuto, ma i medici sono arrivati un’ora e mezza dopo che era morto per le torture.

È stato torturato per aver fatto una domanda, ha chiesto al secondino se c’era una tregua. Allora è stato pestato a morte e colpito in testa.”

Quattro detenuti torturati a morte a Megiddo

Anche un altro minore liberato, Osama Marmash, ha rilasciato ad Al Jazeera una testimonianza simile.

Il sedicenne è stato tenuto nella prigione di Megiddo prima del rilascio. Ha raccontato ad Al Jazeera che lì quattro detenuti palestinesi sono stati torturati a morte.

Marmash ha detto di aver subito lesioni a un piede e alla schiena a causa delle percosse.

“La mia divisa di recluso era bianca ma è diventata rossa per le macchie di sangue,” ha detto.

Il cibo era molto scarso, ha affermato, e spesso “immangiabile”.

Ha detto che sono stati maltrattati durante il viaggio verso la Cisgiordania.

“Il percorso è stato difficile. Hanno spento l’aria condizionata dell’autobus. Stavamo soffocando,” ha raccontato.

La tregua tra Hamas e Israele dovrebbe vedere il rilascio di 150 donne e minori palestinesi e 50 israeliani tenuti a Gaza in quattro giorni.

Da parte sua Hamas ha rilasciato 13 prigionieri israeliani, tra cui nove minorenni, così come quattro cittadini stranieri: tre thailandesi e un russo-israeliano.

Il presidente USA Joe Biden ha detto che è stata liberata anche una bambina israelo-americana di quattro anni i cui genitori sono stati uccisi il 7 ottobre.

In un comunicato Hamas ha affermato che il russo-israeliano con doppia cittadinanza è stato rilasciato “come risposta ai tentativi del presidente russo Vladimir Putin e come riconoscimento dell’appoggio russo alla Palestina.”

Il russo è il primo prigioniero di sesso maschile ad essere rilasciato da Hamas durante la tregua.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo scambio di prigionieri di Hamas e la guerra genocida di Israele: il contesto è cruciale

Iqbal Jassat

24 novembre 2023 – The Palestine Chronicle

In questa situazione è perfettamente logico che Hamas ricorra a mezzi creativi per spezzare la paralisi dell’assedio.

Storicamente la resistenza o la lotta armata da parte dei movimenti di guerriglia impegnati in combattimenti asimmetrici contro regimi canaglia hanno sempre catturato soldati nemici da impiegare come merce di scambio per ottenere vantaggi militari.

È fondamentale comprendere il contesto dell’operazione lanciata da Hamas il 7 ottobre, che l’estrema destra israeliana ha utilizzato come pretesto per lanciare un implacabile bombardamento via terra, mare e aria della popolazione civile di Gaza assediata.

* Gaza non è uno stato indipendente;

* È un campo di concentramento a cielo aperto per rifugiati palestinesi sotto occupazione militare israeliana;

* È sottoposto a un crudele blocco militare che lo isola dal mondo esterno;

* Non possiede un esercito, né aerei da caccia militari, né elicotteri e carri armati;

* Non ha nemmeno un aeroporto o un porto navale.

Quindi definire con disinvoltura il massacro di migliaia di persone da parte di Israele come una “Guerra contro Gaza”, come fanno alcuni media e commentatori, è fuorviante.

Ciò implica ingannevolmente che la guerra sia tra due Stati uguali, mentre la realtà è che Gaza si può definire solo come un’enclave “bantustan” che fa parte del territorio palestinese occupato.

Inoltre una componente importante della responsabilità della potenza occupante nei confronti dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza ai sensi del diritto internazionale è sorprendentemente assente nel discorso pubblico.

La potenza occupante deve garantire un trattamento umano della popolazione e provvedere ai suoi bisogni primari, compresi cibo e assistenza medica.

Purtroppo, come sottolineato dal professor Abdelwahab El-Affendi in un recente articolo su Al Jazeera, i sostenitori di ieri della dottrina della “responsabilità di proteggere” sono oggi i maggiori sostenitori dell’assalto genocida di Israele a Gaza.

La considerazione fondamentale è che Israele occupa la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, che collettivamente costituiscono i Territori Palestinesi Occupati (Opt), dal 1967. Contrariamente a quanto sostiene il regime israeliano, il ritiro da parte di Israele delle sue forze di terra non ha posto fine all’occupazione di Gaza.

Un altro elemento di confusione deliberatamente generato da Israele riguarda il valico di Rafah con l’Egitto. L’impressione che il Cairo ne abbia la piena sovranità è fuori luogo. La realtà è che Israele monitora tutte le attività al valico dalla sua base militare di Kerem Shalom. Decide quando l’Egitto può aprirlo, per quanto tempo e a chi e cosa è consentito entrare o uscire da Gaza.

La capacità dell’Egitto di esercitare la propria volontà diventa una buffonata se le forze di sicurezza israeliane supervisionano le liste dei passeggeri – decidendo chi può attraversare – e monitorano le operazioni e possono negare il “consenso e la cooperazione” necessari per mantenere aperto il valico.

In questo contesto è perfettamente logico che Hamas, in quanto movimento di liberazione indigeno, non solo ricorra a mezzi creativi per rompere la paralisi dell’assedio, ma anche per resistere al progressivo genocidio da parte degli occupanti.

La Resistenza palestinese è quindi in grado di assicurarsi di mantenere la superiorità morale avendo offerto il rilascio di civili tenuti come “ospiti” – qualche settimana fa – ma l’offerta è stata respinta da un intransigente gabinetto di guerra israeliano sostenuto dagli Stati Uniti.

Ora che un “accordo” è stato raggiunto, in netto contrasto con gli obiettivi di Netanyahu di eliminare Hamas, è importante notare che molti nel mondo, soprattutto tra i media, sono ora costretti a concentrarsi sul fatto che i prigionieri palestinesi in attesa di rilascio hanno nomi e identità degni di menzione – non sui profili anonimi preferiti dal carceriere per descriverli come terroristi.

I minori e le donne che fanno parte dei 150 da rilasciare sono stati incarcerati senza processo, in violazione del giusto processo e, a volte, tenuti per decenni in condizioni che possono essere definite come tortura

Grazie alla Resistenza saranno finalmente liberi; in verità molte altre migliaia di persone imprigionate in Israele semplicemente per aver fatto valere i propri diritti meritano la libertà.

Lo scambio simboleggia per i palestinesi in molti modi una svolta verso il raggiungimento della agognata libertà dalle grinfie di un’occupazione oppressiva e inflessibile che non riesce a imparare la lezione del Sud Africa: apartheid, razzismo, occupazione militare, negazione dei diritti umani sono insostenibili e destinati a fallire – con o senza il sostegno occidentale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’esercito israeliano chiede alla BBC di scusarsi per aver messo in dubbio la sua ‘prova’

Redazione di MEMO

21 novembre 2023 – Middle East Monitor

Il portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner ha chiesto alla BBC di scusarsi per aver messo in dubbio la “prova” dell’esercito riguardo alla presenza di Hamas nell’ospedale Al-Shifa a Gaza.

Lerner ha pubblicato su X [precedentemente Twitter, ndt.] il filmato di una telecamera di video sorveglianza con una descrizione orale di “armi, dispositivi di comunicazione, RPG [e una] Toyota carica di armi” che, a quanto afferma, l’esercito ha trovato nell’ospedale.

BBCWorld si scuserà? BowenBBC dirà che si è sbagliato?” chiede.

In un articolo pubblicato sabato, il caporedattore della BBC internazionale Jeremy Bowen ha messo in discussione la prova presentata dall’esercito israeliano secondo cui l’ospedale di Al-Shifa è stato usato come “quartier generale” di Hamas.

Ha anche criticato le restrizioni dell’esercito sui giornalisti stranieri che informano dall’Al-Shifa, affermando che “non c’è controllo indipendente dentro l’ospedale; i giornalisti non si possono muovere liberamente a Gaza e chi sta documentando sul sito sta lavorando sotto l’egida dell’esercito israeliano.”

La BBC ha riferito che le forze di occupazione israeliane hanno manipolato la presunta “prova” all’Al-Shifa prima di permettere ai giornalisti di entrare.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Craig Murray: Attivare la Convenzione sul genocidio

Craig Murray

19 novembre 2023 – Consortium News

Non c’è dubbio che il bombardamento da parte di Israele dei civili palestinesi e la privazione di cibo, acqua e altre necessità vitali costituiscano motivo per appellarsi alla Convenzione sul genocidio del 1948.

Sono 149 gli Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio. Ognuno di loro ha il diritto di segnalare pubblicamente il genocidio in corso a Gaza e di denunciarlo alle Nazioni Unite.

Nel caso in cui un altro Stato contraente contesti laccusa di genocidio, e Israele, Stati Uniti e Regno Unito sono tutti Stati contraenti, allora la Corte internazionale di Giustizia è tenuta a pronunciarsi sulla responsabilità dello Stato per genocidio”.

Questi sono gli articoli salienti della Convenzione sul Genocidio:

Articolo VIII

Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a intraprendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, le azioni che ritengono appropriate per prevenire e reprimere atti di genocidio o qualsiasi altro atto elencato nell’articolo III.

Articolo IX

Le controversie tra le Parti contraenti relative all’interpretazione, applicazione o adempimento della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per genocidio o per qualsiasi altro atto contemplato nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia su richiesta di una delle parti in causa”.

Si noti che qui parti in causa” significa gli Stati che contestano

le azioni genocidarie, non le parti coinvolte direttamente nel genocidio/conflitto. Ogni singolo Stato contraente può appellarsi alla convenzione.

Non c’è dubbio che le azioni di Israele equivalgano a un genocidio. Lo hanno affermato numerosi esperti di diritto internazionale e lintento genocida è stato espresso direttamente da numerosi ministri, generali e funzionari pubblici israeliani.

Definizione di Genocidio

Questa è la definizione di genocidio nel diritto internazionale in base alla Convenzione sul Genocidio:

Articolo II

Nella presente Convenzione per genocidio si intende qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:

(a) Uccidere membri del gruppo;

(b) Causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;

(c) Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;

(d) Imporre misure intese a impedire le nascite all’interno del gruppo;

(e) Il trasferimento forzato di bambini del gruppo in un altro gruppo”

Non vedo ragioni per mettere in dubbio che lattuale campagna israeliana di bombardamenti contro civili e di privazione di cibo, acqua e altri beni di prima necessità per i palestinesi equivalga a un genocidio ai sensi dell’articolo II a), b) e c).

Vale la pena considerare anche gli articoli III e IV:

Articolo III

Sono punibili i seguenti atti:

(a) Genocidio;

(b) Cospirazione per commettere un genocidio;

(c) Incitamento pubblico e diretto a commettere un genocidio;

(d) Tentativo di commettere un genocidio;

(e) Complicità nel genocidio.

Articolo IV

Saranno punite le persone che commettono un genocidio o uno qualsiasi degli altri atti elencati nellarticolo III, siano essi governanti costituzionalmente competenti, funzionari pubblici o privati”.

Esistono consistenti elementi di prova che le azioni degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altri nel fornire apertamente sostegno militare diretto da utilizzare nel genocidio rappresentino complicità nel genocidio.

Il significato dellArticolo IV è che gli individui, e non solo gli Stati, sono responsabili. Quindi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro britannico Rishi Sunak hanno una responsabilità individuale. Lo stesso vale in realtà per tutti coloro che chiedono l’annientamento dei palestinesi.

L’attivazione della Convenzione sul genocidio sarebbe decisamente opportuna. Una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che dichiarasse Israele colpevole di genocidio avrebbe uno straordinario effetto diplomatico e causerebbe difficoltà interne nel Regno Unito e persino negli Stati Uniti nel continuare a sovvenzionare e armare Israele.

Rapporto tra CIG e CPI

La Corte Internazionale di Giustizia è la più rispettata delle istituzioni internazionali; mentre gli Stati Uniti non hanno riconosciuto la sua competenza vincolante, il Regno Unito non lo ha fatto e lUE la recepisce concretamente.

Se la Corte Internazionale di Giustizia stabilisce [il verificarsi di] un genocidio, allora la Corte Penale Internazionale non è tenuta a stabilire se il genocidio sia [o meno] avvenuto.

Questo è importante perché, a differenza della prestigiosa e indipendente CIG, la CPI è in gran parte unistituzione fantoccio dei governi occidentali che se possibile se ne terrà fuori.

Ma una decisione della Corte Internazionale di Giustizia in merito al genocidio e alla complicità nel genocidio ridurrebbe il compito della Corte Penale Internazionale all’individuazione dei responsabili. Questa è una prospettiva che può effettivamente modificare i calcoli dei politici.

C’è anche il fatto che un riferimento al genocidio costringerebbe i media occidentali ad affrontare la questione e a usare il termine, invece di limitarsi a diffondere della propaganda sul fatto che Hamas abbia basi di combattimento negli ospedali.

Inoltre una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia farebbe automaticamente scattare un dibattito allAssemblea Generale delle Nazioni Unite e non al Consiglio di Sicurezza, bloccato dal veto occidentale.

Tutto ciò solleva la questione del perché nessuno Stato si sia ancora appellato alla Convenzione sul Genocidio. Ciò è particolarmente significativo, in quanto la Palestina è uno dei 149 Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio, e a tal fine avrebbe potuto presentarsi davanti sia alle Nazioni Unite che alla CIG.

Temo che la questione riguardante il motivo per cui la Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio ci porti dentro oscuri meandri. Chiunque, come me e George Galloway, si sia fatto le ossa nella politica di sinistra di Dundee degli anni 70 ha fatto propria (una lunga) esperienza legata ai rapporti con Fatah, e le mie simpatie sono sempre state fortemente rivolte a Fatah piuttosto che ad Hamas.

Lo sono ancora, insieme allaspirazione a una Palestina democratica e laica. È Fatah ad occupare il seggio palestinese alle Nazioni Unite, e la decisione che la Palestina attivi la Convenzione sul genocidio spetta al presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Ogni giorno è sempre più difficile sostenere Abbas. Sembra straordinariamente passivo, ed è impossibile scacciare il sospetto che sia più interessato a impedire una guerra civile palestinese che ad opporsi al genocidio.

Appellandosi alla Convenzione sul Genocidio potrebbe rimettere se stesso e Fatah al centro della narrazione. Ma non fa nulla. Non voglio credere che le motivazioni di Mahmoud risiedano nella corruzione e nelle promesse da parte del segretario di Stato americano Antony Blinken di ereditare Gaza. Ma al momento non posso aggrapparmi a nessunaltra spiegazione a cui dar credito.

Ciascuno dei 149 Stati aderenti potrebbe appellarsi alla Convenzione sul Genocidio contro Israele e i suoi complici. Tra di loro ci sono Iran, Russia, Libia, Malesia, Bolivia, Venezuela, Brasile, Afghanistan, Cuba, Irlanda, Islanda, Giordania, Sud Africa, Turchia e Qatar. Ma nessuno di questi Stati ha denunciato il genocidio. Perché?

Non è perché la Convenzione sul genocidio sia lettera morta. Non è così. È stata invocata contro la Serbia dalla Bosnia-Erzegovina e la Corte Internazionale di Giustizia si è pronunciata contro la Serbia in merito al massacro di Srebrenica. Ciò ha portato immediatamente ai procedimenti giudiziari da parte della CPI.

Alcuni Stati potrebbero semplicemente non averci pensato. Per gli Stati arabi in particolare, il fatto che la stessa Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio può fornire una scusa. Gli Stati dellUE possono nascondersi dietro lunanimità del blocco [occidentale].

Ma temo che la verità sia che nessuno Stato si preoccupa delle migliaia di bambini palestinesi già uccisi e delle migliaia di altri che lo saranno a breve tanto da introdurre un altro fattore di contrasto nelle loro relazioni con gli Stati Uniti.

Proprio come nel vertice dello scorso fine settimana in Arabia Saudita, dove i Paesi islamici non sono riusciti a concordare un boicottaggio sul petrolio e gas nei confronti di Israele, la verità è che chi è al potere non ha davvero a cuore un genocidio a Gaza. Si preoccupa dei propri interessi.

È sufficiente che uno Stato faccia ricorso alla Convenzione sul Genocidio per cambiare la narrazione e le dinamiche internazionali. Ciò avverrà solo grazie al potere delle persone di imporre tale idea ai propri governi. Questo è il modo in cui tutti possono fare qualcosa per aumentare la pressione. Per favore, fate il possibile.

Tanto di cappello all’infaticabile Sam Husseini, il giornalista indipendente che ha insistito sulla Convenzione sul Genocidio alla Casa Bianca.

Craig Murray è un autore, conduttore televisivo e attivista per i diritti umani. È stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dall’agosto 2002 all’ottobre 2004 e rettore dell’Università di Dundee dal 2007 al 2010. La sua attività giornalistica dipende interamente dal supporto dei lettori. Sono gradite sottoscrizioni per mantenere attivo questo blog.

Questo articolo è tratto da CraigMurray.org.uk.

Le opinioni espresse sono esclusivamente dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Consortium News.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Studenti dell’Università di Haifa finiscono davanti a un tribunale israeliano per i loro post sui social media

Yoav Haifawi  

16 novembre 2023Mondoweiss

Questa settimana cinque studenti dell’Università di Haifa sono stati fermati per i loro post sui social media relativi al 7 ottobre. Yoav Haifawi era presente alla loro udienza per vedere come sarebbe stata difesa la “sicurezza di Stato”.

I casi più tragici nell’ultima ondata di arresti politici tra i palestinesi nella Palestina del ’48 [cioè in Israele, ndt.] raccontano tutti una storia quasi identica. Si sono svegliati presto sabato mattina, il 7 ottobre, e hanno trovato nei feed sui loro social media alcune immagini innocenti di civili palestinesi che valicavano gli odiati muri lungo la Striscia di Gaza o gioiose immagini di festeggiamenti su veicoli militari israeliani abbandonati. Senza la minima idea di cosa sarebbe successo in seguito, hanno condiviso queste immagini su Facebook o Instagram. La didascalia più comune che accompagnava queste immagini era, con alcune variazioni, “Buongiorno!”. Poi, quando hanno sentito i notiziari e si sono resi conto del sanguinoso conflitto che stava per iniziare, si sono affrettati a rimuovere questi post.

La seconda caratteristica comune che questi sfortunati prigionieri condividono è di aver avuto amici sionisti che seguivano i loro social media, che hanno fatto degli screenshot dei post e li hanno denunciati alle autorità.

Centinaia di queste persone sono quindi cadute vittima del sistema “giudiziario” israeliano furiosamente vendicativo e sono state successivamente arrestate, più di un mese dopo a decine sono ancor detenute in dure condizioni nelle prigioni di “sicurezza” in Israele. Io ho preso visione dei loro capi d’accusa che descrivono in dettaglio tutte le atrocità che Israele attribuisce ad Hamas, con alcune esagerazioni che non appaiono neppure nella propaganda ufficiale israeliana. Ma poi arriva il colmo: postando questa o quella immagine sulla loro pagina sui social media gli accusati/le accusate hanno appoggiato queste organizzazioni terroristiche, lodato questi atti terroristici e incoraggiato altre persone a commettere attività terroristiche. Secondo l’accusa in considerazione dei terribili tempi presenti gli imputati costituiscono un concreto pericolo alla sicurezza di Stato e non dovrebbero essere rilasciati su cauzione.

Naturalmente, dopo la prima ondata di arresti causati dai post sui social media, le cose hanno cominciato a calmarsi. La nostra illusione di vivere in un Paese democratico con la libertà di parola è rapidamente evaporata. Molti hanno smesso di postare o hanno chiuso del tutto i loro profili. 

L’Università di Haifa provoca l’arresto di studenti arabi

Questa settimana abbiamo assistito a un’altra ondata di arresti per i post sui social relativi al 7 ottobre. Come avevo precedentemente riferito, organizzazioni di studenti sionisti hanno organizzato campagne per monitorare gli studenti arabi sui social media e denunciarli all’amministrazione dell’università. Sabato e lunedì di questa settimana, circa una settimana dopo che l’Università di Haifa ha finito di tenere audizioni disciplinari, la polizia ha incarcerato 5 dei suoi studenti.

Dopo la detenzione degli studenti, Yousef Taha, il direttore dell’Organismo Congiunto del Blocco degli Studenti Arabi nelle università e college (nella Palestina del ‘48), ha riferito al sito web di informazioni “Arabs 48“: 

Quello che è successo con gli studenti dell’’Università di Haifa è veramente strano, visto che settimane fa gli studenti sono stati convocati dalle commissioni disciplinari che hanno imposto loro sanzioni. Ma l’università non si è accontentata. Ha quindi inoltrato alla polizia le foto di quanto pubblicato dagli studenti, comportandosi come un ‘informatore’ che denuncia i propri studenti alla polizia. A sua volta la polizia li ha arrestati. Durante le sessioni del tribunale che si sono tenute quando è stato esteso il periodo di detenzione degli studenti, i poliziotti hanno ammesso il ruolo dell’università.”

Taha aggiunge: “Quello che l’Università di Haifa sta facendo verso gli studenti arabi è assolutamente inaccettabile, specialmente perché un’ampia percentuale dei suoi studenti proviene dalla comunità araba. Un’università non deve giocare il ruolo di informatore e causare l’incarcerazione dei propri studenti, ma dovrebbe proteggerli.”

Per quanto riguarda il numero degli studenti che sono stati perseguitati per i loro post, Taha afferma che “i casi che ci sono arrivati e di cui ci siamo occupati sono oltre 130, studenti e studentesse che hanno ricevuto convocazioni alle commissioni disciplinari o che sono stati sottoposti/e ad altre misure. Dato che alcuni studenti non ci hanno contattato ma hanno consultato avvocati privati, stimiamo che il numero totale sia oltre i 160 studenti dall’inizio della guerra.”

Dopo la loro incarcerazione i cinque studenti sono stati condotti al tribunale di Acri per la custodia cautelare. Oggi, giovedì 16 novembre, i cinque studenti e altri due detenuti per [post su] Facebook sono stati convocati per la loro seconda udienza di custodia. Ho accompagnato all’udienza la legale della difesa Afnan Khalifa.

Occupazione fai da te

Akka (il nome arabo, in Occidente conosciuta come “San Giovanni d’Acri”) è un’antica città con una storia di oltre 5 mila anni. È situata a circa 20 chilometri a nord di Haifa, sull’altra sponda dell’omonima baia. La “Nuova Haifa” è stata fondata nel 1761 da Daher al-Omar, il governatore palestinese che si era ribellato contro l’Impero Ottomano, la cui capitale era Acri. Egli iniziò la costruzione delle massicce mura, che poi permisero ai difensori locali di sconfiggere l’invasione dell’armata napoleonica. Da allora Haifa ha rubato ad Acri il ruolo di centro amministrativo ed economico della Palestina settentrionale, e Acri è diventata la sorella povera di Haifa. Nel 1948 ciò ha fatto la sua fortuna, poiché qui la pulizia etnica della popolazione arabo palestinese è stata meno vasta. Dei 50.000 abitanti di Acri circa un terzo sono arabi, ma nei dintorni dell’hinterland della Galilea c’è una chiara maggioranza araba.

Il tribunale di Acri rispecchia la composizione demografica locale. NelI’aula del giudice Ziad Salih, che ha tenuto le udienze per la custodia cautelare, erano quasi tutti arabi: la pubblica accusa, i detenuti, le loro famiglie e i loro avvocati, le guardie del tribunale. Per quanto ho potuto vedere, solo la dattilografa che ha battuto a macchina il verbale non era di madrelingua araba. Questa composizione in un tribunale israeliano che gestisce la “sicurezza di Stato” è uno spettacolo strano a vedersi. Tutti gli attori ufficiali recitano in ebraico i testi previsti da mettere a verbale. Quando vogliono veramente parlare uno con l’altro passano all’arabo e il loro tono diventa più umano e amichevole.

Sembrava che il giudice Salih non fosse a suo agio nel suo ruolo e fosse rattristato dal destino degli studenti (la maggior parte studentesse) che spediva a passare altro tempo in dure condizioni in carcere, nonostante le scarse prove contro di loro. Ma era impossibilitato a rifiutare la consuetudine dominante nel Paese secondo cui tutte le dichiarazioni di solidarietà a favore dei palestinesi sono estremamente pericolose. Mi sono chiesto quanto sarebbe importato a coloro che venivano rimandati in custodia se il giudice li avesse allegramente umiliati come fanno alcuni giudici ebrei, o compianto il loro destino.

A coronare questa strana esperienza di occupazione fai da te, mentre stavo aspettando che cominciasse l’udienza ho avuto uno strano incontro. Un ufficiale di polizia in uniforme mi si è avvicinato, cercando di concentrarsi mentre mi fissava e mi ha chiesto: “Dove l’ho già vista prima?” 

Dato che alcuni fascisti locali hanno pubblicato la mia foto su internet in seguito alla mia ultima incarcerazione, ho sviluppato un’estrema attenzione verso gli sconosciuti che sembrano riconoscermi. Ma lui ha continuato: “Lei è dell’Abna al-Balad, vero?” riferendosi al movimento palestinese di sinistra a cui appartengo. 

Lei chi è e perché mi sta facendo queste domande?” ho replicato. 

Mi ricordo di lei e apprezzo molto le sue posizioni,” ha risposto. “Anch’io ero nell’Abna al-Balad quando ero studente e prima di indossare questa uniforme.”

Tutti in custodia cautelare, eccetto una

Delle sette udienze a cui ho assistito oggi ad Acri, tutte erano relative a singoli post sui social media della mattina del 7 ottobre, in seguito volontariamente rimossi. Per sei dei sette detenuti è stata confermata la custodia cautelare, salvo una studentessa che la polizia ha deciso di mandare agli arresti domiciliari. Non era chiara la differenza, visto che aveva condiviso la stessa immagine degli altri studenti, ma ha offerto un momento di allegria per tutti noi e le lacrime di angoscia sono state temporaneamente sostituite da lacrime di gioia.

I detenuti sono apparsi in video su Skype, che oggi funzionava. La maggior parte erano studentesse e assistevano all’udienza dal carcere di Damon, dove sono detenuti molti prigionieri politici palestinesi.

Quando è apparsa in video la studentessa che stava per essere rilasciata, il giudice ha lasciato l’aula. L’avvocata Khalifa ha colto l’opportunità di chiederle delle sue condizioni in carcere. La studentessa ha detto di essere stata picchiata in prigione da due guardie, ma di non saperne i nomi. Quando le ha chiesto se avesse visto altre prigioniere picchiate, lei ha spiegato che le guardie portano le prigioniere nelle docce e lì le picchiano, così gli altri sentono i rumori ma non vedono le percosse. Poi Khalifa ha chiesto se c’erano state anche minacce. La studentessa ha detto di sì. Khalifa ha chiesto se era stata minacciata di stupro (ieri abbiamo sentito un’altra prigioniera che lo denunciava) – e lei ha detto di no. Quali minacce erano state fatte contro di lei? Ha replicato che le avevano detto (non sono sicuro se durante gli interrogatori o le guardie carcerarie) che sapevano il suo indirizzo e che anche se fosse stata rilasciata dal tribunale sarebbero andati a casa sua per vendicarsi.

È solo l’esempio più recente di come nell’Israele di oggi il confine fra “forze dell’ordine” e gang di fascisti sia labile e tutto diventi un continuum repressivo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)