La dichiarazione di Trump su Gerusalemme dà ad Abbas un’occasione per smuovere la situazione

Amira Hass

9 dicembre 2017,Haaretz

Sfortunatamente, però, la dirigenza palestinese ha dimenticato come si operano dei cambiamenti

Il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele è un’occasione per la leadership palestinese di disfarsi dei modi sclerotizzati di pensare e agire che hanno reso quegli stessi leader incapaci di cambiamento.

Sarà sfruttata questa opportunità di intraprendere un processo interno di democratizzazione? In primo luogo per ripristinare i rapporti tra un élite palestinese non eletta che è stata al potere per diversi decenni e la popolazione (non solo in Cisgiordania e a Gaza ma anche nella diaspora palestinese)? La speranza è che venga usata per operare un cambiamento. La preoccupazione è che ciò non accada.

Quando la leadership palestinese si riprenderà dallo shock provocato dal cambiamento simbolico nella politica americana – simbolico, ma potenzialmente esplosivo -, dirà che si tratta di un problema pan-islamico, pan-arabo, o forse europeo. La leadership avrebbe ragione a dirlo, ovviamente. I leader diranno che i palestinesi sono l’anello più debole della catena e che non possono essere lasciati soli a trattare con il piromane della Casa Bianca.

La si potrebbe considerare anche in altri termini. Il cambiamento nella posizione americana consente ai leader palestinesi, guidati dal presidente Mahmoud Abbas, di operare cambiamenti che dimostrino al loro popolo di non aver scelto la via diplomatica che dipende dal coordinamento con Israele su economia e sicurezza solo per favorire i propri immediati interessi personali e economici – e quelli dei gruppi vicini alla leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di Fatah.

Una delle spiegazioni prevalenti del fatto che Abbas abbia ostinatamente evitato lo svolgimento di elezioni e che, all’interno della sua fazione di Fatah, le elezioni siano state stabilite e dettate dall’alto e in modo tale da non essere discusse pubblicamente, è il “tornaconto personale”. Per lo stesso motivo si sostiene che Abbas abbia evitato di apportare modifiche al suo gabinetto che avrebbero permesso al suo governo di essere rappresentativo delle varie organizzazioni politiche e non solo della propria.

Ripresisi dallo shock, Abbas e il suo gruppo diranno, giustamente, che il cambiamento nella posizione americana non riflette necessariamente il fallimento del percorso diplomatico palestinese, ma piuttosto l’inettitudine delle fazioni moderate all’interno del Partito Repubblicano statunitense.

Dopo tutto, il presidente Trump ha insultato tutti i musulmani, compresi quelli di Paesi i cui governi sono considerati alleati degli Stati Uniti, oltre ad attaccare il Vaticano e l’Europa. I leader palestinesi potranno dire che l’audacia di Trump, nel rompere le convenzioni internazionali, non si limita ad un ambito specifico.

Recentemente lui e la destra economica ed evangelica che [Trump] serve e rappresenta hanno ottenuto due importanti vittorie: un aumento dei profitti per le grandi aziende attraverso i tagli delle imposte per le imprese e una sentenza della Corte Suprema che ha permesso l’immediata applicazione del divieto di ingresso ai cittadini di sei Paesi musulmani. Di conseguenza, Abbas e i suoi soci diranno che non esiste alcun nesso tra la situazione interna palestinese e i tentativi della comunità internazionale di fare i conti con le politiche di Trump.

La via diplomatica – che implica il riconoscimento simbolico internazionale di uno Stato palestinese – è stata preparata lentamente, inclusi diversi risultati incoraggianti, come l’accettazione [della Palestina] in istituzioni internazionali e la firma di convenzioni internazionali. Ma poi il percorso è stato bloccato dagli Stati Uniti. La strada diplomatica ha fatto arrabbiare Israele, ma ora si è esaurita senza aver cambiato la realtà dei fatti: autonomia limitata per l’Autorità Nazionale Palestinese, divisa tra enclave separate, assolvendo nel contempo Israele nonostante le sue responsabilità di potenza occupante. I Paesi occidentali appongono tuttora il loro timbro di approvazione su una leadership palestinese non eletta e non amata a causa del suo impegno a tenere a freno la popolazione e a mantenerla calma nei confronti di Israele, e per la sua volontà di far finta che ci sia ancora un “processo” in corso per edificare uno Stato. Il rischio è che la mossa di Trump non faccia altro che sostenere la richiesta dell’Europa che Abbas e le sue forze di sicurezza continuino a tenere a bada il popolo palestinese in cambio del loro immutato riconoscimento di questa come leadership legittima.

Gli Stati Uniti, finanziatori molto generosi dell’UN Relief and Works Agency [(UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndt.] e delle forze di sicurezza palestinesi, hanno accettato la realtà delle enclave molto prima dell’arrivo di Trump. Questo era il messaggio dietro il finanziamento per lo sviluppo delle strade rurali, al posto di larghe e veloci autostrade, ma in questa operazione Israele ha bloccato l’accesso [alle campagne] dalle città e dai villaggi palestinesi a beneficio dei coloni ebrei della Cisgiordania.

I Paesi europei non sono esenti, tuttavia, da responsabilità nel favorire la realtà delle enclave, con le loro donazioni che in qualche modo mitigano la cronica crisi finanziaria causata dalle restrizioni israeliane. Ma quei Paesi hanno cercato e stanno cercando di aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra, prendendo misure non ancora definitive per boicottare i prodotti delle colonie e dichiarando che l’Area C (che è sotto il pieno controllo israeliano) fa parte dello Stato palestinese. Sono almeno consapevoli del loro ruolo negativo nel sovvenzionare l’occupazione.

Non smetteranno certo di sovvenzionarla ora – attraverso l’assistenza umanitaria ai palestinesi – con il crescente senso di un’imminente catastrofe. Anche questo rafforzerà la logica di mantenere il governo di Abbas così come è adesso.

L’appello di Fatah, partito di Abbas, ai tre giorni di rabbia sulla questione di Gerusalemme senza apportare modifiche alla struttura interna [del potere] è una scommessa rischiosa. Mette in pericolo la vita e la salute di centinaia di giovani palestinesi, esponendoli ad arresti di massa, e tutto questo per niente. Per lo più, potrebbe invece dimostrare che il popolo palestinese non risponde agli appelli di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese poiché non si fida di loro. La popolazione agirà piuttosto quando e come vorrà.

Invece di perseguitare chiunque li critichi su Facebook e di mettere a tacere gli oppositori con una legge relativa a Internet, Abbas e le persone intorno a lui potrebbero iniziare a fare dei passi per rinnovare il sistema politico che hanno costruito con gli auspici degli accordi di Oslo. È difficile immaginare come potrebbe svolgersi tale processo, a causa della lunga sclerosi delle istituzioni dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. In ogni caso, richiederebbe l’inclusione e il coinvolgimento attivo di ampi settori della popolazione nelle fasi di ideazione e di azione, cosa che i leader di Fatah e dell’OLP hanno da tempo dimenticato di fare.

(traduzione di Luciana Galliano)




Per alcuni abitanti di Gaza che necessitano di cure mediche, l’attesa per un permesso di uscita porta alla morte

Amira Hass

4 dicembre 2017 Haaretz

Yara Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo

A gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.

Le venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove, così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.

Gli esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin Bet.

La madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento, modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.

Questa volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le due persone partirono per Gerusalemme.

La bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere, rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.

Yara tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.

Una settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20 luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì all’ospedale europeo il 13 luglio.

Yara è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.

I pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.

E’ difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.

Peggioramento negli ultimi quattro anni.

A giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951 richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone ultrasessantenni.

A settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre 60 anni.

E’ stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9 novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.

La percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre 2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un totale di quasi 20.000 richieste.

“Ragioni di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Lo Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas, sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.

“Lo scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico, all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente destinato ad un attacco di Hamas in Israele.

“Dato il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza. Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”

Circa il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.

Una di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24 ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento, questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.

Un altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata, oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?

Nella sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.

Huwaida, di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre, dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24 settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in ansia per il timore di un’altra delusione.

Lo Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua richiesta.”

Delusione il giorno prima

Aya Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.

La condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il 27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché lei morì.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.

Un attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di permesso erano “in fase di valutazione”.

Ma, secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure mediche.”

Il 29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità (israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche disponibili a Gaza non sono adeguate.

Negli ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.

Nella loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”, hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo per la sofferenza dei pazienti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Mettere in chiaro le cose su Yitzhak Rabin

Amira Hass

6 novembre 2017, Haaretz

L’assassinio dell’ex primo ministro nel 1995 non è la ragione principale per cui non è stato creato uno Stato palestinese – nonostante ciò che credeva Yasser Arafat.

Una delle assurde considerazioni che Yasser Arafat soleva fare – e che si possono ancora sentir dire oggi da alcuni dei suoi seguaci – era che, se Ygal Amir [estremista ebreo che uccise il primo ministro Rabin per aver firmato gli accordi di Oslo, ndtr.] non avesse assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, il processo di Oslo sarebbe proseguito e sarebbe sfociato in una conclusione positiva: uno Stato palestinese accanto a Israele.

Arafat ed il suo entourage dovevano giustificare gli accordi di Oslo di fronte a se stessi ed al loro popolo. Dovevano scusarsi per i gravi errori che avevano fatto durante i negoziati (inizialmente in modo ingenuo e disattento, in seguito con un misto di ingenuità, negligenza, stupidità, incompetenza, debolezza, crescente impotenza, miopia e considerazioni personali legate alla sopravvivenza e alla corruzione).

La politica israeliana non era e non è formulata sulla base delle decisioni di una sola persona. E certamente non quando si tratta della questione fondamentale del nostro essere sionisti: cosa diavolo fare con questi arabi che si sono introdotti nella nostra patria ebraica. L’orgogliosa risposta sionista a questa domanda può essere trovata oggi nella realtà delle sovraffollate enclave palestinesi, ridotte al minimo dallo spazio ebraico affamato di proprietà immobiliari che dio ci ha promesso. Che egli esista o meno.

Una sola persona non può essere responsabile di questa comoda realtà – nemmeno i più maturi tra i nostri pensatori geopolitici, Shimon Peres o Ariel Sharon, o Shlomo Moskowitz, che dal 1988 al 2013 è stato a capo del supremo comitato di programmazione dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.], che ha consolidato la pianificazione dell’apartheid in Cisgiordania.

Per dare forma alla realtà delle enclave c’è stato bisogno di un’intera rete di ideologi, generali, avvocati, ufficiali, architetti, rabbini, politici, geografi, storici, imprenditori e molti altri ancora. Perciò una sola persona non è sufficiente a fermare una politica impostata da una rete ben determinata e pienamente coordinata. Nemmeno Rabin – nemmeno ipotizzando per un momento che si sia reso conto che un accordo logico avrebbe potuto basarsi solamente su uno Stato palestinese contiguo.

E’ vero, Rabin definì i coloni sulle Alture del Golan “repulsivi”, ma disse anche che si augurava che Gaza affogasse nel mare. Ha anche fatto un ottimo lavoro definendo le aspettative di Israele nei confronti del suo subappaltatore palestinese, quando affermò che l’Autorità Nazionale Palestinese doveva governare senza l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] e senza l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem. E poi, più importanti delle sue affermazioni politicamente scorrette, ci sono i fatti sul terreno, avvenuti ancor prima del suo assassinio.

E queste sono le fondamenta della realtà delle enclave – che sono il contrario di uno Stato: separazione della Striscia di Gaza dalla Cisgiordania; separazione di Gerusalemme est dal resto dell’area palestinese; Area C [circa il 60% del territorio della Cisgiordania, in cui si trovano le principali risorse naturali e, in base agli accordi di Oslo, sotto completo controllo israeliano, ndtr.]; una leadership palestinese indebolita; rafforzamento delle colonie e dei coloni; due sistemi giuridici ineguali – uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi; uso del pretesto della sicurezza come strumento di colonizzazione. Questa è una realtà che non può essere costruita in un giorno.

All’epoca di Rabin il blocco della Striscia di Gaza – cioè il regime che iniziò a vietare la libertà di movimento – divenne sempre più rigido. Gli studenti non potevano ritornare nella Striscia di Gaza dopo i loro studi. E poi, improvvisamente, egli concesse di tornare solo agli studenti di Bir Zeit. Alla domanda del perché solo loro, rispose (secondo quanto mi riferì all’epoca un membro del comitato di contatto palestinese): “Quando Arafat mi ha chiesto di permettere agli studenti di tornare, ha nominato solo l’università di Bir Zeit.”

Rabin sostenne la costruzione di una rete di strade di collegamento in Cisgiordania – una condizione importante per attrarre nuovi coloni e per spezzare la contiguità geografica palestinese, rafforzando la fase transitoria [degli accordi di Oslo, ndtr.] in cambio di rendere inutile la fase dello Stato palestinese.

Marwan Barghouti, con un tipico insieme di incredulità e serietà, mi raccontò la seguente conversazione tra Rabin ed Arafat:

Rabin: “Ma come faranno i coloni ad andare a casa nella fase transitoria se non dispongono di strade separate?”

Arafat: “Sono i benvenuti se attraversano le nostre città.”

Rabin: “Ma se qualcuno farà loro del male, noi interromperemo i negoziati e il ridispiegamento.”

Arafat: “Dio non voglia! Ok, allora costruite le strade.”

In qualità di primo ministro e ministro della Difesa, Rabin punì i palestinesi di Hebron per il massacro perpetrato contro di loro da Baruch Goldstein [autore del massacro di 29 palestinesi ed il ferimento di altri 125 ch pregavano nella moschea della Tomba dei Patriarchi, ndtr.] nel 1994. L’esercito, sotto il suo controllo, impose ai palestinesi draconiane restrizioni di movimento– che nel tempo non fecero che peggiorare – e si rese responsabile dell’espulsione dei palestinesi residenti dal centro della città. Rabin fu colui che rifiutò di evacuare i coloni di Hebron dopo il massacro.

Durante il suo mandato come primo ministro iniziò segretamente a Gerusalemme – come di consueto, senza alcuna dichiarazione ufficiale – la silenziosa politica di espulsione (attraverso la revoca dello stato di residenti ai palestinesi nati a Gerusalemme). La lotta contro ciò iniziò solamente dopo che le prove divennero evidenti, nel 1996. La divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C come guida per il graduale ridispiegamento dell’esercito venne imposta nel corso dei negoziati per l’Accordo Transitorio, firmato nel settembre 1995.

E’ impossibile sapere se Rabin collaborò a quel diabolico inganno, attraverso il quale, sotto le spoglie di un processo graduale e per ragioni di sicurezza, Israele si riservò l’area C come terra per gli ebrei. Ma è stato lui a coniare la frase “Non esistono scadenze sacre”, relativamente all’applicazione degli Accordi di Oslo.

L’assassino riuscì così bene nella sua impresa perché, contrariamente alla propaganda di destra, il governo guidato dai laburisti non aveva intenzione di spezzare il cordone ombelicale con cui era legato ai suoi metodi e obiettivi colonialisti. La disputa con gli oppositori del Likud  non fu mai sui principi, ma solo sul numero e sulla dimensione dei bantustan da riservare ai palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I carcerieri incatenati di Gaza

Amira Hass

7 novembre 2017, Haaretz

Gli israeliani si rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi siamo i carcerieri.

Ho visto gazawi felici. Un giornalista di Kan, l’emittente pubblica israeliana, alcuni giorni fa è andato al checkpoint di Erez, ha sbattuto un microfono e una telecamera in faccia agli abitanti della Striscia di Gaza e li ha stimolati a sospirare di sollievo. Fantastico! Il posto di controllo di Hamas dal lato di Gaza è stato tolto e il barbuto personale di sicurezza non ci ha interrogati.

L’impressione che si ricava dal servizio televisivo e da un precedente reportage su Haaretz è che l’unico ostacolo che affrontano quelli che vogliono lasciare Gaza sia Hamas, ma ci sono alcune domande che non sono state fatte ai gazawi sul confine, insieme alle risposte che ne sarebbero seguite:

D. Adesso, dopo la rimozione dei posti di blocco di Hamas, chiunque voglia lasciare Gaza può farlo? R. Stai scherzando? Dal 1991 noi possiamo andarcene solo con l’autorizzazione di Israele.

D. Quanto dura il periodo di attesa per un permesso di uscita israeliano? R. Circa 50 giorni. A volte solo un intervento legale da parte di un’organizzazione israeliana come il ‘Centro legale Gisha per la libertà di movimento’ o ‘Medici per i diritti umani’ può far ottenere un permesso.

D. Quali sono gli strumenti di controllo al checkpoint israeliano? R. Uno scanner girevole, istruzioni gridate con i megafoni, a volte una perquisizione personale.

D. Che cosa vi è consentito portare? R. Non si possono portare computer portatili, panini, valigie con le ruote o deodoranti.

D. Oltre a quelli della Jihad islamica e di Hamas, a chi è vietato uscire? R. La maggior parte della gente non può uscire. La figlia di un mio vicino è stata in cura a Gerusalemme negli scorsi nove mesi e lui sta ancora aspettando un permesso per andare a visitarla. Lo stesso vale per tre amici che hanno avuto bisogno di un esame medico di controllo l’anno scorso. Giovani che vorrebbero studiare in Cisgiordania non possono farlo perché Israele non glielo consente. Circa 300 studenti che hanno avuto la possibilità di studiare all’estero stanno aspettando un permesso ed il loro visto è a rischio.

D. Sei stato interrogato dal servizio di sicurezza (interno) israeliano Shin Bet? R. Non oggi. Ma a volte arriviamo al checkpoint e ci prendono da parte, ci fanno sedere su una sedia per un giorno intero ed alla fine ci fanno alcune domande sui vicini di casa, per 10 minuti, o ci mandano a casa senza farci domande. E’ così che perdiamo un appuntamento all’ospedale o un incontro di lavoro.

Gli israeliani rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi ne siamo i carcerieri. Ecco perché essi [gli israeliani] sono incatenati dalla loro volontaria ignoranza. Riferire sulla situazione viene facilmente trasformato in propaganda ad uso dei politici. D’altro lato, le omissioni e le distorsioni negli articoli scritti dai dirigenti che fanno politica sono un fatto naturale. Come ad esempio l’articolo scritto dal Coordinatore delle attività governative nei territori [il governo militare israeliano sui territori palestinesi occupati, ndt], general maggiore Yoav Mordechai e da due suoi colleghi, pubblicato la scorsa settimana sul sito web dell’Istituto di Studi per la sicurezza nazionale.

Le omissioni e le distorsioni sono rivolte al pubblico in generale. Per esempio, l’articolo afferma: “Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza con la forza.” Invece, il quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea) e Fatah hanno agito in vari modi aggressivi per ribaltare i risultati delle elezioni democratiche per il Consiglio Legislativo Palestinese nel 2006, che Hamas aveva vinto.

“Hamas è diventato il potere sovrano”, hanno scritto Mordechai ed i suoi colleghi. Il potere sovrano? Anche se è Israele a controllare le frontiere, gli spazi aerei e marittimi ed il registro della popolazione palestinese? “Il governo di Hamas si sta indebolendo a causa della sua responsabilità relativamente all’impoverimento e alla disoccupazione.” I lettori che leggono questa frase nell’articolo hanno già dimenticato una precedente affermazione: “La situazione dei cittadini di Gaza è enormemente peggiorata dal 2007, soprattutto a causa delle restrizioni imposte alla Striscia da Israele (in termini di possibilità di muoversi da e per l’area ed in termini di attività economica).”

Gli autori del rapporto dell’Ufficio del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori sono prigionieri della loro stessa posizione. Il COGAT impone rigorosamente queste restrizioni e le ha rese ancor più rigide. Gli autori mettono in guardia nell’articolo sulla prospettiva di un peggioramento della situazione, sia economicamente che psicologicamente, ma da ciò non consegue un coraggioso richiamo ai politici perché rimuovano i divieti al movimento della popolazione, delle materie prime e della produzione locale.

Gli autori suggeriscono al governo che sarebbe preferibile permettere che il processo di riconciliazione interna palestinese vada avanti. Ed invitano coraggiosamente i gentili [cioè i non ebrei, ndt] a finanziare la ricostruzione di ciò che Israele ha distrutto e sta distruggendo. Dopotutto, è ciò che essi hanno fatto dal 1993 – inviando un fiume di denaro per evitare un deterioramento ancor peggiore e per mantenere uno status quo conveniente ad Israele. E’ giunto il momento che i gentili utilizzino quei soldi come pressione politica che costringa Israele a ripristinare la libertà di movimento per i palestinesi a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Con uno sbadiglio – è così che la maggioranza degli israeliani risponde al furto di terre

Amira Hass

1 novembre 2017, Haaretz

Finché è ancora terra palestinese. Sanno che prima o poi potranno comprare a prezzo stracciato una villa con una fantastica vista su quella terra.

Cosa sarebbe successo se individui non identificati in Iran, Francia o Venezuela avessero aggredito commercianti ebrei e li avessero obbligati a chiudere i loro negozi? Quali scuse e manifestazioni di sconcerto i nostri diplomatici avrebbero chiesto all’Unione Europea, alle Nazioni Unite e chissà a chi altro? E con quanta esultanza vari ricercatori avrebbero tracciato un grafico dell’odio globale e sarebbero stati intervistati a lungo, con espressione seria, sulle inquietanti caratteristiche antisemite – così evocatrici di un oscuro passato – del privare ebrei dei loro mezzi di sostentamento e della distruzione delle loro proprietà?

Ma per noi israeliani questa domanda retorica ha perso il suo potere di educarci, di metterci in imbarazzo e di farci vergognare. Il fatto che così tanti israeliani siano coinvolti nel derubare così tanti palestinesi dei loro mezzi di sostentamento non è registrato neppure dai nostri sismografi. Questi sismografi sono calibrati per registrare, si dice, furti agricoli che sarebbero stati commessi da palestinesi. Al contrario, tutte le azioni che regolarmente noi portiamo a termine in modo che i palestinesi perdano le loro fonti di reddito provocano un grande sbadiglio. Ascolta, lo puoi già sentire.

Questa domanda retorica non è rivolta agli israeliani, perché essi sono i potenziali beneficiari del furto, se non quelli che già ne stanno beneficiando. Ecco un piccolo, parziale esempio recente: secondo rapporti complementari dell’Ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari e di due organizzazioni non governative, “Rabbini per i Diritti Umani” e “Yesh Din”, nelle ultime settimane individui non identificati hanno rubato olive da più di 1.000 alberi in 11 villaggi palestinesi in Cisgiordania – Azmut, Awarta, Yanun, Burin, Qaryut, Far’ata, Jit, Sinjil, Al-Magheir, Al-Jinya, Al-Khader. Inoltre individui non identificati, che sembravano ebrei, hanno aggredito raccoglitori dei villaggi di Deir al-Khattab, Burin, As-Sawiya e Kafr Kalil e li hanno cacciati dai loro campi.

A parte Burin, dove l’esercito ha individuato alcuni dei ladri ebrei e riportato il raccolto ai proprietari, questi furti significano che un investimento di tempo, denaro e fatica è andato in fumo. Nella maggioranza dei villaggi il saccheggio è avvenuto in zone che avamposti e colonie hanno recintato con l’uso di intimidazioni e violenze e in cui l’esercito, in cambio, ha punito i palestinesi limitandone l’accesso alle loro terre.

E’ così che ci garantiamo il fatto che nel giro di qualche anno ci saranno terre vuote su cui costruire un altro quartiere di lusso. Gli israeliani indifferenti sanno che presto là potranno comprarsi a prezzi stracciati una villa con una fantastica vista. Quindi sbadigliano.

Ci sono furti perpetrati in apparenza da singoli individui, e poi ci sono i furti di Stato – nel villaggio di Al-Walaja, per esempio. E’ molto probabile che questo sia l’ultimo anno in cui la raccolta delle olive vi abbia luogo come al solito. Il prossimo anno gli abitanti saranno soggetti a un sistema di permessi per poter raggiungere le loro terre attraversando un cancello agricolo nel muro di separazione, che verrà aperto quando l’ufficiale di stato maggiore per l’agricoltura dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania deciderà che debba essere aperto – per due o tre mesi all’anno. La mattina verrà aperto e chiuso immediatamente, e così alla sera.

Venerdì scorso un abitante di Al-Walaja e volontari israeliani di Engaged Dharma, che stavano aiutando nella raccolta, hanno preferito parlare di cose piacevoli: della qualità dell’olio d’oliva, delle olive succose che stavano crescendo vicino alla cisterna, di quelle più avvizzite che erano state raccolte dalla terrazza inferiore, dell’ottimo sapore dei rapanelli e delle cipolle verdi che egli coltiva tra gli alberi. Ma il prossimo anno gli abitanti del villaggio dovranno fare i conti con le restrizioni per avere un permesso – condizioni in contraddizione con l’abitudine palestinese di lavorare collettivamente la terra e che molto probabilmente non consentiranno loro di continuare a coltivarvi ortaggi.

Quelli che sbadigliano stanno già facendo un giro sulle terre di Al-Walaja, che sono state dichiarate dagli ebrei parco nazionale per l’ozio e il relax, per giostre ed immersioni rituali. E, se dio vorrà, il prossimo anno, quando la costruzione del muro sarà completata, non vi si vedranno palestinesi – i proprietari legittimi della terra.

Qui il discorso chiarisce perché, diciamo, un boicottaggio europeo e sudamericano dei, diciamo, prodotti agricoli israeliani sia necessario e giustificato. Questa sarebbe l’unica cosa che potrà far smettere gli israeliani di sbadigliare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




BDS contro il BDS: il boicottaggio di un regista arabo in Cisgiordania divide i palestinesi riguardo a rapporti con Israele

Amira Hass

24 ottobre  2017,Haaretz

Uno dei più famosi attori palestinesi ora sta chiedendo di boicottare il movimento palestinese di boicottaggio nel mezzo dello scalpore sul film “L’insulto” del regista libanese Ziad Doueiri.

Nel fine settimana il Comune di Ramallah ha annullato la proiezione del film “L’insulto”, del regista libanese Ziad Doueiri, in risposta alle richieste di attivisti che promuovono il boicottaggio culturale ed accademico di Israele e del gruppo “Giovani contro la Normalizzazione”.

Il film doveva essere proiettato lunedì pomeriggio alla fine del quarto festival annuale “Giorni di Cinema”, tenuto in cinque città palestinesi. Il film racconta come una discussione tra un rifugiato palestinese e un cristiano libanese si trasformi in uno scontro fisico e giudiziario.

Gli attivisti del boicottaggio ed i loro sostenitori hanno visto la proiezione del film durante un festival sponsorizzato dalla città e dal ministero palestinese della Cultura come un incoraggiamento alla normalizzazione dei rapporti con Israele, ciò a causa del fatto che cinque anni fa Doueiri ha filmato una parte del suo ultimo film, “L’attacco”, in Israele, e che, nonostante le dure critiche, non ha mai espresso rincrescimento per averlo fatto.

Il Comune di Ramallah ha detto che la proiezione è stata cancellata per ragioni di ordine pubblico. Secondo fonti palestinesi, anche il sistema di sicurezza palestinese ha fatto pressione per l’annullamento della proiezione, soprattutto quando è venuto a sapere che era stata programmata una manifestazione davanti al palazzo della cultura in cui la proiezione doveva avere luogo.

La campagna palestinese fa retromarcia in seguito a pressioni

In un post, comparso sabato sulla pagina Facebook della campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele, il movimento ha accolto favorevolmente lo svolgimento del festival cinematografico e si è persino congratulato con l’attore Kamel El Basha, che ha vinto il premio per miglior attore al festival internazionale del cinema di Venezia all’inizio di settembre (ma non ha citato il fatto che ha vinto il premio per la sua presenza ne “L’insulto”).

Il post afferma che il film in questione non costituisce normalizzazione, a differenza del precedente film di Doueiri. “Riferirsi ad Israele come se fosse un Paese normale equivale a contribuire alla sua guerra propagandistica,” dice il lungo post, che chiede anche una discussione pubblica con i registi palestinesi sui principi della lotta contro la normalizzazione.

Dopo che molti commentatori si sono lamentati che la posizione del post sulla proiezione del film non era sufficientemente chiara, domenica il movimento ha scritto un altro post, in cui fa una richiesta esplicita di annullamento della proiezione, “per evitare che il regista utilizzi la visione del suo film nella Palestina occupata per promuovere la normalizzazione nel mondo arabo.”

In precedenza il gruppo “Giovani contro la Normalizzazione” aveva distribuito un volantino con un linguaggio molto più duro. “La proiezione di questo film in un festival palestinese è un’umiliazione per tutti i palestinesi e per la gente libera che appoggia la causa palestinese. E’ imbarazzante che, mentre Doueiri è stato cacciato dal Libano e da Tunisi, il suo lavoro venga mostrato a Ramallah, in un festival che chiede di appoggiare il “cinema della resistenza”, dice il volantino, che evidentemente ha dato l’impulso alla decisione del Comune di annullare la proiezione, che era annunciata per domenica pomeriggio. Gli organizzatori del festival erano contrari alla cancellazione.

Secondo informazioni della stampa palestinese, in risposta all’annullamento della proiezione, El Basha ha detto di boicottare il movimento di boicottaggio palestinese e che non avrebbe rispettato le sue decisioni. Su Facebook ha avuto luogo un vivace dibattito riguardo all’annullamento, in cui alcuni l’hanno definito una vittoria di teppisti e del vuoto populismo.

Filmlab: Palestine”, il gruppo che ha organizzato il festival “Giorni di Cinema”, lunedì in un comunicato stampa ha affermato di “apprezzare l’importante e pionieristico ruolo del Comune di Ramallah nel sostenere la scena culturale in Palestina, che è un modello stimolante, non solo come partner di istituzioni culturali e di “Giorni di Cinema”, ma come un fondamentale attore culturale.”

Comprendiamo anche le pressioni esterne a cui il Comune deve essere stato sottoposto perché adottasse questa decisione in seguito all’ondata di dichiarazioni e di minacce espresse da alcune parti che hanno chiesto l’annullamento della proiezione, considerandola una normalizzazione culturale. In quel momento, Filmlab era nel bel mezzo di un incontro con molti partner, compreso il BDS, per raggiungere un accordo su questo problema, prendendo in considerazione la protezione della libertà di espressione e il rifiuto di intimidazioni e minacce come un’alternativa al dialogo sociale interno, la conservazione delle conquiste a livello globale del movimento BDS, che è apprezzato e rispettato,” ha aggiunto Filmlab.

In una dichiarazione precedente Filmlab aveva affermato che il PACBI [il movimento palestinese per il boicottaggio culturale ed accademico di Israele, ndt.] l’aveva informato che l’ultimo film di Doueiri non è soggetto alle attuali linee guida del BDS e quindi non è “boicottabile”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cara Europa, prendi nota: se lo vuoi, si può fare pressione su Israele

Amira Hass

23 ottobre 2017, Haaretz

 

Un recente caso riguardante pannelli solari olandesi dimostra che Paesi amici possono far retrocedere Israele quando viola il diritto umanitario internazionale.

I giudici dell’Alta Corte hanno di nuovo trovato una scappatoia; ancora una volta, non dovranno discutere il fondamentale, vergognoso fatto che Israele non sta collegando migliaia di palestinesi (da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndt.]) al sistema nazionale elettrico e idrico. Questa volta la via d’uscita è stata trovata nel villaggio di Jubbet ad-Dhib, ai piedi della collina di Herodion, a sudest di Betlemme. Esso necessitava di un sistema elettrico ibrido (solare e diesel), che è stato installato dall’organizzazione umanitaria israelo-palestinese Comet-ME, poiché Israele non aveva adempiuto al suo obbligo internazionale di connetterlo alla rete elettrica.

Tutti coloro che accusano l’Alta Corte di essere di sinistra possono stare sereni. Ha perso centinaia di occasioni per sentenziare che non fornire acqua ed elettricità è illegale in base al diritto internazionale, illegale in base alle leggi israeliane ed inaccettabile in base alla legge ebraica. Centinaia di volte – stando al numero di petizioni che sono state presentate – la corte ha avuto la possibilità di imporre allo Stato di collegare le comunità palestinesi al sistema elettrico e idrico, ma ha evitato di farlo, spesso adducendo motivi tecnici. Già quando l’attuale ministra della Giustizia Ayelet Shaked [di estrema destra, ndt.] era ancora una bambina, la corte sistematicamente ha continuato a perdere le occasioni di impedire alla reputazione della moralità ebraica di cadere nel fango del nazionalismo e nella passione per l’espulsione.

L’escamotage di Jubbet ad-Dhib è stato mostrato ai giudici dal generale di brigata Ahvat Ben Hur, ma è stato niente di meno che il primo ministro Benjamin Netanyahu a creare quella opportunità. Il governo olandese, che aveva finanziato il sistema elettrico ibrido, era furibondo per la confisca dei pannelli solari e Netanyahu ha fatto una promessa scritta agli olandesi che i pannelli confiscati al villaggio da Israele in giugno sarebbero stati restituiti. E allora che cosa fa Ben Hur, il responsabile diretto della confisca da parte dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano sui territori occupati, ndt.]? Informa il procuratore di Stato, che ha informato l’Alta Corte, di aver deciso la restituzione dei pannelli.

Ben Hur non lo ha fatto per onorare l’obbligo dello Stato verso una popolazione protetta. Piuttosto, ha fatto ricorso ad un tecnicismo. Ha spiegato che i pannelli sono stati confiscati otto mesi dopo che erano stati installati e messi in funzione. Quindi la petizione scritta dagli avvocati Michal Sfard e Michal Pasovsky è diventata inutile. E’ una vergogna. Sarebbe stato interessante capire quali acrobazie avrebbero trovato i giudici per rispondere alle argomentazioni (accettate anche dal governo olandese) secondo cui negare l’accesso all’elettricità e distruggere gli impianti elettrici sono atti che violano il diritto umanitario internazionale.

L’affermazione di Ben Hur ha permesso al procuratore ed ai giudici di evitare anche di affrontare il fatto che l’Amministrazione Civile aveva fatto un uso improprio di un ordine militare. Gli ordini di sequestro consegnati ai residenti di Jubbet ad-Dhib il giorno della confisca citavano l’articolo 60 dell’ordinanza relativa alle norme di sicurezza. Questo articolo definisce possibile il sequestro cautelativo per un reato penale che sia stato commesso utilizzando l’impianto che si prevede di sequestrare. L’ordine di confisca non specificava quale crimine fosse stato presumibilmente commesso con i pannelli solari. Le indagini degli avvocati su questo punto presso l’Amministrazione Civile sono rimaste senza risposta. Quindi probabilmente (stando alla risposta del portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività Governative nei territori, ndtr.] ai giornalisti) il presunto crimine è relativo alla normativa urbanistica ed edilizia. Ma questo è un reato amministrativo che non ricade sotto l’ordinanza militare relativa alle misure di sicurezza. Le procedure per occuparsi di questo sono differenti – ordini di interruzione lavori ed ordini di demolizione, audizioni, argomentazioni contro l’ordine, appelli, trattative, una petizione all’Alta Corte.

Sfard e Pasovsky affermano che, per quanto a loro conoscenza, questa è stata la prima volta che l’Amministrazione Civile ha fatto uso dell’articolo 60 per confiscare un impianto. Non è successo per caso, hanno scritto nella petizione: “ O i pannelli solari non sono materiali ‘da costruzione’ e quindi la loro installazione senza permessi non è una violazione della legge in base alla quale può essere adottato un provvedimento esecutivo (come noi riteniamo), oppure l’ambito giuridico che afferisce alla costruzione di queste strutture è la normativa urbanistica ed edilizia, e le procedure esecutive devono essere avviate solamente in virtù ed in accordo con essa.”

Evidentemente qualcuno ha fatto forti pressioni sull’Amministrazione Civile ed i suoi giuristi e squadre di demolizione per scollegare dall’elettricità il villaggio – che è circondato da avamposti non autorizzati e ben trattati di coloni. Le leggi urbanistiche ed edilizie non permettevano la confisca e perciò al loro posto è stato citato un irrilevante articolo della legislazione militare.

Qualcosa di ancora più potente stava dietro a questo qualcuno: una decisa assistenza legale e la posizione dell’Olanda. I dettagli sono già stati descritti, ma, lo ammetto, mi fa particolarmente piacere riscriverli un’altra volta. La restituzione dei pannelli solari è stata preceduta da: la protesta e condanna da parte del ministro degli esteri olandese; la protesta del primo ministro olandese Mark Rutte in un incontro bilaterale con il primo ministro israeliano pochi giorni dopo il sequestro; due audizioni al parlamento olandese riguardo al sequestro; interrogazioni presentate da tre partiti del parlamento olandese; le chiare e dettagliate risposte da parte del ministro degli esteri olandese e del ministro della Cooperazione Internazionale e dello Sviluppo. All’interno di queste attività parlamentari, è stata data informazione dell’incontro di Netanyahu con la sua controparte olandese ed in seguito della promessa scritta di restituzione dei pannelli solari.

L’ufficio del primo ministro [israeliano] non ha rilasciato commenti ad Haaretz.

Olanda e tutta Europa, prendete nota: quando lo volete, si può fare pressione su Israele. Sapete che la violazione da parte di Israele del diritto internazionale a Jubbet ad-Dhib non è un evento eccezionale. Quindi, per favore, continuate, per il bene dei palestinesi e degli ebrei che vivono in questo Paese.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Il blocco della Cisgiordania e di Gaza dura da 26 anni

 

Amira Hass,

16 ottobre 2017 Haaretz

 

Quando Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento – cosa che non avviene dal gennaio 1991.

Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.) mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato (ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco la mia personale responsabilità sulla questione.

Parecchi miei colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione collettiva, con un blocco.

Ma questi articoli hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.

Dalle critiche contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e dirigersi ad ovest. Verso il mare. O a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.

Ripetiamolo ancora una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.) – ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).

A volte il blocco è meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello Shin Bet) hanno bisogno di loro.

Per quasi due decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni – e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.

Ma dal 1991 Israele ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che stabilisce e modifica come gli conviene.

Il gennaio 1991 è storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro vite.

Nella storiografia della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica) dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo. Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato per l’altro.

E non meno importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.

E’ importante anche la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato molto prima che quelli cominciassero.

Dal 1991 la negazione della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche; un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.

Il blocco (come elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione, annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.

Comunque, io non sono un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo accanto agli orrori che abbiamo creato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Dagli yemeniti ai palestinesi

Amira Hass

16 agosto 2017,Haaretz

Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e formare una coalizione.

Lo scandalo del rapimento di bambini yemeniti (ed altri) per fortuna non si spegne, e più se ne parla e si ricorda, meglio è. Anche se i diretti responsabili non sono qui per rispondere delle loro azioni, è stato provato più volte quanto fossero giuste le denunce delle famiglie.

Questa volta è stato un articolo di venerdì su Yedioth Ahronoth che ci ha riportato la storia dei bambini yemeniti rapiti. Tamar Kaplansky ha intervistato Shulamit Malik, che all’inizio degli anni ’50 è stata un’educatrice in un asilo nido di Hapoel Hamizrahi [partito politico sionista religioso degli anni ’50, ndt.] nel campo di transito per immigrati di Yatziv. Malik ha preso l’inziativa dell’intervista; aveva letto un editoriale di Kaplansky e ha deciso di rompere il suo silenzio.

Risulta che Malik ha rotto il suo silenzio per la prima volta 20 anni fa. Contattò Rami Tzuberi, un avvocato che stava rappresentando alcune delle famiglie di bambini che erano scomparsi. Tzuberi disse di aver dato il nome di Malik alla commissione di inchiesta, ma non venne mai chiamata a testimoniare. Come educatrice si rese conto del rapporto tra le eleganti delegazioni che arrivavano a visitare la struttura ed i bambini sani che sparivano pochi giorni dopo. E dopo essere diventata nonna, si ricordò disperata dei genitori che arrivavano per prendere i loro figli – dopo una lunga giornata di lavoro – e scoprivano il letto vuoto.

La sua testimonianza non dice niente di nuovo sul fenomeno in sé. Conferma quanto fossero nel giusto le famiglie, per decenni, quando raccontavano della metodica sparizione dei bambini.

Le famiglie e gli attivisti, che non hanno lasciato cadere la questione, possono servire da modello per ogni gruppo dominato e ridotto al silenzio nella società. La vicenda è un’importante lezione per ogni giornalista e direttore di giornale: per favore, date ascolto alla gente. Soprattutto quando non sono persone importanti, ricche, famose, melliflue e dell’alta società. Ascoltatela anche se una cinepresa non documenta tutto quello che è successo e la gente non ha documenti ufficiali per confermarne i racconti. Mostrate un fondamentale scetticismo nei confronti di chiunque sia al potere. Hanno sempre qualcosa da nascondere, sotto un sacco di scherno e di arroganza.

La tentazione di tracciare un parallelo con i nostri palestinesi sottomessi – e non è solo un accenno – è grande. Perché non siamo qui solo per descrivere la realtà, ma soprattutto per cambiarla. Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e coalizzarsi.

Ma la tentazione di non tracciare un parallelo è ancora più grande. Oggi la nostra cultura politica, con i crudeli amplificatori delle reti sociali, non consente che si senta la logica di un simile parallelo. Nel nostro tempo, il sistema di potere di quell’epoca iniziale che ha rapito soprattutto bambini ebrei arabi [provenienti dai Paesi arabi, ndt.] da un lato è immediatamente identificata istantaneamente con gli ashkenaziti [ebrei provenienti dall’Europa centro-orientale, ndt.], da una parte, e dall’altro con gli infidi sinistrorsi amanti degli arabi. E così per molti è apparentemente un semplice dettaglio insignificante il fatto che l’asilo nido in cui Malik lavorava fosse diretto da Hapoel Hamizrahi, che non era esattamente di sinistra, e da esso siano nati il partito Nazional Religioso e più tardi Habayit Hayehudi [“La casa ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], proprio come dice Kaplansky.

Né la nostra opinione pubblica ha recepito il fatto che l’establishment del Mapai-Mapam abbia utilizzato prassi socialiste (di sinistra) come uno strumento per raggiungere obiettivi ultranazionalisti, etnici (conquista del suolo, espulsione dei palestinesi). L’establishment intenzionato all’espulsione è rimasto quello che era: anche se oggi non include solo ashkenaziti, anche se i successori del Mapai ripudiano, e a buon diritto, il titolo di “sinistrorsi”, anche se bambini non sono rapiti ma lasciati con percorsi educativi a un livello più basso. La terminologia è così comunemente oscurata che la destra utilizza i bambini rapiti contro la sinistra anti-nazionalista; cioè, contro chi si oppone all’occupazione.

Non dobbiamo essere come loro. Il riconoscimento dell’ingiustizia metodica e calcolata che i dirigenti ashkenaziti (sì!) hanno perpetrato contro i bambini rapiti e le loro famiglie non è subordinato all’opposizione contro la metodica politica israeliana di sconfiggere i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nonostante l’opposizione di Netanyahu, la riconciliazione dei palestinesi è nell’interesse di Israele

Amira Hass

4 ottobre 2017,Haaretz

Israele ha molte ragioni per opporsi ai colloqui tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese, ma il disastro umanitario ed ambientale di Gaza gli fornisce ragioni per appoggiarli.

Martedì Israele non ha cercato di impedire che importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese entrassero nella Striscia di Gaza, viaggiando su auto che portavano targhe palestinesi. Se fossimo stati cinici avremmo detto che Israele ha deciso di non impedire questa mossa – che compromette la sua strategia a lungo termine, che risale al 1991, di isolare la popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania – perché è un film già visto.

In altre parole, il profondo disaccordo tra i due partiti rivali al potere, Fatah e Hamas – soprattutto sulle armi e sui servizi di sicurezza – farà il lavoro per lui, e in fin dei conti impedisce che la frattura interna palestinese venga sanata. Quindi, perché Israele dovrebbe recitare la parte del cattivo?

In realtà il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso pubblicamente opposizione alla riconciliazione solo dopo che il posto di controllo di Erez era stato aperto alla numerosa delegazione proveniente dalla Cisgiordania. Allo stesso modo il ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele è casa nostra”, ndt.] ha evitato di ordinare all’amministrazione di contatto [tra Israele e l’ANP, ndt.] dell’esercito di fare quello che fa così bene – rimandare il rilascio dei permessi di uscita dalla Cisgiordania.

Ma si può sempre sperare che qualcuno in Israele comunque capisca che la priorità assoluta ora sia evitare che Gaza precipiti in un disastro ambientale ed umanitario ancora peggiore di quello in cui già si trova. E ciò è possibile solo alle seguenti condizioni: Israele deve porre fine alle restrizioni sull’importazione di materiali da costruzione e di materie prime; il meccanismo per la ricostruzione delle infrastrutture, che richiede un complesso coordinamento con le forze di sicurezza israeliane e con gli Stati donatori, deve essere semplificato e snellito; le lotte interne palestinesi sulla riscossione delle imposte e sulle fatture dell’elettricità devono finire.

Tutto ciò è possibile solo se i palestinesi hanno un governo unico, e solo se questo governo è accettato – e non solo in parte o nel solito modo riluttante – da Israele, dagli Stati donatori e dalle organizzazioni dell’aiuto internazionale, innanzitutto dalle Nazioni Unite. E questo governo può essere solo l’Autorità Nazionale Palestinese.

Nonostante lo neghi, su Israele ricade la principale responsabilità per la disastrosa situazione di Gaza. Ma adesso non importa. Adesso è necessario andare oltre i soliti cliché sul “finanziamento del terrorismo” e sul presidente palestinese Mahmoud Abbas che “si unisce a un’organizzazione terroristica assassina,” come ha detto martedì il ministro dell’Educazione Naftali Bennet [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.]. Adesso è necessario agire.

Non c’è più tempo, la fornitura di energia a Gaza deve essere immediatamente aumentata, e in misura superiore a quella che era prima dei tagli della fornitura da parte di Israele su richiesta di Abbas. Israele deve fornire a Gaza altre decine di milioni di metri cubi d’acqua.

Non è solo nell’interesse dei palestinesi. Anche Israele ha interesse che le acque reflue di Gaza vengano trattate invece di essere scaricate in mare, che l’acquifero di Gaza non collassi e che i suoi residenti abbiano cure mediche adeguate. Anche Israele ha interesse nella prevenzione di epidemie a Gaza.

Per Hamas, come movimento politico che vede se stesso come il vero rappresentante di tutti i palestinesi (a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora), cedere il controllo di Gaza è nei suoi stessi interessi, anche se perdesse i centri di potere e il controllo che si era abituato ad avere nell’ultimo decennio. I dirigenti di Hamas Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sono entrambi nati a Gaza e ci vivono ancora, per cui hanno fatto esperienza diretta del suo disastro umano ed ambientale. Sanno che la loro organizzazione non può continuare a condurre i propri esperimenti di gestione a spese del benessere del suo popolo.

Le iniziative punitive che Israele ed i Paesi occidentali hanno preso contro il governo eletto di Hamas immediatamente dopo la sua costituzione 11 anni fa consentono all’organizzazione di cedere le chiavi del potere senza ammettere pubblicamente la sconfitta. In Cisgiordania e nella diaspora – anche se, per ovvie ragioni, non a Gaza – in effetti i palestinesi ammirano la sua scelta di armarsi e di affrontare militarmente Israele. Questo potrebbe essere sufficiente perché Israele si opponga alla riconciliazione, se la minacciosa previsione dell’ONU secondo cui Gaza entro il 2020 sarà inabitabile non incombesse sulle nostre teste.

Perché l’ANP e il suo partito di governo Fatah vogliono prendersi l’ingrato compito di governare la crisi di Gaza? Finora sembra abbiano dei problemi a dimostrare che lo stiano facendo per senso di responsabilità nazionale piuttosto che per ragioni personali o di fazione. Alcuni abitanti di Gaza hanno detto che la delegazione di Ramallah [sede del governo dell’ANP, ndt.] è entrata come se si trattasse di vittoriosi conquistatori.

Abbas ha già cercato di rovinare l’atmosfera con i suoi modi riluttanti e le precondizioni che ha posto ad Hamas in un’intervista televisiva lunedì, compreso il disarmo e la fine del coinvolgimento del Qatar a Gaza. I gazawi credono che avrebbe potuto fare le cose in modo diverso, lasciando le condizioni a dopo l’inizio dei negoziati. Abbas sta facendo dubitare la gente che Fatah, o almeno lui stesso, voglia veramente consentire la riconciliazione e togliere le sanzioni che ha imposto a Gaza.

Evitare che Gaza precipiti in un disastro peggiore è una ragione per cui l’ANP ha intenzione di riconciliarsi. Un’altra possibile spiegazione è un rinnovato tentativo diplomatico di ottenere che lo “Stato di Palestina” venga accolto come membro a pieno titolo dell’ONU.

Facendo richieste alla comunità internazionale, comprese richieste di fare pressione su Israele, Abbas e i suoi successori devono dimostrare di rappresentare tutto il popolo dei territori occupati nel 1967. Rinunciare a Gaza, anche se è più conveniente dal punto di vista finanziario, indebolisce la sua posizione di apertura diplomatica.

Il palese coinvolgimento dell’Egitto nel processo di riconciliazione fornisce il vento in poppa all’ANP e invia un segnale ad Israele: come in passato, e a dispetto dei desideri di Israele, l’Egitto non ha intenzione di lasciare che Gaza venga annessa ad esso o staccata dal resto della popolazione palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)