Dentro il campo di tortura israeliano per i prigionieri di Gaza

Yuval Abraham

5 gennaio 2024 – + 972 Magazine

I palestinesi arrestati nel nord della Striscia di Gaza descrivono gli abusi sistematici dei soldati israeliani sia sui civili che sui combattenti, dalle gravi deprivazioni alla crudele violenza fisica.

Allinizio di dicembre sono circolate in tutto il mondo immagini che mostravano decine di palestinesi nella città di Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, mentre venivano svestiti e lasciati in mutande, fatti inginocchiare o sedere piegati in avanti, poi bendati e caricati come bestiame sul retro di camion militari israeliani. Come confermato in seguito da funzionari della sicurezza israeliani la stragrande maggioranza di questi uomini era costituita da civili senza affiliazione ad Hamas, portati via dallesercito senza che le loro famiglie venissero informate sul luogo di detenzione. Alcuni di loro non sono mai tornati.

+972 Magazine e Local Call hanno parlato con quattro dei civili palestinesi apparsi in quelle foto, o arrestati vicino al luogo del fatto e portati nei centri di detenzione militare israeliani, dove sono stati trattenuti per diversi giorni o addirittura settimane prima di essere rilasciati per tornare a Gaza. Le loro deposizioni, insieme a 49 testimonianze video pubblicate da vari media arabi di palestinesi arrestati nelle ultime settimane in circostanze simili nei distretti settentrionali di Zeitoun, Jabalia e Shujaiya, rivelano abusi e torture sistematiche da parte dei soldati israeliani contro tutti i detenuti, sia civili che militanti.

Secondo queste testimonianze i soldati israeliani hanno sottoposto i detenuti palestinesi a scosse elettriche, ustionato la loro pelle con gli accendini, sputato loro in bocca, li hanno privati del sonno, del cibo e dellaccesso ai bagni fino a costringerli a defecarsi addosso. Molti sono stati legati a una recinzione per ore, ammanettati e bendati per gran parte della giornata. Alcuni hanno testimoniato di essere stati picchiati su tutto il corpo e che gli sono state spente delle sigarette sul collo e sulla schiena. Si è saputo che in seguito a tali condizioni di detenzione diverse persone sono morte.

I palestinesi con cui abbiamo parlato hanno detto che la mattina del 7 dicembre, quando sono state scattate le foto a Beit Lahiya, i soldati israeliani sono entrati nel quartiere e hanno ordinato a tutti i civili di lasciare le loro case. Gridavano: Tutti i civili devono scendere e arrendersi’”, ha detto a +972 e Local Call Ayman Lubad, un ricercatore in legge presso il Centro Palestinese per i Diritti Umani, arrestato quel giorno insieme al fratello minore.

Secondo le testimonianze, i soldati hanno ordinato a tutti gli uomini di spogliarsi, li hanno riuniti in un unico luogo e hanno scattato le foto che sono state poi diffuse sui social media (alti funzionari israeliani hanno poi rimproverato i soldati per aver diffuso le immagini). Nel frattempo è stato ordinato a donne e bambini di recarsi all’ospedale Kamal Adwan.

Quattro diversi testimoni hanno riferito separatamente a +972 e Local Call che mentre erano seduti ammanettati per strada i soldati sono entrati nelle case del quartiere e appiccato il fuoco; +972 e Local Call hanno ottenuto le foto di una delle case bruciate. I soldati hanno detto ai detenuti che erano stati arrestati perché “non si erano trasferiti nel sud della Striscia di Gaza”.

Un numero imprecisato di civili palestinesi è rimasto nella parte settentrionale della Striscia nonostante gli ordini di espulsione israeliani che sin dalle prime fasi della guerra hanno portato centinaia di migliaia di persone a fuggire verso sud. Coloro con cui abbiamo parlato hanno elencato diversi motivi per cui non sono partiti: paura di subire il bombardamento da parte dell’esercito israeliano durante il viaggio verso sud o mentre vi si trovavano rifugiati; paura di essere presi di mira dai combattenti di Hamas; difficoltà motorie o disabilità tra i membri della famiglia e lincertezza della vita nei campi di sfollati nel sud. La moglie di Lubad, ad esempio, aveva appena partorito e loro temevano i rischi insiti nel lasciare casa con un neonato.

In un video girato sul posto a Beit Lahiya un soldato israeliano con in mano un megafono è di fronte agli abitanti prigionieri, disposti in fila nudi, in ginocchio e con le mani dietro la testa, e proclama: L’esercito israeliano è arrivato. Abbiamo distrutto Gaza [City] e Jabalia a vostro discapito. Abbiamo occupato Jabalia. Stiamo occupando tutta Gaza. E’ questo quello che volete? Siete dalla parte di Hamas?” I palestinesi ribattono che sono dei civili.

“La nostra casa è bruciata davanti ai miei occhi”, ha detto a +972 e Local Call Maher, uno studente dell’Università Al-Azhar di Gaza, che appare in una fotografia dei prigionieri a Beit Lahiya (ha chiesto di usare uno pseudonimo per paura che lesercito israeliano si vendichi contro i suoi familiari, ancora reclusi in un centro di detenzione militare). Testimoni oculari hanno detto che il fuoco si è diffuso in modo incontrollabile, la strada si è riempita di fumo e i soldati hanno dovuto spostare i palestinesi legati a qualche decina di metri dalle fiamme.

“Ho detto al soldato: ‘La mia casa è andata a fuoco, perché state facendo questo?’ E lui ha risposto: ‘Dimentica questa casa’”, ricorda Nidal, un altro palestinese presente anche lui in una fotografia a Beit Lahiya che ha chiesto di usare uno pseudonimo per gli stessi motivi.

“Mi ha chiesto dove mi faceva male e poi mi ha colpito con violenza”

Si sa che attualmente sono detenuti nelle carceri israeliane più di 660 palestinesi di Gaza, la maggior parte dei quali nella prigione di Ketziot nel deserto del Naqab/Negev. Un ulteriore numero, che l’esercito si rifiuta di rivelare ma potrebbe arrivare a diverse migliaia, è detenuto in diverse basi militari tra cui quella di Sde Teyman vicino a Be’er Sheva, dove si presume avvengano gran parte degli abusi sui prigionieri.

Secondo le testimonianze, i detenuti palestinesi di Beit Lahiya sono stati caricati su camion e portati su una spiaggia. Sono stati lasciati lì legati per ore e un’altra loro foto è stata scattata e diffusa sui social media. Lubad racconta come una delle soldatesse israeliane abbia ordinato a diversi detenuti di ballare e poi li abbia filmati.

I prigionieri, ancora in mutande, sono stati poi portati in un’altra spiaggia all’interno di Israele, vicino alla base militare di Zikim, dove, secondo le loro testimonianze, i soldati li hanno interrogati e picchiati duramente. Secondo quanto riportato dai media, i primi interrogatori sono stati condotti da membri dell’Unità 504 dell’esercito, un corpo di intelligence militare.

Maher ha raccontato la sua esperienza a +972 e Local Call: Un soldato mi ha chiesto: Come ti chiami?e ha iniziato a darmi pugni allo stomaco e calci. Mi ha detto: Fai parte di Hamas da due anni, dimmi come ti hanno reclutato”. Gli ho risposto che ero uno studente. Due soldati mi hanno aperto le gambe e mi hanno dato un pugno lì e in faccia. Ho iniziato a tossire e mi sono reso conto che non riuscivo a respirare. Ho detto loro: Sono un civile, sono un civile”.

“Ricordo di aver fatto allungato la mano lungo il corpo e di aver sentito qualcosa di pesante”, continua Maher. Non mi ero reso conto che era la mia gamba. Non riuscivo più a sentire il mio corpo. Ho detto al soldato che mi faceva male e lui si è fermato e ha chiesto dove; gli ho risposto allo stomaco e allora mi ha colpito forte allo stomaco. Mi hanno detto di alzarmi. Non riuscivo a sentire le gambe e non potevo camminare. Ogni volta che cadevo mi picchiavano di nuovo. Sanguinavo dalla bocca e dal naso e sono svenuto”.

I soldati hanno interrogato alcuni prigionieri in questo stesso modo, li hanno fotografati, hanno controllato le loro carte d’identità e poi li hanno divisi in due gruppi. La maggior parte, compresi Maher e il fratello minore di Lubad, sono stati rimandati a Gaza dove hanno raggiunto quella stessa notte le loro case. Lo stesso Lubad faceva parte di un secondo gruppo di circa 100 prigionieri di Beit Lahiya che quel giorno sono stati trasferiti in una struttura di detenzione militare all’interno di Israele.

Mentre erano lì i prigionieri sentivano regolarmente aerei che decollavano e atterravano”, quindi è probabile che fossero trattenuti nella base di Sde Teyman accanto a Beer Sheva, che comprende un aeroporto; secondo lesercito israeliano questo è il luogo in cui i prigionieri di Gaza vengono trattenuti per essere esaminati, vale a dire per decidere se devono essere classificati come civili o combattenti illegali”.

Secondo lufficio del portavoce dellesercito israeliano, le strutture di detenzione militare sono destinate solo agli interrogatori e allo screening iniziale dei prigionieri, prima che vengano trasferiti al servizio carcerario israeliano o fino al loro rilascio. Le testimonianze dei palestinesi trattenuti allinterno della struttura, tuttavia, dipingono un quadro completamente diverso.

Siamo stati torturati per l’intera giornata”

All’interno della base militare, i palestinesi sono stati trattenuti in gruppi di circa 100 persone. Secondo le testimonianze, sono rimasti ammanettati e bendati per tutto il tempo, e potevano riposare solo tra mezzanotte e le 5 del mattino.

Uno dei detenuti di ciascun gruppo, scelto dai soldati in base alla conoscenza dell’ebraico e denominato “Shawish” (un termine gergale per servitore o subordinato), era l’unico senza benda sugli occhi. Gli ex detenuti hanno spiegato che i soldati che li sorvegliavano avevano delle torce laser verdi che usavano per indicare chiunque si muovesse, cambiasse posizione a causa del dolore o emettesse un suono. Gli Shawish portavano questi detenuti dai soldati che si trovavano dalla parte opposta della rete di filo spinato che circondava la struttura per essere puniti.

Secondo le testimonianze, la punizione più comune consisteva nell’essere legati ad una recinzione e costretti a tenere le braccia sollevate per diverse ore. Chiunque le abbassasse veniva portato via dai soldati e picchiato.

“Siamo stati torturati per tutto il giorno”, riferisce Nidal a +972 e Local Call. Stavamo inginocchiati, a testa bassa. Quelli che non ci riuscivano venivano legati alla recinzione, [per] due o tre ore, finché il soldato non decideva di lasciarli andare. Sono rimasto legato per mezz’ora. Tutto il mio corpo era coperto di sudore; le mani sono diventate insensibili.

A proposito delle regole Lubad ricorda: Non puoi muoverti. Se ti muovi, il soldato punta un laser verso di te e dice allo Shawish: Portalo fuori, sollevagli le braccia. Se abbassi le braccia lo Shawish ti porta fuori e i soldati ti picchiano. Sono stato legato alla recinzione due volte. E ho tenuto le mani alzate perché c’erano persone intorno a me che erano state ferite. Una persona è tornata con una gamba rotta. Si sentivano i colpi e le urla provenire dall’altro lato della recinzione. Hai paura di guardare o sbirciare attraverso la benda. Se ti vedono guardare, c’è una punizione. Portano fuori anche te o ti legano alla recinzione”.

Un altro giovane rilasciato dalla detenzione ha detto ai media dopo essere tornato a Gaza che le persone venivano torturate continuamente. Sentivamo le urla. Loro [i soldati] ci hanno chiesto: Perché siete rimasti a Gaza, perché non siete andati a sud?” E io ho risposto: Perché dovremmo andare a sud?” Le nostre case sono ancora in piedi e non siamo legati ad Hamas”. Ci hanno detto: ‘andate a sud; il 7 ottobre avete festeggiato [per lattacco guidato da Hamas]”.

In un caso, dice Lubad, un prigioniero che si rifiutava di inginocchiarsi e abbassava le braccia invece di tenerle alzate è stato portato ammanettato dietro la rete di filo spinato. I prigionieri sentivano le percosse, poi hanno sentito il detenuto imprecare contro un soldato e poi uno sparo. Non sanno se il detenuto sia stato effettivamente colpito né se sia vivo o morto; in ogni caso non è tornato per il resto del tempo in cui sono stati trattenuti lì coloro con cui abbiamo parlato.

Nelle interviste con i media arabi degli ex prigionieri hanno testimoniato che altri reclusi sono morti accanto a loro. Lì dentro sono morte delle persone. Un prigioniero aveva una malattia cardiaca. Lo hanno buttato fuori, non volevano prendersi cura di lui”, ha riferito una persona ad Al Jazeera.

Anche diversi prigionieri che si trovavano insieme a Lubad gli hanno raccontato di questa morte. Hanno detto che prima del suo arrivo un uomo anziano del campo profughi di Al-Shati, che era malato, è morto nella struttura a causa delle condizioni di detenzione. I detenuti hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame per protestare per la sua morte e hanno restituito ai soldati le razioni di formaggio e pane. I prigionieri hanno riferito a Lubad che di notte i soldati sono entrati e li hanno picchiati duramente mentre erano ammanettati, e poi hanno lanciato contro di loro bombolette di gas lacrimogeno. I detenuti hanno smesso di scioperare.

L’esercito israeliano ha confermato a +972 e Local Call che dei prigionieri provenienti da Gaza sono morti nella struttura. “Sappiamo di casi di morte di persone recluse nel centro di detenzione”, ha detto il portavoce dell’esercito. Secondo le procedure, per ogni morte di un detenuto viene condotta un’indagine che comprende una verifica sulle circostanze della morte. I corpi dei prigionieri vengono trattenuti in conformità con l’ordinamento militare”.

Nelle testimonianze video i palestinesi rilasciati a Gaza descrivono casi in cui i soldati spegnevano sigarette sui corpi dei prigionieri e davano loro persino scosse elettriche. “Sono stato detenuto per 18 giorni”, ha detto un giovane ad Al Jazeera. [Il soldato] vede che ti addormenti, prende un accendino e ti brucia la schiena. Mi hanno spento delle sigarette sulla schiena un paio di volte. Uno dei ragazzi [che era bendato] ha detto [al soldato]: ‘Voglio dell’acqua da bere‘, e il soldato gli ha detto di aprire la bocca e poi ci ha sputato dentro”.

Un altro detenuto riferisce di essere stato torturato per cinque o sei giorni. Racconta che gli veniva detto: “Vuoi andare in bagno? Proibito”. [Il soldato] ti picchia. Ma io non sono Hamas, di cosa ho la colpa? Ma continua a dirti: ‘Tu sei Hamas, tutti quelli che rimangono a Gaza [City] sono Hamas. Se non fossi stato Hamas saresti andato a sud. Ti avevamo detto di andare a sud.'”

Shadi al-Adawiya, un altro prigioniero poi rilasciato, ha riferito a TRT [l’azienda radiotelevisiva di Stato turca, ndt.] in una testimonianza videoregistrata: Ci spegnevano le sigarette sul collo, sulle mani e sulla schiena. Ci prendevano a calci nelle mani e in testa. E c’erano le scosse elettriche”.

Non puoi chiedere nulla”, ha detto ad Al Jazeera un altro detenuto rilasciato dopo essere arrivato in un ospedale di Rafah. Se dici: Voglio bere, ti picchiano su tutto il corpo. Non c’è differenza tra vecchi e giovani. Ho 62 anni. Mi hanno colpito alle costole e da allora ho difficoltà a respirare”.

“Ho provato a togliermi la benda e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte”

I palestinesi arrestati da Israele a Gaza, siano essi combattenti o civili, sono detenuti ai sensi della Legge sui combattenti illegali” del 2002. Questa legge israeliana consente allo Stato di trattenere combattenti nemici senza concedere loro lo status di prigioniero di guerra e di trattenerli per lunghi periodi di tempo senza regolari procedimenti legali. Israele può impedire ai detenuti di incontrare un avvocato e rinviare l’esame giudiziario fino a 75 giorni o, su approvazione di un giudice, fino a sei mesi.

Dopo lo scoppio dellattuale guerra in ottobre questa legge è stata modificata: secondo la versione approvata dalla Knesset il 18 dicembre, Israele può trattenere tali detenuti anche fino a 45 giorni senza emettere un ordine di detenzione: una disposizione che comporta preoccupanti conseguenze.

Scompaiono per 45 giorni”, ha detto a +972 e Local Call Tal Steiner, direttore esecutivo del Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele. Le loro famiglie non vengono informate. Durante questo periodo le persone possono morire senza che nessuno lo venga a sapere. [Si deve] provare che sia successo davvero. Tante persone possono semplicemente scomparire”.

L’ONG israeliana per i diritti umani HaMoked ha ricevuto chiamate da persone di Gaza riguardanti 254 palestinesi detenuti dall’esercito israeliano e i cui parenti non hanno idea di dove si trovino. Alla fine di dicembre HaMoked ha presentato una petizione allAlta Corte israeliana chiedendo che lesercito pubblichi informazioni sugli abitanti di Gaza detenuti.

Una fonte del Servizio Carcerario Israeliano ha detto a +972 e Local Call che la maggior parte dei detenuti prelevati da Gaza sono trattenuti dai militari e non sono stati trasferiti nelle carceri. È probabile che lesercito israeliano stia cercando di ottenere informazioni di intelligence dai civili utilizzando la legge sui combattenti illegali per tenerli prigionieri.

I detenuti che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati trattenuti nella struttura militare insieme a persone che sapevano essere membri di Hamas o della Jihad islamica. Secondo le testimonianze, i soldati israeliani non fanno distinzioni tra i civili e i membri di queste organizzazioni e trattano tutti allo stesso modo. Alcuni degli arrestati in uno stesso gruppo a Beit Lahiya quasi un mese fa non sono stati ancora rilasciati.

Nidal descrive come, oltre alla violenza subita dai detenuti, le condizioni di detenzione fossero estremamente dure. “La toilette è una sottile apertura tra due pezzi di legno”, dice. Ci mettevano lì ammanettati e bendati. Entravamo e facevamo pipì vestiti. Ed è sempre lì che bevevamo”.

I civili rilasciati dalla base militare israeliana hanno raccontato a +972 e Local Call che dopo pochi giorni sono stati portati da una struttura all’altra per essere interrogati. La maggior parte ha affermato di essere stata picchiata durante gli interrogatori. È stato loro chiesto se conoscevano agenti di Hamas o della Jihad islamica, cosa pensavano di quanto accaduto il 7 ottobre, quale dei loro familiari fosse un agente di Hamas, chi fosse entrato in Israele il 7 ottobre e perché non fossero fuggiti a sud come ordinato.”

Tre giorni dopo Lubad è stato portato a Gerusalemme per l’interrogatorio. “L’inquirente mi ha dato un pugno in faccia e alla fine mi hanno portato fuori e mi hanno bendato”, dice. Ho provato a togliermi la benda perché mi faceva male e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte, quindi l’ho lasciata.

“Mezz’ora dopo hanno portato un altro prigioniero, un professore universitario”, continua Lubad. A quanto pare non ha collaborato con loro durante linterrogatorio. Lo hanno picchiato davvero senza pietà accanto a me. Gli hanno detto: ‘Stai difendendo Hamas, non rispondi alle domande. Mettiti in ginocchio, alza le mani.Ho sentito due persone venire verso di me. Pensavo che fosse il mio turno di essere picchiato e nell’attesa ero contratto in tutto il corpo. Qualcuno mi ha sussurrato allorecchio: Di’ cane”. Ho detto che non capivo. Mi ha risposto: Di‘: il giorno verrà per ogni cane’”, intendendo morte o punizione.

Lubad è stato poi riportato nella cella di detenzione. Secondo lui le condizioni a Gerusalemme erano migliori che nella struttura a sud. Per la prima volta non è stato ammanettato né bendato. “Avevo così tanto male ed ero così stanco che mi sono addormentato, e basta”, dice.

Siamo stati trattati come galline o pecore”

Il 14 dicembre, una settimana dopo essere stato portato via dalla sua casa a Beit Lahiya dove aveva lasciato moglie e tre figli, Lubad è stato messo su un autobus per tornare al valico di Kerem Shalom tra Israele e la Striscia di Gaza. Ha contato 14 autobus e centinaia di prigionieri. Lui e un altro testimone hanno riferito a +972 e Local Call che i soldati hanno detto loro di scappare e che chiunque si guarderà indietro, gli spareremo”.

Da Kerem Shalom i prigionieri si sono recati a Rafah, una città che nelle ultime settimane si è trasformata in un gigantesco campo profughi dovendo ospitare centinaia di migliaia di palestinesi sfollati. I prigionieri rilasciati indossavano pigiami grigi e alcuni hanno mostrato ai giornalisti palestinesi ferite ai polsi, alla schiena e alle spalle, esito evidente della violenza subita durante la reclusione. Indossavano braccialetti numerati che avevano ricevuto appena arrivati al centro di detenzione.

Euro-Med Monitor, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Ginevra con diversi ricercatori sul campo a Rafah, ha dichiarato a +972 e Local Call che si stima che nelle ultime settimane almeno 500 abitanti di Gaza siano stati rilasciati e rientrati in città dopo essere stati trattenuti in centri di detenzione israeliani, riportando testimonianze di feroci torture e abusi.

I prigionieri hanno detto ai giornalisti che a Rafah non sapevano dove andare o dove fossero le loro famiglie. Molti di loro erano scalzi. “Sono rimasto bendato per 17 giorni”, ha riferito uno di loro. Siamo stati trattati come galline o pecore”, ha detto un altro.

Uno dei detenuti arrivati a Rafah ha detto a +972 e Local Call che dal momento del suo rilascio due settimane fa vive in una tenda di nylon. “Solo oggi ho comprato delle scarpe”, dice. A Rafah, ovunque guardi, vedi tende. Da quando sono stato rilasciato, per me è stata psicologicamente molto dura. Un milione di persone sono stipate qui, in una città di 200.000 abitanti [prima della guerra]”.

Lubad appena arrivato a Rafah ha chiamato sua moglie. Era felice di sapere che lei e i suoi figli erano vivi. «In carcere continuavo a pensare a loro, a mia moglie che si trova in una situazione difficile, sola con il nostro bambino appena nato», spiega.

Ma al telefono ha capito che c’era qualcosa che i suoi familiari non gli dicevano. Alla fine, Lubad ha scoperto che unora dopo che suo fratello minore era tornato dalla prigionia a Zikim Beach era stato ucciso da un proiettile israeliano che ha colpito la casa di un vicino.

Ricordando l’ultima volta che aveva visto suo fratello, Lubad dice: “Vedevo come eravamo seduti lì in mutande, e faceva un freddo terribile, e gli ho sussurrato: ‘Va bene, va tutto bene, tornerai sano e salvo.’

Durante la sua detenzione la moglie di Lubad ha detto ai figli che lui era in viaggio allestero; Lubad non è sicuro che ci credessero. Quel giorno suo figlio di 3 anni lo ha visto per strada senza vestiti. Mio figlio desiderava tanto andare allo zoo, ma a Gaza non c’è più nessuno zoo. Allora gli ho detto che durante il mio viaggio avevo visto una volpe a Gerusalemme – e in effetti la mattina, durante il mio interrogatorio, passavano alcune volpi. Gli ho promesso che, quando tutto sarebbe finito, avrei portato anche lui a vederle.

In risposta alle affermazioni fatte in questo articolo secondo cui i soldati israeliani avrebbero bruciato le case dei palestinesi arrestati a Beit Lahiya, il portavoce dellesercito ha commentato che le accuse saranno prese in esame”, aggiungendo che negli appartamenti delledificio sono stati trovati documenti appartenenti ad Hamas e una grande quantità di armi” e che dalledificio sarebbero stati sparati colpi contro le forze israeliane.

Il portavoce dellesercito ha affermato che i palestinesi di Gaza sarebbero stati arrestati per coinvolgimento in attività terroristiche” e che ai detenuti che risultano non coinvolti in attività terroristiche e per i quali un prolungamento della detenzione non è giustificato viene permesso di tornare nella Striscia di Gaza alla prima occasione.”

Per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti e torture il portavoce dell’esercito ha affermato che tutte le accuse di condotta impropria nella struttura di detenzione vengono indagate approfonditamente. I detenuti vengono ammanettati in base al loro livello di rischio e alle condizioni di salute, secondo una valutazione quotidiana. Una volta al giorno la struttura di detenzione militare offre ai detenuti che la richiedano una consulenza medica per verificarne le condizioni di salute”.

Tuttavia, i prigionieri che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati visitati da un medico solo al loro arrivo nella struttura e di non aver ricevuto alcun trattamento medico successivo nonostante le ripetute richieste.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Basta ai palestinesi poter accedere alle proprie terre due volte all’anno?

Amira Hass

20 agosto 2023 Haaretz

L’Alta Corte di Israele ha respinto la petizione degli abitanti del villaggio di Anin per poter lavorare i propri terreni oltre il muro di separazione ogni giorno, ed ha stabilito che due volte a settimana fosse sufficiente. Ora l’esercito israeliano dice che gli agricoltori potranno accedere ai propri terreni solo due volte all’anno.

I contadini del villaggio di Anin vogliono lavorare la propria terra ogni giorno, perciò hanno chiesto che il varco nella barriera di separazione che divide i loro campi dal villaggio venisse aperto quotidianamente, non due volte a settimana. Hanno inoltrato questa richiesta nel 2007, circa cinque anni dopo che Israele ha costruito il muro sulla loro terra, ma è stata respinta.

Un anno fa hanno nuovamente fatto la richiesta, di nuovo rifiutata e in marzo hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia. Allora l’esercito ha informato loro e la Corte che in realtà sta programmando di rendere “stagionale” l’apertura del varco: invece di due volte alla settimana, verrà aperto due volte all’anno per l’aratura e la raccolta delle olive. E se i contadini sono così desiderosi di recarsi sul proprio terreno ogni giorno potranno guidare per 25 chilometri, sia per andare che per tornare, attraverso un altro varco. Quindi l’Ufficio del Procuratore di Stato ha raccomandato alla Corte di respingere la petizione.

I giudici non hanno nemmeno tenuto un’udienza con i richiedenti e la loro avvocata, Tehila Meir dell’associazione israeliana per i diritti HaMoked. Nella prima settimana di agosto hanno semplicemente emesso la sentenza: due giorni alla settimana sono ampiamente sufficienti, ha scritto la giudice Ruth Ronnen in accordo con i suoi colleghi Yael Willner e Alex Stein. Se davvero il varco diventasse stagionale i richiedenti potrebbero tentare un ricorso legale, ha precisato.

Dei circa 17.000 dunam (4.200 acri) del villaggio in Cisgiordania, 11.000 sono incastrati tra il muro di separazione e la Linea Verde, in un’enclave di 31.000 dunam. E’ l’enclave di Barta’a, che ospita 7.000 palestinesi in sette villaggi, il più grande dei quali è la stessa Barta’a. Ci vivono anche circa 3.000 coloni in quattro insediamenti; c’è pure una zona industriale israeliana.

E’ difficile dire che è la Cisgiordania e non Israele. I lavori di costruzione e altri lavori per lo sviluppo nei villaggi palestinesi sono pesantemente limitati. I palestinesi che non vivono nell’enclave sono impossibilitati ad entrare, anche se pochi privilegiati ricevono un permesso speciale. Sono i residenti dei villaggi ad est del muro, i cui terreni si trovano ad ovest del muro di cemento (fino a poco tempo fa una staccionata), come gli abitanti di Anin.

Viaggio estenuante, lunga attesa

I soldati aprono il varco a Anin solo il lunedì e il mercoledì e solo due volte al giorno per brevi periodi: dalle 6,50 alle 7,10 del mattino e dalle 15,50 alle16,10 del pomeriggio. Il varco si trova a 5 minuti di cammino dalle case dei richiedenti e la loro terra dista dai 5 ai 20 minuti dal varco.

Prima del 1948 Anin aveva 45.000 dunam”, dice al telefono a Haaretz il capo del consiglio del villaggio Mohammed Issa. Circa 27.000 di essi sono finiti in Israele. Dal 2002 la maggior parte della terra coltivabile che ci è rimasta è al di là del muro. Ogni famiglia ha il terreno là.”

Ottenere un permesso per entrare nei terreni coltivabili è una procedura molto complicata; i permessi sono concessi solo agli abitanti i cui documenti di proprietà soddisfano le condizioni dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania. Inoltre occorre provare la parentela diretta con i proprietari (cioè coniugi e figli; i nipoti non ottengono i permessi). Tutto ciò è sottoposto ad un rigoroso controllo burocratico e di sicurezza. Il permesso va rinnovato ogni pochi mesi, ogni anno o ogni due anni, a seconda del tipo di permesso.

Gli abitanti di Anin che fanno la procedura attraverso il controllo dell’Amministrazione Civile e il servizio di sicurezza dello Shin Bet possono raggiungere la loro terra attraverso il varco di Barta’a, 25 chilometri a sud. Questo varco è aperto tutti i giorni, ma è un viaggio di circa un’ora e mezza da Anin e la strada è in parte costituita da pista sterrata che solo un trattore o un veicolo fuoristrada possono percorrere.

Questo lontano posto di blocco è utilizzato da centinaia di palestinesi di altri villaggi che vivono nell’enclave di Barta’a o hanno dei permessi per attraversarla, perciò per passare di là vi sono lunghe attese specialmente al mattino – il momento migliore per l’attività agricola.

Tanto per cominciare, passare con un trattore richiede un permesso che spinge i richiedenti ad una corsa a ostacoli burocratica. I contadini che portano attrezzi da lavoro attraverso il varco di Barta’a devono subire un lungo controllo di sicurezza – e poi, dopo circa due ore in strada, devono tornare di nuovo verso nord per guidare fino al loro terreno che è a portata di vista e di cammino dalle loro case.

Anche gli alti costi del viaggio spaventano i richiedenti: 80 shekel (21,20 dollari) al giorno con il proprio veicolo, oppure 60 shekel al giorno col trasporto pubblico, che non è disponibile a tutte le ore del giorno.

Tutte queste argomentazioni, dettagliate nella petizione da Meir di HaMoked, non hanno convinto i giudici. Ronnen si è allineata all’esercito e all’Amministrazione Civile in ogni aspetto, affermando che “le uniche colture attualmente esistenti nei terreni sono uliveti che richiedono una coltivazione solo stagionale durante le stagioni dell’aratura e della raccolta.” Ha aggiunto che “i richiedenti non contestano questa affermazione”.

Invece i richiedenti la hanno contestata. Una replica di Meir alla risposta dell’Ufficio del Procuratore di Stato alla petizione afferma che prima della costruzione del muro di separazione i contadini del villaggio coltivavano cereali come grano e frumento e verdure come pomodori, cipolle, sesamo e cetrioli. La costruzione del muro e la limitazione dei giorni in cui si può attraversarlo hanno costretto gli agricoltori a rinunciare alle colture che necessitano di irrigazione, cura e sorveglianza quotidiane, ha detto Meir.

La linea dura della Corte

Durante una visita al varco a maggio, su iniziativa dell’esercito e dell’Ufficio del Procuratore di Stato dopo che è stata presentata la petizione, gli agricoltori hanno spiegato la situazione agli alti funzionari, come documentato da Meir, che ha partecipato all’incontro con altre persone di HaMoked. Meir ha allegato alla sua risposta un parere di Bimkom, un’associazione israeliana per i diritti che perora l’uguaglianza nella pianificazione ed ha lavorato per molti anni con le comunità palestinesi nell’enclave di Barta’a.

Fornendo dati e fotografie aeree, Bimkom dimostra che molti degli appezzamenti di terra di Anin, che prima del 2000 erano intensamente coltivati, sono inariditi a causa delle restrizioni all’ingresso. Gli alberi negli uliveti di Anin, che non necessitano di irrigazione, sono meticolosamente curati.

Alla domanda se gli abitanti del villaggio sperassero di tornare a coltivare verdura, grano e cereali, Issa, il capo del consiglio del villaggio, ha risposto a Haaretz: “Adesso stiamo parlando di come mantenere e salvare ciò che abbiamo, gli alberi che abbiamo.”

E’ indignato dalla sentenza secondo cui il varco sarà aperto solo due volte all’anno. “Una mandria di buoi (da un vicino villaggio israeliano nell’area di Wadi Ara) raggiunge i nostri alberi e li danneggia, perciò dobbiamo essere là ogni giorno”, ha detto Issa.

Il timore è che ciò che succede in altri luoghi dove l’esercito e l’Amministrazione Civile concede l’ingresso ai contadini solo due o tre volte all’anno avverrà anche ad Anin: gli uliveti verranno invasi dai cardi selvatici e devastati da frequenti incendi boschivi e la loro produzione diminuirà drasticamente.

Nella loro risposta alla petizione gli avvocati dell’Ufficio del Procuratore di Stato, Yael Kolodny e Jonathan Berman, hanno sostenuto a nome dell’esercito e dell’Amministrazione Civile che il varco viene usato dagli abitanti di Anin con permessi agricoli soprattutto per entrare senza autorizzazione in Israele. Hanno detto di sostenere questo sulla base di un filmato di un drone e di una improvvisa visita al varco alla fine di marzo, quando sono state interrogate le persone che lo attraversavano. Hanno detto che molti avevano con sé un cambio di abiti e alcuni erano “vestiti elegantemente”. Nessuno aveva attrezzi da lavoro, hanno aggiunto gli avvocati.

In risposta i contadini hanno detto a Meir che alcuni di loro effettivamente escono di casa in abiti puliti e si cambiano in tenuta da lavoro, che indossano anche per riparare veicoli, per costruire, per tinteggiare le case e svolgere altre attività. Inoltre i lavoratori che attraversano il varco normalmente lasciano i loro attrezzi nell’appezzamento piuttosto che portarli avanti e indietro. Meir ha scritto, citando Bimkom, che gli uliveti curati dimostrano che i contadini si recano regolarmente dove sono gli alberi e se ne prendono cura con dedizione.

Quanto al filmato del drone, Meir ha scritto che è stato ripreso in Cisgiordania e non mostra nessuno che entra in Israele. I richiedenti, che hanno notato il drone, dicono che il filmato è selettivo, mostra persone che salgono nelle auto (che secondo l’esercito le portano in Israele), ma non mostra quelli che continuano a piedi fino ai loro appezzamenti. I richiedenti aggiungono che alcuni contadini trovano dei passaggi in auto israeliane (di proprietà di palestinesi cittadini dello Stato) per arrivare più in fretta ai loro terreni.

Meir ha detto a Haaretz che la sentenza mostra un drastico peggioramento nel rispetto da parte della Corte degli obblighi dello Stato verso i palestinesi danneggiati dal muro di separazione. Ha sottolineato che la Corte ha approvato la costruzione del muro all’inizio del 2000 dopo che lo Stato si è impegnato a ridurre i danni ai palestinesi separati dai loro terreni al minimo indispensabile, consentendo loro un accesso ragionevole alle loro terre.

Ora che accade che l’accesso non sia ragionevole, la Corte respinge l’appello dei contadini senza un’udienza, ha precisato. “E’ triste vedere quanto poco costi considerare giustificabile danneggiare i diritti umani dei palestinesi che cercano di lavorare i propri terreni”, ha detto Meir.

HaMoked ha anche evidenziato un altro inquietante aspetto della sentenza: i giudici hanno stabilito che queste terre “formalmente” appartengono all’ “area di Giudea e Samaria”, la Cisgiordania, che è occupata da Israele dal 1967. Questa affermazione indica che nella sostanza, al contrario che nella forma, questo territorio palestinese, noto in gergo militare come “zona di congiunzione”, non fa parte dell’ “area di Giudea e Samaria.”

Così c’è soltanto un passo tra la sentenza della Corte ed il suo assenso all’annessione della terra oltre il muro. I giudici sanno bene che solo gli israeliani e i turisti stranieri hanno libero accesso a questa area, mentre i palestinesi ne sono del tutto impediti, e che solo le colonie e l’Amministrazione Civile vi possono mettere in atto piani edilizi, mentre le autorità locali palestinesi, che posseggono questa terra, non possono. Del resto la Corte ha approvato questo stato di cose nel 2011.

Fondamentalmente oltre 500 chilometri quadrati di terra (9,4% dell’intera Cisgiordania) sono imprigionati tra il muro di separazione e la Linea Verde. Quindi la realtà è che un’enorme fetta di terra è stata sostanzialmente annessa ad Israele senza una dichiarazione “formale”.

Per adempiere alla promessa dello Stato di permettere ai contadini di lavorare la propria terra sono stati costruiti 79 varchi nel muro di separazione. Solo cinque sono aperti tutto il giorno, 11 sono aperti per poco tempo due o tre volte al giorno e 10 sono aperti per alcuni brevi intervalli due o tre giorni alla settimana.

Con la chiusura del varco di Anin questo numero scenderà a 9 e il varco di Anin si aggiungerà a 53 altri “varchi stagionali”, aperti solo alcuni giorni all’anno per l’aratura, la raccolta e a volte per diserbare. La gente di Anin ha tempo fino a lunedì per fare appello contro la decisione di chiudere il loro varco.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nelle prigioni israeliane il numero di palestinesi sottoposti a detenzione senza processo è duplicato

Hagar Shezaf

27 marzo 2023 – Haaretz

In base a nuovi dati, le prigioni israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni

Alla data del primo marzo le carceri israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni: dati del Servizio Penitenziario Israeliano forniti al Centro per la Difesa dell’Individuo (Hamoked).

Le cifre mostrano che a parte quattro tutti i detenuti sono palestinesi della Cisgiordania, residenti di Gerusalemme est o arabi israeliani. Gli altri quattro sono ebrei israeliani.

Secondo Honenu, un’organizzazione no profit israeliana che fornisce appoggio legale a sospettati di terrorismo ebrei, i quattro ebrei israeliani sottoposti a detenzione amministrativa rappresentano il numero più alto dal 1994.

I dati forniti a Haaretz dall’esercito israeliano mostrano che nel corso del 2022 i tribunali militari hanno approvato il 90% di tutti i mandati di arresto; solo l’1% è stato completamente respinto.

In passato il Servizio Penitenziario Israeliano forniva informazione sul numero totale dei detenuti amministrativi, ma questa volta ha rifiutato di comunicare i suoi dati relativi a minori, donne e cittadini e residenti israeliani.

La prigione di Ofer. Foto Olivier Fitoussi

I detenuti amministrativi sono trattenuti nelle carceri israeliane senza un’accusa, essendo gli arresti considerati una misura preventiva. In tribunale non si svolge nessun procedimento probatorio. Agli avvocati degli imputati non viene fornito nulla tranne un compendio di diverse sentenze da tempo noto come “parafrasi” che cita le imputazioni contro di loro.

I mandati di arresto sono approvati da giudici ai quali viene consegnato un ordine firmato dal capo del Comando Centrale dell’esercito israeliano e classificato informazione segreta sul detenuto. Le udienze sulle detenzioni amministrative non sono aperte al pubblico.

Gli Stati occidentali applicano raramente la detenzione amministrativa e in alcuni Paesi questa pratica non esiste affatto. Israele la utilizza soprattutto in Cisgiordania contro i palestinesi, mentre viene raramente utilizzata nei confronti di cittadini israeliani, in particolare ebrei.

Eli Bahar, un ex consulente legale del servizio di sicurezza Shin Bet, ha detto di ritenere che l’aumento del numero di detenuti amministrativi sia legato alla crescente impotenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Se ci fosse un’efficace forza di polizia,  si dovrebbe occupare dei crimini che vengono considerati terroristici, ma in fondo rientrano nell’applicazione del diritto penale”, dice.

Perciò non sorprende che a fronte di una debole ANP, che dovrebbe come proprio ruolo garantire questo genere di applicazione della legge e impedire l’escalation, lo Stato di Israele deve agire con sempre maggiore aggressività, sicuramente se si vuole mantenere un livello ragionevole di deterrenza antiterrorismo”, aggiunge Bahar.

L’esercito israeliano dice di aver emesso nello scorso anno 2.076 ordini di detenzione amministrativa contro palestinesi. 2.016 di essi sono stati portati davanti al tribunale militare, che ne ha approvato il 90%. Nel 7% dei casi il tribunale ha ordinato una detenzione più breve di quella richiesta.

L’anno scorso il deputato Ahmad Tibi del partito Hadash-Ta’al (partito arabo) ha impugnato i dati sui detenuti amministrativi trattenuti negli anni precedenti per contestare l’allora Ministro della Difesa Benny Gantz.

I dati non registravano un’analisi dettagliata tra i mandati di arresto emessi e quelli portati effettivamente in giudizio. Tuttavia includevano il numero di mandati revocati o abbreviati, mostrando che la proporzione dei mandati che la corte aveva rigettato nell’anno precedente era bassa in rapporto agli anni precedenti.

L’arresto di un palestinese nel 2022. Foto : Uff. Stampa IDF

Nel 2021 il 13% dei mandati è stato respinto o abbreviato – il dato più basso nel periodo 2017-2021. Nel 2022 solo l’8% dei mandati è stato respinto dal tribunale, con un evidente calo.

Jessica Montell, direttrice esecutiva di Hamoked che monitora i diritti dei detenuti amministrativi, attribuisce il basso grado di interventi, tra le altre cose, al boicottaggio dei tribunali da parte dei detenuti da gennaio a luglio 2022. I loro avvocati non si sono presentati in tribunale, riducendo la possibilità dei detenuti di influenzare l’esito delle udienze.

Montell sottolinea che, mentre il numero dei detenuti amministrativi è duplicato dal 2020, il numero totale di prigionieri è rimasto più o meno lo stesso. “E’ semplicemente un abuso di ciò che dovrebbe essere l’eccezione all’eccezione”, dice.

I dati forniti a Hamoked dal Servizio Penitenziario Israeliano mostrano che all’inizio di marzo di quest’anno nelle carceri israeliane c’erano 4.765 prigionieri, di cui 971 erano detenuti amministrativi. In paragone, nel marzo 2020 c’erano 4.634 prigionieri, di cui 434 erano detenuti amministrativi.

Bahar dice che i tribunali militari e civili tendenzialmente non contestano le informative su un detenuto presentate. “E’ difficile per loro occuparsi di questo. L’intero processo di detenzione amministrativa differisce dal sistema giudiziario in cui entrambe le parti perorano la propria causa. Qui solo una parte espone la sua causa e l’altra riceve la ‘parafrasi’, per cui qui c’è quasi un pregiudizio strutturale che rende difficile al giudice analizzare ciò che sta avvenendo come farebbe in una procedura legale ordinaria”, spiega.

Nel suo libro “Shin Bet sotto esame: sicurezza, giustizia e valori democratici”, Bahar scrive che è difficile determinare il momento in cui la minaccia attribuita ad un detenuto viene meno. “I casi in cui disponiamo di informazioni attendibili che suggeriscono che il detenuto si è allontanato dalla sua strada pericolosa sono rari”, scrive nel libro.

Bahar aggiunge che i tribunali preferiscono non emettere sentenze contrarie all’apparato della sicurezza perché si assumerebbero il rischio di rilasciare un detenuto che in seguito potrebbe compiere un attacco terroristico. Comunque resta convinto che questo sistema debba continuare ad essere applicato nei territori (occupati).

E’ uno strumento molto importante”, dice Bahar, riassumendo la propria posizione. “Il sistema di intelligence e di giustizia che è stato creato dovrebbe fornire una risposta alla natura intrinsecamente problematica della detenzione amministrativa garantendo che gli arresti non siano arbitrari.”

La detenzione amministrativa di regola dura dai tre ai sei mesi. Tuttavia non c’è limite al numero di volte in cui può essere estesa, il che significa che la detenzione in alcuni casi può durare anni.

In linea di principio i mandati di arresto sono firmati dal capo del Comando Centrale, anche se in pratica per la maggior parte sono firmati da ufficiali col grado di colonnello. In Israele il Ministro della Difesa è responsabile della firma degli ordini di detenzione amministrativa e le autorità hanno solo 48 ore di tempo per presentarli all’esame del presidente del tribunale distrettuale. In Cisgiordania un giudice militare, normalmente di grado relativamente inferiore, ha otto giorni di tempo per esaminare l’ordine.

Ci sono anche altre differenze relativamente al riesame giurisdizionale. In Israele la legge stabilisce che l’ordine debba essere consegnato per ulteriore esame entro tre mesi dall’arresto. Invece in Cisgiordania la legge richiede che una revisione possa avvenire solo due volte all’anno per ogni ordine, il che significa che in pratica normalmente non vi è alcun procedimento di riesame.

Un’altra differenza sta nel fatto che in Israele presenziano all’udienza dei rappresentanti dello Shin Bet, per cui il giudice può porre domande riguardo al materiale informativo relativo all’arresto. In Cisgiordania si è stabilita la prassi per cui il materiale informativo è presentato in forma scritta dal procuratore senza la presenza in tribunale dello Shin Bet. Inoltre i giudici possono esaminare informazioni presentate come prova, comprese quelle per sentito dire, che non sarebbero ammissibili in un processo penale.

In linea di principio un’udienza amministrativa dovrebbe essere completamente diversa da una penale – non dovrebbe essere un mezzo per punire una persona per ciò che ha fatto, ma per impedire un danno che non si possa impedire in altro modo”, dice Montell.

E’ ovvio che non è così che Israele fa uso della detenzione amministrativa perché questa funziona come una catena di montaggio. Viene emesso un mandato di tre o sei mesi per volta– non è commisurato allo specifico pericolo rappresentato da una particolare persona”, dice.

Montell aggiunge che nel corso degli anni si è imbattuta in cause penali in cui le autorità non hanno ottenuto un prolungamento dell’incarcerazione ed hanno risolto il problema ordinando una detenzione amministrativa.

Questa prassi non è stata utilizzata solo contro palestinesi: il mese scorso è stata applicata al caso di due ebrei arrestati per i disordini a Hawara. Dopo che il tribunale ha disposto il loro rilascio sono stati sottoposti a detenzione amministrativa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele sta per adottare provvedimenti punitivi contro i palestinesi in seguito agli attacchi mortali a Gerusalemme

Bethan McKernan da Gerusalemme

29 gennaio 2023 – The Guardian

Il primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia misure dopo gli attacchi più gravi [negli ultimi] anni.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una serie di misure punitive contro i palestinesi in seguito all’attacco terroristico più grave a Gerusalemme da anni, nel corso del quale un aggressore armato ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga.

In una dichiarazione rilasciata domenica dopo l’incontro settimanale del governo, l’ufficio di Netanyahu ha comunicato che l’agenzia di sicurezza israeliana valuterà “misure di deterrenza addizionali riguardanti le famiglie dei terroristi che esprimano sostegno al terrorismo”, inclusa la revoca del diritto di residenza a Gerusalemme e della cittadinanza israeliana e norme che permetteranno ai datori di lavoro il licenziamento immediato, senza bisogno di un procedimento giudiziario, dei dipendenti che hanno “sostenuto il terrorismo”.

Altri provvedimenti illustrati dal governo includono la privazione per i famigliari degli assalitori di sicurezza sociale e prestazioni sanitarie, modifiche delle norme per facilitare la demolizione delle case dei palestinesi che compiono attacchi terroristici e il “rafforzamento delle colonie” nella Cisgiordania occupata, su cui non sono forniti ulteriori dettagli.

Tutte le misure sono illegali ai sensi del diritto internazionale e probabilmente contribuiranno ad alimentare le tensioni fra la popolazione palestinese e con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controlla parti della Cisgiordania occupata, in un momento in cui la regione è già pericolosamente vicina all’escalation sul campo.

Lo scontro a fuoco di venerdì nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Neve Yaakov, nella Gerusalemme Est occupata, costata la vita a sette persone, mentre tre sono rimaste ferite, ha fatto seguito al più grave raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania da decenni. L’attacco insolitamente feroce contro combattenti nel campo profughi di Jenin ha causato la morte di nove palestinesi, inclusi due civili, e scatenato un’ondata di violente rappresaglie all’alba di venerdì con lo scambio di razzi fra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti, e Israele.

Dopo l’attacco della sinagoga sono stati riportati parecchi altri incidenti, fra cui l’attacco con armi da fuoco in cui sono state ferite due persone vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme da parte di un tredicenne palestinese, il ricovero in ospedale di quattro palestinesi aggrediti da un colono israeliano vicino a Nablus e la sparatoria di sabato in un ristorante di coloni vicino a Gerico senza vittime, ma in cui l’assalitore è stato ucciso.

Domenica è stato ucciso un palestinese armato che si stava avvicinando a una colonia nell’area di Nablus, mentre case e auto sono state danneggiate e incendiate in vari villaggi palestinesi vicino a Ramallah.

Il primo ministro ha anche annunciato che la sua amministrazione varerà norme per semplificare l’iter per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani, spiegando che la misura ridurrà la violenza perché “abbiamo visto più e più volte… che civili eroici, armati e addestrati salvano vite”.

Netanyahu ha dichiarato che Israele non cerca l’escalation, ma che fornirà una risposta “potente, rapida e precisa” all’attacco di venerdì a Gerusalemme. In previsione di altri attacchi da emulazione e price tag [attacchi di ritorsione contro palestinesi ad opera di gruppi di coloni, ndt.] nella città contesa e in Cisgiordania sono stati impiegati battaglioni aggiuntivi dell’esercito.

Sabato il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha incolpato Israele del picco di violenze. In seguito al raid a Jenin l’ANP ha dichiarato che sospenderà la cooperazione per la sicurezza con Israele, una decisione presa anche in passato con scarso successo.

Domenica all’alba la polizia israeliana ha messo i sigilli e si appresta a demolire la casa della famiglia dell’aggressore alla sinagoga ucciso mentre fuggiva dalla luogo dell’attacco. Si crede che Alqam Khayri, 21 anni, abbia agito da solo; anche se gruppi di militanti palestinesi hanno elogiato la sua azione, nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’attacco. Un totale di 42 persone, tra cui suoi famigliari, sono stati arrestate in relazione all’episodio.

Membri del parlamento israeliano minacciano una raffica di provvedimenti che costituiscono una punizione collettiva contro persone innocenti solo perché sono collegate all’uomo che ha commesso un attacco mortale,” ha detto in una dichiarazione HaMoked, un’associazione israeliana no profit che si occupa principalmente dei diritti legali dei palestinesi.

[La legge israeliana] permette di demolire o mettere i sigilli a una casa. Tuttavia l’esercito deve notificarlo in anticipo alla famiglia, permettendo loro di presentare ricorso e, se respinto, di fare appello all’Alta Corte di Giustizia. Nulla di tutto ciò è stato fatto in questo caso.”

La sparatoria alla sinagoga di venerdì è la prima prova per la neoeletta coalizione governativa di estrema destra di Netanyahu, la cui campagna elettorale si è basata sulla promessa di rendere Israele più sicuro dopo la serie di attacchi palestinesi con coltelli e pistole la scorsa primavera. Elementi del nuovo governo hanno anche promesso di annettere la Cisgiordania ed estendere il controllo ebraico sul complesso sacro del Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.] a Gerusalemme, spesso un focolaio di violenze.

Lunedì Netanyahu riceverà Antony Blinken, Segretario di Stato USA, una visita a Gerusalemme pianificata da tempo, ma che ora sarà dominata dagli sforzi per disinnescare l’infiammabile situazione di sicurezza.

Ci si aspetta che i colloqui tratteranno anche dell’Iran, della posizione di Israele sulla guerra in Ucraina, dello stallo del processo di pace con i palestinesi e delle preoccupazioni internazionali per i piani del governo israeliano per minare i poteri della Corte Suprema del Paese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le restrizioni israeliane sugli ingressi degli stranieri nella Cisgiordania occupata entrano in vigore nonostante le critiche

Yumna Patel e Michael Arria

20 ottobre 2022 – Mondoweiss

Nonostante mesi di condanne da parte di associazioni per i diritti umani e di tentativi giudiziari di bloccarle, una serie di restrizioni draconiane degli ingressi di stranieri nella Cisgiordania occupata da parte di Israele entra in vigore oggi.

Nonostante mesi di condanne da parte di associazioni per i diritti umani e tentativi giudiziari di bloccare l’applicazione delle restrizioni, è previsto che oggi entri in vigore una serie di norme e restrizioni draconiane sull’ingresso di stranieri nella Cisgiordania occupata.

Denominate “Procedura per l’ingresso e la residenza di stranieri nella zona di Giudea e Samaria”, le 90 pagine di restrizioni progettate dall’Israel’s Coordinator of Government Activities in the Territories [Coordinatore di Israele delle Attività di Governo nei Territori] (COGAT) intendono limitare seriamente la possibilità per gli stranieri, anche quelli di origine palestinese che vivono all’estero, di entrare in Cisgiordania per ragioni di attività economiche, istruzione, lavoro umanitario e persino per far visita alla famiglia.

Le nuove regole sono state pubblicate all’inizio di quest’anno, suscitando una condanna generalizzata e all’inizio era previsto che sarebbero entrate in vigore a maggio, ma sono state rinviate varie volte a causa dei ricorsi legali.

Le autorità israeliane non hanno fornito alcuna spiegazione riguardo alle nuove procedure, che chiaramente vanno molto al di là della loro competenza come potere occupante di prendere misure per la propria sicurezza o per il benessere della popolazione palestinese,” afferma in un comunicato Jessica Montell, direttrice esecutiva di Hamoked, l’associazione israeliana per i diritti umani che ha contrastato questa normativa nei tribunali israeliani.

La maggior parte dell’opposizione ha riguardato alcuni degli aspetti più insensati delle norme, come una clausola in base alla quale stranieri che iniziano una relazione con un palestinese dovrebbero dichiararlo al governo israeliano entro i 30 giorni dall’inizio di suddetta relazione.

In precedenza, a settembre, in seguito alle dure reazioni da parte delle associazioni per i diritti e di fonti ufficiali europee e statunitensi, il COGAT ha reso pubblica una versione rivista del documento che ha fatto marcia indietro su alcune delle norme più ampiamente criticate, compresa la summenzionata sequenza temporale per riferire di rapporti sentimentali con palestinesi.

Ma l’essenza delle regole e molte delle restrizioni originarie sono rimaste in vigore.

In base a queste norme, il COGAT e il governo israeliano hanno ancora il potere assoluto di approvare o negare il visto a chiunque cerchi di entrare o rimanere in Cisgiordania. Ciò include i coniugi stranieri di palestinesi, studenti, docenti universitari, volontari e operatori umanitari stranieri e persino palestinesi con passaporto straniero che intendano far visita alla propria famiglia in Cisgiordania.

Yotam Ben Hillel, avvocato israeliano che si è opposto alle norme del COGAT in tribunale insieme ad Hamoked, afferma che, in base agli Accordi di Oslo, decisioni di questo tipo dovrebbero essere sottoposte alla supervisione dell’Autorità Palestinese.

Ma in questo provvedimento (del COGAT) tutto dipende da Israele, che decide se le persone hanno la residenza, il visto, ecc.,” dice Ben Hillel a Mondoweiss. “È parte dei molti altri ostacoli che gli israeliani hanno messo in atto per rendere più difficile vivere insieme come famiglia in Palestina o per venirci per altre ragioni.”

Ciò ovviamente deriva da considerazioni di carattere demografico,” continua. “Queste nuove restrizioni isoleranno totalmente la società palestinese.”

Implicazioni immediate

A settembre, quando il COGAT ha reso noto le restrizioni modificate, l’ambasciatore USA in Israele Tom Nides ha emesso un comunicato in cui esprimeva alcune “preoccupazioni” riguardo alle procedure pubblicate. La dichiarazione di Nides è giunta dopo mesi di relativo silenzio da parte dell’amministrazione Biden su questa iniziativa politica.

All’epoca Nides aveva menzionato un “periodo di prova” delle nuove norme di due anni, durante i quali aveva detto di aspettarsi che il governo israeliano “faccia i necessari aggiustamenti” per “garantire trasparenza e un trattamento corretto ed equo di tutti i cittadini USA e di altri stranieri che si rechino in Cisgiordania.”

Ma secondo Ben Hillel si tratta di un periodo lungo, durante il quale migliaia di vite sarebbero colpite e molte famiglie palestinesi potrebbero essere danneggiate prima che venga fatto un qualche, o forse nessun, aggiustamento.

Da quello che abbiamo già visto ci sono persone a cui in quei due anni diverrebbe molto difficile continuare la propria vita come hanno fatto finora,” dice, evidenziando che molti coniugi stranieri di palestinesi si troverebbero con i visti sottoposti a un maggiore controllo, che potrebbe dare come risultato che loro e le rispettive famiglie debbano lasciare i territori palestinesi occupati se non rispondono ai nuovi criteri definiti dal COGAT.

In base alle nuove norme, a persone con un passaporto straniero di alcuni Paesi, compresi Stati come Giordania ed Egitto, che hanno rapporti diplomatici con Israele, sarà vietato del tutto l’ingresso in Cisgiordania, persino se hanno cittadinanza statunitense, canadese o altre.

Non possono andarci come turisti, non possono lavorare, non possono studiare. Il solo fatto di essere nati in Giordania o di avere un passaporto giordano implica che non possano andarci,” afferma Ben Hillel, aggiungendo che dovrebbero far domanda per un permesso per visite temporanee che devono essere approvate da Israele e che viene rilasciato molto di rado.

Ben Hillel afferma di essere preoccupato soprattutto per le implicazioni che le nuove norme hanno sulle famiglie palestinesi. Montell è d’accordo.

La categoria che verrà più danneggiata saranno le famiglie palestinesi in cui un coniuge ha la cittadinanza straniera. Ci sono decine di migliaia di famiglie come queste in Cisgiordania, e in base alla nuova procedura semplicemente non potranno più vivere insieme in Cisgiordania,” dice Montell a Mondoweiss.

Le richieste di riunificazione familiare potranno essere respinte solo perché il governo israeliano potrebbe non approvarle,” afferma Ben Hillel, aggiungendo che Israele ha ancora il potere di decidere se un rapporto di coppia è “reale” e se rilasciare al titolare di un passaporto straniero un visto in base al suo rapporto con un palestinese.

Stiamo parlando di molte persone che vivono, per esempio, a Ramallah, Nablus ed Hebron. Come faranno gli israeliani a controllare (se un rapporto è reale?),” chiede incredulo. “Manderanno l’esercito nel mezzo della notte e faranno irruzione nelle case della gente per vedere se una coppia vive insieme? È ridicolo,” afferma.

Ciò che gli USA stanno facendo, o non stanno facendo, a questo riguardo

Martedì 18 ottobre, due giorni prima che le norme entrassero in vigore, il vice portavoce del Dipartimento di Stato USA Vedant Patel ha risposto a una domanda relativa alla normativa: “Ovviamente noi continuiamo ad essere preoccupati riguardo al potenziale impatto negativo che alcune di queste procedure potrebbero avere sulla società civile, sul turismo, sulle strutture sanitarie, sulle istituzioni accademiche.”

Ha aggiunto che sulla questione l’amministrazione Biden continua ad “impegnarsi” con il governo israeliano.

Ma la presunta preoccupazione dell’amministrazione Biden sugli effetti negativi delle restrizioni sembra indifferente di fronte all’ondata di critiche sulle nuove norme e regolamenti durata mesi da parte degli esperti di diritti umani e giuridici, che hanno evidenziato che gli effetti negativi di cui si preoccupa l’amministrazione sono pressoché inevitabili.

Tutta questa iniziativa politica fa parte del controllo da parte di Israele dell’anagrafe palestinese,” sostiene Ben-Hillel. “Oltre a controllare la frontiera, c’è dietro uno scopo: isolare la società palestinese dal mondo esterno, e ovviamente in questo modo ciò renderà molto difficile per i palestinesi affrontare l’apartheid sotto il quale vivono.”

Aggiunge che questa politica inevitabilmente renderà molto difficile per alcune famiglie vivere insieme nella propria casa in Cisgiordania, il che porterà alcune di esse, tutte o in parte, a lasciare i territori occupati.

Montell esprime le stesse critiche, affermando che “questa operazione può essere intesa solo come motivata dal desiderio di isolare la società palestinese e di riprogettare ulteriormente la situazione demografica (è molto significativo il fatto che “il timore che uno si stabilisca in Cisgiordania” può essere motivo per negare un visto).”

Montell aggiunge che Hamoked ha inviato una lettera dettagliata all’esercito israeliano evidenziando tutte le proprie obiezioni alla legge. È il primo passo dei molti che Hamoked intende prendere per continuare a contrastare queste norme, afferma.

Nei prossimi mesi presenteremo un ricorso alla Corte Suprema israeliana a favore di persone o istituzioni che sono state danneggiate dalla nuova procedura. Spero che questi ricorsi, insieme alla pressione internazionale, diano come risultato dei cambiamenti molto significativi delle norme in modo che le famiglie possano vivere insieme e le istituzioni palestinesi possano beneficiare della cooperazione internazionale,” afferma.

Pressioni per l’esenzione dal visto

Le modifiche da parte di Israele alle norme del COGAT sono state un chiaro tentativo di partecipare all’United States’s Visa Waiver Program [Programma degli Stati Uniti per l’Esenzione dal Visto] (VWP). In base al VWP i cittadini di un piccolo numero di Paesi possono rimanere negli USA per tre mesi senza visto.

Da metà degli anni 2000 Israele ha fatto pubblicamente pressione sul governo degli Stati Uniti per partecipare al VWP. Negli ultimi anni ci sono stati vari tentativi del Congresso di inserire Israele nel programma e nel settembre 2021 Biden ha assicurato il governo israeliano che avrebbe lavorato per questo obiettivo. Quando a luglio Biden ha visitato Israele, ha diramato un comunicato congiunto con il primo ministro Yair Lapid in cui si sosteneva che entrambi i Paesi “continueranno nei propri sforzi condivisi e accelerati per consentire ai detentori di passaporto israeliano di essere inclusi nell’ United States’s Visa Waiver Program.

Tuttavia nessuno di questi sviluppi sembra aver portato Israele più vicino a ottenere l’esenzione. Questa settimana il depurato Don Beyer (D-VA) [deputato democratico della Virginia, ndt.] ha iniziato a far circolare nel Congresso una lettera per il segretario di stato Antony Blinken in cui si afferma che Israele non rispetta i requisiti minimi richiesti per entrare nel programma. La lettera si riferisce direttamente alle “pesanti e discriminatorie” restrizioni del COGAT. “Spetta a Israele, alleato chiave degli USA e beneficiario di aiuti significativi, trattare i cittadini statunitensi con dignità e rispetto indipendentemente da razza, religione ed etnia, e ciò è particolarmente rilevante in questo momento perché attualmente Israele viene preso in considerazione per l’ingresso nell’United States’s Visa Waiver Program,” scrive Beyer.

La codificazione del trattamento discriminatorio dei viaggiatori USA stabilisce ancora che queste norme si applicano specificamente a Paesi che hanno “accettato un programma per l’esenzione dal visto con Israele,” continua. “Di conseguenza la loro decisione di accentuare la discriminazione attraverso una normativa è particolarmente sconcertante, dato il desiderio di Stati Uniti e Israele di ammettere quest’ultimo al VWP.”

A settembre il Dipartimento della Sicurezza Interna ha inviato a Beyer una lettera in cui afferma che Israele non soddisfa ancora i requisiti necessari per il VWP.

Le ultime restrizioni discriminatorie israeliane all’ingresso di palestinesi-americani entrate in vigore questa settimana sono draconiane e intendono rendere difficile, se non impossibile, ai palestinesi di questo Paese rimanere fisicamente legati alla loro patria e alla loro famiglia là,” dice a Mondoweiss il direttore delle relazioni con il governo dell’ Institute for Middle East Understanding [Istituto per la Comprensione del Medio Oriente] (IMEU) Josh Ruebner. “È parte del pervasivo sistema di apartheid e di controllo israeliano sui palestinesi. Il deputato Don Beyer e tutti i membri del Congresso che hanno firmato la sua lettera sono da lodare per aver sollevato tali preoccupazioni al Segretario di Stato Tony Blinken ed essersi aggiunti alla già significativa pressione congressuale per escludere Israele dal Visa Waiver Program.”

Durante la conferenza stampa del Dipartimento di Stato, alla domanda riguardo allo status di Israele e del VWP, Vedant Patel ha detto ai giornalisti che non intende avviare negoziati specifici, ma che l’amministrazione continua “a lavorare con Israele perché risponda a tutte le esigenze del Visa Waiver Program in modo da estendere i reciproci privilegi a tutti i cittadini e connazionali statunitensi, compresi i palestinesi americani.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Ingegneria razziale” dietro alle nuove restrizioni di Israele in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

26 settembre 2022 – The Electronic Intifada

Quando verranno imposte il mese prossimo, le nuove restrizioni del Ministero della Difesa israeliano all’ingresso degli stranieri nella Cisgiordania occupata violeranno i diritti fondamentali dei palestinesi, inclusa la vita famigliare.

Secondo una rete di associazioni palestinesi per i diritti umani, la procedura di 97 pagine è funzionale all’ “ingegneria razziale” della popolazione della Cisgiordania, “all’interno dello schema del regime di apartheid, che costituisce un crimine contro l’umanità”.

Queste associazioni affermano che le restrizioni limitano la libertà di movimento dei palestinesi, la possibilità di ricevere assistenza umanitaria e per lo sviluppo e di ospitare medici specialisti e altri esperti.

Queste misure colpiscono i diritti sovrani del popolo palestinese, compreso il diritto ad ospitare studiosi, artisti, atleti, studenti, turisti e volontari.”

Le associazioni chiedono all’Unione Europea di fare pressione su Israele perché “sospenda le crescenti restrizioni”. Chiedono anche che si istituisca da parte del Consiglio ONU sui Diritti Umani una missione permanente di accertamento dei fatti “per indagare su questa misura come grave violazione che rientra nella categoria della discriminazione razziale”.

Le nuove restrizioni, pubblicate all’inizio di questo mese, entreranno in vigore il 20 ottobre. Non si applicheranno agli stranieri in visita a Gerusalemme est occupata, che Israele ha annesso illegalmente ed è governata dalla legislazione civile dello Stato [di Israele].

Gli stranieri che intendono visitare la Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, devono farlo attraverso il confine del ponte di Allenby con la Giordania, invece che dall’aeroporto internazionale di Israele vicino Tel Aviv.

Secondo la rete delle associazioni per i diritti, coloro che intendono lavorare o studiare in Cisgiordania “devono richiedere il visto d’ingresso 45, 60 o fino a 153 giorni prima dell’arrivo e anche consegnare un dettagliato questionario relativo al loro CV (in sintesi) e a qualunque legame familiare o coniugale in Cisgiordania”.

Una precedente bozza delle restrizioni avrebbe richiesto agli stranieri di comunicare all’esercito israeliano se fossero fidanzati, sposati o conviventi con una persona palestinese.

Secondo le associazioni palestinesi per i diritti, “questa previsione scandalosa è stata in seguito rimossa dietro pressioni internazionali”.

Tuttavia le procedure modificate prevedono ancora che ogni rinnovo del visto a chi sia in possesso di visto per lavoro o per altro speciale motivo debba essere accompagnato dalla comunicazione, se è così, riguardo all’ avere un rapporto di coppia con una persona palestinese registrata all’anagrafe in Cisgiordania”.

Draconiane”

Le nuove procedure draconiane per l’ingresso e la residenza degli stranieri in Cisgiordania comprometteranno la libertà accademica delle università palestinesi e danneggeranno l’economia e la società locale”, secondo HaMoked, un’associazione israeliana per i diritti umani che ha avviato un’azione legale contro la precedente bozza di restrizioni.

Secondo HaMoked, “le visite brevi in Cisgiordania sono limitate ai parenti di primo grado dei palestinesi, agli uomini d’affari, agli investitori e ai giornalisti accreditati.

La procedura non consente le visite di altri familiari o amici in Cisgiordania, né quelle di turisti, pellegrini o a carattere culturale.”

Chiunque voglia entrare in Cisgiordania per lavorare, fare volontariato, insegnare o studiare, o chi è coniuge straniero di un palestinese, deve pagare cauzioni dal costo proibitivo” fino a 20.000 dollari, aggiunge HaMoked.

Queste direttive si applicano al personale e ai volontari delle agenzie dell’ONU e delle organizzazioni internazionali. Perciò esse impediscono “il flusso dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo…necessaria per far fronte alle terribili condizioni di vita create dalle azioni discriminatorie di Israele”, affermano le associazioni palestinesi per i diritti.

Le nuove restrizioni distruggeranno la vita familiare di migliaia di palestinesi.

Secondo HaMoked, esse stabiliscono che Israele ha l’autorità di approvare le richieste di coniugi stranieri di risiedere in Cisgiordania e affermano che tali richieste sono “soggette a valutazioni politiche del governo israeliano.”

Israele ha congelato per oltre due decenni il processo di ricongiungimento familiare, costringendo migliaia di persone, soprattutto i coniugi stranieri di palestinesi, a vivere in Cisgiordania senza uno status legale.

Le nuove norme renderanno impossibile a uno straniero sposato con un palestinese ottenere un visto per lavoro o per studio.

Inoltre ai sensi della procedura tutti i visti verranno valutati alla luce del ‘rischio di radicamento in Cisgiordania’”, afferma HaMoked.

Con le nuove restrizioni il Ministero della Difesa di Tel Aviv ha anche l’autorità di valutare i titoli accademici dei docenti presso istituzioni della Cisgiordania.

I visti a studenti e docenti possono essere rinnovati per un massimo di 27 mesi e non c’è possibilità di garantire la titolarità della cattedra per i docenti stranieri.

Le nuove restrizioni non si applicano agli stranieri che si recano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Secondo HaMoked chiunque voglia studiare o insegnare all’università di Ariel nella colonia per la quale viene nominato “continuerà ad essere sottoposto alle norme molto più permissive stabilite dal Ministero dell’Interno di Israele”.

Il ministero della Difesa inoltre “stabilirà i criteri economici per l’ingresso degli uomini d’affari e degli investitori e deciderà quali professioni e progetti ‘sono importanti per la regione’”, afferma l’associazione per i diritti.

Gli stranieri possono fare volontariato presso le istituzioni palestinesi per soli 12 mesi e poi dovranno rimanere all’estero per un anno prima di poter rientrare in Cisgiordania.

Discriminatorie”

In base alle nuove restrizioni i cittadini di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan sono esclusi dall’ingresso in Cisgiordania, nonostante i rapporti diplomatici di questi Paesi con Israele.

Ai fini di questa procedura questa esclusione discriminatoria si applica anche a chi ha doppia nazionalità: per esempio, chi possiede sia un passaporto USA che uno giordano verrà trattato come giordano”, afferma HaMoked.

I cittadini di questi Stati devono passare attraverso “un processo separato limitato a casi eccezionali ed umanitari”.

Questa politica potrebbe causare frustrazione a Washington riguardo al trattamento discriminatorio da parte di Israele dei palestinesi americani che cercano di entrare in Israele e in Cisgiordania.

L’amministrazione Biden ha cercato di assicurarsi l’accondiscendenza israeliana con il Programma ‘US Visa Waiver’ [esonero USA dai visti], e l’ambasciatore Tom Nides a giugno ha affermato di aver lavorato “24 ore al giorno dal mio arrivo per aiutare Israele a soddisfare tutti i requisiti” per entrare nel programma.

Il programma richiede reciprocità di trattamento per i cittadini USA ad ogni passaggio di confine.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani sottolineano che le nuove restrizioni all’ingresso in Cisgiordania coincidono con “un’escalation senza precedenti in tutto il territorio palestinese occupato, compresi trasferimenti forzati su entrambi i lati della Linea Verde”.

Le misure repressive di Israele hanno lo scopo di indebolire “le potenzialità della società palestinese, la sua resilienza e sopravvivenza e le organizzazioni della società civile”, affermano.

L’anno scorso tre delle organizzazioni firmatarie – Al-Haq, Addameer e Defense for Children International-Palestine – sono state dichiarate organizzazioni terroriste dal Ministero della Difesa israeliano ed in agosto i loro uffici in Cisgiordania sono stati assaltati dall’esercito e ne è stata ordinata la chiusura.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Pur migliorate, le restrizioni israeliane sui viaggi in Cisgiordania impongono ancora ai visitatori di segnalare relazioni con i palestinesi

Yumna Patel

5 settembre 2022 – Mondoweiss

Sottoposto a pressioni, Israele ha rivisto un elenco di restrizioni draconiane nei confronti degli stranieri in Cisgiordania, ma sempre con la stessa finalità: l’isolamento della società palestinese.

In seguito a pressioni da parte delle autorità politiche statunitensi e europee il governo israeliano ha sottoposto a revisione un elenco di restrizioni draconiane all’ingresso di stranieri nella Cisgiordania occupata, sebbene le organizzazioni per i diritti umani affermino che i regolamenti continuano ad avere la stessa finalità: ingegneria demografica e isolamento nei riguardi della società palestinese

Le restrizioni emendate sono state rese pubbliche domenica sera dal COGAT – l’organismo militare israeliano responsabile dell’attuazione della legge israeliana nei Territori palestinesi occupati – con un documento di 90 pagine dal titolo “Procedure per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria”, riferendosi al nome biblico usato da Israele per la Cisgiordania.

Le nuove “procedure” del COGAT erano state pubblicate all’inizio di quest’anno, dando luogo ad un’estesa condanna, e inizialmente avrebbero dovuto entrare in vigore a maggio, ma sono state rinviate più volte a causa del ricorso legale dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Hamoked.

Le restrizioni emendate pubblicate domenica hanno fatto retromarcia su alcune delle norme più ampiamente criticate, come una precedente disposizione in base alla quale gli stranieri che intrattengano rapporti sentimentali con palestinesi debbano informare le autorità israeliane entro 30 giorni dall’inizio di tale relazione.

Nel nuovo documento è stata anche rimossa una clausola iniziale secondo cui i coniugi stranieri di palestinesi sposati da 27 mesi devono lasciare la Cisgiordania, abbandonando il coniuge e i figli, e trascorrere sei mesi fuori dal territorio per unafase di riflessione”.

È stato inoltre eliminato un limite precedentemente stabilito al numero di studenti e insegnanti stranieri che possono iscriversi alle istituzioni accademiche palestinesi, sebbene siano rimaste le pesanti restrizioni all’ingresso in Cisgiordania nei confronti di studenti e insegnanti stranieri, nonché uomini d’affari stranieri e palestinesi con doppia cittadinanza provenienti dall’estero e in visita nel territorio.

Le nuove regole entreranno in vigore il 20 ottobre e, pare in seguito a pressioni da parte di funzionari statunitensi, saranno sottoposte ad un “periodo di prova” di due anni durante il quale sarà ancora possibile apportare modifiche al regolamento.

Hamoked, l’organizzazione israeliana che ha presentato un ricorso in tribunale contro la normativa, ha affermato che le attuali modifiche costituiscono per lo più dei “cambiamenti estetici”.

“Sono state rimossi dal regolamento alcuni degli aspetti più scandalosi, ma il problema di fondo rimane”, ha sostenuto Hamoked su Twitter.

Israele impedirà a migliaia di famiglie di vivere insieme per ragioni palesemente politiche; l‘esercito israeliano si prende il diritto di gestire anche nei dettagli la società palestinese, interferendo anche con la libertà accademica delle università palestinesi”, afferma l’organizzazione, aggiungendo che continuerà la sua sfida giudiziaria contro il regolamento.

Il significato della revision

Sebbene dal nuovo documento siano state eliminate alcune clausole, come il termine di 30 giorni per notificare al governo una relazione intima con un palestinese, molte delle restrizioni sono rimaste in vigore.

Nella sua nuova versione la normativa ribadisce che se uno straniero inizia una relazione con un palestinese, “il funzionario del COGAT incaricato deve ottenere tale informazione nell’ambito della richiesta di rinnovo o prolungamento del permesso di soggiorno preesistente“.

Inoltre i coniugi dei palestinesi hanno ancora diritto solo a permessi di breve durata che vengono rinnovati – o negati – a discrezione del funzionario COGAT incaricato. Il COGAT si riserva inoltre il diritto di richiedere un deposito fino a 70.000 shekel (~20.000 euro) per garantire che il coniuge straniero lasci il territorio nel caso o nel momento in cui il permesso venga a scadere o venga negato.

In linea con la prassi preesistente, le nuove regole stabiliscono che anche i coniugi stranieri di palestinesi titolari di un documento d’identità della Cisgiordania saranno relegati in Cisgiordania, saranno tenuti a viaggiare attraverso il ponte King Hussein (Allenby) attraverso la Giordania e non potranno viaggiare utilizzando l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, a meno che non ricevano un permesso speciale.

Le stesse regole si applicano ai titolari di passaporto straniero che desiderano visitare la famiglia in Cisgiordania.

Come in base alle disposizioni iniziali, i palestinesi-americani e gli altri palestinesi di nazionalità straniera che desiderino recarsi nella Cisgiordania occupata per visitare la famiglia dovranno comunque richiedere al COGAT un’autorizzazione anticipata e saranno tenuti a rivelare le informazioni personali sui parenti che hanno in programma di visitare, insieme ai dati su qualsiasi terreno di cui siano in possesso o che stiano per ereditare all’interno della regione.

Le nuove normative sembrano offrire una misura positiva per i coniugi stranieri, a cui sarebbe concesso di richiedere permessi a lungo termine rinnovabili (27 mesi), che includono più visite dentro e fuori il territorio, cosa attualmente proibita.

Ma anche queste nuove opzioni richiederanno lunghe procedure per le richieste che, coinvolgendo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), saranno comunque soggette all’approvazione finale da parte di Israele.

Nel complesso, le norme conferiscono ancora al COGAT il potere discrezionale di determinare chi sarà autorizzato a entrare e soggiornare in Cisgiordania, inclusi lavoratori stranieri, volontari, uomini d’affari, amici e familiari di palestinesi, studenti e insegnanti.

Nessuno dei regolamenti COGAT si applica agli stranieri che visitano gli insediamenti illegali ebraico-israeliani in Cisgiordania per motivi di viaggio, studio, lavoro o per avere una relazione intima con un ebreo israeliano.

A giugno Ahmed Abofoul, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, ha discusso con Mondoweiss della normativa, descrivendola come “apartheid in atto”.

È una forma di dominazione molto pericolosa e palese“, afferma Abofoul, aggiungendo che “Israele si rende conto che le visite di stranieri nei territori occupati mettono in evidenza [davanti al mondo] le politiche di apartheid di Israele, questa solidarietà con i palestinesi sta danneggiando Israele sul palcoscenico internazionale, e gli israeliani non vogliono che ciò accada”.

L’ambasciatore degli Stati Uniti esprime “preoccupazione”

Dopo mesi di relativo silenzio da parte dell’amministrazione Biden sulla nuova normativa, domenica l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Tom Nides ha rilasciato una dichiarazione in cui ha espresso alcune sue “preoccupazioni” sui protocolli resi pubblici.

“Da febbraio l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’Ufficio per gli affari palestinesi degli Stati Uniti e io ci siamo decisamente confrontati con il governo di Israele su questi progetti normativi – e continueremo a farlo nei 45 giorni precedenti l’attuazione e durante il periodo di due anni di prova”, ha dichiarato Nides.

Continuo a nutrire preoccupazioni per i protocolli resi pubblici, in particolare per quanto riguarda il ruolo del COGAT nel determinare se le persone invitate dalle istituzioni accademiche palestinesi siano qualificate per entrare in Cisgiordania e il potenziale impatto negativo sull’unità familiare.

È importante garantire che tutta questa normativa sia progettata in coordinamento con le principali parti interessate, inclusa l’Autorità Nazionale Palestinese. Mi aspetto che durante il periodo di prova il governo di Israele apporti gli adeguamenti necessari per garantire la trasparenza e il trattamento giusto ed equo di tutti i cittadini statunitensi e degli altri cittadini stranieri che viaggiano in Cisgiordania”, afferma Nides.

Nides non ha rilevato che Israele non ha potere sovrano sulla Cisgiordania e sui suoi abitanti, poiché il territorio è sotto l’occupazione militare israeliana, un’occupazione ampiamente considerata illegale dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano ha perseguito per lungo tempo un programma di esenzione dal visto con gli Stati Uniti, che consentirebbe ai cittadini israeliani di recarsi negli Stati Uniti per soggiorni di breve durata senza dover richiedere un visto in ingresso.

Nell’ambito di un programma di esenzione dal visto Israele dovrebbe garantire che i cittadini americani, compresi i palestinesi-americani, ricevano ai confini israeliani un trattamento giusto e paritario, regola che le autorità israeliane sono state a lungo accusate di violare apertamente.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha citato in forma anonima un alto funzionario dell’ambasciata statunitense che avrebbe affermato che i colloqui in corso con Israele su un programma di esenzione dal visto sono due “percorsi paralleli ma separati” rispetto alle restrizioni COGAT.

Queste norme che il COGAT si accinge a promulgare avranno un effetto sui cittadini americani, così come di altri Paesi. Li esamineremo da vicino e continueremo il confronto con il COGAT e altri settori del governo israeliano mentre ci muoviamo lungo il sentiero verso la reciprocità dei visti”, afferma il funzionario.

Il Times of Israel continua citando le parole del funzionario: “I requisiti di reciprocità dell’esenzione dal visto, quando arriveremo a quel punto, sostituiranno alcune di queste norme COGAT che abbiamo qui elencato”, mentre i funzionari statunitensi sarebbero [impegnati] “in una discussione complessa e delicata” con il governo israeliano, anche sulla questione dell'”estensione dei privilegi reciproci a tutti i cittadini statunitensi, compresi i palestinesi-americani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sono in isolamento, ma non a causa del coronavirus

Laith Abu Zeyad

27 Maggio 2020 – Al Jazeera

Israele mi ha vietato di uscire dalla Cisgiordania e ha rifiutato di dirmi perché.

Nei mesi scorsi, a causa della pandemia da coronavirus, milioni di persone nel mondo hanno sperimentato per la prima volta le difficoltà e la frustrazione di essere sottoposti a norme e regole imposte dallo Stato che limitano la loro libertà di movimento.

Tuttavia per me il blocco totale non è stata una novità. Sono abituato a vivere sotto una serie di norme mutevoli che stabiliscono dove posso andare e che cosa posso fare. Perché? Perché sono un palestinese che vive sotto occupazione israeliana.

Sono cresciuto nella Cisgiordania occupata, perciò i checkpoint e i coprifuoco hanno sempre fatto parte della mia vita quotidiana. L’anno scorso Israele ha reso ancora più stretta la mia prigione impedendomi di uscire dalla Cisgiordania per qualunque motivo.

Le autorità israeliane si sono rifiutate di darmi una giustificazione per il divieto al di là di un [generico] “ragioni di sicurezza”, e ha negato che questa misura abbia qualcosa a che vedere con il mio lavoro come attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

Ho appreso del divieto nel modo peggiore possibile, quando lo scorso settembre mi è stato negato un permesso per accompagnare mia madre agli appuntamenti per la chemioterapia a Gerusalemme est occupata. Mentre inoltravo freneticamente altre richieste di permesso, mia madre peggiorava. Stavo a soli 15 minuti di macchina dall’ospedale, ma il mio disperato desiderio di essere vicino a mia madre collideva con la rigida applicazione israeliana del sistema dei permessi. Mia madre è morta alla vigilia di Natale senza che io abbia più potuto vederla.

Finora i “motivi di sicurezza” che mi hanno causato tanto strazio non mi sono stati rivelati. Tutto quel che so è che sono sottoposto a totale divieto di spostamenti, il che significa che non posso recarmi fuori dalla Cisgiordania, nemmeno per andare al mio ufficio, che si trova a Gerusalemme est. Perciò il blocco per il COVID-19, che è in vigore dal 22 marzo, non è altro che un’ ulteriore sbarra nella gabbia in cui vivo da tempo.

Non potrò mai riavere quella preziosa opportunità di essere accanto a mia madre nei suoi ultimi giorni, ma posso fare la cosa giusta per lei opponendomi a questa ingiustizia. Il 25 marzo 2020 Amnesty International ha inoltrato una petizione alla Corte Distrettuale di Gerusalemme cercando di farmi revocare il divieto di viaggio, e il 31 maggio vi sarà un’udienza. Ovviamente si terrà in mia assenza – e poiché non mi è permesso conoscere i contenuti delle accuse contro di me, il mio avvocato ed io non possiamo contrastarli efficacemente.

Eppure nel passato i divieti di viaggio nei confronti dei palestinesi sono si sono sgretolati quando sono stati oggetto di un controllo dal punto di vista giudiziario. Tra il 2015 e il 2019 l’organizzazione israeliana per i diritti HaMoked ha presentato 797 ricorsi contro divieti di viaggio ed è riuscita a farne revocare il 65%. Considerando questo risultato, è ragionevole ipotizzare che la maggior parte di quei divieti fossero in primo luogo del tutto ingiustificati.

Israele ha una comprovata esperienza nell’uso arbitrario dei divieti di viaggio contro difensori dei diritti umani, compreso Omar Barghouti, cofondatore del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), e Shawan Jabarin, direttore dell’organizzazione palestinese per i diritti al-Haq. Nel caso di Shawan Jabarin, come nel mio, non è stata fornita nessuna giustificazione al di là di “ragioni di sicurezza”.

Che cosa significa? Se io costituisco un così grave rischio per la sicurezza ci si aspetterebbe che le autorità israeliane mi facessero delle domande. Ma io non sono mai stato interrogato su nessuna questione di sicurezza, neppure ad un posto di confine, sono solo stato respinto. Non mi è mai stata data occasione di contestare la decisione o di difendermi. Come può essere giusto questo?

È difficile spiegare quanto stretti siano i controlli di Israele sui movimenti dei palestinesi.

Due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza sono sottoposti ad un feroce blocco militare da oltre 12 anni, facendo di essa la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Noi della Cisgiordania non possiamo andare all’estero attraverso i porti israeliani o l’aeroporto internazionale Ben Gurion – la nostra unica possibilità è andare in Giordania passando per il confine del ponte di Allenby/Re Hussein. Molte persone non sanno di avere il divieto di viaggio finché non arrivano alla frontiera. Lo scorso ottobre, per esempio, volevo partecipare al funerale di mia zia in Giordania; quando sono arrivato al confine con mio padre e la mia valigia, mi è stato negato il passaggio.

Ci sono moltissime vicende come questa. Il COVID-19 ha dato al mondo un’idea dell’esperienza palestinese – la crudeltà di essere separati dai propri cari, il tedio della reclusione, la paura e il senso di isolamento. Mentre le misure di blocco per il coronavirus sono state messe in atto per proteggere la popolazione da un virus letale, il blocco israeliano priva i palestinesi della libertà di movimento come forma di punizione collettiva.

Come tante persone in tutto il mondo, io spero di essere presto in grado di ritornare nel mio ufficio, vedere i miei amici e la mia famiglia in altre città, e di provare l’ebbrezza di viaggiare in posti nuovi. Dopo 72 anni di deportazioni ed ingiustizie, i palestinesi vogliono e meritano gli stessi diritti e libertà di chiunque altro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Laith Abu Zeyad è un attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’adolescente di Gaza  “arrestato” da Israele e riportato a casa in un sacco per cadaveri

Tareq Hajjaj (Gaza, territori palestinesi occupati)

5 dicembre 2019 Middle East Eye

La morte di Emad Khalil Ibrahim Shahin, arrestato per aver oltrepassato illegalmente la barriera israeliana, è avvolta dal mistero.

Dopo essersi intrufolati attraverso la barriera di sicurezza eretta da Israele lungo la Striscia di Gaza, Emad Khalil Ibrahim Shahin ed i suoi amici si sono infilati in una baracca abbandonata ed hanno acceso un fuoco. Temendo di essere scoperti, sono scappati.

“Abbiamo corso fino a quando abbiamo trovato una duna di sabbia dietro cui nasconderci, dall’altro lato della barriera, ma ci siamo accorti a quel punto che Emad non era con noi. Correva più lentamente perché aveva le stampelle”, racconta a Middle East Eye uno dei suoi compagni, che vuole restare anonimo.

“L’abbiamo visto a terra e gli abbiamo detto di trascinarsi. Ma è stato allora che è arrivato un veicolo militare a tutta velocità e un soldato gli ha sparato addosso, colpendolo alla gamba destra. Poco dopo è arrivato un elicottero e lo ha portato via.”

Emad Shahin è tornato a Gaza solo 355 giorni dopo. È arrivato il 23 ottobre dentro un sacco per cadaveri.

Oggi la sua famiglia e diverse Ong palestinesi ed israeliane chiedono perché l’esercito israeliano abbia trattenuto il corpo del ragazzo di 17 anni così a lungo e come sia apparentemente morto per la semplice ferita di una pallottola a una gamba.

Simbolo della contestazione

Emad Khalil Ibrahim Shahin era il minore di nove figli, il cui padre lavora come custode in una scuola, guadagnando un salario basso ma dignitoso.

Secondo la sorella Monira, il ragazzo partecipava con entusiasmo al movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno, come anche il resto della famiglia.

Le manifestazioni, che si svolgono tutti i venerdì dal marzo 2018, chiedono alle autorità israeliane di togliere l’assedio della Striscia di Gaza che dura da undici anni, e di permettere ai rifugiati palestinesi – circa il 70% degli abitanti di Gaza – di ritornare alle loro città e villaggi in quello che ormai è Israele.

Una volta alla settimana si possono vedere i palestinesi manifestare lungo la barriera che separa Israele dall’enclave costiera. Anche se le forze israeliane colpiscono soprattutto i manifestanti vicini alla barriera, sono stati presi di mira anche dei palestinesi ben più lontani.

Temendo i cecchini israeliani, Monira e gli altri parenti di Emad sono rimasti abbastanza lontani dalla barriera durante le manifestazioni. Invece il ragazzo vi si è avvicinato diverse volte, bruciando pneumatici per bloccare la visuale ai soldati che prendono di mira i manifestanti.

Non ci è voluto molto tempo prima che i cecchini sparassero a Shahin ad un piede, il 17 maggio 2018.

“Si è ripreso in fretta”, racconta Monira a Middle East Eye, aggiungendo che appena due settimane dopo era tornato alle manifestazioni con le stampelle.

“Quando sono state ampiamente condivise sulle reti sociali delle sue foto mentre partecipava alle manifestazioni nonostante la ferita, lui ne è andato fiero. Si considerava un simbolo della contestazione.”

Ventuno venerdì dopo, Emad è stato di nuovo ferito, allo stesso piede. Malgrado ciò è ritornato alla marcia.

Quando gli hanno sparato per la terza volta, all’altro piede, i chirurghi hanno dovuto amputargli tre dita.

“Nostra madre ha tentato di impedirgli di ritornare. Tutta la famiglia gli ha detto che aveva fatto il suo dovere per il suo Paese e che ormai doveva stare tranquillo”, racconta Monira.

“Ma lui ha ribattuto di non temere la morte, che la morte era ineluttabile e che preferiva morire per il suo Paese resistendo all’occupazione piuttosto che inutilmente.”

Oltrepassare la linea

Il primo novembre 2018 Emad – zoppicando sulle stampelle – e due amici hanno deciso di oltrepassare la barriera, per tentare di raggiungere una baracca lasciata vuota dall’esercito israeliano a circa 300 metri dall’altro lato della barriera, continua sua sorella.

Secondo lei il suo obbiettivo era sfidare l’assedio e riportare un ‘trofeo’, come la cintura di munizioni di un soldato o la targa di una jeep.

Anche se la zona è molto militarizzata e Emad non si muoveva certo liberamente, il giovane palestinese e i suoi amici hanno raggiunto il campo. Eccitato e senza fiato, ha chiamato sua sorella nel momento in cui si preparavano ad andare.

“Voleva condividere il suo momento di gloria. Ma io gli ho urlato contro imponendogli di andarsene immediatamente prima di farsi uccidere. Ero terrorizzata”, racconta Monira.

“Quando è tornato a casa, mia madre era in lacrime e gli ha chiesto di non farlo più.”

Il sabato seguente Emad si è svegliato presto ed ha annunciato a sua madre che dopo colazione sarebbe andato a fare una piccola commissione. Invece è tornato alla baracca, portandovi della benzina.

Alle 16,30 del 3 novembre 2018 Emad è stato colpito alla gamba vicino alla barriera ad est del campo di rifugiati di Maghazi, che si trova nella zona centrale di Gaza.

Secondo testimoni oculari è stato arrestato da un certo numero di soldati israeliani che lo hanno portato via in elicottero venti minuti dopo, a quanto pare verso il centro medico Soroka nel Negev.

Da quel momento la sorte di Shahin è misteriosa.

Subito dopo la scomparsa del ragazzo la sua famiglia ha contattato delle Ong palestinesi e israeliane, cercando disperatamente informazioni.

Inizialmente le autorità israeliane hanno detto che aveva riportato ferite ‘lievi’, ma il giorno seguente a quello in cui è stato ferito l’Ong ‘Medici per i Diritti Umani’ con sede a Tel Aviv ha comunicato la sua morte.

Nei giorni successivi ‘Medici per i Diritti Umani’ ha insistito per avere risposte ed ha chiesto il referto medico sulla morte del ragazzo.

L’11 novembre è stato comunicato all’Ong che le cartelle mediche di Emad Shahin non potevano essere rese pubbliche perché il suo corpo non era stato identificato. È stato consigliato di contattare l’Istituto medico-legale israeliano Abu Kabir.

“Ho contattato la dottoressa Maya Hoffmann di Abu Kabir, che ha cercato di localizzare il corpo, senza riuscirci. Sono stato indirizzato a un servizio d’archivio”, spiega a MEE Ran Yaron, di ‘Medici per i Diritti Umani.’

“Il servizio responsabile degli archivi ha dichiarato che nessun corpo non identificato era stato trasferito da Soroka, quindi abbiamo pensato che l’esercito trattenesse il corpo.”

Dopo di ciò HaMoked, un’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto all’esercito israeliano informazioni sul corpo di Shahin. Senza risultato.

“Non capisco ciò che Israele ha fatto del corpo di un ragazzo palestinese per un anno”, dice Yaron.

Interrogato sulla morte di Emad Shahin e sui motivi per cui il suo corpo è stato trattenuto per un anno, l’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye di rivolgersi al Ministero della Difesa.

Interpellato, il Ministero della Difesa ha dichiarato che si trattava di una questione su cui solo l’esercito poteva dare spiegazioni.

Morte senza spiegazioni

La famiglia di Emad Shahin è stata distrutta nell’apprendere della sua morte

“Sapevamo che sarebbe stato incarcerato, ma non ucciso”, commenta Monira. In assenza del corpo, alla famiglia rimaneva una flebile speranza che fosse vivo.

Quando la Croce Rossa internazionale ha informato i familiari che il corpo di Emad era arrivato all’ospedale al-Shifa di Gaza, si sono precipitati per vederlo.

Secondo il dr. Emad Shihada il corpo è stato conservato in azoto liquido per un lungo periodo.

Senza una strumentazione adeguata per scongelarlo, un’autopsia non avrebbe potuto essere eseguita prima di aver lasciato le spoglie al sole per due giorni.

La famiglia ha preferito seppellirlo piuttosto che aspettare, seguendo la tradizione islamica che raccomanda la sepoltura immediatamente dopo la morte.

Anche se non è stata eseguita un’autopsia completa, la famiglia di Emad ha riscontrato parecchi segni inquietanti sul suo corpo.

Dalla metà del torace fino all’addome vi era una cicatrice di 15 cm. che indicava punti di sutura. Lo stesso si riscontrava su 13 cm. che andavano dal lato sinistro del torace sui due lati.

Queste misteriose incisioni hanno fatto pensare ai familiari di Emad che fossero stati prelevati i suoi organi per traffico, una pratica nota che Israele tenta di eliminare dal 2008.

Secondo il dottor Shihada è tuttavia possibile che il corpo sia stato aperto dai medici per cercare di fermare un’emorragia interna.

Un esame esterno ha mostrato che a Shahin era stato sparato tre volte alla gamba destra. Se uno o più proiettili hanno trapassato l’arteria femorale, provocando un’emorragia che non è stata fermata entro 15 minuti, ciò avrebbe potuto provocare la sua morte, spiega a MEE il dottore.

“Emad era solo un ragazzo”, dice Monira. “Israele avrebbe potuto curarlo dopo averlo prelevato. Ma non lo hanno fatto. Lo hanno ucciso.”

Trattenimento dei corpi

Secondo il centro al-Mezan per i diritti umani, le autorità israeliane trattengono tuttora i corpi di quindici palestinesi della Striscia di Gaza uccisi dopo il 30 marzo 2018, tra cui due bambini.

Benché la famiglia di Emad Shahin abbia atteso circa un anno perché le fosse restituito il corpo del ragazzo, le altre famiglie palestinesi che vivono nell’incertezza potrebbero non recuperare mai i corpi dei loro cari.

La scorsa settimana il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha ordinato che nessun corpo dei palestinesi trattenuti da Israele venga restituito alle rispettive famiglie, ritenendo questo un “mezzo di dissuasione contro il terrorismo”

Israele è il solo Paese al mondo che applica una politica di sequestro delle spoglie, in base ad una legge che risale al 1945, durante il mandato britannico.

La morte di Emad Shahin e la minaccia di un arresto da parte di Israele non hanno però dissuaso Monira e la sua famiglia dal partecipare alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

“La resistenza è il solo mezzo per liberare la nostra terra”, afferma Monira. “E ormai noi ci andiamo anche per onorare Emad. D’ora in poi tutta la famiglia è pronta a morire per sconfiggere l’occupante.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come Israele impedisce agli agricoltori palestinesi di lavorare le proprie terre

Amira Hass – 28 maggio 2017,Haaretz

Questa settimana è finito uno sciopero di un mese, in quanto l’Amministrazione Civile ha accettato di riesaminare le procedure riguardanti l’accesso alle terre coltivate oltre il Muro di separazione in Cisgiordania. Le ragioni dello sciopero sono veramente scomparse? Il tempo lo dirà.

Lo sciopero è finito. No, non quello famoso dei prigionieri palestinesi in Israele, ma un altro sciopero, che coinvolge decine di migliaia di famiglie palestinesi le cui terre sono rinchiuse tra il Muro di Separazione della Cisgiordania e la Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania precedente la guerra del ’67, ndtr.] – l’area nota in gergo militare come la “zona di congiunzione”.

Alla fine di febbraio i comitati palestinesi di collegamento di Qalqilyah, Tul Karm, Salfit e Jenin hanno smesso di sottoporre all’ufficio di collegamento israeliano le domande da parte di agricoltori palestinesi che chiedono i permessi per entrare nelle loro terre. (Hanno continuato a presentare richieste per altri permessi).

Parecchi terreni sono coinvolti – circa 137,000 dunams (13.700 ettari), 94.000 dei quali di proprietari privati, secondo l’Amministrazione Civile israeliana [organismo militare che gestisce l’occupazione in Cisgiordania] in Cisgiordania. Ma nuove norme, e nuove interpretazioni di quelle esistenti, hanno ridotto la terra che i palestinesi hanno il permesso di coltivare. E dalla fine dello scorso anno si sono moltiplicati i resoconti delle nuove difficoltà che i contadini devono affrontare per ottenere i permessi per coltivare la loro terra.

“Non possiamo collaborare con, e di conseguenza dare il beneplacito a, regole che renderanno più facile per Israele impossessarsi di molte altre migliaia di dunam con il pretesto che la terra è stata abbandonata,” hanno affermato i comitati di collegamento, spiegando la propria iniziativa inusuale.

Dopo circa tre mesi in cui i coltivatori sono stati impossibilitati a rinnovare i loro permessi e hanno temuto sempre più per il destino dei loro appezzamenti abbandonati, la questione è stata discussa lo scorso martedì dal capo dell’Amministrazione Civile, generale Ahvat Ben Hur, e dal vice ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Ayman Qandil. Erano presenti molte altre persone di entrambe le parti, e uno dei palestinesi [presenti] ha capito che, in cambio della ripresa immediata del lavoro dei comitati, le regole sarebbero rimaste congelate fino al 15 giugno. Durante questo periodo, Ben Hur le riconsidererà e “speriamo per il meglio”.

L’Amministrazione Civile non l’ha chiamato un “congelamento”, ma “l’esame di una serie di problemi relativi alle regole che governano la zona di congiunzione.”

Sorprendentemente questo sciopero non ha sollevato interesse oltre i coltivatori e le loro famiglie, benché riguardi il futuro dell’intero patrimonio di terre pubbliche palestinesi. Tuttavia forse non è sorprendente,perché dall’ottobre 2003 i palestinesi non hanno libertà di movimento in questa zona. Fu allora che il generale Moshe Kaplinsky, comandante delle forze israeliane in Cisgiordania, emise un ordinanza di interdizione su tutta la zona di congiunzione.

Cittadini israeliani e residenti, persone che possono immigrare in Israele in base alla “Legge del Ritorno” (questo dice l’ordinanza) e turisti possono entrare in questa zona liberamente. Solo i palestinesi hanno bisogno di un permesso per entrare nelle loro terre e case, e non vi possono accedere per qualunque altra ragione che non sia il lavoro o la residenza.

Dal 2009 l’Amministrazione Civile ogni tanto ha pubblicato il suo regolamento degli ordini in vigore per permessi di ingresso nella zona di congiunzione (e non solo per i contadini), per mettere in pratica quest’ordinanza. In febbraio è stata rilasciata la quinta versione. Questo insieme di nuove regole e nuove interpretazioni di quelle esistenti ha fatto suonare il campanello d’allarme.

Una di esse vanifica la tradizione palestinese del lavoro collettivo delle famiglie sui terreni. Infatti l’Amministrazione Civile obbliga di fatto le famiglie a dividere artificialmente la terra tra gli eredi dopo la morte del padre, anche se essi vorrebbero piuttosto considerarla come una proprietà collettiva, con alcuni che lavorano effettivamente la terra, altri che pagano il trattore, i semi o gli strumenti agricoli, ed altri ancora che vendono i prodotti. Dividere la terra porta via tempo, soprattutto a causa della doppia burocrazia israeliana e palestinese. Costa anche denaro (imposte, ecc.) e può provocare dispute.

Questa ordinanza è stata introdotta per la prima volta nel 2014. Da conversazioni con agricoltori alla fine del 2016 risulta chiaro che alcuni di loro vi si sono già adeguati. I comitati di collegamento palestinesi a quanto pare non hanno capito subito quanto fosse nefasta.

Nuova regola non scritta

Ma c’è un trucco: un’interpretazione che non compare nel regolamento. Nella seconda metà del 2016 a quanto pare qualcuno nell’ufficio di collegamento israeliano (parte dell’Amministrazione Civile) ha deciso che un appezzamento di terra di meno di cinque dunam non necessita di più di una persona che lo lavori – di conseguenza, i permessi di accesso sarebbero stati concessi solo al proprietario registrato, anche se fosse stato anziano, malato o avesse un altro lavoro.

Dalla fine del 2016 sia Haaretz che le organizzazioni per i diritti umani hanno ricevuto numerose informazioni su questa prassi.

Come per ogni regola non scritta, all’inizio si poteva pensare che si trattasse di casi isolati, forse derivanti da incomprensioni. Ma le testimonianze continuavano ad arrivare. E in risposta alle domande di Haaretz un portavoce del Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori non ha negato che questa è effettivamente l’interpretazione utilizzata.

Dal 2014 l’Amministrazione Civile ha anche rifiutato di riconoscere che la moglie ed i figli del proprietario abbiano diritti di proprietà sulla terra. In effetti vengono loro concessi permessi di accesso sulla loro terra come “dipendenti”, il cui numero dipende dalle dimensioni del terreno, dal tipo di produzione e dalla stagione. Questa restrizione nei permessi per i membri della famiglia è il terzo problema.

Secondo i dati dell’amministrazione civile, nell’aprile 2016 sono stati concessi a contadini nella zona di collegamento 5.075 permessi. L’aprile scorso sono stati 5.218 (tutti per proprietari registrati). Presumibilmente l’incremento si deve a persone che hanno obbedito all’ordine e hanno diviso la loro terra tra i loro eredi.

Al contrario il numero di permessi per “coltivatori dipendenti ” è sceso da 12.282 nell’aprile 2016 a 9.856 lo scorso aprile. Questa riduzione dovrebbe essere in parte attribuibile allo sciopero. Ma conferma anche quello che i contadini hanno raccontato ad Haarez e all’ong [israeliana] contro l’occupazione Machsom Watch: sempre meno membri della famiglia ottengono permessi come “dipendenti”.

La norma che ha intensificato il campanello d’allarme è comparsa per la prima volta nell’ultimo regolamento. Afferma che nessun permesso verrà rilasciato per terreni di meno di 330 metri quadrati, perché “non ci sono sostanziali necessità agricole” per simili appezzamenti. Quindi, mentre l’Amministrazione Civile sta obbligando le famiglie a dividere la loro terra, afferma anche che “non ci sono sostanziali necessità agricole” per appezzamenti piccoli. Quanto ci vorrà prima che molte famiglie scoprano di avere una serie di appezzamenti piccoli, “insostenibili”, e di conseguenza non hanno il diritto di accesso alla loro terra e a lavorarla?

Per tutte queste ragioni i comitati di collegamento palestinesi hanno dichiarato lo sciopero parziale. Quindi chiunque avesse un permesso scaduto (sono validi per uno o due anni) non poteva rinnovarlo.

Una settimana fa, di sabato – prima dell’incontro di Ben Hur con Qandil – il portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori, ndtr.] ha detto ad Haaretz che Ben Hur aveva autorizzato gli uffici di collegamento israeliani a ricevere le richieste di permesso direttamente da “agricoltori con appezzamenti di cinque o più dunam”. L’avvocato Alaa Mahajna, che rappresenta molti contadini di Qalqilyah a nome dell’ANP, ha affermato che in questa decisione  il limite di cinque dunam  ha confermato che le dimensioni del terreno, e non i diritti di proprietà, sono diventati il fattore decisivo per il rilascio dei permessi.

“Una china pericolosa”

L’organizzazione per i diritti umani “Hamoked” [Ong israeliana contro l’occupazione, ndtr.] – Centro per la Difesa dell’Individuo – ha aiutato i contadini a cui è stato negato il permesso ad accedere alla loro terra dal 2002. In genere l’Amministrazione Civile (subordinata al COGAT) ritira il rifiuto in seguito all’intervento di “Hamoked” (compresi ricorsi all’Alta Corte di Giustizia). Ma non tutti conoscono “Hamoked”, essa non ha le risorse per gestire decine di migliaia di casi e non è compito di “Hamoked” svolgere servizi altrui per loro.

L’avvocato Yadin Elam si è occupato di tutti i ricorsi all’Alta Corte presentati da “Hamoked” sulla questione. Lo scorso gennaio ha scritto a Ben Hur in merito ai problemi presenti in una bozza dell’ultimo regolamento e nella sua interpretazione. Ha messo in guardia riguardo a una “china pericolosa” di regole e della loro applicazione più rigida nel concedere i permessi, contrariamente all’impegno dello Stato all’Alta Corte che il danno causato ai contadini sarebbe stato minimo.

Sette anni dopo l’emanazione del primo regolamento “pare che qualcuno abbia deciso di riscriverlo e di interpretare ogni norma nel modo più dannoso che si possa immaginare,” ha scritto Elam. Ha citato il limite di cinque dunam, così come la meschina lentezza burocratica che comporta avere un permesso, con il risultato di perdere giorni di lavoro agricolo.

Elam ha scritto che le norme sono difficili da capire persino per un avvocato israeliano. Oltretutto il regolamento è pubblicato solo in ebraico, per cui quelli la cui vita dipende da esso in pratica non lo possono leggere.

La sua lettera è stata inviata anche al consigliere giuridico per la Cisgiordania, il colonnello Eyal Toledano, e al difensore civico dell’Amministrazione Civile, il tenente Bar Naorani. Gli è stata garantita una risposta, che non è ancora arrivata.

Lo scorso mese, come preliminare all’appello all’Alta Corte, Mahajna ha chiesto alla procura generale di annullare le nuove norme. Ha definito la regola dei 330 metri quadrati “draconiana, senza basi giuridiche”, aggiungendo che “contraddice il concetto fondamentale della legge e dei diritti di proprietà,” in quanto “i diritti di proprietà su un appezzamento di terreno le cui dimensioni non superano i 330 metri quadrati non sono considerati diritti e non vengono protetti.”

“Questa norma crea de facto un sistema di proprietà nuovo e fondamentalmente diverso, che si applica a due diversi gruppi nazionali sotto lo stesso regime, con tutto quello che ciò implica,” ha scritto.

La risposta che ha ricevuto è simile a quella del COGAT ad Haaretz lo scorso sabato: “In base a chiare ragioni di sicurezza, è necessario limitare la libertà di movimento sul lato della barriera di sicurezza verso Israele. L’Amministrazione Civile attribuisce importanza a garantire il diritto di accesso alla loro terra ai contadini proprietari palestinesi.”

Il COGAT ha anche detto ad Haaretz che il nuovo regolamento “intende offrire una soluzione migliore ai residenti che necessitano di permessi di accesso alla zona di congiunzione, salvaguardando le necessità di sicurezza ed evitando abusi dei permessi. Non ci sono impedimenti a un membro di una famiglia che lavora una serie di terreni per i suoi parenti, sia per il fatto che questi ultimi si trovino all’estero o per configurare una necessità agricola unendo appezzamenti. Ma per fare ciò, la richiesta deve essere accompagnata da una procura da parte del proprietario del terreno.”

Criteri per determinare il numero di dipendenti in base alle dimensioni del terreno e al tipo di prodotto sono già stati inclusi nel regolamento del 2014, così continua, con la disposizione che le richieste di far entrare più familiari della quota consentita sarebbero state prese in considerazione dal capo dell’ufficio di collegamento del distretto. Il regolamento del 2017 “ha definito il termine ‘necessità agricole’ in base al parere professionale del dirigente del personale agricolo, per garantire uniformità nel valutare queste richieste.

“Il regolamento lo stabilisce come una norma, permessi ‘agricoli’ non saranno concessi per piccoli appezzamenti che non superino i 330 metri quadrati. Questa norma può non essere rispettata se vengono presentate prove che, nonostante le piccole dimensioni del terreno, c’è una reale necessità colturale. Nel caso non ci siano queste necessità, i proprietari possono chiedere un permesso per ‘uso personale’.”

Tuttavia i permessi per ‘uso personale’ sono solo una tantum e non possono essere rinnovati automaticamente.

Centinaia di agricoltori stanno ora aspettando in fila presso gli uffici di collegamento palestinesi con richieste di rinnovo dei permessi da inoltrare alla burocrazia israeliana. Le ragioni dello sciopero sono davvero scomparse? Il tempo lo dirà.

(traduzione di Amedeo Rossi)